CONFERENZA DEL PROFESSORE REUVEN FEUERSTEIN E DI RAFI FEUERSTEIN TENUTASI A MILANO IL 27/11/1995

LA MODIFICABILITA’ DELL’INTELLIGENZA

Vorrei dirvi alcune parole sul libro. In inglese esso si intitola "Don’t accept me as I am". Questo titolo è stato un compromesso. Volevo che il libro si intitolasse "Tu mi ami, non accettarmi come sono". Tu non mi accetterai come sono proprio perchè mi ami. Gli editori furono molto spaventati per questo titolo. Temevano di non vendere neanche una copia perchè per anni e anni si era detto di accettare il bambino con problemi così com’era. Questa sarebbe stata una rivoluzione per i genitori e per tutti gli operatori che avevano insistito sulla necessità di accettare il bambino così com’era. Se guardate bene è stato utilizzato un trucco editoriale, (il professore mostra una copia del suo libro in inglese n.d.r.): "Non accettarmi come sono" è scritto in alto in piccolo su sfondo rosso. La versione italiana mi soddisfa di più perchè Non accettarmi come sono" risalta come titolo. Qui è scritto nero su bianco. Mi auguro che la prossima edizione porti il titolo: Tu mi ami, non accettarmi come sono.

Un’altra parola su cui ho dovuto combattere è la parola ritardato. Il suo comportamento può essere ritardato, la capacità di conoscere può essere ritardata. Io sono una persona molto ritardata in cinese. Su questo punto ho dovuto combattere con gli editori. Chiesi di scrivere "prestazioni ritardate" nel sottotitolo del libro (il professore si riferisce alla versione inglese del testo. n.d.r.) invece che persone ritardate è la prestazione ad essere ritardata, non la persona! Non c’è stato modo di convincerli. Tutto ciò che sono riuscito ad ottenere è stato di mettere tra virgolette la parola ritardato. Concludo dicendo di essere più soddisfatto della copertina italiana del libro.

Spero che, nonostante le cose siano andate così il libro porti ovunque un messaggio di speranza.

Questo libro si basa su un semplice e vero concetto che presuppone un sistema di valori. Esso è un postulato su cui noi basiamo tutto il nostro lavoro:L’essere umano si differenzia da tutti gli altri esseri viventi; questo perchè egli possiede delle capacità di cambiamento, infatti è in grado di modificare le sue strutture cognitive ed emotive: le caratteristiche dell’essere umano non sono fisse.

Naturalmente gli esseri umani possono trovarsi in una varietà di situazioni.Possono essere ritardati, stupidi schizofrenici, psicotici e nessuno può negare questo. Noi dobbiamo considerare queste situazioni immutabili? Dobbiamo considerare che una persona sia ritardata per sempre? Dobbiamo considerare un delinquente tale per sempre? Dobbiamo considerare questi tratti come fissi, o meglio considerarli come stati, gli stati di un individuo? Si tratta di stati condizionati da strutture genetiche. Le difficoltà emozionali , immaginative, cognitive in genere sono da considerarsi necessariamente condizioni immutabili? E qui si fonda il nostro postulato: l’essere umano è dotato di plasticità, egli ha una flessibilità di pensiero e di corpo che gli permette di modificarsi e di essere modificato nella sua struttura, infatti non solo può diventare più sapiente o più dotato, ma egli è in grado di modificare la sua struttura interiore la quale lo rende capace di essere più intelligente, più capace, più flessibile e anche maggiormente sano. Devo dire che questo postulato non è molto accettato. Se voi non lo accettate immediatamente devo dire che non vi biasimo. So che molti pensano che il bambino con sindrome di down non sarà mai in grado di raggiungere livelli cognitivi alti, non avrà mai la maturità sufficiente che gli permetterà di vivere in una famiglia nucleare come uomo sposato, non avrà mai la fantasia necessaria per fare il pittore e non potrà mai essere un soldato. Come si può immaginare questo ragazzo ipotonico che a fatica fa le scale di fare il soldato? Il formulare una tale predizione deve creare le condizioni affinchè si realizzi.

