Presentazione a

San Francesco 

del Libro "Nou cant" 

Settembre 2008

Antonio Canu, Nou cant

Quattordici anni fa, nello splendido chiostro di San Francesco, ebbi l’onore di presentare il volume d’esordio di Antonio Canu, Poesies. Ho nella mente il ricordo di una serata festosa: a rallegrarla la gradevole lettura di alcune poesie accompagnata dall’amabile suono del mandolino di Ciro Fadda e dalla indimenticabile voce tenorile di Luciano Musu. Nel settembre del 2001, e nel medesimo luogo, presentai la sua seconda opera, En l’arc dels dies. E poiché non c’è due senza tre, come ricorda la sapienziale verità del proverbio, eccomi di nuovo qui, per la terza volta, con il terzo volume, dal titolo Nou cant.

Poesies, En l’arc dels dies, Nou cant : tre libri che segnano e disegnano il percorso poetico di quasi  tre lustri. Che cosa è accaduto nella poesia di Antonio Canu in questo lungo tempo? Direi, ed è opinione del tutto personale, che poco è accaduto perché poco è cambiato. Intendo fondamentalmente, nell’essenza. E ciò è un dato affatto positivo. La fedeltà a certi temi ricorrenti, che costituiscono l’ossatura del suo poetare, rivela infatti che essi non sono occasionali, dipendenti cioè da circostanze casuali, ma radicati dentro e coltivati perché non inaridiscano. Coltivati attraverso l’incessante, curioso, sensibile contatto con il suo mondo quotidiano, con quel che accade attorno a lui. Così egli sostenta e nutre quel che ha e sente dentro, e lo riversa in espressioni di grande liricità.

Una liricità a volte dai toni forti, dolorosi, filtrati sempre tuttavia da una indomita vitalità, poiché egli riesce a cogliere, sempre, e a trasmettere nei suoi versi quel che di positivo esiste nella realtà in cui è immerso. Perfino la morte, ad esempio, non è mai concepita nella sua tragicità di epilogo di ogni cosa: v’è, nella rappresentazione poetica di questo evento, la luminosità della speranza di un dopo, quasi un imperativo di resurrezione a nuova vita, un gesto di scongiuro dell’annientante nulla, di laica religiosità, come nel ciclo naturale del creato. L’intensità e la sensibilità con cui questo tema viene affrontato (si veda, del primo libro, la poesia dedicata al padre, uno dei momenti più alti del suo canto : «Alzati, Padre, / che è già autunno, / è tempo di semina, / gli uccelli / sono carichi di speranza. // Sopra i campi / scendono piogge verdi / e gli aratri / aprono la terra. // Alzati, Padre, / lascia il tuo giardino / di pena. / Va nei campi / a seminare / il grano della vita»), non si affievoliscono nell’ultima opera, acquistano anzi una forte tensione espressionistica mediante inedite figurazioni metaforiche: la falce che recide le teste gialle del frumento (L’altro cielo), la barca vuota che inesorabile si avvicina a riva per ciascuno di noi (Il cuore s’inchina alla luce), eccetera. Di singolare levità egli immagina la «nuova vita» dell’amico Siro, che traspone in versi luminosi, escludendone ogni sospetto di mestizia o di afflizione: «Sei svanito / dall’isola che ti sogna / Senza pena / ora cammini spensierato / Ti seguono docili gli ulivi / fino all’orlo del mare / e ti circonda / il pungente odore delle alghe / che sembra stringerti / in un azzurro abbraccio / Contempli ampiezza e luce / dove la Verità / ha installato il suo dominio / con le voci bianche degli asfodeli / che cantano le lodi / della nuova vita».

Nel suo canto, altro motivo ritornante è la terra, i campi, che egli ama e ben conosce avendo vissuto da contadino gli anni della sua giovinezza. La campagna con il suo corredo di tradizioni, di riti, di usanze, di memorie: la semina, le feste, la trebbiatura, le veglie, tutto rivissuto poeticamente nella nostalgia dolce di un tempo antico, primigenio. È un tema che nulla ha perduto della sua efficacia lirica nella nuova raccolta, come appare evidente da alcuni versi che citerò da Canto (Con l’aratro / sono andato incontro alla vita / mi sono lavato con la pioggia /e asciugato al cuore della luce / Dalla terra / ho ereditato la speranza / che m’accompagna / nella sfera dei giorni …), o da Lode alla terra (… Lode alla terra / solcata dai versi azzurri / degli aratri / pagina immensa / illuminata dalla luce bianca / della pioggia…), o ancora da Pasca fiorida, che vale la pena di leggere per intero (Ritornare da Figos / con l’odore della terra sulla pelle / e godere l’abbraccio / delle lenzuola fresche di bucato / Col fervore di sa Pasca fiorida / visitare i sepolcri / in cui brillavano le verdi piante / del frumento germogliato sotto i letti / nella chiesa gremita / penetrare il respiro dell’incenso / al cospetto del cero pasquale / come vestale ritta / presso l’altare / abbandonarsi al monotono fluire / delle orazioni / e al canto delle colombe / che era in noi).

Trasferitosi ad Alghero, dove si impadronisce di una nuova lingua fino a farne veicolo della sua ispirazione poetica, Antonio Canu trova nel mare, in quello scenario sempre uguale e sempre diverso e in continua metamorfosi, un inedito e perenne serbatoio di impressioni, di sensazioni, di percezioni che lo affascinano e lo ossessionano, offrendo un vasto campo alla sua immaginazione. Egli cerca, con ostinata pazienza,  di incorporare nei versi il mistero, la bellezza, le atmosfere, il furore, i silenzi che vibrano dentro quel mondo inafferrabile, che, pur presenza quotidiana, reale, si sottrae alla conoscenza profonda: «Se hai la pazienza / della roccia / consumata dalle onde / forse / ti sarà rivelata / l’ardua armonia del mare / celata negli abissi / con l’incessante ribollire / del magma / tra il fluttuare / delle alghe ansiose / e il guizzare dei pesci».

