EVENTS
2003
Di seguito diamo una breve rassegna
di mostre d'arte del 2003 (ma anche del 2002) che ci hanno 'appassionatamente'
interessato...
Delirio a Trani inaugurazione
venerdì 14 novembre | 17.30 | castello svevo | trani (ba)
(da "EXIBART")
L'assurdo e l'immaginazione, le nevrosi e le evasioni, il fantastico
e l'onirico, le fobie e le ossessioni. Lo spazio dell'io…il dentro
e il fuori. Sono i temi di DELIRIO, manifestazione ideata e curata
da Giusy Caroppo, che si terrà dal 14 novembre al 14 dicembre nel
Castello Svevo di Trani (ba).
Ad interagire con le mura federiciane del Castello - inserito nel
'Circuito castelli di Puglia', tutelati e gestiti dalla
Soprintendenza BAP - opere site specific, multimediali e
interattive, pittura, scultura, fotografia e video di Giovanni
Albanese, Olivo Barbieri, Matteo Basilè, Betty Bee, Christian
Caliandro, Francesco Carone, Alessandro Ciulla, Coniglioviola, Maria
Cristina Crespo, Dormice, Jan Fabre, Chiara Lampugnani, Daniela
Montanari, Rafael Pareja Molina, Luigi Presicce, Rosy Rox, Roxy in
the box, Francesca Scammacca, Uraken, Natalino Zullo.
Espressioni artistiche ed estrazione anagrafica e culturale
differente, utili a chiarire linguaggi e psicologia dell'artista
"visionario" del presente. L'io costringe il
soggetto/oggetto artista a rifugiarsi in un mondo "altro",
fantastico, onirico, allucinatorio; lo guida alla lucida follia che
diviene mania, ossessione, istinto; l'assenza di remore morali e di
attenzione alle convenzioni sociali è delirio, come delirante è
l'artista ironico, poliedrico, dissacrante.
La mostra - che si avvale di serate a tema e conferenze - offre
inoltre un coerente percorso didattico per adulti e ragazzi, ponendo
gli artisti in reciproca relazione per ricerche concettuali,
stilistiche o tecniche e si snoda per l'intero perimetro del
castello, raccontandone storia e architettura, riportata all'antico
splendore da un recente restauro.
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Kapoor a Napoli MUSEO
ARCHEOLOGICO NAZIONALE Piazza Museo, 19
da
"EXIBART" di martedì 11 novembre 2003. Articolo di marco
izzolino
La retrospettiva di Kapoor regala al pubblico italiano un inedito ed
insolito lavoro rispetto a quello con cui l’artista angloindiano
si è fatto conoscere sin’ora.
A differenza della precedente personale di Koons, l’esigenza
museale d’una mostra retrospettiva si interseca col desiderio di Anish
Kapoor (Bombay, 1954. Vive a Londra) di utilizzare le
monumentali sale del Museo per una mostra a tema, in parte dedicata
alla città. Il percorso della mostra, infatti, inizia (nella prima
sala) “storicamente” da due opere classiche — due cavità/sculture-in-negativo,
una all’interno di una parete e l’altra all’interno d’un
blocco di marmo — ma “tematicamente” da un cubo traslucido,
che ha il significativo titolo di Blood.
Il sangue è, infatti, il costante riferimento di questa mostra:
come principio di vita, come colore della fisicità, come metafora
dell’umano. Kapoor ha sistemato i suoi lavori in maniera
tale che, nella successione delle quattro sale e nel cortile, sia
costruita una metafora del movimento sanguigno. Se esso è principio
di movimento produce suono, se si ferma produce forma. Sarà un caso
la scelta di questo tema per una città le cui sorti, secondo la
credenza popolare, dipendono dallo scioglimento del sangue del Santo
patrono?
La seconda sala presenta una gigantesca vasca (appositamente
realizzata per la mostra, occupa quasi tutto lo spazio, da una
parete all’altra) che contiene un liquido scuro. Una goccia
zampilla di continuo da un piccolo foro sulla parete destra creando
una scia di liquido rosso che ricade sul bordo della vasca e al suo
interno. La ritmicità e la continuità del gocciolìo contrasta in
maniera inaspettata con l’immobilita della superficie del liquido:
le gocce cadono ma niente scìe, niente onde.
Dalla parete di sinistra fuoriesce un misterioso tubo bianco che,
curvandosi, si rivolge verso la porta. La sua funzione si chiarisce
nella sala successiva, la più grande, dove il tubo si trasforma in
una cavità sulla parete destra, dalla quale è possibile sporgersi
e osservare la proiezione ottica della vasca.
In questa stessa sala è presentata una serie di sculture
concavo/convesse, alcune di metallo, altre di marmo rosa (color
pelle). La loro particolare forma, sottilissimo ed evidente il
richiamo al sesso femminile, rende impossibile definire quale sia la
parte esterna e quella interna, definire il lato principale. La cosa
ha provocato imbarazzi anche nell’artista al momento della
collocazione delle opere.
Nell’ultima sala e nel cortile il flusso sanguigno si regolarizza
trasformandosi in sculture circolari concave. Tre grandi dischi di
metallo divengono dei collettori sonori multispecchianti; nel
cortile, un liquido rosso scuro, forzato dalla struttura a pozzo in
cui è contenuto, costruisce un menisco regolarmente semisferico.
Che la mostra piaccia oppure no, non le si può negare di aver
suscitato ciò che Kapoor si aspettava — e che aveva preannunciato
in conferenza stampa —: alcuni bambini si sono immersi nella
grande vasca e molte persone hanno infilato il braccio nel liquido
del pozzo. Tutti sono rimasti inesorabilmente macchiati di rosso,
per più d’una settimana.
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"Grande testa tragica di Fautrier" <<Nel
passaggio dall'espressionismo all'informale,il corpo è in piena
metamorfosi:una metà si ê già sfaldata, destrutturata.Quale
immagine suggestiva della crisi schizofrenica!>> (G. Leo)
La creazione ansiosa a Verona
<<Quest'opera
di Margherita Manzelli (classe 1969) mi ha colpito per lo
straniamento dello sguardo della giovane donna,in una postura che
indica una mancanza di presa sulla realtå,
una 'flexibilitas cerea' con cui il corpo,privo di 'spessore',segue
il profilo del letto,quasi letto di Procuste,rigido patibolo coi
suoi freddi riquadri geometrici>> (G. Leo)
LA
CREAZIONE ANSIOSA DA PICASSO A BACON (estratto)
di Giorgio Cortenova
(dal catalogo della mostra edito da Marsilio) |
Galleria
d'Arte Moderna e Contemporanea Palazzo Forti
Vicolo Due Mori, 4 (C.so Sant'Anastasia), Verona
Tel. 045 8001903 - Fax 045 8003524
E-mail: pforti.info@palazzoforti.com |
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Data: |
inaugurazione
12 settembre 2003
apertura al pubblico: 13 settembre 2003 - 11 gennaio
2004 |
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IV) Lo Sguardo
Siamo noi che andiamo incontro alle cose o sono loro che ci
assalgono ed in ogni caso ci assediano? Sono io che procedo
verso la loro formale presenza e verso il loro apparire, o
sono invece loro, le cose, a venirmi incontro ostentando la
loro ingannevole apparenza?
Ma, in ultima analisi, quale cammino dobbiamo compiere per
presentarci all'incontro? E cosa incontreremo davvero? le
cose, il fenomeno, l'essere? E quale sarà lo spazio o il
"terreno" dell'incontro?
Il linguaggio è "il più pericoloso di tutti i
beni", diceva Holderlin; ma al tempo stesso, quando
approda alla poesia, esso rappresenta al tempo stesso "la
più innocente di tutte le occupazioni". Il linguaggio,
qualunque esso sia, nomina ed instaura un mondo, facendosi
testimone dell'Essere, di ciò che nelle cose non è, di ciò
che esse nascondono e che non può esser detto se non
continuando a ridirle: ogni parola è di fatto un velo e
insieme uno svelamento. Ecco perché il linguaggio è
"pericoloso": lo è per il fatto stesso di
sottolineare "la minaccia del non-essere che incombe
sull'Essere - come afferma Heidegger - minaccia insita nella
contemporaneità di un movimento duplice, che segna il darsi e
il ritrarsi, lo svelarsi e il rivelarsi dell'essere".
Ma da quale punto di vista può venir detto invece
"innocente", il linguaggio della poesia, o più in
generale dell'arte? Forse perché esso è esente dal male?
Perché non provoca e non ferisce? Certamente no. Al
contrario.
Cosa vorrà allora dirci Holderlin con la sua tesi
d'"innocenza"?
Prima ipotesi: il poeta intende riferirsi ad una sorta di
"sovraesposizione" dell'arte, in ciò del tutto
simile a quella che caratterizza il gioco nell'infanzia. Ma
non è argomento del tutto pertinente, ed è lo stesso
Holderlin ad insistere affinché non si confonda gioco ed
innocenza. No, il gioco è tutt'altro che innocente e si
sviluppa peraltro sul confine della vertigine, là dove l'orlo
del "puteus" (pozzo) kantiano si spalanca sul
baratro della notte.
Seconda ipotesi: l'innocenza cui si riferisce è del tutto
simile alla deduzione che ne trae Shiller, vale a dire che si
tratta di un ritorno al "naturale", laddove i
sentimenti scorrono in sintonia con la natura. Un po' meglio,
ma non ci siamo ancora. E non ci saremo probabilmente mai,
finché "pericolosità" ed "innocenza" non
vengano declinati insieme, come entità tra loro strettamente
connesse.
Credo che più degli altri accosti il nocciolo del problema
Maurice Blanchot: secondo lo studioso francese Heidegger
stesso, avvicinandoosi alla poesia di Holderlin, non si avvede
come in essa, affinchè sia ancora possibile un dire, sia
proprio il soggetto a dover venire meno, a dover retrocedere
non per "prendere" ma per "perdere" la
distanza. Paradossale fin che si vuole, ma l'ipotesi ha una
sua pertinenza al problema. (16)
Cosa più "innocente" di quei giochi
"armati", omicidi e suicidi insieme, nelle spiagge
adriatiche di Leonardo Cremonini, che pure ci mettono in
trappola e pericolosamente ci coinvolgono? Perché appare così
minaccioso il gioco erotico delle cose negli innocenti arredi
dei suoi alberghi parigini? Perchè la visione
"oggettiva" di Shad, o quella "oppressiva"
di Domenico Gnoli, o quella candida di de Andrea, quando ci
restituisce il dolce sonno di una nuda fanciulla, o l'olimpica
solitudine femminile delle donne di Valloton, introducono di
fatto il cortocircuito del brivido, la dissonanza di una
visione che fa vacillare il già precario equilibrio del
soggetto?