Non sono venuto qui per dire che non ci sono i cromosomi. Noi sappiamo che le anomalie cromosomiche disturbano la vita dell’individuo. Ogni giorno si scoprono nuovi disordini genetici un tempo sconosciuti. La domanda è: devono avere i cromosomi l’ultima parola?Sto riferendomi a un giornalista di Le Monde che ha scritto che per il professor Feuerstein i cromosomi non hanno l’ultima parola. Essi ci sono, e disturbano l’ individuo, ma se noi come esseri umani decidiamo che dobbiamo cambiare il corso della vita che tali cromosomi hanno stabilito, questi ultimi non avranno davvero l’ultima parola. Noi esseri umani sappiamo quanto è importante per il nostro organismo l’impatto dell’ambiente, della cultura sociale, della mediazione. Noi crediamo che la controparte, la contro-azione dei cromosomi, sia l’intervento, l’approccio attivo modificante sul fenomeno del ritardo, sul comportamento deviante e su altre piaghe che affliggono l’essere umano. Se non si crede nell’intervento, l’intervento non funziona. Il bambino con qualunque tipo di disordine cromosomico richiede una gran quantità di fiducia nell’intervento attivo modificante di cui necessita. Non ci si può mai fermare! Quando nacque mio nipote, figlio di mio figlio Rafi, con la sindrome di Down, dopo il primo shock (nonostante io avessi già avuto a che fare con numerosi bambini con la sindrome di Down), dissi a mio figlio: tu dovrai diventare un compagno maggiore nel farlo diventare uomo che va verso Dio. Dio è compagno per tutti noi, ma in questo caso particolare, tu come padre del bambino hai un particolare ruolo di compagno maggiore.

Il nostro approccio sta in una modificazione attiva: noi non accettiamo il bambino così com'è

Il fatto che il bambino con sindrome di Down abbia alcune specifiche difficoltà in matematica o in alcuni pensieri di tipo associativo o immaginativo, deve essere accettato come un tratto tipico, come una caratteristica innata? Noi abbiamo imparato, dopo anni di duro lavoro che questi non sono tratti caratteristici, ma stati che possono essere cambiati. E la cosa più importante è che il cambiamento che verrà prodotto nell’individuo dipenderà dalla nostra volontà e dalla nostra battaglia per trovare la strada per passare in mezzo alle barriere tipiche della sindrome che non ci permettono di arrivare direttamente al bambino e alla sua intelligenza.Questo è il concetto principale che sta alla base del nostro approccio di modificazione attiva.Noi non diamo nulla per scontato.

Nel filmato che sto per presentarvi vi mostrerò un ragazzo che venne da noi all’età di11 anni. Devo ammettere che non avevo mai visto nessuno così tardo, così povero nella comunicazione e nell’immaginazione. Aveva una lingua molto lunga. La via di comunicazione della bocca era quasi completamente ostruita. Non avrei mai potuto prevedere la sua incredibile capacità di immaginare e di fantasticare nella pittura. Un’esplosione di colori e di forme. Avevo sempre pensato che il campo delle arti plastiche non poteva essere proposto a questi bambini. Li accettavo com’erano. Oggi faccio un mea culpa perchè non so quanti bambini avrebbero potuto diventare buoni artisti se io avessi creduto in loro. Questo per dirvi che il nostro approccio attivo modificante non deve dare nulla per scontato. L’individuo non va accettato così com’è e l’intervento su di lui non deve essere passivo

