Le Interviste del Boss

Adesso Che Non Corro Più Sul Lato Selvaggio Della Strada
di Carlo Massarini
da Sette (Supplemento al Corriere della Sera), 27-04-1995

Adesso che non corro più sul lato selvaggio della strada - di Carlo Massarini

Quella che state per leggere è l'unica intervista rilasciata da Bruce Springsteen, il Boss del rock, a un giornale italiano, due mesi esatti dopo l'uscita dell'album "Greatest Hits", in testa alle classifiche di tutto il mondo. L'autore, Carlo Massarini giornalista e conduttore tv noto al pubblico televisivo per la serie di "Mister Fantasy", ha firmato anche uno "Speciale Bruce Springsteen" che Rai Uno manderà in onda questa sera, giovedì 27aprile, alle 23.

"Qualche richiesta?", sogghigna sul palco. Cento titoli gli piovono addosso a raffica. "Il libro, il libro... Dov'è il libro?" Il concerto per pochi privilegiati, sei telecamere incluse è cominciato da poco. L'atmosfera è informale, e Bruce Springsteen, spalleggiato dalla E Street Band, fedele nei secoli e riunita chissà se per questa volta solamente o per sempre, è in vena di scherzi. Ma neanche tanto: le quattro nuove canzoni che si aggiungono ai quattordici classici nel suo Greatest Hits le hanno appena suonate dal Vivo per la prima volta, e passi. Ma le vecchie, anche se suonate mille volte, non tutti le ricordano.
E allora eccolo che arriva, il "Grande Libro di Canzoni". Un ragazzo scherzosamente si inchina ripetutamente come di fronte ad Allah: "Il Libro! Il Libro", mentre il grande tomo, in forma di contenitore da ufficio, viene consegnato al Capo che inizia a sfogliarlo. La E Street Band gli si fa intorno come in un time-out a pallacanestro. E quando, un attimo dopo, ciascuno torna al suo posto, si riprende esattamente da dove s'era lasciato, sei anni fa, fra lo sgomento dei fan, per permettere a Bruce di "esplorare nuove possibilità" per conto suo. Il suono è ancora lo stesso, la magia pure. Si parte sul ritmo alla Bo Diddley di She's the One e via con un viaggio a ritroso che lascia pochi occhi asciutti.
Quel libro Springsteen ha cominciato a scriverlo 22 anni fa, ed è un ponte ideale fra passato e presente: oltre ai suoi brani, vi trovano posto i classici dei padri fondatori della canzone americana, Hank Williams e Woody Guthrie, beat e rock'n'roll e rhythm 'n' blues. Una sorta di bibbia, un filo che attraversa la cultura americana.
Springsteen il r'n'r lo scoprì, come molti ragazzi della sua generazione, guardando Elvis alla tv nella sua casetta di Freehold, New Jersey. Tipica famiglia della working class, la classe operaia, di provincia: padre metà irlandese metà olandese, e mamma Zarrillo, figlia di napoletani trapiantati, due sorelle e un manipolo di amici che in buona parte sarebbero poi diventati i membri della E Street Band: "Erano i miei amici, i miei vicini di casa, e per molto tempo sono stati l'impersonificazione vivente di quella comunità di cui parlavo nelle canzoni", ricorda senza le angosce del tempo perduto. A 44 anni si può cominciare a parlare al passato, soprattutto se si è stati abbastanza sensibili e saggi da comprendere a tempo la fallacità del mito della gioventù eterna che il rock'n'roll da sempre propone, e si vuole e si deve cominciare a fare i conti con l'età adulta, la famiglia, anche la morte. Negli studi di New York della Sony, indisturbato dalle telecamere, Springsteen si mette a parlare di sé come fosse la persona qualunque che non è.