Eccoci al punto: se "innocente" può essere detto,
credo che il linguaggio lo sia perché in esso affiora,
nascosta tra le pieghe delle parole non dette, la sua
potenziale pericolosità; ma se "pericoloso" può al
tempo stesso essere definito, ritengo che ciò dipenda dal
fatto che esso vela e disvela il dover venir meno del
soggetto: il brivido della perdita.
Noi andiamo verso le cose e c'inoltriamo nella girandola delle
loro apparenze, ma in realtà sono loro che ci vengono
incontro e che ci assediano. Noi possiamo forse ritenere di
circondarle, di analizzarle, nominarle e saperle, ma sono loro
a perseguitarci e a sfuggire, ad esserci nell'assenza: a
sottolinearci, attraverso la loro, la nostra angosciante
dispersione.
Un velo, questa volta drammatico, cade sullo sguardo che,
attonito, non ritorna su se stesso ma si acceca nell'assurdità
della visione presente o nella malinconia dell'enigma
inestricabile. Il sentimento dell'essere piomba sugli uomini
come un brivido di paura, come l'ombra delle cose che cade sul
soggetto oscurandolo. Proprio così: anche il modo in cui il
poeta tratteggiato da Heidegger si trova aperto al mondo
"è attraversato da un sentimento, un umore, un tono di
perdita - osserva Sossi - e la presenza è attraversata
dall'assenza". (17)
Non diversamente avviene l'incontro dell'Andrea di Ugo von
Hofmannsthal con il personaggio femminile che gli s'avvicina
scalza, le trecce sciolte sulle spalle desiderabili, come
fosse appena saltata giù dal letto: " Ella non si
accostava e nemmeno lo sfuggiva, gli era tanto vicina come
fosse dentro di lui, eppure sembrava che non lo vedesse
nemmeno.
Ad ogni modo non lo guardava; anche lui non fece nulla per
avvicinarsi. Dalla bocca di lei voleva uscire una parola, dai
suoi occhi le lacrime. Tirava di continuo la sua catenina
d'argento, come volesse strozzarsi, e così si sottraeva del
tutto a lui; il dolore pareva giocasse con lei in modo da non
farle sentire neppure la vicinanza di Andrea. Infine la catena
si ruppe, un pezzo le scivolò nello scollo della camicia,
l'altro le rimase in mano. Questo lo premette sul dorso della
mano di Andrea, la sua bocca tremò come ne dovesse uscire un
grido e non potesse, si piegò verso di lui, la sua bocca che
era umida e tremante baciò quella di lui - ed era
fuggita". (18)
Hofmannsthal non dice "e fuggì", oppure "e
subito sparì" o qualcosa del genere, che potesse porre
il bacio al riparo da una possibile assenza. Come un lampo,
che scompare piombando nella sua stessa luce, così la giovane
della catenina "era fuggita" nel momento stesso in
cui l'incontro si compie. Appunto era sparita, era già
sparita: incontrava Andrea nella sparizione.
Ma c'è dell'altro. Infatti il linguaggio, sia esso delle
parole, dei segni, dei gesti o dei suoni, anziché
contraddistinguere un principio di conoscenza, avvicinamento,
appartenenza, presenza o partecipazione, sottolinea un
principio di scollamento, fuga ed assenza. Esso piomba come
una barriera, dolorosa ed impenetrabile, a contrassegnare
l'isola moderna cui approda il vascello boekliniano o le rive
problematiche da cui sogna improbabili rotte l'Ulisse
dechirichiano.
Da molti anni non parlo e non scrivo di Arthur C. Clarke, ma
qui non è proprio il caso di tralasciarne la traccia. Clarke
è tra l'altro autore di un racconto fantascientifico riferito
ad un'immaginaria comunità di monaci tibetani intenzionati a
compilare la lista di tutti i possibili nomi di Dio. Da ormai
tre secoli la comunità si dedicava al quel compito, ma
neppure altre dieci generazioni sarebbero riuscite a
completare l'opera! (19)
Caso voleva che una vicina comunità fosse protagonista di
straordinari progressi scientifici, conoscitivi e tecnologici.
Si decise dunque di contattarli e d'ingaggiare un gruppo di
tecnici e di scienziati in grado di condurre in porto
l'impresa in tempi brevi. Questi giunsero armati di ogni cosa,
cervelli elettronici ed altro ancora. La squadra si mise
presto al lavoro, elaborò dati, "una settimana dopo
l'altra la macchina di tipo 5 modificata aveva coperto
migliaia di fogli di un incredibile volapuk. Paziente ed
inesorabile la calcolatrice aveva a aggregato le lettere
dell'alfabeto tibetano in tutte le possibili combinazioni,
esaurendo una serie dopo l'altra. I monaci ritagliavano certe
parole appena uscite dalla macchina da scrivere elettrica e le
incollavano con devozione in enormi registri. Entro una
settimana avrebbero finito".
Condotta a termine l'impresa, altro non rimase da fare che
avviarsi sulla via del ritorno, con grande sollievo ma non
senza oscure apprensioni: fu allora che, guardando in alto, si
videro le stelle e i pianeti spegnersi una ad una,
inesorabilmente assorbite nella lavagna spugnosa del cielo.
Lacan sostiene che non siamo noi a guardare le cose, sono
invece loro che ci guardano. Il soggetto perde il dominio del
mondo e, anziché coordinarlo attraverso parametri logici,
viene coinvolto in un gioco di presenze-assenze, in un
turbinio di luci e spugnose opacità.
Anche qui, agli esordi del fenomeno, si ripropone il tema
dello specchiamento. Davanti allo specchio c'è adesso l'uomo
di tutti i giorni, c'è il corpo in quanto tale, che viene però
"assalito" dall'esperienza stessa dello sguardo.
"Questo corpo di cui si tratta, si tratta di accorgerci
che non ci è dato in modo puro e semplice nel nostro
specchio, - afferma Lacan - che anche in questa esperienza
dello specchio può capitare un momento in cui questa
immagine, questa immagine speculare che crediamo di
controllare (tenir) si modifica". Di fronte a noi abbiamo
la nostra statura, la nostra carnagione, mani, capelli,
braccia. Ma ci troviamo davanti anche o soprattutto il nostro
sguardo, la sua complessa dimensione: "…il valore
dell'immagine comincia allora a cambiare - continua Lacan -
soprattutto se c'è un momento in cui questo sguardo che
appare nello specchio comincia a non guardare più noi stessi,
initium, aura, aurora di un sentimento di estraneità, che è
la porta aperta sull'angoscia". (20)
Lo sguardo si presenta dunque come una dimensione autonoma,
che non combacia con il soggetto, cosicchè l'immagine non è
più sottoposta al suo dominio, ma si rivela come un'entità
che egli non può controllare. L'occhio non "tiene"
più il mondo delle cose; essendoci stato per così dire
sottratto, esso ci svela la nostra perdita di centralità e di
autonomia. Adesso le cose ci stanno attorno, e a sua volta
l'immagine stessa del nostro corpo ci appare estranea a noi
stessi e si frantuma.
Ma se l'esperienza dello specchio ci restituisce un soggetto
diverso, che non è più lui, anche il mondo delle cose
subisce una significativa trasformazione. La faccenda si
complica. Il soggetto ha perso lo sguardo, ha perso il dominio
sulle cose, e fin qui ci siamo. Ma come sono adesso queste
cose? "Le cose che mi guardano non sono le cose come
abitualmente io le vedo: - ci suggerisce a tale proposito
Graziella Berto - non oggetti situabili in uno spazio esterno,
ma punti luminosi, come quell'insignificante scatola di
sardine galleggiante sull'acqua, al sole, che, da volgare
scarto della civiltà industriale, si trasforma
improvvisamente, per Lacan, in sguardo inquietante". (21)
Le cose sono diventate ormai un "luccichio", uno
"sfavillio". Da parte mia suggerisco d'immaginare la
palpitazione luminosa delle lucciole. In ogni caso, questo
sfavillio, questo "gioco di luce e opacità" si
delinea come un tormentoso eccesso, si mostra troppo e
altrettanto velocemente si sottrae: troppo vicino per poterlo
mettere a fuoco e insieme troppo lontano per essere afferrato.
Di nuovo ebbrezza e dolore, attrazione e repulsione, che
incidono sia sulle cose che sul soggetto. Questo viene per così
dire attraversato dallo sguardo delle cose, cosicchè,
rivolgendo a se stesso il proprio sguardo, da un lato si rende
ancor più conto di essere "altrove" rispetto
all'immagine con cui s'identificava e "al discorso con
cui si definiva", da un altro lato viene attirato da ciò
che è normalmente nascosto dalle rappresentazioni delle cose,
affascinato da un'esteriorità che adesso lo illude di fargli
vedere qualcosa di più di quanto normalmente egli veda. Ma i
corpi sono ormai vuoti e l'appuntamento è improponibile.
Proviamo ad immaginarci una coppa. Infatti, anziché
coordinare il mondo esteriore, l'occhio si presenta adesso
come una "coppa". Esso non è più un luogo da cui
la luce s'irradia, ma un "contenitore" traboccante,
colmo fino all'eccesso, che da questo eccesso deve perfino
difendersi. Lacan lo dice con chiarezza: "indubbiamente
la luce si propaga in linea retta, ma si rifrange, si
diffonde, inonda, riempie - non dimentichiamo quella coppa che
è il nostro occhio - trabocca anche, e rende necessaria,
attorno alla coppa oculare, tutta una serie di organi, di
apparati, di difese". Ed ancora: " Ciò che è luce
mi guarda, e grazie a questa luce in fondo al mio occhio si
dipinge qualcosa - che non è affatto soltanto il rapporto
costruito, l'oggetto su cui si attarda il filosofo - ma è
impressione, scintillio di una superficie che non è, in
anticipo, situata per me nella sua distanza". (22)
Lo spazio perde qualsivoglia ordine organizzato, per divenire
invece un groviglio di scintille, lampeggiamenti, improvvise
accensioni, tali, in ogni caso, da frastornare e disorientare
il soggetto. Resta il fatto che i miei occhi, nel momento
stesso in cui vedono le cose, non possono vedere le cose che
li guardano: quel loro sfavillio e quel loro scintillare
incessante non sono catturabili da quegli occhi che, impegnati
a vederle, non possono delimitarne e definirne l'immagine. Ma
se, epifanico nella sua estraneità, questo sguardo
affiorasse? "si è visto, con Lacan, il carattere
inquietante di tale evento - ci suggerisce ancora una volta
Graziella Berto - il suo coincidere con una trasformazione
globale delle cose e del rapporto con esse", e lo si è
visto proprio a partire dall'iniziale esperienza dello
specchiamento, di quell'immagine speculare che sfuggiva nel
momento stesso "in cui si profilava in essa la dimensione
dello sguardo". (23)
"Tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto,
nascosto, e che invece è affiorato": così Schelling a
proposito del'Unheimliche, del "perturbante" (24).
