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Bergman

 

Novità per l'Italia: Lavia ci immerge nel mondo del "regista" Bergman (1/12-17/12)

GOTICI TEATRI INFESTATI DA FANTASMI IN UN DRAMMA PIRANDELLIANO DEL NORD EUROPA



nota: le citazioni dal testo sono parafrasi, data l'indisponibilità dell'opera a stampa; le battute non sono perciò evidenziate in corsivo, ma solo indicate dalle ".."

L'una invisibile all'altra, un'affascinante donna matura ed una ragazza dai modi bruschi, scambiano battute sferzanti con Vogler, vecchio regista disilluso, solo ai limiti del solipsismo, nel vecchio teatro buio in cui ha debuttato. E' lo sconcertante, geniale incipit di Dopo la prova di Ingmar Bergman, allestito dalla compagnia Lavia per il teatro di Genova. Le due donne sono Rakel, spettro dell'antica amante e prima attrice di Vogler, morta suicida, ed Anna, la figlia di Rakel, diventata lei pure attrice. E' il fulcro della pièce, giocata tra il ricordo del tempestoso rapporto di Vogler con Rakel, donna seducente ed attrice di talento, la cui vita è finita consumata tra alcool ed internamenti in ospedali psichiatrici, e la presente relazione con la giovane Anna, figlia di Rakel, che nutre per la madre odio e spirito emulazione insieme. Dopo il brillante esordio a tre voci, passato e presente, Rakel e Anna, si alternano, terribilmente simili.
Si tratta di un'ulteriore riprova dell'interesse di Gabriele Lavia, regista e protagonista dello spettacolo, verso autori e testi russo-scandinavi, già testimoniato dal suo ruolo protagonistico in Ivanov (stagione 1995-6) e dai suoi allestimenti Il giardino dei ciliegi (1995-6) di Cechov, Il sogno di un uomo ridicolo (1994-5) e La mite (1998-9), tratti da due racconti di Dostoevskij, e Scene da un matrimonio (1996-7) dello stesso Bergman. In questo dramma l'attenzione dell'autore punta però sulla quintessenza del teatro, una sorta di assurdo meccanismo che stritola gli attori, li obbliga a forzare sentimenti ed emozioni per "essere" qualcun altro: uno sforzo supremo di finzione per scoprire il nucleo profondo della verità, che può essere indagata solo in teatro e dal teatro, con la "T" maiuscola, riservato ai pochi veri attori ed ai pochi veri spettatori. Il silenzio che si crea quando le luci si spengono, il sipario si apre, "il silenzio chiesto ed ottenuto da Iago mentre pugnala Roderigo", un silenzio fecondo delle parole di cui è introduzione, è il ponte tra l'attore e lo spettatore, l'unico varco nella gelida barriera della solitudine umana. Non importa che attore e spettatore avvertano questo arricchimento interiore senza, però, saperlo interpretare: il compito del teatro è scandagliare alla ricerca della verità, sommuovere fondali, sollevare dubbi, non necessariamente fornire risposte. La verità, secondo Bergman, si può ricercare solo in scena: la vita è menzogna, finzione, "una pessima commedia mal recitata" quotidianamente, "La vita è solo un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un'ora sulla scena e poi cade nell'oblio: la storia raccontata da un idiota, pieno di frastuono e di foga, che non significa nulla." (Shakespeare, Macbeth, citato nello spettacolo). Come da Skakespeare è desunta l'immagine di Rakel " con un occhio ridente ed uno in pianto" (Amleto). Anche Marianne, la protagonista di Scene da un matrimonio, si duole della necessità di piacere a tutti, del doversi atteggiare come gli altri si aspettano, di dover tradirsi e perdersi. Ed anche se i protagonisti si torturano tra loro sotto una livida luce poliziesca da camera degli interrogatori, la verità non si svela, anzi si involve ancora di più. Rakel dice a Vogler "Anna ti somiglia molto" e lui ribatte "Hai l'aria di volermi dire chissà che d'importante"; lei nega. Il discorso rimane in sospeso, la relazione intercorsa tra i due fa balenare il sospetto: che Anna sia figlia di Vogler? L'accenno al piccolo Edipo trafitto dal padre è richiamo alle vittime di cui ciascuno lastrica orribilmente la propria strada; ma è forse anche allusione al possibile incesto consumato da Anna con Vogler, all'uccisione metaforica della madre -ovvero del ruolo della madre-, quando Anna le grida di "non recitare con lei", e Rakel la percuote, le fa uscire il sangue dal naso, ne implora poi inutilmente il perdono, rinnegata per sempre? E' un ricordo teso, vibrante, rivissuto a due voci dallo spettro singhiozzante di Rakel e dalla bambina cresciuta e indurita, in uno splendido crescendo di tensione. Creature che non si percepiscono a vicenda, ora