h anno sperato               

          

 

 

La speranza che uccide

 

Nonostante la follia della guerra, viviamo per un mondo che sarà diverso. Per l’avvento di un mondo migliore quando tutto questo sarà finito. E forse anche il nostro essere qui è un passo verso quel mondo. Pensate davvero che, senza la speranza che un tal mondo sarebbe stato possibile, che i diritti dell’uomo sarebbero stati restaurati, noi avremmo potuto sopportare il campo di concentramento anche per un solo giorno? È quella speranza che fa andare la gente alla camera a gas senza un mormorio, che li trattiene dal rischiare una rivolta, che li paralizza in un’apatica inattività. È la speranza che spezza i legami familiari, che fa sì che le madri rinuncino ai propri figli, che le mogli vendano i loro corpi per pane, che i mariti uccidano. È la speranza che comanda all’uomo di aggrapparsi ad un giorno di vita in più, perché quello potrebbe essere il giorno della liberazione. Ah, e non solo la speranza in un mondo diverso, migliore, ma semplicemente nella vita, una vita di pace e riposo. Mai prima d’ora nella storia dell’umanità la speranza è stata più forte dell’uomo, ma altresì mai prima essa ha nuociuto tanto come in questa guerra, in questo campo di concentramento. Non ci è mai stato insegnato come abbandonare la speranza, ed è perciò che oggi periamo nelle camere a gas.

 

Borowski, pagg. 121-122

 

 

Autoinganni

 

A scopo di difesa, la realtà può essere distorta non solo nel ricordo, ma nell’atto stesso in cui si verifica. Per tutto l’anno della mia prigionia ad Auschwitz, ho avuto come amico fraterno Alberto D.: era un giovane robusto e coraggioso, chiaroveggente più della media, e perciò assai critico nei confronti dei molti che si fabbricavano, e si somministravano a vicenda, illusioni consolatorie ("la guerra finirà fra due settimane", "non ci saranno più selezioni", "gli inglesi sono sbarcati in Grecia", "i partigiani polacchi stanno per liberare il campo", e così via: erano voci che correvano quasi ogni giorno, puntualmente smentite dalla realtà). Alberto era stato deportato insieme col padre quarantacinquenne. Nell’imminenza della grande selezione dell’ottobre 1944, Alberto ed io avevamo commentato il fatto con spavento, collera impotente, ribellione, rassegnazione, ma senza cercare rifugio nelle verità di conforto. Venne la selezione, il "vecchio" padre di Alberto fu scelto per il gas, ed Alberto cambiò, nel giro di poche ore. Aveva sentito voci che gli sembravano degne di fede: i russi erano vicini, i tedeschi non avrebbero più osato persistere nella strage, quella non era una selezione come le altre, non era per le camere a gas, era stata fatta per scegliere i prigionieri indeboliti ma ricuperabili, come suo padre, appunto, che era molto stanco ma non ammalato; anzi, lui sapeva perfino dove li avrebbero mandati, a Jaworzno, non lontano, in un campo speciale per convalescenti adatti soltanto per lavori leggeri. Naturalmente il padre non fu più visto, ed Alberto stesso scomparve durante la marcia di evacuazione del campo, nel gennaio 1945.

 

Levi, I sommersi e i salvati, pagg. 21-22

 

 

La speranza che sostiene

 

Fammi vedere il tuo braccio... Hmm... il tuo numero parte con diciassette. In ebraico è "K’Minyan Tov". Diciassette è un presagio molto buono...

 

(Era un prete. Non era ebreo... ma molto intelligente!)

 

Finisce con tredici, l’età in cui un ragazzo ebreo diventa uomo... E guarda! Sommati fanno diciotto. È "Chai", il numero ebreo della vita. Non so se io sopravviverò in quest’inferno, ma sono certo che tu uscirai di qui vivo!

 

(Cominciai a credere. Vedi, lui mise un’altra vita in me. E quando tutto era molto brutto, guardavo e dicevo: "Sì, il prete aveva ragione! Totale fa diciotto.")

 

Art Spiegelman, Maus II, pag. 32

 

      

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