Resta da vedere perché lo sguardo delle cose dovrebbe restare
nascosto, perché abitualmente rimane in simile condizione.
Immediata, per Lacan, la risposta: per via della coscienza. Su
quale altro presupposto, su quale piattaforma, se non sul
nascondimento di quello sguardo, la coscienza si sarebbe
costituita e si manterrebbe in vita?
Ed ecco svelato anche l'identità del filosofo che si
"attarda" a costruire rapporti e relazioni. E'
Cartesio. Ma, al di là di Cartesio stesso, è tutto il
sistema organizzativo-prospettico ad entrare in crisi sotto i
colpi destrutturanti di Lacan. Egli peraltro non vede
differenze tra il filosofo del "cogito", la sua
concezione del soggetto e le convinzioni dell'ottica
prospettica, che definisce "geometrale". Il soggetto
cartesiano è anch'esso "una sorta di punto geometrale,
di punto di prospettiva".
Una volta ridotto a "res cogitans", il soggetto si
trova collocato nel punto in cui le linee rette, provenienti
dall'oggetto, s'incontrano per definire e costruire
l'immagine. Con cosa coincide dunque, questa visione, se non
con un oggetto pensato, che va costruendosi all'interno di una
griglia spaziale geometrica, determinata dagli assi
cartesiani? Ma sarà proprio questa la "realtà così
com'è", ordinata, stabile, misurabile? O invece questa
"realtà" nasce dalla paradossale rinuncia di
"quel che è proprio della visione"?
Quest'ottica, afferma Lacan, "è alla portata dei
ciechi" (25). Ma non è meno "combattivo"
Merlau-Ponty. Secondo lui la "dioptrique" cartesiana
assomiglia al "breviario" di un pensiero che si
rifiuti o abbia rinunciato ad "abitare il visibile"
e decida perciò di ricostruirlo secondo uno schema, un
modello che va creandosi per sé. (26)
Si tratta insomma di scegliere: o si "abita il
visibile", cioè si convive con quella densità, quello
spessore, quello sfavillio della luce pronto a svanire nel
buio, oppure lo si riduce alla linea retta con cui la luce
stessa si propaga. Ma in tal caso non avremo certo la realtà
"così com'è", ma qualcosa che non ha bisogno di
essere vista per essere pensata. L'ottica geometrica si avvale
cioè di un inganno o di un trucco sottile e nascosto, che le
permette di annullare ciò che è pertinente alla visione, cioè
la luce, riducendola alla linearità razionale.
A seguire Cartesio, insomma, il vedere ha poca importanza, ma
è invece fondamentale pensare lo spazio geometrico in cui le
cose vanno collocandosi. La luce, quella vera è adesso tutta
racchiusa nello spirito.
Un simile spazio non è allarmante finchè non si abbia
sentore che esso appartiene alla "cecità", o meglio
ancora finchè non affiori la consapevolezza che esso è di
fatto alienato dalla vita e dall'emozione che le appartiene.
Finchè è credibile come "contenitore" di cose
viste, tutto può continuare a funzionare; ma quando insorga
la convinzione che lo stesso sia pertinente solo alle cose
pensate, allora, come una fenditura che attraversa l'anima e
il corpo, esso appare alienato e dalle profondità dell'anima
si fà strada l'ipotesi angosciante della lontananza e della
distorsione.
Si comprende allora che l'occhio del corpo è stato sostituito
dall'occhio della mente; che, a cominciare da Platone, la
tradizione filosofica ha lavorato a catturare l'inquieta e
conturbante turbolenza dello sguardo nei parametri dell'idea e
nella sua forma. Ma lo sguardo è "out", messo al
bando come un elemento dalle conseguenze pericolose e perfino
devastanti.
Meglio, molto meglio la rassicurante visione della mente, il
"geometrale" controllo dello spazio! Qui nulla pare
macchiarsi di ombre e di pericolose impurità, nulla rimane
nelle pieghe ansiose della materia. Molto meglio riparare
nelle maglie tranquillizzanti dell'apparenza, piuttosto che
navigare nella notte spugnosa dei lampeggiamenti, nei brividi
e nelle luminescenze del reale!
Ma dove potremo dunque incontrare "la cosa in sé" ?
Essa non risiede negli spazi depurati dell'Idea, nella sua
"geometrale" costruzione, che anzi lì si spegne e
svanisce; ma non è rintracciabile nemmeno nelle imperfezioni
del sensibile, nella turbolenza sfuggente della realtà. Il
nostro sguardo s'insinua piuttosto all'intersezione tra il
caos delle cose, la loro inafferrabile presenza e le
correzioni che l'occhio o la coscienza impone. Su quella
soglia, nel brivido dell'assenza, e nell'angoscia di una
pienezza carica di frammentazioni, il soggetto contempla
l'irriducibile "alterità" dell'oggetto. E così
facendo si avvede del proprio, drammatico "spaesamento".
L'arte del XX secolo non è generalmente gradita. Il pubblico
intrattiene con essa un rapporto di morbosa curiosità, di
ammorbato coinvolgimento, che però risulta al tempo stesso
inspiegabile; oppure vi si oppone con un rifiuto sordo ed
ostinato, muto e perfino rancoroso. Il più delle volte i
visitatori delle mostre, i frequentatori dei concerti, i rari
lettori di poesia convivono con un duplice sentimento
d'attrazione e repulsione, di fascinazione e tormento. Infatti
mai, come nel nostro tempo, l'arte non gratifica attraverso le
forme, anzi, non gratifica in nessun modo: se per gratificare
s'intende il fatto di ammorbidire i problemi, di catturarli in
una scatola magica che ci faccia sentire "a casa
nostra".
Il compito di farci sentire "a casa nostra", che
caratterizzava ieri la cultura rinascimentale cartesiana,
appartiene oggi alla pubblicità, ai sistemi di comunicazione
di massa, ai circuiti d'aggregazione sociale a fine politico e
consumistico. Fatto sta che l'Essere s'identifica con il
"non essere a casa propria" : e l'arte moderna te lo
dice in faccia, te lo sciorina con terrificante evidenza. E più
ancora te lo sottolinea quanto più si attiene all'oggetto nel
senso rappresentativo del termine, secondo, cioè, quelle
tipologie "figurative" che sono consuete ed
appartengono alla tradizione. Proprio in quel caso, proprio in
quell'evidenza formale è ancor più esplicito l'artificio
della costruzione, l'inganno di un'apparenza che ci segnala
l'assenza.
In altre parole, e per una conturbante contraddizione, risulta
tanto evanescente, improbabile, improponibile, la forma
"conclusa" di una figura di Schad o Cremonini o
Cagnaccio di San Pietro o de Chirico o De Andrea o Vanessa
Beekrof, per fare solo qualche esempio, quanto l'informe
materico di un Burri e di un un Fautrier, o le distorsioni
dell'immagine di Giacometti, Bacon, Marini, MacGarrell,
Richier, Baselitz e via dicendo.
E' peraltro la consapevolezza e lo "sbandieramento"
di questa contraddizione forte, che emerge nell'evidenza della
forma, a costituire il tormentato territorio espressivo di
artisti come Shad o Cagnaccio. Con la loro costruzione
cartesiana e la "cieca" immagine della mente essi
sottolineano, con il "pieno", il vuoto di
un'ingannevole "casa nostra". Nulla, in verità, che
lasci presagire l'angoscia, in quelle immagini di cipria, di
belletti che s'incupiscono anche nella "rotondità"
della luce e dagli spazi emergenti tra il galleggiare delle
cose stesse. Eppure, è proprio l'angoscia che essi fanno
emergere come conseguenza di un rifugio che si mostra
infranto, ingannevole e dissestato, e che essi hanno il
coraggio di svelare.
Adesso affiora, prepotente, la convinzione che, come afferma
Hidegger, " l'essere-nel-mondo tranquillizzato e intimo
al mondo, è un modo dello spaesamento dell'Esserci e non il
contrario. Dal punto di vista ontologico-esistenziale, il non
sentirsi a casa propria deve essere concepito come il fenomeno
originario". (27)
Il soggetto stesso si rende dunque conto di non attraversare
una qualsivoglia fase di spaesamento, ma di esservi radicato
indissolubilmente. Non si tratta di scoprire che la casa in
cui si abita non è la propria, la qual cosa è pertinente al
problema solo in superficie, ma di trovarsi di fronte alla
manifestazione tangibile dell'estraneità del
"proprio". Se credevamo di poter possedere,
raggiungere, costruire una "nostra casa", ebbene,
eccoci serviti.
A livello esistenziale, infatti, non è concepibile, se non
attraverso un auto-inganno, che lo spaesamento si risolva nel
ritrovamento di una casa questa volta autentica, e davvero in
grado di rasserenare, rispetto a quella dimostratasi tanto
seducente quanto ingannevole. Ormai dovrebbe essere chiaro che
la ricerca di questa nuova dimora rappresenta, di per sé,
l'ennesimo annuncio di uno spazio a sua volta non
rassicurante. Andiamo ad abitarla, dice Heidegger, e non ci
sentiremo certo a casa nostra.
Da qui l'angoscia: l'essere in quanto "essere
spaesato"; ma non solo: essere posseduti e non possedere;
ma infine: vivere in un simile stato di precarietà senza
percepirne la provenienza, senza poter individuare da dove e
da cosa esso provenga. In ciò l'angoscia rappresenta il
concretizzarsi in profondità dello stato psichico dell'ansia
e al tempo stesso si distingue nettamente dalla paura.
La differenza ancora una volta si va definendo a partire da ciò
che "dal di fuori" ci viene incontro, ci attraversa
o ci assedia. Mentre la paura è rivolta a qualcosa
d'identificabile e di determinato - una cosa, una persona,
un'immagine, un evento, ma quello e non altri, cui dunque si
può porre riparo o da cui si può fuggire - l'angoscia è
invece inscritta nell'indeterminatezza, nell'enigmatico, sia
negli spazi "geometrali" ma alienati, cari a
Cartesio, sia nella notte "spugnosa" da cui le cose
lampeggiano disordinatamente.
Non è né qui né là. E' niente. Ma dire niente non è dire
poca cosa. Quando il momento dell'angoscia è passato, tutti
sosteniamo che in realtà di nulla si trattava, cogliendo così
al volo un modo per neutralizzare in forma semplice qualcosa
che non riusciamo a com-prendere e a rappresentare, perché
troppo lontana o troppo "a fuoco", troppo vicina a
noi. Ma quel niente, in realtà, pesa come un macigno e ci
avvolge da ogni parte. Ci possiede.