E’ in questo contesto che noi sentiamo che un approccio attivo modificante inizia anche dall’aspetto esteriore dell’individuo. C’erano moltissimi giovani che non potevano parlare perchè la lingua protrudeva e ostruiva il sistema di articolazione delle parole. Molti dei terapisti del linguaggio che lavoravano con i bambini con sindrome di Down erano soliti insegnare la lingua, le parole, le frasi, non l’articolazione. Ed io chiedevo loro: Perchè non gli insegnate a parlare?Non può parlare –rispondevano- non è in grado di parlare. E per questo non ci provavano. Iniziai così a pensare a come superare questo problema. Se non si impara a parlare in modo articolato non si sviluppa un buon linguaggio. Se non si parla in modo da essere capiti dagli altri, gli altri non ci parlano. Così mi sono rivolto a dei chirurghi specializzati e ho domandato se era possibile allargare la cavità orale. Mi dissero che c’era un piccolo apparecchio che si poteva utilizzare per questo, ma ciò non funzionava. Utilizzammo dunque l’idea di un chirurgo tedesco che contattammo per una piccola glossettomia. La stessa idea l’aveva già avuta un nostro professore ebreo il quale disse che da anni andava proponendo questo intervento; purtroppo nessuno era pronto per realizzarlo. Da quel momento cominciammo ad eseguire questo tipo di operazione. Ne abbiamo fatte 250 con risultati veramente soddisfacenti. Non solo abbiamo ottenuto una maggiore prontezza nel parlare, ma ciò che è più importante è che i genitori hanno potuto così rendersi conto che i loro ragazzi erano in grado di fare molto di più di quanto loro avessero mai creduto. Cambiando l’aspetto del bambino abbiamo provato a produrre un cambiamento totale nel modo in cui noi ci poniamo di fronte a loro, nel tipo di linguaggio che noi insegniamo loro, nel tipo di comunicazione che si ha con loro. Essi sono così modificati che ora sono in grado di accedere ad una varietà di scuole e professioni. Il nostro obiettivo finale è di vedere questi bambini non più inseriti in istituti, ma diventare parte di una famiglia nucleare, dove esse possono sposarsi e vivere insieme come una coppia; non ha importanza che essi abbiano o non abbiano dei figli, ma non devono vivere isolati. A quelle persone che erano contrarie all’intervento chirurgico, ed erano molte, (sono consapevole che anche in Italia ci furono reazioni a questo intervento di modificazione attiva), noi oggi chiediamo perchè? A che cosa è giovato? Essi chiedevano: Perchè si deve far soffrire un bambino per rendere il suo aspetto più piacevole? A questa domanda noi rispondiamo che è l’individuo ha diritto di essere diverso da ciò che è e che per questo motivo noi dobbiamo offrirgli l’opportunità di divenire parte della società; non solo dargli il diritto di essere nella società, ma di esserne parte come membro contributivo della società stessa.

La possibilità di occupazione dei soggetti con sindrome di Down era considerata poco probabile. Nella maggior parte dei casi essi venivano impiegati in laboratori protetti. Le possibilità di vederli introdotti in attività lucrative era considerata altamente improbabile. Noi invece abbiamo considerato quale fosse il modo migliore per far diventare questi giovani membri realmente contributivi della società dando loro qualcosa in cui la loro conosciuta lentezza non fosse necessariamente uno svantaggio, ma un vantaggio. Li abbiamo fatti diventare assistenti di anziani in un centro per anziani, laddove la sveltezza di una normale infermiera poteva essere d’ostacolo o di imbarazzo all’anziano, mentre la lentezza del ragazzo con sindrome di Down avrebbe maggiormente aiutato l’anziano. In questo centro i ragazzi Down non sono semplici servi degli anziani, ma avendo attivato in loro processi cognitivi e avendo insegnato loro a riconoscere sul volto degli individui condizioni di disagio, oltre che aver fornito loro numerosi strumenti utili per svolgere bene il compito loro assegnato, essi possono dirsi significativi dipendenti del centro. Non sono addetti a compiti insignificanti come le pulizie o cose simili, essi misurano la temperatura dell’anziano, la pressione e svolgono reali compiti di assistenza alla persona ricoverata. Dopo questa esperienza, non credo che questa sia l’unica professione che essi siano in grado di svolgere. I ragazzi che lavorano nel centro sono ottanta e abbiamo ottenuto, nonostante le proteste del sindacato, che essi ottengano un regolare salario.

