Presentation   News Editorial    board   Archives    Links   Sections Submit a     paper Mail

FRENIS   zero   F m g m i s

Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

Mind Sciences, Philosophy, Psychotherapy and Creativeness

     EVENTS 2003

Di seguito diamo una breve rassegna di mostre d'arte del 2003 (ma anche del 2002) che ci hanno 'appassionatamente' interessato...

     Delirio a Trani   inaugurazione venerdì 14 novembre | 17.30 | castello svevo | trani (ba)
(da "EXIBART")

L'assurdo e l'immaginazione, le nevrosi e le evasioni, il fantastico e l'onirico, le fobie e le ossessioni. Lo spazio dell'io…il dentro e il fuori. Sono i temi di DELIRIO, manifestazione ideata e curata da Giusy Caroppo, che si terrà dal 14 novembre al 14 dicembre nel Castello Svevo di Trani (ba).
Ad interagire con le mura federiciane del Castello - inserito nel 'Circuito castelli di Puglia', tutelati e gestiti dalla Soprintendenza BAP - opere site specific, multimediali e interattive, pittura, scultura, fotografia e video di Giovanni Albanese, Olivo Barbieri, Matteo Basilè, Betty Bee, Christian Caliandro, Francesco Carone, Alessandro Ciulla, Coniglioviola, Maria Cristina Crespo, Dormice, Jan Fabre, Chiara Lampugnani, Daniela Montanari, Rafael Pareja Molina, Luigi Presicce, Rosy Rox, Roxy in the box, Francesca Scammacca, Uraken, Natalino Zullo.
Espressioni artistiche ed estrazione anagrafica e culturale differente, utili a chiarire linguaggi e psicologia dell'artista "visionario" del presente. L'io costringe il soggetto/oggetto artista a rifugiarsi in un mondo "altro", fantastico, onirico, allucinatorio; lo guida alla lucida follia che diviene mania, ossessione, istinto; l'assenza di remore morali e di attenzione alle convenzioni sociali è delirio, come delirante è l'artista ironico, poliedrico, dissacrante.
La mostra - che si avvale di serate a tema e conferenze - offre inoltre un coerente percorso didattico per adulti e ragazzi, ponendo gli artisti in reciproca relazione per ricerche concettuali, stilistiche o tecniche e si snoda per l'intero perimetro del castello, raccontandone storia e architettura, riportata all'antico splendore da un recente restauro.


    Kapoor a Napoli  MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE Piazza Museo, 19

da "EXIBART" di martedì 11 novembre 2003. Articolo di marco izzolino

La retrospettiva di Kapoor regala al pubblico italiano un inedito ed insolito lavoro rispetto a quello con cui l’artista angloindiano si è fatto conoscere sin’ora.
A differenza della precedente personale di Koons, l’esigenza museale d’una mostra retrospettiva si interseca col desiderio di Anish Kapoor (Bombay, 1954. Vive a Londra) di utilizzare le monumentali sale del Museo per una mostra a tema, in parte dedicata alla città. Il percorso della mostra, infatti, inizia (nella prima sala) “storicamente” da due opere classiche — due cavità/sculture-in-negativo, una all’interno di una parete e l’altra all’interno d’un blocco di marmo — ma “tematicamente” da un cubo traslucido, che ha il significativo titolo di Blood.
Il sangue è, infatti, il costante riferimento di questa mostra: come principio di vita, come colore della fisicità, come metafora dell’umano. Kapoor ha sistemato i suoi lavori in  maniera tale che, nella successione delle quattro sale e nel cortile, sia costruita una metafora del movimento sanguigno. Se esso è principio di movimento produce suono, se si ferma produce forma. Sarà un caso la scelta di questo tema per una città le cui sorti, secondo la credenza popolare, dipendono dallo scioglimento del sangue del Santo patrono?
La seconda sala presenta una gigantesca vasca (appositamente realizzata per la mostra, occupa quasi tutto lo spazio, da una parete all’altra) che contiene un liquido scuro. Una goccia zampilla di continuo da un piccolo foro sulla parete destra creando una scia di liquido rosso che ricade sul bordo della vasca e al suo interno. La ritmicità e la continuità del gocciolìo contrasta in maniera inaspettata con l’immobilita della superficie del liquido: le gocce cadono ma niente scìe, niente onde.
Dalla parete di sinistra fuoriesce un misterioso tubo bianco che, curvandosi, si rivolge verso la porta. La sua funzione si chiarisce nella sala successiva, la più grande, dove il tubo si trasforma in una cavità sulla parete destra, dalla quale è possibile sporgersi e osservare la proiezione ottica della vasca.
In questa stessa sala è presentata una serie di sculture concavo/convesse, alcune di metallo, altre di marmo rosa (color pelle). La loro particolare forma, sottilissimo ed evidente il richiamo al sesso femminile, rende impossibile definire quale sia la parte esterna e quella interna, definire il lato principale. La cosa ha provocato imbarazzi anche nell’artista al momento della collocazione delle opere.
Nell’ultima sala e nel cortile il flusso sanguigno si regolarizza trasformandosi in sculture circolari concave. Tre grandi dischi di metallo divengono dei collettori sonori multispecchianti; nel cortile, un liquido rosso scuro, forzato dalla struttura a pozzo in cui è contenuto, costruisce un menisco regolarmente semisferico.
Che la mostra piaccia oppure no, non le si può negare di aver suscitato ciò che Kapoor si aspettava — e che aveva preannunciato in conferenza stampa —: alcuni bambini si sono immersi nella grande vasca e molte persone hanno infilato il braccio nel liquido del pozzo. Tutti sono rimasti inesorabilmente macchiati di rosso, per più d’una settimana.