Se tuttavia il niente è qualcosa d'indeterminato e
d'instabile, che non si concretizza in nulla di definito, ciò
premesso, non si tratterà allora di una "mancanza",
di un "vuoto" ? Non è così. Questo
"niente", anziché evanescenza, si disvela come
"differenza" . E l'angoscia altro non è che l'unico
stato d'animo che, come dice Heidegger, è in grado di
condurci "davanti al niente stesso", davanti alla
nostra stessa libertà di attingere l'originario spaesamento
del nostro stesso essere. Che "ci opprime e ci mozza il
fiato". (28)
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Vanessa Beecroft a Rivoli (TO)
RIVOLI
CON UNA PERFORMANCE DI MODELLE E NOBILDONNE SI APRE AL
CASTELLO DI RIVOLI LA RETROSPETTIVA
Il pasto nudo di Vanessa Beecroft
Dal bianco delle mozzarelle
all’arancione dei cachi, un banchetto classico introduce
alle ossessioni e ai riti dell’artista italiana diventata in
pochi anni una star del mercato internazionale
di Rocco Moliterni
(da "La Stampa" del 8 ottobre 2003)
Il
pasto nudo
Museo d’Arte Contemporanea del
Castello di Rivoli
Orario: da martedì a giovedì, dalle 10 alle
17 e venerdì sabato e domenica dalle 10 alle
22
Fino al 25 gennaio
Informazioni al numero 011.9565280 e al sito http://www.castellodirivoli.org/ |
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C’è
un lungo tavolo di cristallo con 32 donne sedute su
altrettanti sgabelli trasparenti. Alcune hanno abiti beige e
parrucche grigie, altre sono vestite di camicie verdi o
tuniche ciclamino, altre ancora hanno parrucche rosse e sono nude. Ieratici camerieri servono portate rigorosamente
monocrome: bianchi sono i paccheri di Gragnano al burro come i
cavolfiori e le mozzarelline, il latte e il puré con cui si
inizia, arancioni sono le zucche e le carote, i cachi e i
meloni con cui si finisce. È questa la lunghissima
performance che ha accompagnato ieri (e sarà replicata oggi)
al Castello di Rivoli la presentazione della personale che il
museo d’arte contemporanea, per la cura di Marcella Beccaria,
dedica a Vanessa Beecroft.
Jeans
e maglietta nera, tatuaggio su una spalla e macchina
fotografica in mano la Beecroft si muove attorno al lungo
tavolo prima delle riprese: ora sistema una parrucca ora dà
consigli sulla postura. Del banchetto si farà un video, oltre
a fotografie che andranno a illustrare il lungo corpus (siamo
a quota 52 in dieci anni) delle perfomance dell’artista
genovese di nascita e newyorchese di adozione, ormai un star
del mercato internazionale. «Il mio intento in questo caso -
spiega - è di realizzare un banchetto classico, un’immagine
evocativa come una cena durante una mostra retrospettiva e
studiare la reazione al cibo e gli impulsi di questo gruppo
eterogeneo che non ha limiti di età o di misura». Tra le
commensali, oltre alle otto giovani modelle nude, ci sono
infatti tanto donne appartenenti all’aristocrazia e al mondo
torinese vicino al Castello, quanto «veterane» che hanno
partecipato a precedenti perfomance, legate da rapporti di
parentela o di amicizia all’artista. «Alle donne - dice
ancora - viene sottoposta una successione interminabile di
portate, senza un ordine preciso, divise per colore, alle
quali esse possono accedere a seconda della loro discrezione,
non come in un pasto convenzionale. Gli “impulsi” e non le
regole, scandiscono questo banchetto: c’è chi mangia e chi
non mangia. Paragono questa funzione pubblica all’intimità
di un rito privato o alla nudità esposta in pubblico».
Si pensa a una situazione buñueliana, anche perché i
riferimenti cinematografici costellano le perfomance della
Beecroft, ma in questo caso il mangiare è anche un ritorno
alle origini: il suo primo lavoro, appena uscita
dall’Accademia di Brera nel 1993, si chiamava Il libro del
cibo e raccoglieva gli elenchi degli alimenti che la Beecroft
aveva ingerito giorno per giorno dal 1983. Per quella prima
performance aveva chiamato le compagne di accademia, «avevo
notato, camminando nei corridoi di Brera, la presenza di
ragazze speciali, che rassomigliavano alle figure dei dipinti
di Piero della Francesca, a quelle dei film di Godard o alle
modelle di Vogue, ma avevano un’espressione che mi ricordava
quella delle sante nelle pitture, dove portano sempre un
oggetto che le identifica o rappresenta il loro martirio.
Queste ragazze a Brera camminavano con mele in tasca o thermos
di tisane ed erano troppo alte o troppo magre o troppo
colorate». E questo è il mondo che ritroveremo in quasi
tutte le perfomance successive: l’ossessione, comune a una
generazione che ha fatto i conti di volta in volta con
anoressia e bulimia, per il corpo femminile nudo («ho
constatato che quanto più cerco di rendere l’immagine pura
e minimalista tanto più questa diventa feticistica»), i
riferimenti alla pittura classica e al cinema, il glamour di
certe riviste patinate.
Ci sono qua e là anche incursioni nel mondo della «politica»:
per il G8 la Beecroft torna a Genova e realizza una
performance che fa scandalo nello stesso palazzo e nella
stessa sala dove sarebbero stati a colloquio i capi di Stato:
protagoniste prostitute nere prese nella zona del porto ed
esibite con esili tanga e sottili reggiseni. Del 1999 è
invece VB39, con i marines del corpo speciale Us Navy Seals,
creato da Kennedy agli albori della guerra del Vietnam: in
mostra ci sono quattro immagini contrapposte, due in cui i
marines «annegano» nel bianco e due in cui si perdono nel
nero.
La dicotomia bianco e nero ritorna nelle immagini scattate nel
palazzo Ferrania di Roma. Modelle bianche saranno protagoniste
della perfomance negli studi hollywoodiani della Universal,
modelle nere di quella nel palazzo di Oscar Niemeyer per la
biennale di San Paolo: le ritroviamo nelle gigantografie
esposte tra gli stucchi barocchi di Rivoli.
Alla pittura preraffaellita si ispirava invece la VB43, in cui
in un ambiente algido si muovevano modelle per lo più
efebiche dai lunghi boccoli rossi (il mondo di Twiggy e quello
di Elsabetta I a braccetto). Sembrano affreschi, grazie a una
nuova tecnica di riproduzione murale, sulle pareti di quella
che è forse la stanza più affascinante della mostra. Per
rompere il ghiaccio di queste modelle «irreali» è molto
utile la stanza delle polaroid, dove di alcune performance si
vede il backstage: ragazze in collant o maglioncino che
aspettano di essere fotografate, amiche con le parrucche che
sorridono, marinai americani che fanno le boccacce.
É un peccato che in mostra non ci siano i disegni che la
Beecroft per un certo periodo realizzava prima delle
performance: sottili silhouette (ad Arco Fiera di Madrid le
proponeva una galleria svizzera) in cui il corpo femminile
veniva accennato con una grazia distante dalla violenza delle
immagini che hanno poi preso il sopravvento. Oggi comunque la
Beecroft sembra più indirizzata a sondare il mondo delle
tradizioni e dell’aristocrazia: prima di Rivoli ha portato
il suo sguardo in un castello tedesco e ha ripreso nobildonne
ed attrici tra le quali Hanna Schygulla, indimenticata icona
del cinema fassbinderiano. |
Sacher-Masoch
a Graz
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Nobuyoshi Araki
"Untitled" (from the "Bondage"
series), 1996/97
C-Print, 60 x 48 cm
Collection Clo et Marcel Fleiss, Paris |
SACHER-MASOCH
FESTIVAL GRAZ
2003
Ein Projekt im Rahmen von Graz 2003 - Kulturhauptstadt
Europas.
In co-operation with Graz 2003 – Cultural Capital of
Europe. |
Opening: Friday, 25th April
Duration: April 26th - August 24th
2003
Opening hours: Tue-Sun 10am - 6pm, Thu 10am - 8pm
Curator: Peter Weibel
Co-Curators: Michael Farin, Christa Steinle, Elisabeth
Fiedler
Assistance of Curator: Peter Peer, Anke Orgel
Exhibition architectur: Manfred Wolff-Plottegg
Exhibiton Catalogue
"Phantom of Desire. Visions of Masochism in
Art", Peter Weibel, editor
2 volumes, 992 pages, numerous illustrations, belleville
publishers, Munich 2003
ISBN 3-936298-24-6, exhibition-shop: Euro 48.- /
book-trade: Euro 58.-
Two classics from literature, “Venus in Fur” (1869)
and “Psychopathia sexualis” (1886) are directly
linked to Graz. The novel “Venus in Furs” is seen as
a prototype for the writings of Leopold von
Sacher-Masoch and his wife Wanda, as well as for
masochistic phantasies in general. Although
Sacher-Masoch as a person has fallen almost into
oblivion, his work has gained a lasting effect. Based
upon Sacher-Masoch's novel Richard Freiherr von
Krafft-Ebing, the Grazer physician (1840-1902), coined
the term “masochism” in his medical standard work
“Psychopathia Sexualis” (1886) as the description of
a sexual disposition combining pain and lust. Since then
masochism has become the subject of many analysises and
studies in film, literature, philosophy, music and the
fine arts which reflect this phenomenon in its manifold
socio-historical contexts.
On the basis of these facts, a history of sexuality in
the arts has been conceived in the form of an exhibition
that follows Sacher-Masoch's influence from the end of
the nineteenth century till the present. The exhibition
should reflect artistic acceptability, namely how the
social, political and psycho-analytical implications of
masochism were received in the art world: The
masochistic body, the profile of the cruel woman,
dominant relationships and masochism as the explicit
thematisation of power in relationships, fetish and
ritual as important elements of setting a masochistic
scene and masochism as a psychologically-defining
category of, amongst other things, femininity. Here, art
is based on the visual aspect, more exactly the visual
representation of masochism. The visual representation
does not only mean representation of matters sexual, but
rather the whole complex of punishment and resistance,
controller and victim, immersion and inversion and lust
and harm should be illuminated.
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Frida
Kahlo a Milano
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Musica
per organi caldi a Udine
Da
"Exibart" di giovedì 13 novembre 2003
<<Musica per organi caldi è il titolo della
collettiva. Il nome, da un celebre libro di Charles
Bukowski, promette trasgressioni di ogni genere, in una
cornice propizia ad attirare la curiosità dello spettatore:
una tenda rossa che cela le opere dagli sguardi esterni e
l’ingresso severamente vietato ai minori di anni 18.