Anche nell’esercito abbiamo constatato che questi ragazzi sono in grado di svolgere una gran varietà di attività. Essi sono ben accettati e ben inseriti.

Sono convinto che il lavoro per i soggetti Down con gli anziani rappresenti una prospettiva ideale per il futuro. Essi infatti, se vengono opportunamente preparati, sono in grado di fare qualunque cosa. L’ottimizzazione di queste possibilità dipende anche da come si incomincia a lavorare con questi soggetti nelle prime fasi dell’infanzia. Non dobbiamo agire solo nelle ultime fasi dello sviluppo.Prima si inizia e prima si possono ottenere dei risultati.

In questo senso mio figlio Rafi Feuerstein può raccontarvi la sua esperienza di padre mediatore di un bimbo con sindrome di Down.

(Durante il discorso del professor Reuven Feuerstein sono stati mostrati filmati sul centro per anziani del professore, sui ragazzi introdotti nell’esercito israeliano come soldati e sul matrimonio di una ragazza Down sposatasi da pochi mesi n.d.r.)

RAFI FEUERSTEIN

Quando ho pensato a come poter aprire questa conferenza, mi sono reso conto di avere due alternative che potevano integrarsi. Da una parte sono un paziente: infatti sono il papà, come mio padre ha detto di Elkanan, un bimbo con sindrome di Down. Dall’altra parte sono uno che per professione lavora con bambini con sindrome di Down e con le loro famiglie. Cercherà così di darvi entrambe le prospettive: quella di padre e quella di uno psicologo che tratta tali casi come mediatore.

Elkanan il mio secondo bambino. Noi genitori non ci aspettavamo assolutamente una tale nascita perchè mia moglie aveva ventidue anni, quindi era una donna giovane e, secondo le statistiche, le probabilità di un tale caso a quell’ et sono molto basse. Devo dire che stato uno shock molto forte per noi nonostante provenissi da una famiglia molto ottimista. Devo ammettere di essere stato molto provato. Quando ora guardo indietro nel tempo a ciò che è accaduto e cerco di analizzarlo, trovo molte ragioni per un tale atteggiamento. Il primo sentimento provato fu la paura per un cambiamento totale di vita che stava avvenendo.molto egocentrica questa paura, molto incentrata su noi stessi, ma come persone giovani quali eravamo io e mia moglie, con il futuro davanti a noi, sentimmo che le cose stavano radicalmente cambiando. Sembrava che fossimo destinati a divenire schiavi di questo bambino che ci avrebbe chiesto molte cose. La seconda cosa, per me meno importante, il pensiero di molti genitori: Non sono un insegnante, uno psicologo, non so come si fa e non voglio farlo, ma ora mi rendo conto che devo diventare uno psicologo e un insegnante.

Elkanan oggi ha sette anni. Molte volte egli fa resistenza quando cerco di insegnargli a scrivere, a leggere o a fare altre cose. Nel complesso egli rifiuta un intervento continuo su di lui. E quanto può imparare un bambino? Non è ancora uno studente universitario, lo sarà io credo. Guardando da un’altra angolazione il bambino, viene da chiedersi: Un bambino così ipotonico, così passivo, così seduto senza fare nulla, cosa posso fare io con un bambino così. Quale sarà il suo futuro? Io vedo i filmati che stiamo proiettando, ma come padre penso a mio figlio. Qual è l’obiettivo da raggiungere? Infinite sono le domande. Devo dire che questi sentimenti, che ormai appartengono al passato, sono più problematici per il bambino che per la sindrome di Down che ha. Perchè. Non perchè io non amo mio figlio. Lo amo e molto, ma perchè tutti noi, noi che ci definiamo persone normali, noi dipendiamo dall’intervento di un mediatore. Contrariamente ai behaviouristi che pensano che lo stimolo proveniente dal mondo esterno ci fa essere esseri umani, e contrariamente a Piaget che pensava che lo sviluppo dell’essere umano dipenda dall’interazione fra lo stimolo e i processi interni biologici, la teoria di mio padre, professor Feuerstein, propone l’esperienza di apprendimento mediato secondo la quale nessuno sviluppo può avere luogo senza un mediatore che si pone fra il mondo e l’essere umano che necessita di mediazione.