    "Grande testa tragica di Fautrier"  <<Nel passaggio dall'espressionismo all'informale,il corpo è in piena metamorfosi:una metà si ê già sfaldata, destrutturata.Quale immagine suggestiva della crisi schizofrenica!>> (G. Leo)

La creazione ansiosa a Verona <<Quest'opera di Margherita Manzelli (classe 1969) mi ha colpito per lo straniamento dello sguardo della giovane donna,in una postura che indica una mancanza di presa sulla realtå, una 'flexibilitas cerea' con cui il corpo,privo di 'spessore',segue il profilo del letto,quasi letto di Procuste,rigido patibolo coi suoi freddi riquadri geometrici>> (G. Leo)

LA CREAZIONE ANSIOSA DA PICASSO A BACON (estratto)
di Giorgio Cortenova
(dal catalogo della mostra edito da Marsilio)
Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea Palazzo Forti
Vicolo Due Mori, 4 (C.so Sant'Anastasia), Verona
Tel. 045 8001903 - Fax 045 8003524
E-mail: pforti.info@palazzoforti.com
Data: inaugurazione 12 settembre 2003
apertura al pubblico: 13 settembre 2003 - 11 gennaio 2004

 

.............................................

IV) Lo Sguardo

Siamo noi che andiamo incontro alle cose o sono loro che ci assalgono ed in ogni caso ci assediano? Sono io che procedo verso la loro formale presenza e verso il loro apparire, o sono invece loro, le cose, a venirmi incontro ostentando la loro ingannevole apparenza?
Ma, in ultima analisi, quale cammino dobbiamo compiere per presentarci all'incontro? E cosa incontreremo davvero? le cose, il fenomeno, l'essere? E quale sarà lo spazio o il "terreno" dell'incontro?
Il linguaggio è "il più pericoloso di tutti i beni", diceva Holderlin; ma al tempo stesso, quando approda alla poesia, esso rappresenta al tempo stesso "la più innocente di tutte le occupazioni". Il linguaggio, qualunque esso sia, nomina ed instaura un mondo, facendosi testimone dell'Essere, di ciò che nelle cose non è, di ciò che esse nascondono e che non può esser detto se non continuando a ridirle: ogni parola è di fatto un velo e insieme uno svelamento. Ecco perché il linguaggio è "pericoloso": lo è per il fatto stesso di sottolineare "la minaccia del non-essere che incombe sull'Essere - come afferma Heidegger - minaccia insita nella contemporaneità di un movimento duplice, che segna il darsi e il ritrarsi, lo svelarsi e il rivelarsi dell'essere".
Ma da quale punto di vista può venir detto invece "innocente", il linguaggio della poesia, o più in generale dell'arte? Forse perché esso è esente dal male? Perché non provoca e non ferisce? Certamente no. Al contrario.
Cosa vorrà allora dirci Holderlin con la sua tesi d'"innocenza"?
Prima ipotesi: il poeta intende riferirsi ad una sorta di "sovraesposizione" dell'arte, in ciò del tutto simile a quella che caratterizza il gioco nell'infanzia. Ma non è argomento del tutto pertinente, ed è lo stesso Holderlin ad insistere affinché non si confonda gioco ed innocenza. No, il gioco è tutt'altro che innocente e si sviluppa peraltro sul confine della vertigine, là dove l'orlo del "puteus" (pozzo) kantiano si spalanca sul baratro della notte.
Seconda ipotesi: l'innocenza cui si riferisce è del tutto simile alla deduzione che ne trae Shiller, vale a dire che si tratta di un ritorno al "naturale", laddove i sentimenti scorrono in sintonia con la natura. Un po' meglio, ma non ci siamo ancora. E non ci saremo probabilmente mai, finché "pericolosità" ed "innocenza" non vengano declinati insieme, come entità tra loro strettamente connesse.
Credo che più degli altri accosti il nocciolo del problema Maurice Blanchot: secondo lo studioso francese Heidegger stesso, avvicinandoosi alla poesia di Holderlin, non si avvede come in essa, affinchè sia ancora possibile un dire, sia proprio il soggetto a dover venire meno, a dover retrocedere non per "prendere" ma per "perdere" la distanza. Paradossale fin che si vuole, ma l'ipotesi ha una sua pertinenza al problema. (16)
Cosa più "innocente" di quei giochi "armati", omicidi e suicidi insieme, nelle spiagge adriatiche di Leonardo Cremonini, che pure ci mettono in trappola e pericolosamente ci coinvolgono? Perché appare così minaccioso il gioco erotico delle cose negli innocenti arredi dei suoi alberghi parigini? Perchè la visione "oggettiva" di Shad, o quella "oppressiva" di Domenico Gnoli, o quella candida di de Andrea, quando ci restituisce il dolce sonno di una nuda fanciulla, o l'olimpica solitudine femminile delle donne di Valloton, introducono di fatto il cortocircuito del brivido, la dissonanza di una visione che fa vacillare il già precario equilibrio del soggetto?
Eccoci al punto: se "innocente" può essere detto, credo che il linguaggio lo sia perché in esso affiora, nascosta tra le pieghe delle parole non dette, la sua potenziale pericolosità; ma se "pericoloso" può al tempo stesso essere definito, ritengo che ciò dipenda dal fatto che esso vela e disvela il dover venir meno del soggetto: il brivido della perdita.
Noi andiamo verso le cose e c'inoltriamo nella girandola delle loro apparenze, ma in realtà sono loro che ci vengono incontro e che ci assediano. Noi possiamo forse ritenere di circondarle, di analizzarle, nominarle e saperle, ma sono loro a perseguitarci e a sfuggire, ad esserci nell'assenza: a sottolinearci, attraverso la loro, la nostra angosciante dispersione.
Un velo, questa volta drammatico, cade sullo sguardo che, attonito, non ritorna su se stesso ma si acceca nell'assurdità della visione presente o nella malinconia dell'enigma inestricabile. Il sentimento dell'essere piomba sugli uomini come un brivido di paura, come l'ombra delle cose che cade sul soggetto oscurandolo. Proprio così: anche il modo in cui il poeta tratteggiato da Heidegger si trova aperto al mondo "è attraversato da un sentimento, un umore, un tono di perdita - osserva Sossi - e la presenza è attraversata dall'assenza". (17)