Le foto si alternano alla pittura ed alla scultura per una
rassegna di opere di artisti internazionali. Ad iniziare
dall’americano David LaChapelle, ritrattista delle
star e autore di videoclip di molti celebri cantanti, che qui
espone tre foto dai colori carichi ed eccessivi, tali da
sottolineare l’inverosimiglianza delle situazioni
rappresentate. Una Barbie nella sua leziosa
cameretta che spara colpi di pistola ad un volto gigantesco.
Un’infermiera che mostra i resti sanguinolenti di una faccia
maschile. Infine, la prosperosa paziente di un ginecologo
colta nell’attimo prima di utilizzare un fallo
d’acciaio… Situazioni e personaggi estremi che fanno eco
alle opere di Andres Serrano, con la sua History of
sex o campionario fotografico della trasgressione.
Richard Kern mostra, invece, due interni
domestici dove donne insospettabili rivelano la loro sessualità
prorompente. Dalla crudezza di Anna on floor with ropes
si passa all’eros sottile di Roy Stuart: Kaori
in due momenti d’intimità, la bellezza assoluta del corpo
ancora acerbo, adolescente.
La pittura si rivela non meno trasgressiva: l’orsetto del
duo Dubossarky&Vinogradov approfitta, da tergo, di
una Barbie compiacente dall’aria più che soddisfatta,
mentre la violenza si avvicenda al sesso estremo nella tela
fantasiosa del canadese François Escalmel.
Il mezzo busto in poliestere è firmato Gaetano Bodanza
che, accanto a questo lavoro espone anche una sua opera
storica, una sorta di gigantesco sado-maso dove una donna
bestiale si fa domare da un uomo truce e muscoloso. Pittura
anche per il secondo artista friulano presente nella rassegna,
Walter Bortolossi, che propone, in quest’occasione,
un carosello di corpi danzanti in atto di sperimentare le
varie posizioni del kamasutra.
L’itinerario erotico si conclude con le sculture del
trentacinquenne Paolo Cassarà, due ardite terracotte
policrome che danno corpo all’ideale moderno della donna.
Anoressica e disinibita, pronta a rendersi strumento del
proprio piacere.>>
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Skin deep
a Rovereto (TN)
da
"exibart" di venerdì 5 dicembre 2003
<<Il percorso inizia con una serie di ritratti degli
abitanti della Nuova Guinea del reporter Malcolm Kirk,
voluti dal curatore Luigi Meneghelli per sottolineare l’idea
di un rapporto col corpo che l’uomo occidentale ha subito
dimenticato, che l’arte del Ventesimo secolo ha recuperato e
reinterpretato, e che la realtà virtuale sta nuovamente
modificando.
Nell’arte la coscienza di una pelle come forte confine di
scambio con l’esterno si sviluppa infatti nei primissimi
anni Sessanta contemporaneamente in diversi ambienti
artistici, esprimendo il risultato di un sentire comune ormai
maturo e permettendo di usare il proprio corpo come strumento
per dipingere senza bisogno della mediazione di oggetti. In
Italia Piero Manzoni crea le Uova con impronta,
il cui guscio rimanda simbolicamente alla pelle, allo stesso
modo dura, ma fragile. Nello stesso anno Yves Klein
realizza le Antropometrie, dipingendo corpi femminili
di blu e riportando col contatto le loro forme sulla carta.
E’ esposto poi un olio su tela del ’61 Kazuo Shiraga,
esponente del gruppo giapponese Gutai, ha distribuito
il colore con i piedi.
Degli Azionisti Viennesi la mostra mette in evidenza i
momenti meno cruenti. Così i corpi nelle immagini della metà
di quel decennio di Muehl, Nitsch e Schwarzkogler
sono macchiati e sporcati di colore, di un rosso fatto
gocciolare sul viso o sul ventre. Il medesimo coinvolgimento
impulsivo del corpo è presente nell’azione del ’70 di Paul
McCarthy documentata nel video Black and White Tapes,
dove l’artista striscia a terra lasciando dietro di sé una
striscia densa di vernice bianca. E’ un pigmento steso
lentamente, seguendo ogni piega della pelle, quello usato
invece da Bruce Nauman nel video Make-up.
Non mancano alcuni esempi di esponenti dell’Arte Povera
che hanno usato il corpo come superficie sulla quale scrivere
parole, come l’Odio impresso sulla fronte di Gilberto
Zorio del 1971. Scrive direttamente sulla pelle anche Guglielmo
Achille Cavellini, scrive con un pennarello la storia
della sua vita, indossando un completo bianco anch’esso
completamente ricoperto dalla sua calligrafia. ”I am
awake in place where women die” è una delle scritte
tracciate in stampatello sul corpo e immortalate da vicino
nelle immagini di Jenny Holzer del ’94. Mentre in Family
Tree del 2000 gli ideogrammi si moltiplicano e si
sovrappongono sul viso impassibile di Zhang Huan fino
rendere nera l’intera epidermide.
La foto non rimane unicamente modalità per documentare le
azioni. Già nelle opere di Ketty La Rocca i sostantivi
e le brevi frasi che segnano i movimenti delle mani sono
apportati in un secondo momento sulla stampa. I paesaggi
fantastici di Annette Messager in Mes Tropheés
sono evocati con carboncino e pastello all’interno di un
padiglione auricolare in bianco e nero. Si tratta di stampe su
gelatine d’argento con scritte a mano anche per quanto
riguarda le opere dell’iraniana Shirin Neshat, dove
la ricerca di un’appartenenza viene impressa indelebile
sull’individuo.>>
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fino
al 23.XII.2003
Me & More
Lucerna, Kunst Museum
L’immersione
dell’individuo nel mare della moltitudine ne segna
inevitabilmente la dissoluzione o l’esaltazione. Quando si
cessa di essere considerati se stessi? Sullo splendido lago di
Lucerna, ci si incontra per discuterne al Kunst Museum con 14
artisti di tutte le culture…
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da
"Exibart"
mercoledì
19 novembre 2003
L’interrogativo è semplice, la tematica è ampia: Me
& More, io e gli altri. Al microscopio il tessuto
continuo che integra l’individuo con il mondo circostante,
una serie di rapporti algebrici lineari, intersezioni,
esclusioni e unioni dell’io con il noi, caratteristici di
quei processi che a volte ne esaltano, a volte ne sbiadiscono
i connotati. Per rispondere si riuniscono a Lucerna 14
artisti, invitati da Peter Fischer e Susanne Neubauer:
l’effetto è terapeutico.
Apre la mostra Magdalena Abakanowicz. La sua è una
voce chiara al riguardo: Hurma, il suo più grosso
raggruppamento di figure in juta, presenta involucri dalle
fattezze umane, senza volto, a dimensioni reali uniti in una
moltitudine muta, ma individuati dalla loro concavità, o
dalla loro convessità. Alla spersonalizzazione del
processo di sagomatura si oppone una peculiarità dovuta
all’irregolarità che il processo stesso porta con sé,
l’effetto cita la dualità della tematica principale. Per Kiki
Smith, invece, l’attenzione va focalizzata sulla
costrizione di una società stratificata verticalmente. Nel
suo Puppet l’individuo è trasformato in una
marionetta vivente, dall’espressione viva e
l’atteggiamento comandato dai cavi di un burattinaio,
sospeso a mezz’aria in un limbo tra la volontà superiore e
la libertà più terrena. Un’altra voce autorevole è quella
di Anthony Gormley. In esposizione European Field,
opera-performance del ‘94 in cui molti collaboratori hanno
lavorato alla modellazione di piccoli pupazzi tutti diversi,
ora qui presentati. C’è un tentativo di trasposizione
diretta tra l’individuo e la rappresentazione di sé stesso,
fusi in questo gruppo che ne unisce le voci amplificandole,
pur preservandone tutte le sfumature. Ci sono anche gli Humanoìdes
di Ernesto Neto, la sua metafora della corporeità si
tocca e si indossa, riformulando l’esperienza collettiva in
termini puramente sensoriali. Analogamente, nelle opere di Ross
Bleckner si ritrova l’indagine sul rapporto tra micro e
macrocosmo, elementi cellulari in un misto di olio e encausto
aggregati in strutture più ampie con semplici regole
relazionali, come in The architecture of the sky. Per Zhang
Huan, artista cinese in America, l’interazione passa
attraverso il filtro culturale del singolo. Riferendosi
all’esperienza personale, Huan mostra come le tradizioni
possano completamente mascherare, riducendo l’identità a
una mera collocazione nazional-culturale. Barbara Kruger
con l’opera che dà il titolo all’esposizione, propone il
tema dell’indottrinamento. La sua ricontestualizzazione di
immagini permutate ai media di comunicazione di massa ne
sottolinea l’effetto plagiante intrinseco
dell’informazione stessa.
Un collettivo di opere e dialettiche diverse, dall’aspetto
corale ma dall’individualità elevata. Le opere si legano
l’una all’altra costruendo un vero e proprio dibattito,
dalle discussioni animate, le posizioni forti e le riflessioni
profonde. Al visitatore non rimarrà che esprimere la propria.
fabio antonio capitanio
mostra visitata il 13 Novembre 2000
Kunst Museum Luzern, Europaplatz 1, 6002 Luzern, Svizzera.
Tel.0412267800 Info-Tel. 0412267878 http://www.kunstmuseumluzer.ch/
Catalogo con testi di Peter Fischer e Susanne Neubauer,
Edizioni Periferia, Inglese/Tedesco, Fr. 38.
Aperto Martedì- Domenica 10-17, Mercoledì e Giovedì fino
alle 20
osicraN
Narciso
10 ottobre - 6 dicembre 2003
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La
Galleria Planetario, dal 10 ottobre e fino al 6
dicembre, presenta Alberto Abate, Paolo Borghi,
Bruno Chersicla, Ricardo Cinalli, Fabrizio Plessi,
Antonio Violetta in una collettiva dal titolo OsicraN
Narciso.
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La vicenda di Narciso costituisce nella
cultura occidentale una fonte inesauribile di
interpretazioni e di corrispondenze. Dal
carattere intransitivo della pulsione nasce il
dramma dell’impossibilità di comunicare sul
piano dell’oggettività della forma. Narciso
è figura della pura identità, ed arriva ad
identificarsi con la totale alterità di
un’immagine riflessa irraggiungibile. Mentre
Narciso, resta imprigionato, fino a morire,
dall’oggettività e dalla matericità della
visione, l’Arte, riflettendo su se stessa,
si inoltra all’interno della forma fino a
giungere alle fonti autorappresentative della
visione.
