Le Interviste del Boss

In Missione per Conto di Bruce
di Claudio Agostoni
da Net TV n. 14 1/7-04-2001

IN MISSIONE PER CONTO DI BRUCE

La E-Street Band e Springsteen: più che una band col suo boss è una famiglia. Sul focolare del rock hanno incendiato le platee. E ora ci riprovano con uno degli album più attesi del cantante-autore del New Jersey. Ritratto, in esterno, del rocker più famoso del mondo.

Il tutto è iniziato due anni fa, nei primi giorni del marzo '99, con alcune riunioni preparatorie in una località segreta del New Jersey. Forse nella stessa casa di Springsteen. Esattamente come era successo a John Belushi, immortalato nella pellicola di John Landis nei panni di Joliet Jake Blues, Bruce si era accorto di avere una missione. Non si sa se anche lui come Jake ha visto una luce, di sicuro anche lui aveva deciso di rimettere insieme la vecchia band. L'amicizia tra i musicisti dei Blues Brothers era una finzione scenica, quella tra gli artisti della E-Street Band è reale. È gente con cui ha iniziato a suonare a 17 anni. Oggi, che ne ha più di 50, più che un'accolita di fidati musicisti, per Bruce, sono una famiglia: riunirli per fare il Reunion Tour, immortalato con l'incisione di Live in New York City, è stata una vera e propria missione. Convincere tutti non fu cosa facilissima, nemmeno per uno che è conosciuto come the Boss. Negli anni in cui avevano smesso di girare assieme il mondo, per diffondere il verbo del rock'n'roll, ognuno aveva preso la sua strada, qualcuno aveva cambiato vita e qualcun altro aveva messo su famiglia. Per esempio Clarence Clemons, la propaggine umana del sassofono della band, dopo un paio di modesti album come solista aveva avuto una crisi mistica e di lui si erano perse le tracce. Little Steven, il fedele luogotenente di Bruce, spendeva le sue giornate facendo l'attore in una fortunata soap televisiva per il canale via cavo HBO e collezionando camicie improbabili (senza però dimenticare l'impegno sociale e la passione politica). Max Weinberg, il batterista, si era reinventato giornalista e aveva appena firmato un contratto con la NBC come direttore musicale di uno degli show più popolari d'America: il Late Night with Conan O'Brien. Altri, invece, come il tastierista Roy Bittan e il chitarrista Nils Lofgren, sembravano solo stessero aspettando una telefonata di convocazione. La corista della band Patti Scialfa, poi, era diventata, come è risaputo, la madre dei figli del Boss. Ma le storie personali non hanno importanza se la prospettiva è la ricostituzione non di un qualsiasi gruppo musicale, ma della E-Street Band. Ovvero di quella che unanimemente viene considerata la miglior rock'n'roll band di sempre. Live in New York City in effetti non è il nuovo disco di Springsteen, ma quello del Boss e della sua band. Anche se va detto che in realtà Bruce e i suoi musicisti sono sempre stati un'entità unica: lui scrive e canta le canzoni, ma la E-Street Band svolge un ruolo fondamentale in fatto di suoni e di immagine complessiva. Ne hanno avuto un'ulteriore conferma le decine di migliaia di persone che nei 132 concerti tra Europa e Stati Uniti hanno partecipato alla tournée partita il 9 aprile del '99 a Barcellona e terminata a New York con dieci date al Madison Square Garden (le registrazioni delle ultime due, 29 giugno e primo luglio 2000, hanno fornito il materiale per Live in New York City. Per molti fan è stato il primo concerto dopo parecchi anni di astinenza perché il tour precedente era stato quello legato alle canzoni dell'album The Ghost of Tom Joad, uno spettacolo che Bruce aveva gestito in solitaria sul palco di teatri e non nelle arene, lo scenario che da sempre lo aveva visto mattatore. L'ultimo concerto della furia del New Jersey con la sua formazione storica risaliva al 1988, nell'ambito dello Human Rights Now Tour, il tour planetario organizzato da Amnesty International, che nel settembre di quell'anno fece tappa anche a Torino. Ma, a più di dieci anni di distanza, agli spettatori di mezzo mondo (e a tutti coloro che oggi ascoltano il CD) sono bastati pochi secondi per capire che nessuno della E-Street Band si è imbolsito. Il leggendario e inconfondibile "One, two, three, four... continuava (e continua) a rappresentare il prologo di un cataclisma sonoro ed emozionale. Nessun trucco o inganno. Il Boss rifiuta il ruolo dell'eterno giovanotto del rock'n'roll, non corre più sul palco, non fa più il pagliaccio. Solo qualche mossettina, anche se alla fine delle canoniche tre ore di concerto riesce a macinare un'abbondante manciata di chilometri. Non nasconde i suoi 50 anni, non fa il Mick Jagger di turno e la sua band è quello che gli Stones avrebbero voluto essere. Totale assenza di nostalgia che avrebbe potuto essere fatale e una stupefacente rappresentazione in musica della voracità del rock'n'roll. Country, gospel, funky e le cento facce della black music: un estratto di quanto di meglio ha partorito il pentagramma a stelle e strisce. Tutto questo (e molto di più) era presente in quello show e oggi rivive a casa vostra nel lettore del CD che spara a palla le 19 tracce di Live in New York City. Una scaletta che mette paura solo a leggerla. Si parte con My love will not let you down, e subito hai la conferma che ti stai per innamorare per l'ennesima volta di un pazzo, ovvero di un uomo che teneva questa canzone chiusa in un cassetto dal maggio dell'82. A seguire un'orgia di standard springsteeniani. Da una delle