Non diversamente avviene l'incontro dell'Andrea di Ugo von Hofmannsthal con il personaggio femminile che gli s'avvicina scalza, le trecce sciolte sulle spalle desiderabili, come fosse appena saltata giù dal letto: " Ella non si accostava e nemmeno lo sfuggiva, gli era tanto vicina come fosse dentro di lui, eppure sembrava che non lo vedesse nemmeno.
Ad ogni modo non lo guardava; anche lui non fece nulla per avvicinarsi. Dalla bocca di lei voleva uscire una parola, dai suoi occhi le lacrime. Tirava di continuo la sua catenina d'argento, come volesse strozzarsi, e così si sottraeva del tutto a lui; il dolore pareva giocasse con lei in modo da non farle sentire neppure la vicinanza di Andrea. Infine la catena si ruppe, un pezzo le scivolò nello scollo della camicia, l'altro le rimase in mano. Questo lo premette sul dorso della mano di Andrea, la sua bocca tremò come ne dovesse uscire un grido e non potesse, si piegò verso di lui, la sua bocca che era umida e tremante baciò quella di lui - ed era fuggita". (18)
Hofmannsthal non dice "e fuggì", oppure "e subito sparì" o qualcosa del genere, che potesse porre il bacio al riparo da una possibile assenza. Come un lampo, che scompare piombando nella sua stessa luce, così la giovane della catenina "era fuggita" nel momento stesso in cui l'incontro si compie. Appunto era sparita, era già sparita: incontrava Andrea nella sparizione.
Ma c'è dell'altro. Infatti il linguaggio, sia esso delle parole, dei segni, dei gesti o dei suoni, anziché contraddistinguere un principio di conoscenza, avvicinamento, appartenenza, presenza o partecipazione, sottolinea un principio di scollamento, fuga ed assenza. Esso piomba come una barriera, dolorosa ed impenetrabile, a contrassegnare l'isola moderna cui approda il vascello boekliniano o le rive problematiche da cui sogna improbabili rotte l'Ulisse dechirichiano.
Da molti anni non parlo e non scrivo di Arthur C. Clarke, ma qui non è proprio il caso di tralasciarne la traccia. Clarke è tra l'altro autore di un racconto fantascientifico riferito ad un'immaginaria comunità di monaci tibetani intenzionati a compilare la lista di tutti i possibili nomi di Dio. Da ormai tre secoli la comunità si dedicava al quel compito, ma neppure altre dieci generazioni sarebbero riuscite a completare l'opera! (19)
Caso voleva che una vicina comunità fosse protagonista di straordinari progressi scientifici, conoscitivi e tecnologici. Si decise dunque di contattarli e d'ingaggiare un gruppo di tecnici e di scienziati in grado di condurre in porto l'impresa in tempi brevi. Questi giunsero armati di ogni cosa, cervelli elettronici ed altro ancora. La squadra si mise presto al lavoro, elaborò dati, "una settimana dopo l'altra la macchina di tipo 5 modificata aveva coperto migliaia di fogli di un incredibile volapuk. Paziente ed inesorabile la calcolatrice aveva a aggregato le lettere dell'alfabeto tibetano in tutte le possibili combinazioni, esaurendo una serie dopo l'altra. I monaci ritagliavano certe parole appena uscite dalla macchina da scrivere elettrica e le incollavano con devozione in enormi registri. Entro una settimana avrebbero finito".
Condotta a termine l'impresa, altro non rimase da fare che avviarsi sulla via del ritorno, con grande sollievo ma non senza oscure apprensioni: fu allora che, guardando in alto, si videro le stelle e i pianeti spegnersi una ad una, inesorabilmente assorbite nella lavagna spugnosa del cielo.
Lacan sostiene che non siamo noi a guardare le cose, sono invece loro che ci guardano. Il soggetto perde il dominio del mondo e, anziché coordinarlo attraverso parametri logici, viene coinvolto in un gioco di presenze-assenze, in un turbinio di luci e spugnose opacità.
Anche qui, agli esordi del fenomeno, si ripropone il tema dello specchiamento. Davanti allo specchio c'è adesso l'uomo di tutti i giorni, c'è il corpo in quanto tale, che viene però "assalito" dall'esperienza stessa dello sguardo.
"Questo corpo di cui si tratta, si tratta di accorgerci che non ci è dato in modo puro e semplice nel nostro specchio, - afferma Lacan - che anche in questa esperienza dello specchio può capitare un momento in cui questa immagine, questa immagine speculare che crediamo di controllare (tenir) si modifica". Di fronte a noi abbiamo la nostra statura, la nostra carnagione, mani, capelli, braccia. Ma ci troviamo davanti anche o soprattutto il nostro sguardo, la sua complessa dimensione: "…il valore dell'immagine comincia allora a cambiare - continua Lacan - soprattutto se c'è un momento in cui questo sguardo che appare nello specchio comincia a non guardare più noi stessi, initium, aura, aurora di un sentimento di estraneità, che è la porta aperta sull'angoscia". (20)
Lo sguardo si presenta dunque come una dimensione autonoma, che non combacia con il soggetto, cosicchè l'immagine non è più sottoposta al suo dominio, ma si rivela come un'entità che egli non può controllare. L'occhio non "tiene" più il mondo delle cose; essendoci stato per così dire sottratto, esso ci svela la nostra perdita di centralità e di autonomia. Adesso le cose ci stanno attorno, e a sua volta l'immagine stessa del nostro corpo ci appare estranea a noi stessi e si frantuma.