Il
Narciso di Fabrizio Plessi gioca,
grazie alla videoinstallazione, sulla
percezione della luminosità, spiazzante in
quanto la luce si duplica tra il neon stesso e
la riproduzione del suo movimento, verso una
contemplazione senza oggetto e soggetto ben
delineati, ma avvalorata dal senso della
pulsione. Le sculture, in terracotta e in
bronzo dorato, di Antonio Violetta dal
silenzio fermano il tempo e indagano sulla
superficie materica nell’ambiente e nello
spazio, sprigionando l’assolutezza
dell’essere, mentre Paolo Borghi
scava, manipolando e colorando la terracotta
come riscoperta della gratificante
immediatezza del gesto, oltre la superficie
riflettente e indaga le dinamiche stratificate
dell’universo. Il dato corporeo
meticolosamente e ripetutamente indagato da
Ricardo Cinalli, il cui lavoro viene
associato a una sorta di mondo
mitologico-piscologico contemporaneo, da’
eco alla tensione del singolo individuo al
tutto cosmico. Il narcisismo quindi si propone
in forma di compiacimento, ambivalenza ed
esibizione in una tensione che diventa, nel
predominio del gradiente materico,
combinazione di forze che si irradiano,
componendo e scomponendo l’essere, lungo le
nervature delle figure lignee di Bruno Chersicla,
individuandole in personaggi della vita di
tutti i giorni. L’opera di Alberto Abate,
la cui ricerca approda ad una perturbante ed
intensa figurazione, densa di suggestioni
antiche, infine, è del mito stesso la
letterale e colta riscoperta. Tre elementi
fondamentali emergono dall’opera
dell’artista romano: la realtà, il suo
riflesso, sede non più della duplicità ma
dell’alterità, filtrata dallo specchio ed
esplicitatasi nella presenza del fiore, che di
Narciso condivide il nome e la sorte.
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GALLERIA
PLANETARIO
Via F. Filzi,
4 – 34132 TRIESTE
Tel. 040/639073 – Fax 040/369103
E-mail: planetario@artplus.it
Orario: dal lunedì al sabato 10.00-13.00 e
16.00-19.00
Fuori orario: per appuntamento
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"The
passions": Bill Viola a Londra
'Bill Viola: The Passions' , The National Gallery, 22.10.03
- 04.01.04
Bill Viola’s new work explores the power and complexity of
human emotions. Visually stunning and psychologically gripping,
Viola’s works are at the cutting edge of technology but they are
also deeply rooted in the art of the past.
Using actors, shown in silence and extreme slow motion, ‘The
Passions’ probe and reveal the nature of overwhelming emotion.
Info: NG London-Future Exhibitions 'Bill Viola, The Passions' The Exhibition
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Jean Cocteau
Spanning the Century
Centre Georges Pompidou
Paris (FR)
da giovedì 25 settembre ore 11:00
a lunedì 05 gennaio 2004
info: www.centre.pompidou.fr
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Richard
Serra a Napoli
da
"EXIBART" di mercoledì 19 novembre 2003
Sarà
una spirale in ferro di quindici metri di diametro e quattro di
altezza (visitabile anche dall'interno e 'sede' di iniziative)
l'opera che verrà presentata all'aperto, a Napoli, in Piazza
Plebiscito poco prima delle feste natalizie.
L'autore? Ma ovviamente lui: Richard Serra. Il grande
scultore americano interverrà, con una realizzazione che avrà il
nome di Naples in uno spazio che negli anni scorsi ha
ospitato personalità del calibro di Rebecca Horn, Joseph
Kosuth, Anish Kapoor, Mario Merz, Giulio
Paolini e Mimmo Paladino.
"La mia scultura - ha dichiarato Serra - prende
significato dall'esperienza che ne ricavano gli spettatori". E,
infatti, a Napoli, la grande opera creerà un camminamento interno
che consentirà al pubblico napoletano una prolungata e insolita
visione".
inaugurazione sabato 20 dicembre ore 12 a Piazza Plebiscito.
Napoli. A cura di Eduardo Cicelyn e Mario Codognato. Organizzazione
Id. Art
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L’energia
di Piazza Plebiscito
Con
grande sensibilità e intuizione femminile l’artista crea
una delle più suggestive installazioni mai realizzate per il
Natale di Napoli. E’ stata da poco smontata
l’installazione di Rebecca Horn. E paiono placarsi anche le
tantissime polemiche che ha generato. Ora diciamo noi cosa ne
pensiamo…
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Da
"Exibart" di lunedì
13 gennaio 2003
L’artista tedesca, unica donna fino ad ora invitata a
misurarsi con l’allestimento natalizio della Piazza,
concepisce lo spazio come un immenso campo di energia, divisa
tra i due elementi ancestrali della terra e dell’aria.
In questo modo, affrontare lo spazio monumentale si rivela una
scelta vincente. Invece di creare un “oggetto”, anche
smisurato, come centro focale per lo sguardo (lo fecero in
anni passati artisti come Anish Kapoor e Mimmo Paladino), Rebecca
Horn evita il confronto con la grandiosità degli edifici
circostanti disseminando il suolo di sculture e l’aria di
luci. Lo spettatore è catturato in mezzo ai due campi da
questa duplice attrazione, sposta lo sguardo
dall’orizzontalità della terra alla verticalità della luce
e del cielo. Non si può non pensare a Joseph Beuys,
perché il grande artista tedesco aveva fatto dell’energia
il fondamento della sua filosofia della natura e la base del
rapporto tra l’uomo e il mondo naturale. La Horn dimostra di
aver assimilato gli elementi di questa visione in modo del
tutto personale condensandoli in un’opera dal potente
impatto scenografico.
Ma per chi non era presente all’inaugurazione, gran parte
dell’effetto è perduto. Perché il suono ha una parte
rilevante nella percezione che si affida alla multisensorialità
fondendo con perfetta sinergia i due poli opposti del campo di
energia.
In questa scissione, in questa tensione sta il senso stesso
dell’uomo e del divino. Al suolo cosparso di teschi, simbolo
di mortalità e fragilità umana, corrisponde un empireo di
aureole che illuminano la verità del divino. Su questo limite
sta il senso stesso dell’uomo e del divino. L’uomo, al
centro di questi due elementi riconosce che al di là del
mistero dell’essere e del mistero del nulla, c’è un
mistero che non lo sovrasta e uccide, un mistero che è suo,
uno spazio intermedio. In questo spazio il suo sguardo non è
inchiodato al suolo al mistero della morte, ma si innalza
verso la luce, verso lo stupore della perdita della realtà.
Questo è il significato esoterico che la Horn ha rintracciato
nella tradizione misterica napoletana, la sua radice gnostica
che
permea di sé il significato più profondo dell’opera. E’
un messaggio di speranza e di riscatto per l’uomo, non un
lugubre simbolismo di morte o una facile lettura del culto
delle Fontanelle (il cimitero della città partenopea) come è
stato detto e scritto da fantomatici benpensanti.
Accanto alle forme della verità, accanto ai fatti della
storia di Napoli, la Horn sembra aver rintracciato dei valori
più persistenti di questi e di quella nell’immagine che ha
preso corpo attraverso la sua idea dell’arte, in una forma
che può anche essere effimera e fugace. L’installazione
resiste nella sua precarietà come se proprio questa fosse il
segno più sicuro e prezioso di esistenza. E rende davvero
concreto l’eventuale alone, l’aura delle cose. Eppure, in
maniera del tutto concettuale è l’aggregarsi delle cose e
chi le percepisce, chi davvero le vede. Se esistono prima o
dopo una percezione, se esistono più nella testa, nella mente
del soggetto o più in una rete di soggetti e di relazioni. La
moltitudine di teschi in dura ghisa, semisepolti nel
pavimento, è là, deve solo essere scoperta, percepita sotto
i piedi per interrompere il cammino obbligato sui sentieri.
E allo stesso tempo le aureole sono segni di luce nell’aria,
come un sogno, perché il sogno sorvola la vita. E’ questo
parallelo continuo della vita che possiamo solo sforzarci di
ricordare, di ricostruire. E’ nostro, crediamo che sia
nostro, e nello stesso tempo ci sfugge come la vita ed è
accecante, come la possibilità di pensare e di fermarsi.
maya pacifico
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"L'art brut et libre sur les ailes de la folie"
a Parigi
(da "LE MONDE" del 25.07.03)
La Galerie nationale du Jeu de paume, à Paris,
expose, jusqu'au 28 septembre, la collection
ancienne du Centre d'étude de l'expression de
l'hôpital Sainte-Anne. Réalisées par des malades
internés, ces œuvres souvent étranges et
troublantes interrogent la définition même de la
création artistique.
En exposant la collection ancienne de l'hôpital
Sainte-Anne, le Jeu de paume rouvre un dossier
souvent négligé en France, celui de la création
en milieu asilaire et des relations mal connues
entre maladies mentales et expressions artistiques.
En 1948, André Breton publie aux Cahiers de la
Pléiade L'Art des fous, la clé des champs.
A propos des œuvres des pensionnaires d'asile, on y
lit cette phrase : "Il est à observer
qu'une gêne croissante, dès qu'il s'agit de la
place à faire à de telles œuvres, n'a cessé
depuis un demi-siècle de s'exprimer dans les
milieux psychiatriques - soit dans un cercle où
pourtant ces œuvres étaient essentiellement considérées
en fonction de leur valeur "clinique"."
Aujourd'hui, c'est dans les milieux artistiques
que la gêne ne cesse de s'exprimer. Comment
expliquer autrement qu'il ait fallu un demi-siècle,
avant que la collection ancienne du Centre d'étude
de l'expression de Sainte-Anne puisse être montrée
dans un lieu muséal central, le Jeu de paume ?
La première exposition eut lieu à l'hôpital
Sainte-Anne en 1950 sous le nom d'"Exposition
internationale d'art psycho-pathologique". Par
la suite, des présentations partielles ont eu lieu,
soit à Sainte-Anne, soit à l'étranger, mais cet
ensemble d'une grande richesse était peu accessible.
En France, l'attention portée à ce que l'on a
longtemps appelé "l'art des fous"
a été le fait de psychiatres et d'une minorité d'artistes
- Breton et Dubuffet au premier chef. Ce qui donne
raison à Breton, en 1948 : "Le public
peut dormir sur ses deux oreilles : les verrous
sont tirés non seulement sur les individus qui n'ont
pas toujours su montrer patte blanche mais encore
sur tout ce qu'ils font parfois d'admirable, qui
pourrait les rappeler à lui."
La question est bien posée : c'est celle du
confort de l'esprit. Le plus simple est en effet de
considérer que l'activité artistique est un genre
de métier, avec ses hiérarchies, ses plans de
carrière et ses systèmes d'évaluation financiers
et critiques. C'est évidemment la tendance générale,
qui s'est renforcée depuis les années 1960, quand
l'art, défini par ses théoriciens comme un "champ
autonome", est devenu de plus en plus
affaire de spécialistes - producteurs, médiateurs,
collectionneurs.