come allora, rimaste entrambe a quel punto della storia, sullo sfondo l'orologio senza lancette, "il tempo assoluto"; un rovesciamento al femminile del mito edipico? Nelle battute finali, prima di uscire di scena, Anna vorrebbe parlare, sconfessare o confermare il sospetto di Vogler che lei si sia servita della loro relazione per diventare prima attrice: Vogler la zittisce imperiosamente, più volte. Se Rakel si è data all'alcool ed a una vita sentimentale tumultuosa, la causa è stata il marito, mai in casa per lavorare in teatro con Vogler? O i problemi in famiglia sono nati dopo la relazione? Vogler ha proposto a Rakel la sua ultima parte, la madre ne Il sogno di Strindberg, "quelle due battute di merda", credendo ancora nel suo talento ("Non esistono piccole parti, esistono solo piccoli attori") o per pietà? Ha assegnato, nella ripresa della medesima pièce in cui Rakel aveva interpretato il suo ultimo ruolo, quello della madre, la parte della figlia all'esordiente Anna: è un folle tentativo di riconciliazione post mortem? O la ripetitività degli eventi nella vita come nelle prove? La verità è labile, cangiante, non si può stabilire con precisione. Il nome di Vogler è davvero Heinrich, pseudonimo di Faust seduttore di Margherita? O è solo uno vocativo rivoltogli da Rakel nella sua performance? Il tema goethiano della caduta è implicito nelle splendide battute di apertura, desunte da Il sogno: il Padre, il Dio Indra, chiede alla figlia come sia caduta tanto in basso, lei risponde che la nuvola scelta come carro per viaggiare si è abbassata giù giù in cielo, fino ad un'atmosfera irrespirabile. La caduta è più penosa e dilaniante di quella di Icaro: non è lo schianto di un momento, ma un lento putrefarsi in vita, un dilagare in ogni parte del corpo della "carogna" -la mortalità- che è nell'uomo: Rakel vede scivolare via, tra le rughe del volto, il trucco che non la abbellisce più; Vogler si ritrova in bagno a parlare con un dente caduto, se lo fa grottescamente riappiccicare dal dentista. Un rimpianto della giovinezza, scivolata via sulle assi del palcoscenico, a travasare la propria angoscia nei personaggi interpretati (o viceversa?), si ravvisa anche nel frequente ricordo di Rakel: "Io a diciotto anni facevo Antigone e Nina nel Il Gabbiano e Margherita nel Faust", tutti personaggi giovani ed idealisti, travolti dal male; e Rakel "scesa nella tomba da viva", come Antigone.
La "prova", nella metafora del testo, non è solo la prova dello spettacolo propriamente intesa: è la vita stessa. Prima della prova non c'è nulla. Né dopo: solo la necessità di rimettersi a tavolino, rivedere il testo, "per capirci, forse, finalmente qualcosa": solo il teatro però concede questo lusso, la vita no.
Come ha analizzato il rapporto pubblico-attore, Bergman affronta nel testo anche la relazione regista-attore. Secondo Vogler, il regista è solo colui che "cuce addosso agli attori le battute e i gesti"; il regista "fa", l'attore "è". Viene in mente lo scontro pirandelliano regista-attore e poi attore-personaggio, magnificamente resi in Questa sera si recita a soggetto: se i due autori concordano sul ruolo non fondamentale del regista (si pensi al tronfio protagonismo del dottor Hinfuss pirandelliano), sulla lettura accurata del testo come base portante dello spettacolo, c'è invece una visione dialettica sull'attore. Secondo Pirandello, l'identificazione attore-personaggio non deve avvenire, l'attore presta temporaneamente il proprio corpo al personaggio, entità autonoma; la defezione da questo principio porta la prima attrice del capolavoro di Pirandello quasi a morire insieme a Mommina, il personaggio principale. Bergman, invece, crede in una recitazione che si alimenta dei sentimenti e delle emozioni degli attori: "Riempiti di questa angoscia e usala sul palcoscenico", dice Vogler a Rakel. E' così che il teatro si popola, suggestivamente, delle ombre di tutti gli attori che ne hanno calcato la scena, in ogni personaggio che hanno interpretato: un potente stravolgimento espressionistico del personaggio, mutuato dal gusto romantico e gotico, del fantasma dell'opera, un'ossessione più orribile perché le presenze sono mute, esistono nella mente di Vogler.