Ma se l'esperienza dello specchio ci restituisce un soggetto diverso, che non è più lui, anche il mondo delle cose subisce una significativa trasformazione. La faccenda si complica. Il soggetto ha perso lo sguardo, ha perso il dominio sulle cose, e fin qui ci siamo. Ma come sono adesso queste cose? "Le cose che mi guardano non sono le cose come abitualmente io le vedo: - ci suggerisce a tale proposito Graziella Berto - non oggetti situabili in uno spazio esterno, ma punti luminosi, come quell'insignificante scatola di sardine galleggiante sull'acqua, al sole, che, da volgare scarto della civiltà industriale, si trasforma improvvisamente, per Lacan, in sguardo inquietante". (21)
Le cose sono diventate ormai un "luccichio", uno "sfavillio". Da parte mia suggerisco d'immaginare la palpitazione luminosa delle lucciole. In ogni caso, questo sfavillio, questo "gioco di luce e opacità" si delinea come un tormentoso eccesso, si mostra troppo e altrettanto velocemente si sottrae: troppo vicino per poterlo mettere a fuoco e insieme troppo lontano per essere afferrato.
Di nuovo ebbrezza e dolore, attrazione e repulsione, che incidono sia sulle cose che sul soggetto. Questo viene per così dire attraversato dallo sguardo delle cose, cosicchè, rivolgendo a se stesso il proprio sguardo, da un lato si rende ancor più conto di essere "altrove" rispetto all'immagine con cui s'identificava e "al discorso con cui si definiva", da un altro lato viene attirato da ciò che è normalmente nascosto dalle rappresentazioni delle cose, affascinato da un'esteriorità che adesso lo illude di fargli vedere qualcosa di più di quanto normalmente egli veda. Ma i corpi sono ormai vuoti e l'appuntamento è improponibile.
Proviamo ad immaginarci una coppa. Infatti, anziché coordinare il mondo esteriore, l'occhio si presenta adesso come una "coppa". Esso non è più un luogo da cui la luce s'irradia, ma un "contenitore" traboccante, colmo fino all'eccesso, che da questo eccesso deve perfino difendersi. Lacan lo dice con chiarezza: "indubbiamente la luce si propaga in linea retta, ma si rifrange, si diffonde, inonda, riempie - non dimentichiamo quella coppa che è il nostro occhio - trabocca anche, e rende necessaria, attorno alla coppa oculare, tutta una serie di organi, di apparati, di difese". Ed ancora: " Ciò che è luce mi guarda, e grazie a questa luce in fondo al mio occhio si dipinge qualcosa - che non è affatto soltanto il rapporto costruito, l'oggetto su cui si attarda il filosofo - ma è impressione, scintillio di una superficie che non è, in anticipo, situata per me nella sua distanza". (22)
Lo spazio perde qualsivoglia ordine organizzato, per divenire invece un groviglio di scintille, lampeggiamenti, improvvise accensioni, tali, in ogni caso, da frastornare e disorientare il soggetto. Resta il fatto che i miei occhi, nel momento stesso in cui vedono le cose, non possono vedere le cose che li guardano: quel loro sfavillio e quel loro scintillare incessante non sono catturabili da quegli occhi che, impegnati a vederle, non possono delimitarne e definirne l'immagine. Ma se, epifanico nella sua estraneità, questo sguardo affiorasse? "si è visto, con Lacan, il carattere inquietante di tale evento - ci suggerisce ancora una volta Graziella Berto - il suo coincidere con una trasformazione globale delle cose e del rapporto con esse", e lo si è visto proprio a partire dall'iniziale esperienza dello specchiamento, di quell'immagine speculare che sfuggiva nel momento stesso "in cui si profilava in essa la dimensione dello sguardo". (23)
"Tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che invece è affiorato": così Schelling a proposito del'Unheimliche, del "perturbante" (24). Resta da vedere perché lo sguardo delle cose dovrebbe restare nascosto, perché abitualmente rimane in simile condizione. Immediata, per Lacan, la risposta: per via della coscienza. Su quale altro presupposto, su quale piattaforma, se non sul nascondimento di quello sguardo, la coscienza si sarebbe costituita e si manterrebbe in vita?
Ed ecco svelato anche l'identità del filosofo che si "attarda" a costruire rapporti e relazioni. E' Cartesio. Ma, al di là di Cartesio stesso, è tutto il sistema organizzativo-prospettico ad entrare in crisi sotto i colpi destrutturanti di Lacan. Egli peraltro non vede differenze tra il filosofo del "cogito", la sua concezione del soggetto e le convinzioni dell'ottica prospettica, che definisce "geometrale". Il soggetto cartesiano è anch'esso "una sorta di punto geometrale, di punto di prospettiva".
Una volta ridotto a "res cogitans", il soggetto si trova collocato nel punto in cui le linee rette, provenienti dall'oggetto, s'incontrano per definire e costruire l'immagine. Con cosa coincide dunque, questa visione, se non con un oggetto pensato, che va costruendosi all'interno di una griglia spaziale geometrica, determinata dagli assi cartesiani? Ma sarà proprio questa la "realtà così com'è", ordinata, stabile, misurabile? O invece questa "realtà" nasce dalla paradossale rinuncia di "quel che è proprio della visione"?
Quest'ottica, afferma Lacan, "è alla portata dei ciechi" (25). Ma non è meno "combattivo" Merlau-Ponty. Secondo lui la "dioptrique" cartesiana assomiglia al "breviario" di un pensiero che si rifiuti o abbia rinunciato ad "abitare il visibile" e decida perciò di ricostruirlo secondo uno schema, un modello che va creandosi per sé. (26)
Si tratta insomma di scegliere: o si "abita il visibile", cioè si convive con quella densità, quello spessore, quello sfavillio della luce pronto a svanire nel buio, oppure lo si riduce alla linea retta con cui la luce stessa si propaga. Ma in tal caso non avremo certo la realtà "così com'è", ma qualcosa che non ha bisogno di essere vista per essere pensata. L'ottica geometrica si avvale cioè di un inganno o di un trucco sottile e nascosto, che le permette di annullare ciò che è pertinente alla visione, cioè la luce, riducendola alla linearità razionale.