Admettre à l'inverse l'immense intérêt d'œuvres
et d'objets produits en dehors de ce monde, par des
individus qui ne sont pas de profession artistique,
c'est renvoyer l'art à des notions difficiles à
saisir, la nécessité intérieure, l'expression
individuelle, la santé mentale. Et c'est encore
affronter des problèmes peut-être insolubles, tels
que celui-ci : comment et pourquoi Antonin
Artaud, qui était jusqu'alors acteur et écrivain,
a-t-il pu tracer, en peu de temps, quelques-uns des
portraits les plus aigus et les plus puissants du XXe siècle,
au sortir de sa réclusion à Rodez ?
ÉNIGMATIQUE MILLET
Il n'y pas d'Artaud dans la collection de
Sainte-Anne, mais il y a des dessins aux crayons de
couleur d'Aloïse Corbaz, internée de 1918 à 1964,
grandes et opulentes effigies féminines parées de
rouge qui fascinèrent Dubuffet quand il les découvrit
et qui, grâce à lui, sont devenues célèbres. Et
il y a surtout ceux que l'on ne connaissait pas
jusque-là, des inconnus, des anonymes, dont les
travaux sortent de la nuit.
Ainsi Auguste Millet. Il serait né vers 1905 et
a été interné à l'asile du Vinatier, près de
Lyon, vers 1927, après avoir été brièvement
soyeux. Pendant des années - on ignore la date de
sa mort -, Millet a écrit des poèmes, copié des
textes de dictionnaires et de manuels d'histoire et
d'algèbre. Il a aussi pratiqué le dessin et l'aquarelle
pour inventer des scènes d'une vie légèrement étrange,
où des canards nagent dans une maison, où une
vache entre dans un café. D'une belle écriture, il
ajoute ses "titres": Margaritas ante
porcos, Route dans le roc, L'Impromptu de la Bovidée
in naturalibus. Le dessin est soigné, quoiqu'un
peu raide, et les inscriptions sont énigmatiques.
Faut-il y voir une ironie volontiers bouffonne ou
des visions sérieusement symboliques ?
Les mêmes termes valent pour Maurice Blin, qui,
dans ses cahiers, alterne portraits grotesques, schémas
d'ingénieur compliqués jusqu'à l'impossible,
fragments de drames et chansons. Il est tantôt
peintre, tantôt poète, tantôt musicien et parfois
savant, d'une science fantasque. Il a, lui aussi,
des titres qui sidèrent : Baiser de Saturne
à la Terre, Révérende Mère de la Renaissance.
Des termes tels que folie ou maladie mentale
seraient bien pauvres pour définir son comportement.
Quant à en analyser le processus de création en
lui-même, on en est réduit aux hypothèses. Seule
certitude : pour lui, comme pour Millet, il n'existe
aucune césure entre les divers modes d'expression.
Dessin et écriture sont inséparables. De leur
union naît le trouble qui émane de leurs œuvres.
D'autres doivent ce trouble à leur chromatisme -
la gouache sanglante de Gaston Duf, les aquarelles
tourbillonnantes de Guillaume Pujolle. Ces dernières
sont d'une impressionnante dextérité, inattendue
de la part d'un homme qui, avant l'asile, avait été
soldat, puis douanier, très loin de toute formation
artistique - ce qui pose évidemment une nouvelle
question embarrassante, celle de l'autodidacte qui dépasse
sans peine le meilleur élève.
L'OBSESSION SUR LE DESSIN
Comment Charles Schley, enfant abandonné, interné
dès l'âge de 17 ans, réputé schizophrène,
est-il parvenu à une telle maîtrise du crayon de
couleur et a-t-il su perfectionner une si étrange géométrie
d'angles aigus, de pointes et d'obliques jusqu'à
saturer la feuille et à créer une telle sensation
de claustrophobie ?
Il y a ceux enfin qui imposent la forme visuelle
de leurs angoisses ou de leurs désirs avec une
terrible simplicité, une évidence sans concession.
Cette forme peut être celle d'une tête humaine,
telle celle que peint Antonio Brangança : un
visage de profil, la calotte crânienne ouverte sur
le cerveau - si ce n'est que, à la place de l'encéphale,
il y a un couple en plein coït.
La même obsession sexuelle animait Albino Braz,
qui vécut seize ans dans l'hôpital psychiatrique
de Sao Paulo. Il y dessinait inlassablement des
femmes, souvent nues, jouant avec des félins,
brandissant des bougies et des fleurs. Et les
dessinait à petits coups de crayon, avec une précision
et une obstination telles qu'on peut les étudier
longtemps sans qu'elles perdent leur faculté
hallucinatoire.
Devant de telles œuvres, il est tentant de
croire, comme l'écrivait Dubuffet en 1949, qu'il
existe une "opération artistique toute
pure, brute, réinventée dans l'entier de toutes
ses phases par son auteur, à partir seulement de
ses propres impulsions" et que "la
folie allège son homme et lui donne des ailes".
Philippe Dagen
"La Clé des champs", Galerie
nationale du Jeu de paume, 1, place de la Concorde,
Paris-8e. Tél. : 01-47-03-12-52. Du
mardi au vendredi de 12 heures à 19 heures,
le dimanche de 10 heures à 19 heures. 6 €.
Jusqu'au 28 septembre.
• ARTICLE PARU DANS L'EDITION DU 25.07.03
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Il quarto sesso
a Firenze
(Dall'Espresso, articolo di Alessandra
Mammì)
Androgini. Violenti. Giovani. Nichilisti.
Una tribù che ha imposto un dirompente canone estetico. Oltre
ogni limite. E coinvolge tutto: arte, cinema, letteratura,
moda
Siamo sfortunati, ma giovani e virili. Camminiamo per i
corridoi e il campo da gíoco e siamo più alti degli altri,
radiosi. Siamo orfani. E in quanto orfani celebrità: dal
romanzo di Dave Eggers "L'opera struggente di un
formidabile genio", 2000.
Settembre 2002: "Ken Park" il film di Larry Clark
scandalizza Venezia. Prima scena: un giova: nissimo skater
dopo una mirabo lante acrobazia si siede sul bordo dell'half-pipe
(la pista). Estrae dallo zainetto una telecamerina digitale e
la posiziona su di sé. Poi prende una pistola e si spara un
colpo in testa. Ken Park - giovane, virile, sfortunato, alto e
radioso - filma la sua morte e si assicura 115 minuti di
celebrità.
Dove siamo? Siamo nei "territori estremi defl'adolescenza".
In piena Trash Generation. Travolti da un nuovo nichilismò:
individualismo e violenza senza freni. E al centro eh uno
stile di vita che coinvolge tutto, cinema, arte, musica,
letteratura, comunicazione, moda. Siamo in bilico su un vuoto
esistenziale e ne percorriamo il confine a folle velocità.
Siamo nelli comunità degli skaters, tra i ragazzi delle
periferie e accanto a quelli borghesi che ne imitano i
comportamenti. Siamo insomma nel "Quarto sesso"
quello dei mutanti, degli androgini, di tutti gli adolescenti.
Titolo geniale per una mostra della, Fondazione Pitti che alla
stazione Leopolda di Firenze, dal 9 gennaio al 16 febbraio, ci
costringerà a guardare quel che non vorremmo vedere. Ci
costrin-gerà a capire (anche attraverso una bibbia- catalogo
curata da Maria Luisa Frisa) che un filo rosso lega le
fotografie degli artisti della new wave inglese, le campagne
pubblicitarie della Díesel, l'horror vacui delle camerette
dei ragazzi, i film alla "Boys Don't Cry" e la
strage di Columbine. Il 20 aprile 1999, alla periferia di
Denver (Colorado), due ragazzini Eric Harris e Dylan Klébold,
rispettivamente 17 e 18 anni aprono il fuoco sui loro compagni
della,Columbine Ffigli School, uccidendo 12 ragazzi e
un'insegnante prima di togliersí loro stessi la vita. La
polizia scopre nelle loro camerette alcuni video girati prima
della strage in cui Eric e Dylan motivano la carneficina come
gesto estetico che garantirà loro imperitura fama. Le foto
terribili di quel giorno (consacrato anche dallo straordinario
film di Michael Moore, "Bowiíng for Columbine")
saranno in mostra, accanto a moltissime,altre immagini che
arrivano dall'arte, dal cinema o dalla pubblicità.
Sospendiamo il giudizio e osserviamo: siamo di fronte a
qualcosa di nuovo che coinvolge un'intera generazíone e segna
l'inizio del secolo. "La tensione fra desiderio, visione
e distruzione fa parte di questo momento inimitabile e
irrinunciabile di ogni vita umana che va sotto il nome di
adolescenza", dice Francesco Bonami curatore con lo
stilista Raf Simons della rassegna. Ma questi adolescenti
hanno caratteristiche diverse da quelli che li hanno
preceduti: si esprimono con le immagini e soprattutto per
immagnu si raccontano. Per tentare un primo approccio non
resta, come farà la mostra, che raccontarli attraverso le
loro opere, le loro foto, i loro luoghi, i loro oggetti.
Trash Generation: ragazzi
borghesi che imitano i coetanei delle periferie
L'oggetto per ecce-llenza,'un vero totem, è lo skateboard.
Intorno alla tavoletta con rotelle si muove una nuova
filosofia di vita e una comunità sempre più vasta. Gli
skaters orinai hanno i loro skate artisti, skate registi,
skate stilisti. Quasi una ricostruzione futurista dello skate
universo, basata sulle stesse parole d'ordine dell'avanguardia
di Boccioni & soci: velocità, individualismo, coraggio,
appartenenza al branco. ricerca estetica, edificazione di un
mondo alternativo. "DogtowriandZ-Boys" èilloro
film-manifesto. Il suo regista, Stacy Peralta (uno skater
professionista), ha vinto l'ultimo Sundance Film Festival.
Dogtown, suburbia di Santa Monica, degradata e trasformata in
una "no mans land" è la Mesopotamia del movimento:
tutto è nato lì. Lì si sono definìtivamente marcate le
differenze con i vecchi surfisti, comunità anni Sessanta e
Settanta sorrette dall'ìdeoìogia híppíe, ecologica,
utopista, alla ricerca di un rapporto perfetto fra uomo e
natura esemplificato dalle onde dell'Oceano. Niente a che
vedere con gli skaters. metropolìtani, acrobati, adrenalinicí,
pronti a spaccarsi eroicamente tutte le ossa, guerrieri ai
lirníti della legalità (lo skateboard è, vietato in molte
città Usa).