I livelli temporali si compenetrano, passato e presente formano un solo groviglio che non si può sbrogliare; lo spazio concepito da Bergman è, invece, circoscritto, soffocante: Rakel nella sua stanza d'ospedale è prigioniera di un "cubo bianco", in cui è libera di vomitare, gridare, masturbarsi (nonostante tutti gli amanti che le rinfaccia Vogler!). Così osservava Marianne, Scene da un matrimonio: "E' come la mappa di una città, la nostra vita. Divisa in tanti quadratini, tanti settori, tante caselle. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, una casella. E in ogni quadratino c'è scritto quello che dobbiamo fare, tutto programmato con grande anticipo. E se all'improvviso si presenta un quadratino vuoto, siamo tutti sbalestrati e presto presto gli piazziamo dentro qualcosa". Rakel ha preferito ridurre drasticamente ad una le sue caselle e rinchiudercisi.
La scenografia, curata da Carmelo Giammello accentua il senso d'oppressione, di ripetitività ed immobilità dei fatti e dei personaggi (Anna è il duplicato di sua madre Rakel). Campeggia il dramma della solitudine umana: un grande tavolo, a cui ridiscutere all'infinito il testo con nessuno, tante sedie, vuote, rimarcano l'isolamento del regista. Di tutti i suoi passati allestimenti, rimangono solo l'evocazione dei personaggi che infestano il teatro, le suppellettili usate per tante messinscene: il cavallo di Riccardo III, l'armatura di Macbeth, il divano di Hedda Gabler, i carion dissonanti de Il giardino dei ciliegi, immaginare a fischiare come venti turbolenti nel Re Lear , la tragedia di Shakespeare in cui, forse, grandeggia più angosciosamente la solitudine che l'uomo che si costruisce intorno. Le note nostalgiche di una fisarmonica accentuano la tristezza con cui Vogler scivola in una vecchiaia solitaria, tra polverose suppellettili, come il vecchio maggiordomo Firsen dimenticato tra gli antichi arredi della villa ne Il giardino dei ciliegi allestito proprio con la regia di Lavia. Lo spettacolo è tutto suggestioni sceniche: l'ombra di Rakel appare per cercare le proprie scarpe, ne indossa solo una, è sempre divisa tra vita e teatro: "un personaggio inizia dai piedi", insegnava il maestro di Vogler. Nelle battute iniziali, al momento dell'apparizione di Rakel, siamo nel passato, un Vogler giovane che rifiuta di fare l'amore in scena, sorta di luogo sacro votato alla verità. Poi egli si calca in testa un berretto di lana, la trasformazione nel vecchio del presente è fatta. Di grande potenza sfumature come il gesto di Rakel di tirare la sua sciarpa di seta in alto, come un cappio; o il gesto di silenzio sulla passata relazione imposto da Vogler, con le dita della mano significativamente atteggiate a corna, poi distese. Superflua l'esibizione dei petti nudi delle due protagoniste, il seno sfiorito di Rakel, quello turgido di Anna, seppure nell'ottica del nudo artistico -almeno qui lo è davvero- che spopola in questi anni, mese per mese, sulle pagine di miriadi di calendari. Comunque espediente funzionale a ribadire ancora la ripetitività del destino della madre in quello della figlia ed anticipare visivamente il racconto che Vogler fa della relazione con Anna. Lavia interpreta un Vogler cinico, perduto ma non completamente rassegnato, che alterna toni piatti di piena indifferenza per sé e gli altri a esplosioni di rabbia repressa, grida roche ed estenuate. Un grande peso assume la sua gestualità nell'evocare il passato: torcere l'aria nella forcina immaginaria de Il sogno, piegata e ripiegata, fino a spezzarla; il lento trafiggere i piedi di Edipo, un sinistro sibilo d'accompagnamento; la posizione raccolta, da bambino, con cui rievoca la sua prima esperienza a teatro, accucciato accanto al suonatore di fisarmonica, la guancia nella mano. Le attrici gareggiano in bravura: intensa e coinvolgente la Rakel, disperata eppure pulsante di amore per la vita interpretata, Raffaella Azim, con una mano sempre tesa a chiedere aiuto; l'Anna di Federica Bonani è rude e aspra, attraente senza parere di volerlo essere -e qui entrano in gioco i costumi di Guido Fiorato, minigonna e camicia attillata sotto l'ampio cappotto di Rakel, un paio di jeans, una giacca con sciarpa e una maglietta aderente che si svela e svela ancora altro nel finale.-
La pièce si chiude nel pessimismo totale: rimane solo la speranza che, sulla scena desolata, abbandonata dalle due donne, il riflettore puntato sulla sedia tra le quinte, dove sedeva il suonatore di fisarmonica, con Vogler bambino accoccolato vicino, "l'assenza di Dio sia essa stessa Dio". Si esce da teatro con un diffuso scombussolamento, un vago bisogno di rivedere la pièce, incidere ogni parola nella mente. Lo scopo dichiarato di Bergman.

di Irene Liconte



Altre opere di quest'autore recensite nelle passate stagioni:

Scene da un matrimonio