A seguire Cartesio, insomma, il vedere ha poca importanza, ma è invece fondamentale pensare lo spazio geometrico in cui le cose vanno collocandosi. La luce, quella vera è adesso tutta racchiusa nello spirito.
Un simile spazio non è allarmante finchè non si abbia sentore che esso appartiene alla "cecità", o meglio ancora finchè non affiori la consapevolezza che esso è di fatto alienato dalla vita e dall'emozione che le appartiene. Finchè è credibile come "contenitore" di cose viste, tutto può continuare a funzionare; ma quando insorga la convinzione che lo stesso sia pertinente solo alle cose pensate, allora, come una fenditura che attraversa l'anima e il corpo, esso appare alienato e dalle profondità dell'anima si fà strada l'ipotesi angosciante della lontananza e della distorsione.
Si comprende allora che l'occhio del corpo è stato sostituito dall'occhio della mente; che, a cominciare da Platone, la tradizione filosofica ha lavorato a catturare l'inquieta e conturbante turbolenza dello sguardo nei parametri dell'idea e nella sua forma. Ma lo sguardo è "out", messo al bando come un elemento dalle conseguenze pericolose e perfino devastanti.
Meglio, molto meglio la rassicurante visione della mente, il "geometrale" controllo dello spazio! Qui nulla pare macchiarsi di ombre e di pericolose impurità, nulla rimane nelle pieghe ansiose della materia. Molto meglio riparare nelle maglie tranquillizzanti dell'apparenza, piuttosto che navigare nella notte spugnosa dei lampeggiamenti, nei brividi e nelle luminescenze del reale!
Ma dove potremo dunque incontrare "la cosa in sé" ? Essa non risiede negli spazi depurati dell'Idea, nella sua "geometrale" costruzione, che anzi lì si spegne e svanisce; ma non è rintracciabile nemmeno nelle imperfezioni del sensibile, nella turbolenza sfuggente della realtà. Il nostro sguardo s'insinua piuttosto all'intersezione tra il caos delle cose, la loro inafferrabile presenza e le correzioni che l'occhio o la coscienza impone. Su quella soglia, nel brivido dell'assenza, e nell'angoscia di una pienezza carica di frammentazioni, il soggetto contempla l'irriducibile "alterità" dell'oggetto. E così facendo si avvede del proprio, drammatico "spaesamento".
L'arte del XX secolo non è generalmente gradita. Il pubblico intrattiene con essa un rapporto di morbosa curiosità, di ammorbato coinvolgimento, che però risulta al tempo stesso inspiegabile; oppure vi si oppone con un rifiuto sordo ed ostinato, muto e perfino rancoroso. Il più delle volte i visitatori delle mostre, i frequentatori dei concerti, i rari lettori di poesia convivono con un duplice sentimento d'attrazione e repulsione, di fascinazione e tormento. Infatti mai, come nel nostro tempo, l'arte non gratifica attraverso le forme, anzi, non gratifica in nessun modo: se per gratificare s'intende il fatto di ammorbidire i problemi, di catturarli in una scatola magica che ci faccia sentire "a casa nostra".
Il compito di farci sentire "a casa nostra", che caratterizzava ieri la cultura rinascimentale cartesiana, appartiene oggi alla pubblicità, ai sistemi di comunicazione di massa, ai circuiti d'aggregazione sociale a fine politico e consumistico. Fatto sta che l'Essere s'identifica con il "non essere a casa propria" : e l'arte moderna te lo dice in faccia, te lo sciorina con terrificante evidenza. E più ancora te lo sottolinea quanto più si attiene all'oggetto nel senso rappresentativo del termine, secondo, cioè, quelle tipologie "figurative" che sono consuete ed appartengono alla tradizione. Proprio in quel caso, proprio in quell'evidenza formale è ancor più esplicito l'artificio della costruzione, l'inganno di un'apparenza che ci segnala l'assenza.
In altre parole, e per una conturbante contraddizione, risulta tanto evanescente, improbabile, improponibile, la forma "conclusa" di una figura di Schad o Cremonini o Cagnaccio di San Pietro o de Chirico o De Andrea o Vanessa Beekrof, per fare solo qualche esempio, quanto l'informe materico di un Burri e di un un Fautrier, o le distorsioni dell'immagine di Giacometti, Bacon, Marini, MacGarrell, Richier, Baselitz e via dicendo.
E' peraltro la consapevolezza e lo "sbandieramento" di questa contraddizione forte, che emerge nell'evidenza della forma, a costituire il tormentato territorio espressivo di artisti come Shad o Cagnaccio. Con la loro costruzione cartesiana e la "cieca" immagine della mente essi sottolineano, con il "pieno", il vuoto di un'ingannevole "casa nostra". Nulla, in verità, che lasci presagire l'angoscia, in quelle immagini di cipria, di belletti che s'incupiscono anche nella "rotondità" della luce e dagli spazi emergenti tra il galleggiare delle cose stesse. Eppure, è proprio l'angoscia che essi fanno emergere come conseguenza di un rifugio che si mostra infranto, ingannevole e dissestato, e che essi hanno il coraggio di svelare.
Adesso affiora, prepotente, la convinzione che, come afferma Hidegger, " l'essere-nel-mondo tranquillizzato e intimo al mondo, è un modo dello spaesamento dell'Esserci e non il contrario. Dal punto di vista ontologico-esistenziale, il non sentirsi a casa propria deve essere concepito come il fenomeno originario". (27)
Il soggetto stesso si rende dunque conto di non attraversare una qualsivoglia fase di spaesamento, ma di esservi radicato indissolubilmente. Non si tratta di scoprire che la casa in cui si abita non è la propria, la qual cosa è pertinente al problema solo in superficie, ma di trovarsi di fronte alla manifestazione tangibile dell'estraneità del "proprio". Se credevamo di poter possedere, raggiungere, costruire una "nostra casa", ebbene, eccoci serviti.
A livello esistenziale, infatti, non è concepibile, se non attraverso un auto-inganno, che lo spaesamento si risolva nel ritrovamento di una casa questa volta autentica, e davvero in grado di rasserenare, rispetto a quella dimostratasi tanto seducente quanto ingannevole. Ormai dovrebbe essere chiaro che la ricerca di questa nuova dimora rappresenta, di per sé, l'ennesimo annuncio di uno spazio a sua volta non rassicurante. Andiamo ad abitarla, dice Heidegger, e non ci sentiremo certo a casa nostra.
Da qui l'angoscia: l'essere in quanto "essere spaesato"; ma non solo: essere posseduti e non possedere; ma infine: vivere in un simile stato di precarietà senza percepirne la provenienza, senza poter individuare da dove e da cosa esso provenga. In ciò l'angoscia rappresenta il concretizzarsi in profondità dello stato psichico dell'ansia e al tempo stesso si distingue nettamente dalla paura.
La differenza ancora una volta si va definendo a partire da ciò che "dal di fuori" ci viene incontro, ci attraversa o ci assedia. Mentre la paura è rivolta a qualcosa d'identificabile e di determinato - una cosa, una persona, un'immagine, un evento, ma quello e non altri, cui dunque si può porre riparo o da cui si può fuggire - l'angoscia è invece inscritta nell'indeterminatezza, nell'enigmatico, sia negli spazi "geometrali" ma alienati, cari a Cartesio, sia nella notte "spugnosa" da cui le cose lampeggiano disordinatamente.
Non è né qui né là. E' niente. Ma dire niente non è dire poca cosa. Quando il momento dell'angoscia è passato, tutti sosteniamo che in realtà di nulla si trattava, cogliendo così al volo un modo per neutralizzare in forma semplice qualcosa che non riusciamo a com-prendere e a rappresentare, perché troppo lontana o troppo "a fuoco", troppo vicina a noi. Ma quel niente, in realtà, pesa come un macigno e ci avvolge da ogni parte. Ci possiede.
Se tuttavia il niente è qualcosa d'indeterminato e d'instabile, che non si concretizza in nulla di definito, ciò premesso, non si tratterà allora di una "mancanza", di un "vuoto" ? Non è così. Questo "niente", anziché evanescenza, si disvela come "differenza" . E l'angoscia altro non è che l'unico stato d'animo che, come dice Heidegger, è in grado di condurci "davanti al niente stesso", davanti alla nostra stessa libertà di attingere l'originario spaesamento del nostro stesso essere. Che "ci opprime e ci mozza il fiato". (28)