"Ho avuto una vita privilegiata, nella quale sono riuscito a fare quello che amavo, guadagnandoci da vivere, e anche di più. È quello che auguro ai miei figli, che trovino qualcosa che li appassioni e riescano a farla. La maggior parte dei musicisti sono outsiders, solitari, hanno grandi difficoltà ad integrarsi nella Comunità. Io volevo parlare alla gente, ma comunicare era difficile. Per me prendere la chitarra è stato una reazione emotiva, la musica mi ha attratto perché mi offriva la maniera di far sentire la mia presenza: all'inizio con gli amici, nelle sale da ballo in città. I miei ideali di allora? Quello che mi spingeva non era un insieme astratto di ideali. Molta della mia musica risale a quando ero bambino, fino a quando sono andato via di casa. Forse è il periodo che lascia l'impronta più forte. Molta della musica che ho scritto fino verso i 35 anni era sulla mia vita in famiglia, sulla tremenda lotta con i miei genitori e la loro tradizione. All'inizio le canzoni erano canzoni di fuga, perché quando combatti non hai idea di che cosa porterà il giorno dopo. Ma quando ce l'ho fatta - e sono stato fortunato, perché si vende l'idea che in America tutti possono fare tutto, ma mica è vero, è molto più dura per alcuni che per gli altri - allora ho cominciato a scrivere altra musica, più riflessiva".
Se il periodo della fuga ispirò nel 1975 il suo terzo LP, Born To Run, forse l'album definitivo della storia del rock, dopo altri due capolavori di romanticismo di strada, Darkness on the Edge of Town e The River, Springsteen nel 1984 pubblicò Born in the Usa, un ideale viaggio nel mito del sogno americano. Il disco rock più venduto di tutti i tempi si apriva con un inno anti-estabilishment a favore dei reduci del Vietnam, e continuava attraverso storie di gioia e di perdizione, fino a ritornare nella sua hometown, la cittadina di origine, il petto gonfio di orgoglio e compassione, la scoperta dell'"altro patriottismo", quello che ti fa amare un sogno, una Nazione, non necessariamente tutti quelli che ne fanno parte.
"Il sogno americano... È ovviamente differente per ognuno, alla tv te ne vendono molte versioni diverse. Per me era essenzialmente libertà personale e lealtà, e a un certo punto questo si è collegato con l'idea di comunità, la tua comunità, i tuoi compatrioti, il mondo intero. In gran parte, un fiasco". Sorride un po' amaro, e prosegue: "Trovo il momento in America sconvolgente. Assistiamo allo smantellamento del New Deal e delle politiche sociali che sono state una parte importante della vita americana, una rete di salvezza per grande parte della popolazione negli ultimi quarant'anni. Lo smontano pezzo dopo pezzo di fronte ai nostri occhi, osservi frustrato e pensi: "Hey, sta veramente succedendo tutto questo?". Del resto i fatti sono davanti agli occhi di tutti: la ricchezza non viene più ridistribuita, la società è sempre più divisa. Ma ciò che trovo più angosci ante è come la violenza, l'omicidio siano ormai incorporati nel sistema. È l'idea che sta dietro Murder Incorporated, una delle nuove canzoni: l'omicidio è ormai considerato parte del prezzo per fare affari. O parte del rischio per chi attraversa Central Park... Stiamo producendo un intera classe di gente senza diritti, e se i repubblicani l'avranno vinta si sbarazzeranno di molti programmi dalla parte del cittadino, della gente".
Lei è ancora un sostenitore di Clinton? "Lo preferisco a Reagan, questo è sicuro! Ma credo che lo spazio di manovra del presidente sia comunque limitato. E poi mi fanno paura gli aspetti reazionari di una grandissima parte di società, la crescita dell'intolleranza, i neonazisti. Anche se Clinton ha governato meglio e con più umanità di Reagan, forse alla fine sta nella volontà della gente cambiare o meno queste cose. Molti rimangono intrappolati nel loro quotidiano. Succede anche a me, tipo portare tutti i figli a scuola e riportarli a casa, e finché il problema non ti bussa alla porta è facile girarsi dall'altra parte. Allora si investe in maggiore protezione, e più prigioni, e più polizia. Ma così non ci si libera del problema".