Abbiamo appreso dal filosofo tedesco Kant che noi apprendiamo pochissime cose dal mondo degli oggetti. Per esempio se io voglio sapere quale conferenza fare stasera e volessi provare a classificare le persone che saranno ad ascoltarmi, come potrei classificarle? Posso pensare a molti gruppi diversi di persone (qual è il loro lavoro, la motivazione per la quale sono venuti ad ascoltarmi, dove vivono). Tali persone si possono classificare secondo innumerevoli criteri. Ora, tutte queste asserzioni non fanno parte del mondo, sono io che le pongo nel mondo. Sono io che decido come classificare le cose del mondo. Quando voglio classificare devo decidere come raggruppare i dati. Tutte queste strategie non sono nel mondo. Potete mettere un bambino con centinaia di giocattoli attorno o con stimoli ricchissimi, ma non imparerà a fare cose con essi. Ho controllato tempo fa un ragazzo del nostro centro che veniva da una famiglia benestante. Era fortemente ritardato e non parlava. Scoprii con i nostri test per il potenziale di apprendimento che aveva delle possibilità di recupero. Scoprii che potevo anche insegnargli a parlare. Chiesi alla madre di dirmi cosa faceva quando gli dava da mangiare. Rispose che non le dava lei da mangiare, ma una cameriera. Non era una donna motivata a mediare con il figlio. Invece proprio la mediazione che costruisce nel bambino le capacità cognitive: come comparare, come dedurre, come raggruppare sistematicamente per ottenere ulteriori informazioni, come scoprire le differenze e le somiglianze, tutti questi concetti sono forniti dalla mediazione. Con essa noi insegniamo all’essere umano ad imparare. Potete capire ora perchè tutti i miei sentimenti descritti precedentemente risultarono molto problematici per Elkanan. Se io non sento di poter fare qualcosa per lui, e non sono motivato, non riuscirà a intervenire, non riuscirà a mediare. Se io non medierò Elkanan sarà ritardato. Conosco persone sulla quarantina con la sindrome di Down a cui manca il linguaggio e sono persone alle quali non stata fornita la mediazione di cui necessitavano. E se un bambino normale ha bisogno di mediazione, un bambino con problemi ne ha bisogno almeno venti volte di più. Tuttavia un tale bambino ottiene meno mediazione perchè noi non crediamo in lui. Noi genitori abbiamo bisogno di realizzare due cambiamenti

Quando mio figlio Elkanan era nato da due o tre giorni e io ero m molto sconvolto, mio padre mi disse: da ora, da adesso, incominciamo a lavorare per preparare il suo matrimonio. Non avevo mai sentito nessuno fino a quel momento pensare al matrimonio di un bambino che ha appena due giorni,ma questa affermazione mi ha salvato; da quel momento, infatti, avevo chiaro l’obiettivo da raggiungere, un obiettivo molto lontano, ma mi era chiaro per che cosa dovevo lavorare: si sposerà

Quando mio figlio aveva due anni e ho notato Elkanan parlare e ricordare di un compleanno festeggiato a casa nostra ho capito che il mio intervento aveva dato frutto.

D’accordo, ho un obiettivo, ma non sono un insegnante e il normale genitore non è uno psicologo. E qui c’è la grande questione per me come genitore nell’esperienza di apprendimento mediato: noi non dobbiamo insegnare; mediare non vuol dire insegnare: la mediazione la qualità dell’interazione.Tu parli con il bambino come genitore, lo vesti, lo nutri, lo porti a spasso. In tutte queste cose che tu fai come genitore tu puoi . Vi mostrerà alcune foto di mio padre e di mia moglie che ad Elkanan nei suoi primi periodi di vita affinchè voi capiate cosa vuol dire mediare.