     Vanessa Beecroft a Rivoli (TO)
RIVOLI
CON UNA PERFORMANCE DI MODELLE E NOBILDONNE SI APRE AL CASTELLO DI RIVOLI LA RETROSPETTIVA

Il pasto nudo di Vanessa Beecroft
Dal bianco delle mozzarelle all’arancione dei cachi, un banchetto classico introduce alle ossessioni e ai riti dell’artista italiana diventata in pochi anni una star del mercato internazionale
di Rocco Moliterni
(da "La Stampa" del
8 ottobre 2003)

Il pasto nudo
Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli
Orario: da martedì a giovedì, dalle 10 alle 17 e venerdì sabato e domenica dalle 10 alle 22
Fino al 25 gennaio
Informazioni al numero 011.9565280 e al sito
http://www.castellodirivoli.org/

C’è un lungo tavolo di cristallo con 32 donne sedute su altrettanti sgabelli trasparenti. Alcune hanno abiti beige e parrucche grigie, altre sono vestite di camicie verdi o tuniche ciclamino, altre ancora hanno parrucche rosse e sono nude. Ieratici camerieri servono portate rigorosamente monocrome: bianchi sono i paccheri di Gragnano al burro come i cavolfiori e le mozzarelline, il latte e il puré con cui si inizia, arancioni sono le zucche e le carote, i cachi e i meloni con cui si finisce. È questa la lunghissima performance che ha accompagnato ieri (e sarà replicata oggi) al Castello di Rivoli la presentazione della personale che il museo d’arte contemporanea, per la cura di Marcella Beccaria, dedica a Vanessa Beecroft.

Jeans e maglietta nera, tatuaggio su una spalla e macchina fotografica in mano la Beecroft si muove attorno al lungo tavolo prima delle riprese: ora sistema una parrucca ora dà consigli sulla postura. Del banchetto si farà un video, oltre a fotografie che andranno a illustrare il lungo corpus (siamo a quota 52 in dieci anni) delle perfomance dell’artista genovese di nascita e newyorchese di adozione, ormai un star del mercato internazionale. «Il mio intento in questo caso - spiega - è di realizzare un banchetto classico, un’immagine evocativa come una cena durante una mostra retrospettiva e studiare la reazione al cibo e gli impulsi di questo gruppo eterogeneo che non ha limiti di età o di misura». Tra le commensali, oltre alle otto giovani modelle nude, ci sono infatti tanto donne appartenenti all’aristocrazia e al mondo torinese vicino al Castello, quanto «veterane» che hanno partecipato a precedenti perfomance, legate da rapporti di parentela o di amicizia all’artista. «Alle donne - dice ancora - viene sottoposta una successione interminabile di portate, senza un ordine preciso, divise per colore, alle quali esse possono accedere a seconda della loro discrezione, non come in un pasto convenzionale. Gli “impulsi” e non le regole, scandiscono questo banchetto: c’è chi mangia e chi non mangia. Paragono questa funzione pubblica all’intimità di un rito privato o alla nudità esposta in pubblico».