Se all’inizio di questa mia chiacchierata ho affermato che nel tempo la poesia di Antonio Canu non propone cambiamenti manifesti, soprattutto nelle tematiche, devo tuttavia aggiungere che un mutamento è avvenuto, esterno in certo senso al testo, ma che su di esso finisce con l’incidere a fondo: ed è l’acquisizione, da parte del poeta, della consapevolezza che la parola poetica è lo strumento insostituibile per dire la vita, o meglio, per tentare di dirla nella sua insondabile complessità. Di tale mutamento sono già spia in epigrafe di Nou cant i versi del grande poeta portoghese Eugénio de Andrade – con il quale Canu manteneva un contatto epistolare – incentrati sulla parola: «La parola nasce: / sulle labbra scintilla. / Carezza o fragranza, / sfiora appena le dita. / Di ramo in ramo vola, / si spande nella luce. / La morte non esiste: / tutto è canto o fiamma». Ma a testimoniare tale trasformazione è principalmente l’ampio spazio che Canu riserva alla “parola” intesa in tal senso. Molti gli esempi che si potrebbero addurre. Mi limito a citare un’unica poesia, che sembra compendiarle tutte: «Ho seminato sillabe / su pagine di campo / fra le righe dei solchi / e zolle d’antica forza / dove non s’arrende / la verde scintilla / che sospinge il germoglio / verso la luce. / Nasce la parola / sulla terra brilla / spiga sonora / di stelo in stelo risuona / invade la pianura / si svela alla coscienza / col canto / dell’allegria e del dolore».

Vorrei, infine, ricordare – ma è a tutti noto – che Antonio Canu, fin dal primo libro Poesies, ha avuto in Manlio Masu un partner d’eccezione: con splendidi disegni, egli ha orchestrato figurativamente i suoi versi, partecipando al gioco creativo senza mai prevaricare sul testo, creando al contrario, attraverso una rigorosa attenzione nel dosare il tratto, un’intesa, un dialogo, un equilibrio tra verso e immagine, davvero rari da conseguire. A lui un plauso speciale, oltre che per la leggiadria delle illustrazioni (tutte figure al femminile, una sorta di iconografia della parola, come egli ha chiarito), anche per la misura e la semplicità – proprie dei grandi spiriti – con cui ha accompagnato il lavoro del poeta senza mai lasciarsi tentare dalla seduzione dell’eccesso.

Per terminare. Questa serata, nelle intenzioni di Antonio Canu, vuole essere un omaggio a Mario Rigoni Stern – una delle voci più vigorose della nostra narrativa contemporanea –, suo fraterno amico ed estimatore della sua poesia, deceduto pochi mesi or sono. Un amico con cui egli manteneva un intenso rapporto epistolare (e telefonico), e a cui lo legava un comune sentire nell’adesione alla natura come recupero delle proprie radici. Antonio ogni anno, quando si recava ad Abano, andava a fargli visita nella casa di Asiago e trascorreva con lui un’intera giornata, felicemente passeggiando nei boschi dell’altopiano,  pranzando nelle piccole trattorie, visitando luoghi della memoria collettiva, evocando ricordi ed esperienze di vita. Gli mancherà, molto, nel suo prossimo viaggio ad Abano.

Per lui Antonio ha composto una struggente poesia, nella quale esprime la presaga inquietudine dell’ultimo incontro con lo scrittore, un arrivederci che egli sa essere un doloroso addio :

Per a Mario Rigoni Stern,  inoblidable Amic

M’has dit “a mos veure”

com sempre,

ja des de fa molts anys

La tardor entrava

per les finestres

amb el seu lleu tremolar

de fulles brunes

M’has dit “a mos veure”

com sempre

En la tua abraçada

cansada de lluitar

tanmateix sentia

la inquieta espera

de un dolorós adeu

Tu, impàvid sergent de la neu,

que vas atravessar les gèlides planures

de un país ostil

sostingut per la indòmita esperança

de la tua joventut

Tu que vas a explicar

en pàginas de èpica bellesa

la tua extrema aventura

Ara en pau descansas

junt als teus molts companys

que enterrats

per el gel i el fang

de les estepes de Russia

no han tingut la sort de tornar

Lleus te siguin

els camins del cel

lleus com els senders

del bosc al voltant de la casa

en l’assossec de Asiago

 

 

A Mario Rigoni Stern, indimenticabile Amico

Mi hai detto “arrivederci”

come sempre,

ormai da anni

L’autunno entrava

dalle finestre

con il suo lieve tremolare

di foglie brune

Mi hai detto “arrivederci”

come sempre,

ma nel tuo abbraccio

stanco di lottare

percepivo

l’inquieta attesa

di un doloroso addio

Tu, impavido sergente della neve,

che attraversasti le gelide pianure

di un paese ostile

sorretto dall’indomita speranza

della tua gioventù

Tu, che raccontasti in pagine

di epica bellezza

la tua avventura estrema

Ora riposi insieme

ai tuoi tanti compagni

che sepolti

da ghiaccio e fango

delle steppe del Don

non ebbero la sorte di tornare

Lievi ti siano

i cammini del cielo

lievi come i sentieri

del bosco attorno a casa

nella quiete di Asiago

 

Giulia Lanciani

Università degli Studi di Roma


 
Miquel Canu 2000 - 2009

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Darrera revisió  21.01.2009

Ultima revisione 21.01.2009