In questa foto vedete Elkanan che assume la stessa posizione della bocca del suo nonno: Elkanan sta imitando suo nonno. Questo è il primo passo che abbiamo fatto con Elkanan piccolissimo per insegnargli a parlare. Questo perchè l’imitazione ed altri apprendimenti non sono automatici, devono essere mediati. Questo Elkanan oggi, una settimana fa con mia moglie. Ha sette anni. Quando aveva dieci mesi l’abbiamo sottoposto ad un intervento di chirurgia plastica che gli ha permesso di parlare. Ora legge e inizia a scrivere.

Voglio ora spiegarvi perchè l’ imitazione necessita della mediazione. Ricordate sempre che il nostro obiettivo è insegnargli ad apprendere, a focalizzare, a prestare attenzione. Se non ha questa capacità, quando andrà a scuola non sarà in grado di imparare.

Il secondo obiettivo imparare a selezionare gli stimoli importanti da quelli meno importanti. Inoltre deve imparare che quando qualcuno gli sta mostrando qualcosa lo sta facendo per lui e deve prestare attenzione. Tutto ciò non accadrebbe se io non dirigessi me stesso a mediare. Infatti è il primo principio della mediazione è l’intenzionalità; io devo impormi la mediazione quando lo porto a spasso, quando gli do da mangiare, sempre; io non sono un insegnante, io voglio solo mediare.(/P>

Il secondo è la trascendenza: come posso io, da una semplice passeggiata, dargli una strategia cognitiva?

Esempio: Se io alla mattina vesto mio figlio di due anni e gli dico (in inverno).Perchè non possiamo metterci la maglietta a maniche corte?. Se io gli facessi una domanda di tipo universitario. Dimmi perchè in inverno non ci si deve vestire con una maglietta a maniche corte? il bambino non mi risponderebbe. Il mediatore deve essere sicuro che la mediazione entri nel bambino. In quel caso io se lo sto vestendo glielo dico anche bruscamente, lo scuoto. Perchè ci dobbiamo mettere le maniche corte se fa freddo?; e mi accerto che i suoi occhi guardino le maniche corte. Devo essere sicuro che il messaggio gli arrivi. Sin da quando il bambino è piccolissimo se gli parlate come mediatore i suoi occhi vanno a sinistra, anche i vostri occhi devono seguire il suo sguardo a sinistra . Tenete ferma la testina del bimbo e assicuratevi che egli vi guardi. E quando il bambino è passivo nell’ascolto, urlategli perchè dovete assicurarvi che il messaggio lo raggiunga. Io sono un uomo molto impegnato, ma in quelle due ore che sto con Elkanan sono realmente un mediatore. Quando poi Elkanan riesce a fare qualcosa noi subito sottolineiamo il suo successo, anche se ha fatto fatica. Cosè facendo ;costruiamo in lui l’immagine di un essere umano competente. Quando è troppo tranquillo gli diciamo di alzarsi e di giocare alla box. Noi gli mediamo anche il concetto che lui è un essere umano con delle sue caratteristiche proprie, uniche.

Tutte queste cose sono parte della mia vita normale. Io non sono il suo insegnante, io non credo sia un bene per lui che io gli insegni qualcosa; io ho degli insegnanti apposta che gli insegnano, ma io gli medio in ogni minuto a mia disposizione.

Circa un anno fa in auto stavo guidando con lui verso Gerusalemme. Elkanan non era molto interessato a quello che succedeva intorno. Io cercavo nel tragitto di mediargli la consapevolezza di ciò che stava succedendo fuori. Ad un certo punto attraversammo una zona forestale e gli dissi: Elkanan, questa è una foresta e qui ci sono lupi e leoni. Credetemi, lì non ci sono leoni, ma da quel momento Elkanan ha cominciato a vedere se vedeva leoni nella foresta.


La nostra esperienza

Chi è R.Feuerstein
L'intelligenza può essere plasmata
Perchè credo che intelligenti si diventa