Si pensa a una situazione buñueliana, anche perché i riferimenti cinematografici costellano le perfomance della Beecroft, ma in questo caso il mangiare è anche un ritorno alle origini: il suo primo lavoro, appena uscita dall’Accademia di Brera nel 1993, si chiamava Il libro del cibo e raccoglieva gli elenchi degli alimenti che la Beecroft aveva ingerito giorno per giorno dal 1983. Per quella prima performance aveva chiamato le compagne di accademia, «avevo notato, camminando nei corridoi di Brera, la presenza di ragazze speciali, che rassomigliavano alle figure dei dipinti di Piero della Francesca, a quelle dei film di Godard o alle modelle di Vogue, ma avevano un’espressione che mi ricordava quella delle sante nelle pitture, dove portano sempre un oggetto che le identifica o rappresenta il loro martirio. Queste ragazze a Brera camminavano con mele in tasca o thermos di tisane ed erano troppo alte o troppo magre o troppo colorate». E questo è il mondo che ritroveremo in quasi tutte le perfomance successive: l’ossessione, comune a una generazione che ha fatto i conti di volta in volta con anoressia e bulimia, per il corpo femminile nudo («ho constatato che quanto più cerco di rendere l’immagine pura e minimalista tanto più questa diventa feticistica»), i riferimenti alla pittura classica e al cinema, il glamour di certe riviste patinate.

Ci sono qua e là anche incursioni nel mondo della «politica»: per il G8 la Beecroft torna a Genova e realizza una performance che fa scandalo nello stesso palazzo e nella stessa sala dove sarebbero stati a colloquio i capi di Stato: protagoniste prostitute nere prese nella zona del porto ed esibite con esili tanga e sottili reggiseni. Del 1999 è invece VB39, con i marines del corpo speciale Us Navy Seals, creato da Kennedy agli albori della guerra del Vietnam: in mostra ci sono quattro immagini contrapposte, due in cui i marines «annegano» nel bianco e due in cui si perdono nel nero.

La dicotomia bianco e nero ritorna nelle immagini scattate nel palazzo Ferrania di Roma. Modelle bianche saranno protagoniste della perfomance negli studi hollywoodiani della Universal, modelle nere di quella nel palazzo di Oscar Niemeyer per la biennale di San Paolo: le ritroviamo nelle gigantografie esposte tra gli stucchi barocchi di Rivoli.
Alla pittura preraffaellita si ispirava invece la VB43, in cui in un ambiente algido si muovevano modelle per lo più efebiche dai lunghi boccoli rossi (il mondo di Twiggy e quello di Elsabetta I a braccetto). Sembrano affreschi, grazie a una nuova tecnica di riproduzione murale, sulle pareti di quella che è forse la stanza più affascinante della mostra. Per rompere il ghiaccio di queste modelle «irreali» è molto utile la stanza delle polaroid, dove di alcune performance si vede il backstage: ragazze in collant o maglioncino che aspettano di essere fotografate, amiche con le parrucche che sorridono, marinai americani che fanno le boccacce.

É un peccato che in mostra non ci siano i disegni che la Beecroft per un certo periodo realizzava prima delle performance: sottili silhouette (ad Arco Fiera di Madrid le proponeva una galleria svizzera) in cui il corpo femminile veniva accennato con una grazia distante dalla violenza delle immagini che hanno poi preso il sopravvento. Oggi comunque la Beecroft sembra più indirizzata a sondare il mondo delle tradizioni e dell’aristocrazia: prima di Rivoli ha portato il suo sguardo in un castello tedesco e ha ripreso nobildonne ed attrici tra le quali Hanna Schygulla, indimenticata icona del cinema fassbinderiano.
              Sacher-Masoch a Graz
Araki

Phantom der Lust, Phantom of Desire

Nobuyoshi Araki
"Untitled" (from the "Bondage" series), 1996/97

C-Print, 60 x 48 cm
Collection Clo et Marcel Fleiss, Paris
SACHER-MASOCH FESTIVAL GRAZ 2003
Ein Projekt im Rahmen von Graz 2003 - Kulturhauptstadt Europas.
In co-operation with Graz 2003 – Cultural Capital of Europe.
Opening: Friday, 25th April
Duration: April 26th - August 24th 2003
Opening hours: Tue-Sun 10am - 6pm, Thu 10am - 8pm

Curator: Peter Weibel
Co-Curators: Michael Farin, Christa Steinle, Elisabeth Fiedler
Assistance of Curator: Peter Peer, Anke Orgel

Exhibition architectur: Manfred Wolff-Plottegg

Exhibiton Catalogue

"Phantom of Desire. Visions of Masochism in Art", Peter Weibel, editor
2 volumes, 992 pages, numerous illustrations, belleville publishers, Munich 2003
ISBN 3-936298-24-6, exhibition-shop: Euro 48.- / book-trade: Euro 58.-
Two classics from literature, “Venus in Fur” (1869) and “Psychopathia sexualis” (1886) are directly linked to Graz. The novel “Venus in Furs” is seen as a prototype for the writings of Leopold von Sacher-Masoch and his wife Wanda, as well as for masochistic phantasies in general. Although Sacher-Masoch as a person has fallen almost into oblivion, his work has gained a lasting effect. Based upon Sacher-Masoch's novel Richard Freiherr von Krafft-Ebing, the Grazer physician (1840-1902), coined the term “masochism” in his medical standard work “Psychopathia Sexualis” (1886) as the description of a sexual disposition combining pain and lust. Since then masochism has become the subject of many analysises and studies in film, literature, philosophy, music and the fine arts which reflect this phenomenon in its manifold socio-historical contexts.