canzoni più ottimiste e positive del Boss come Two hearts ("...un giorno o l'altro i sogni infantili dovranno finire/per diventare un uomo e crescere per sognare di nuovo") alla drammatica decisione del protagonista di Atlantic City che, stufo della sua vita di perdente, opta per una scelta che non potrà che rovinarlo per sempre. Dai ricordi e dalle immagini reali della sua infanzia in Mansion on the hill un brano come Jungleland dove a fianco di un suono maestoso troviamo le vicende qualunque di una periferia cittadina: le bande e i loro scontri, una storia d'amore e il desiderio di vivere intensamente la notte. Canzoni con cui Springsteen conferma il suo ruolo di inconsapevole intellettuale dei figli della working class che abitano le anonime small town che fanno l'America. Un mondo che viene fatto girare "da pezzi di ricambio e da cuori spezzati", dove fuggire di notte su una autostrada per raggiungere un fiume e abbandonare le terre cattive non basta più. Una constatazione che non prelude però a una resa. I suoi valori non sono cambiati e nemmeno le sue idee, che restano quelle della sua gioventù. Il successo planetario, i miliardi, l'amore di una donna e la tenerezza dei figli non gli impediscono di inorridire per quello che continua a succedere fuori, nel mondo. Il suo desiderio è sempre stato quello di fare una musica che fosse utile, divertente, ma che potesse far riflettere, "in grado" come ha dichiarato recentemente il Boss, "di farti pensare anche se l'ascolti mentre stai lavando la macchina il sabato pomeriggio". Canzoni costruite con uno stile ormai inconfondibile: narrativo e colloquiale, permeato della sensibilità populista di scrittori come John Steinbeck, Flannery O'Connor o William Carlos Williams. Una cultura che Springsteen si è costruito artigianalmente, dove più che i libri hanno contato i film (per Furore, per esempio, è arrivato prima il film di John Ford e poi il romanzo di Steinbeck) e i dischi (fondamentale la lezione di Woody Guthrie, il padre della canzone politica a stelle e strisce). È da qui che nasce la necessità di cantare la storia della città industriale di Youngstown, una delle canzoni più intense di Live in New York City, dove uno dei tanti lavoratori che l'hanno abitata racconta l'inarrestabile e drammatico declino legato alla crisi dell'industria pesante. Uno dei tanti casi dove troviamo un personaggio tipico del cast springsteeniano, fatto di famiglie di immigrati, guardie di confine, dei poveri e dei diseredati d'America. E quando nella interminabile rilettura di The River il sassofono più jazz che sia mai capitato tra le mani di Clarence si trova a duettare con una delle armoniche più languide che siano mai passate tra le labbra di Bruce, ti accorgi che stai ascoltando la summa dello "Springsteen pensiero": nulla manca, nulla è di troppo in questa dolce ballata piena di sogni, ideali inseguiti, spezzati e voglia di avere di più dalla vita. Forse solo in un altro brano l'emozione è ancora più intensa. Si tratta di una canzone che prima ancora di essere stata incisa, e senza alcun passaggio radiofonico, è stata premiata dal Rolling Stone Music Awards 2000 come Miglior Canzone dell'anno. È American 5kin (41 Shots), uno dei due inediti di Live in New York City (l'altro è Land of hope and dreams). Amencan 5kin è stata eseguita per la prima volta il 4 giugno 2000, nella seconda data dei concerti di Atlanta. Senza che venga mai utilizzato il suo nome la canzone racconta la storia di Amadou Diallo, un ragazzo di origine guineiana di 22 anni. Il 4 febbraio del 1999, in una New York dove la "tolleranza zero" spesso si traduce in "intolleranza razziale", durante una perquisizione di quartiere quattro poliziotti bianchi fecero irruzione nell'appartamento dell'incensurato Diallo. Fedeli al "racial profiling", uno stereotipo razzista che fa di ogni giovane nero un indiziato, scambiarono il suo portafoglio per una pistola e spararono 41 colpi. 19 andarono a segno e uccisero il giovane. Un anno dopo, nel febbraio del 2000, i quattro agenti vennero assolti dall'accusa di omicidio. Le numerose manifestazioni di protesta contro questo verdetto non potevano lasciare indifferente Springsteen, che ad Atlanta presentò la sua nuova canzone con una semplicità inversamente proporzionale allo scalpore che la stessa riuscì a suscitare. Brandendo il microfono, il Boss si limitò a dire: "Questa è una nuova canzone: si intitola American Skin" I musicisti della E- Street Band a uno a uno si avvicendarono al microfono per ripetere le parole "41 shots", i 41 colpi che crivellarono Amadou. Un mid-tempo in crescendo che sfocia nell'amara conclusione: "...il segreto amico mio è che puoi essere ucciso solo vivendo nella tua pelle americana". Grandi apprezzamenti da parte del pubblico e nervosismo nelle forze dell'ordine che arrivarono a invitare la polizia a boicottare il servizio d'ordine dei dieci concerti che si dovevano tenere pochi giorni dopo al Medison Square Garden. Non solo, come testimonia Live in New York City i concerti si tennero regolarmente e American Skin è stata cantata anche da Kadiatou, la madre di Amadou, e da altri familiari presenti in sala.

Claudio Agostoni

da Net TV n. 14 1/7-04-2001 (Supplemento de La Stampa, La Gazzetta del Mezzogiorno, Il Corriere)

Tutti i diritti sono dei rispettivi proprietari. Il materiale contenuto in questo sito non può essere utilizzato a fini di lucro. I trasgressori saranno puniti a norma di legge.