Dopo il tour mondiale di Born in the Usa nel 1985, Springsteen, l'eroe invincibile sul palco, rivelò a se stesso e al mondo tutta la sua vulnerabilità personale. Innamorato e sposato nel giro di pochi mesi con la modella Julianne Phillips, le dedicò un disco di amore struggente ma anche di lacerante confusione emotiva: Tunnel of Love era un tunnel nel quale si entrava in tre, "io, te, e tutte quelle cose di cui abbiamo paura". Poi il successivo tour mondiale del 1988 era già tempo di divorzio, e di una nuova scoperta: una donna molto più vicina a lui in tutto, anche in distanza fisica, dieci metri alle sue spalle, l'unica ragazza della E Street Band, la consta Patti Scialfa, padre siciliano.
"La mia vita adesso è più grande, tutto qui. Ho vissuto questa sorta di esistenza rock'n'roll fino ai 35 anni. Poi, molte delle cose che mi tenevano lontano dall'isolamento e dalla depressione, lavoro compreso, hanno smesso di funzionare. Avevo sempre avuto con le donne relazioni volatili, ho pensato che era lì il problema. E mi ci sono dedicato. Ho capito che era qualcosa che non sapevo fare, che avrei dovuto imparare. Quello che fa paura è lasciare un mondo dove sai bene il da farsi ed entrare in un mondo in cui non sai come si fa, come si è un buon partner. Ero bloccato, ma capivo anche che se non rimediavo, se non mi sbloccavo, un giorno l'avrei rimpianto".
Il secondo matrimonio con Patti ha portato tre figli e una felice vita da focolare domestico dall'altra parte dell'America rispetto a Freehold, Los Angeles. "I miei bambini non sanno che sono una star. Sanno che mamma e papà di mestiere cantano, che c'è un pubblico che li ascolta, ma non ci hanno malvisti in concerto". E che cosa canta una rockstar ai propri figli, Disney o Born to Run? "Oh no! Born to Run gli annoierebbe, credo! Canto I've been everywhere, una canzone country, oppure vecchio rock anni Cinquanta, con tutti quei "doo" e "wops"... La mattina! A volte li porto a scuola alle 8.30, ma sono rimasto pigro, e il più delle volte tocca a Patti".
Springsteen lo scorso anno ha vinto un Oscar con Streets of Philadelphia, una canzone struggente come il film, Philadelphia, di cui era l'introduzione. Forse la canzone più triste di tutto il suo repertorio, una riflessione sulla decadenza e morte di Aids. Il che può sembrare strano per un uomo che ha fatto della vitalità e della straripante energia dal vivo una parte fondamentale della sua leggenda. Ma forse l'ultimo re del rock sta cambiando o ha già cambiato pelle. "Mi sento ancora irrequieto, non so se è la parola giusta, ma ho anche dei momenti di grandissima pace che, mi ricordo, ottenevo solo attraverso la mia musica, quando stavo sul palco e arrivavamo a quel punto in cui... Ora li ho con mia moglie, i miei figli, quei momenti in cui vorresti fermare il tempo per sempre. Soprattutto i bambini ti danno accesso a cose a cui non riesci ad arrivare da solo. È la loro stessa presenza, non qualcosa che fanno, è solo che sono lì. Vivono costantemente la vita in una maniera pura, e permettono anche a te di riviverla in quella maniera. Sono anche finestre sulla tua spiritualità, e in qualche maniera tutta la tua famiglia lo è. Ho una grande famiglia all'italiana, sessanta o settanta persone, a cui mi sento sempre più vicino. Ti dà un senso, quando cominci a pensare che la vita ha una fine, e che non sei immortale. Verso i trent'anni ho cominciato a pensare: "Hey!, un giorno o l'altro morirò" e forse è questo che ti fa correre tutto il tempo... Ma arriva un momento in cui cominci ad avere voglia di risolvere tutto quello che non hai mai risolto, e in questo tentativo c'è una grande tensione drammatica, che è poi un altro luogo da dove attingere ispirazione per il tuo lavoro. Il dramma di raccogliere tutti i fili della tua esistenza, di vivere i tuoi ideali, la tua filosofia, a volte riuscendoci, a volte tradendo anche i tuoi migliori istinti. Fa parte della vita adulta: Hey, dov'è il punto di "compromesso"?".

Carlo Massarini

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