Se Stacy Peralta è il regista, se Aaron Rose proprietario
della Alleged Gallery in New York è il loro gallerista, Ed
Templeton è l'artista per eccellenza. Fotografo, pittore,
fondatore della società Toy Machine che produce attrezzature
per skaters e naturalmente campione di skateboard. I titoli
delle mostre di Templeton sono degli slogan "Waìtíng
for the Earth to Explode" (aspettando che la Terra
esploda), "The Sado-Voyeur% "Teen smokers" e
l'ultima "The Golden Age of NeglecC (l'età &oro
dello sfascio) che ha tríonfalmente occupato a ottobre le
sale parigine del Palaìs de Tokyo. A portare 350 lavori di
Templeton in Italia (a Roma in febbraio, sede da definire) sarà
Paulo Lucas Von Vacano, una sorta di antropologo del presente,
giornalista, organizzatore di mostre, fondatore di un'agenzia
e di una casa editrice, Drago, dedicata alle culture
emergenti. P- Vacano a spiegare le fondamenta della nuova
estetica.
In principio c'è il corpo. Un campo di battaglia. Ma niente a
che vedere con la lìberazione sessuale e la scoperta del
corpo nudo dei loro genitori. Il corpo è lo strumento dei
fight club. Coperto di lividi e ferite, massacrato o umiliato
che sia, è un'arma contro il sistema: contro la tecnología,
l'aseffico, potere dei virtuale, la dittatura dei computer. Il
corpo come strumento di morte. Con tutte le sue secrezioni (sangue-sudore-sperma)
è protagonista dei film e delle foto dell'intera generazione.
L'oggetto totem è lo
skateboard: l'origine di una inedita filosofia della vita
A cominciare da quelli che sono considerati i padri del
movimento: Larry Clark e Nan Goldin. Corpi sfatti e tras=ati
di genitori falliti, alcolizzati e tabagisti sono al centro
delle storie fotografiche dell'inglese Richard Billingham;
corpí mostruosi e mutanti appaiono nelle sculture dei
fratelli Chapman che scandalizzarono il mondo con un trionfo
della guerra degno della più cupa fantasia gotica; corpi non
meno sconvolgenti sono quelli perfetti, depilati ma donati e
robotìzzati che trionfano nelle performance di Vanessa
Beccroft.
Contraltare di tanta fisicità è il "Kawaii". In
giapponese significa carino, ma anche infantilizzazione della
società. Il carinoterribile è un elemento ricorrente. Anche
il più cattivo degli skater riempirà la sua tavoletta di
disegníni infantili, le sue strade di graffiti e andrà pazzo
per i manga. rimmagíne simbolo dei Kawaii è un gigantesco
ragazzo rosa dai capelli azzurri che si masturba con eleganza,
mentre lo sperma lanciato nello spazio diventa una barocca
voluta che lo circonda come un'aureola. Lopera è il
capolavoro di Takashi Murakami, il leader dei Kawaii pensiero.
Il punto forte di questa
estetica è il diario, l'autobiografia
Nel giugno passato Murakami ha invaso la Fondation Cartier di
Parigi con una mostra-manifesto che raccoglieva tutti gli
artisti a lui vicini. Un trionfo di neo-pop-culture, tanto
carina quanto dissacrante, basata interamente sulle anime
giapponesi. Il terzo punto forte della nuova estetica è
l'autobiografia, il diario, la poetica della cameretta. Il
nichilismo che si isola dal mondo e diventa autismo.
"Fuori tutti" gridava un profetico libro di
Einaudi-Stile Libero del '96 (autori Carlo Antonelli, Marco
Delogu e Fabio De Luca). Corale ritratto di "una
generazione in camera sua". "La cameretta è il
nucleo originale, l'isolamento da quel sistema ordinato che è
la casa dei genitori, paradígma dell'altro sistema più
ordinato e oppressivo, quello sociale", spiega il
curatore della mostra, Bonami: "Una bolla di libertà
dove, in assenza di ideologia e credo politico, è possibile
sperimentare in piena libertà l'ultimo, gesto che rimane, il
gesto estetico". resibízione della vita privata diventa
un futile atto di ribellione, un mero gesto provocatorio, un
prínùtivo richiamo tribale.
Il corpo con le sue
secrezioni è un perfetto oggetto d'arte
Nel '99 l'artista inglese Tracey Emin, fu candidata al Tumer
Prize grazie a "My Bed": un letto sfatto e sporco,
la sfacciata messa in scena della sua intimità. Non vince, ma
Charles Saatclìi paga 150 mila sterline per accaparrarsi
l'opera. E siamo all'ultimo punto: l'apoteosi di una cultura
nicliflista, autodìstruttiva, individualista, nata nelle
strade dei ghetti e nelle più claustrofobiche camerette, che
si trasforma in status symbol.
In mostra a Firenze vedremo anche le campagne pubblicitarie di
famosi fotografi con ragazzini in mutande e sguardo torvo,
ragazzine con apparecchi ai denti, creature androgine dai
capelli ossigenati. Vedremo l'estetica dello sfascio diventare
stile, poster, seconda e terza linea. Vedremo Diesel e Sisley
accanto alle foto di Columbine. E sospenderemo il giudizio.
Perché questa è la "Golden age of neglect". Ed è
appena cominciata.
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Gli
espressionisti a Roma
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Max Ernst a Roma |
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TRIESTE NELLA PSICOANALISI
VOLTI
Voci ma, accanto alle voci, anche i
volti di una stagione culturale irripetibile per
Trieste: quella de "gli anni della
psicanalisi", di cui lo scrittore Giorgio Voghera
è stato l'ultimo, nostalgico testimone ed efficace
evocatore.
Trieste è stata la città che vide soggiornare Freud,
giovane studente di medicina per la sua prima ricerca
, la città che diede i natali a Edoardo Weiss,
allievo diretto di Freud e fondatore del movimento
psicoanalitico italiano, la città in cui, con grande
anticipo rispetto al resto d'Italia, si praticarono
trattamenti freudiani e che assistette tra il 1920 e
il 1930 ad un infervorarsi quasi maniacale per tutto
quello che sapeva di psicoanalisi, la città infine in
cui l'intreccio tra psicoanalisi e letteratura e
psicoanalisi e arte è testimoniata dall'opera di
scrittori e artisti di riconosciuta grandezza.
Al problema dell'arte Freud aveva prestato sin
dall'inizio molta attenzione, avendo maturato la
convinzione che per la psicoanalisi "artisti e
poeti sono alleati preziosi", da prendere in
attenta considerazione nella loro testimonianza, per
il fatto che "nelle conoscenze dello spirito essi
sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché
attingono a fonti che non sono ancora state aperte
alla scienza".
L'interesse della psicoanalisi per le opere degli
artisti e dei poeti non poteva rimanere a senso unico,
ed in effetti molte avanguardie culturali, più o meno
in tutta Europa, reagirono abbastanza presto dinanzi
alle teorie di Freud, trasponendo, come nel caso del
surrealismo, con una sorta di presa in diretta,
l'inconscio nell'arte, oppure, passando agli
scrittori, lasciandosi più o meno influenzare, come,
tra i primi, Italo Svevo in "La coscienza di
Zeno" , dalle concezioni psicoanalitiche,
sviluppando però sottili ma non per questo meno
incisive resistenze.
Tra i poeti un caso a sé fu Umberto Saba. Esponente
di spicco di quella intellettualità ebraica triestina
che fu coinvolta dal "ciclone
psicoanalitico", Saba, incalzato sin da giovane
dalla nevrosi, decise, in seguito a una crisi
depressiva più forte delle altre, di entrare in
analisi alla fine degli anni venti con Edoardo Weiss.
L'esperienza dell' analisi costituì, a detta di Saba,
una svolta, oltre o più che nella sua vita, nella sua
poesia, che egli celebrò con la raccolta "Il
piccolo Berto", dedicandola a Weiss, per il cui
tramite egli aveva ritrovato in analisi il proprio Io
infantile.
Ma se Saba, tra i poeti, fu senz'altro uno dei primi
in Italia a sperimentare l'analisi, altrettanto
avvenne per un altro artista triestino, la cui vicenda
in rapporto a tale esperienza è molto meno nota ma
per questo non meno significativa. Si tratta del
pittore Arturo Nathan . Iniziò l'analisi con Weiss
alla fine del 1921, prima dunque di Saba, e la
concluse intorno al 1925. Per Nathan fu un'esperienza,
più risolutiva che per Saba, un' esperienza che anch'
egli registrò attraverso la sua arte. E quale
migliore sismografo degli stati della propria
interiorità per un pittore che ricorrere
all'autoritratto? Tra il 1923 e il 1926 Nathan si
cimentò in una serie di autoritatti di grande
suggestione, che testimoniano un percorso
progressivamente chiarificatore e liberatorio.
Dall'accostamento di queste due esperienze è nata
l'idea di questa mostra. Se molte voci di poeti e
scrittori triestini hanno infatti risuonato nel
descrivere, come protagonisti o interpreti indiretti,
la stagione de "gli anni della psicanalisi",
i volti, il versante cioè della contemporanea arte
figurativa triestina, è stato molto meno considerato
da questa particolare visuale. Si tratta di una
proposta di lettura che non intende naturalmente
escludere altre possibili.
La figura di Nathan e l'uso che ha fatto
dell'autoritratto, collegato alla sua analisi,
costuisce il filo conduttore della mostra, che è
composta essenzialmente di ritratti e di autoritratti.
Tre sono le sezioni. La prima dedicata agli scrittori
e artisti triestini protagonisti o testimoni della
stagione della psicoanalisi, raffigurati dai pittori
triestini loro contemporanei: Italo Svevo, Umberto
Saba, Virgiglio Giotti, Gianni Stuparich, Vittorio
Bolaffio, Ruggero Rovan, Marion Wulz. La seconda si
sofferma su una serie di autoritratti ,da cui si
evince come gli artisti triestini nei primi trent'anni
del secolo sono stati parecchio dediti a questo
genere, quasi a registrare problemi sottili di identità
a livello generazionale, in un periodo storico di
transizione e di grossi cambiamenti. La terza sezione
infine accosta Arturo Nathan, la coscienza più
sensibile e sofferta di ciò che si andava
drammaticamente preparando in quegli anni, a due
pittori i cui autoritratti rispecchiano aspetti che,
nell'autenticità della pittura di Nathan, hanno
trovato una integrazione e sublimazione: l'incombere
della follia e l'Io diviso di Vito Timmel, il falso sé
e la moltiplicazione ludica ed esteriore dell'identità,
secondo il modello pirandelliano dell'"uno,
nessuno, centomila", di Cesare Sofianopulo.
Anna Maria Accerboni Pavanello
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