On the basis of these facts, a history of sexuality in the arts has been conceived in the form of an exhibition that follows Sacher-Masoch's influence from the end of the nineteenth century till the present. The exhibition should reflect artistic acceptability, namely how the social, political and psycho-analytical implications of masochism were received in the art world: The masochistic body, the profile of the cruel woman, dominant relationships and masochism as the explicit thematisation of power in relationships, fetish and ritual as important elements of setting a masochistic scene and masochism as a psychologically-defining category of, amongst other things, femininity. Here, art is based on the visual aspect, more exactly the visual representation of masochism. The visual representation does not only mean representation of matters sexual, but rather the whole complex of punishment and resistance, controller and victim, immersion and inversion and lust and harm should be illuminated.

Nicole Tran Ba Vang

       Frida Kahlo a Milano

 

  Musica per organi caldi a Udine 
Da "Exibart" di giovedì 13 novembre 2003
<<Musica per organi caldi è il titolo della collettiva. Il nome, da un celebre libro di Charles Bukowski, promette trasgressioni di ogni genere, in una cornice propizia ad attirare la curiosità dello spettatore: una tenda rossa che cela le opere dagli sguardi esterni e l’ingresso severamente vietato ai minori di anni 18.
Le foto si alternano alla pittura ed alla scultura per una rassegna di opere di artisti internazionali. Ad iniziare dall’americano David LaChapelle, ritrattista delle star e autore di videoclip di molti celebri cantanti, che qui espone tre foto dai colori carichi ed eccessivi, tali da sottolineare l’inverosimiglianza delle situazioni rappresentate. Una  Barbie nella sua leziosa cameretta che spara colpi di pistola ad un volto gigantesco. Un’infermiera che mostra i resti sanguinolenti di una faccia maschile. Infine, la prosperosa paziente di un ginecologo colta nell’attimo prima di utilizzare un fallo d’acciaio… Situazioni e personaggi estremi che fanno eco alle opere di Andres Serrano, con la sua History of sex o campionario fotografico della trasgressione.
Richard Kern  mostra, invece, due interni domestici dove donne insospettabili rivelano la loro sessualità prorompente. Dalla crudezza di Anna on floor with ropes si passa all’eros sottile di Roy Stuart: Kaori in due momenti d’intimità, la bellezza assoluta del corpo ancora acerbo, adolescente.
La pittura si rivela non meno trasgressiva: l’orsetto del duo Dubossarky&Vinogradov approfitta, da tergo, di una Barbie compiacente dall’aria più che soddisfatta, mentre la violenza si avvicenda al sesso estremo nella tela fantasiosa del canadese François Escalmel.
Il mezzo busto in poliestere è firmato Gaetano Bodanza che, accanto a questo lavoro espone anche una sua opera storica, una sorta di gigantesco sado-maso dove una donna bestiale si fa domare da un uomo truce e muscoloso. Pittura anche per il secondo artista friulano presente nella rassegna, Walter Bortolossi, che propone, in quest’occasione, un carosello di corpi danzanti in atto di sperimentare le varie posizioni del kamasutra.
L’itinerario erotico si conclude con le sculture del trentacinquenne Paolo Cassarà, due ardite terracotte policrome che danno corpo all’ideale moderno della donna. Anoressica e disinibita, pronta a rendersi strumento del proprio piacere.>>

  Skin deep a Rovereto (TN)
da "exibart" di venerdì 5 dicembre 2003
<<Il percorso inizia con una serie di ritratti degli abitanti della Nuova Guinea del reporter Malcolm Kirk, voluti dal curatore Luigi Meneghelli per sottolineare l’idea di un rapporto col corpo che l’uomo occidentale ha subito dimenticato, che l’arte del Ventesimo secolo ha recuperato e reinterpretato, e che la realtà virtuale sta nuovamente modificando.
Nell’arte la coscienza di una pelle come forte confine di scambio con l’esterno si sviluppa infatti nei primissimi anni Sessanta contemporaneamente in diversi ambienti artistici, esprimendo il risultato di un sentire comune ormai maturo e permettendo di usare il proprio corpo come strumento per dipingere senza bisogno della mediazione di oggetti. In Italia Piero Manzoni crea le Uova con impronta, il cui guscio rimanda simbolicamente alla pelle, allo stesso modo dura, ma fragile. Nello stesso anno Yves Klein realizza le Antropometrie, dipingendo corpi femminili di blu e riportando col contatto le loro forme sulla carta. E’ esposto poi un olio su tela del ’61 Kazuo Shiraga, esponente del gruppo giapponese Gutai, ha distribuito il colore con i piedi.
Degli Azionisti Viennesi la mostra mette in evidenza i momenti meno cruenti. Così i corpi nelle immagini della metà di quel decennio di Muehl, Nitsch e Schwarzkogler sono macchiati e sporcati di colore, di un rosso fatto gocciolare sul viso o sul ventre. Il medesimo coinvolgimento impulsivo del corpo è presente nell’azione del ’70 di Paul McCarthy documentata nel video Black and White Tapes, dove l’artista striscia a terra lasciando dietro di sé una striscia densa di vernice bianca. E’ un pigmento steso lentamente, seguendo ogni piega della pelle, quello usato invece da Bruce Nauman nel video Make-up.
Non mancano alcuni esempi di esponenti dell’Arte Povera che hanno usato il corpo come superficie sulla quale scrivere parole, come l’Odio impresso sulla fronte di Gilberto Zorio del 1971. Scrive direttamente sulla pelle anche Guglielmo Achille Cavellini, scrive con un pennarello la storia della sua vita, indossando un completo bianco anch’esso completamente ricoperto dalla sua calligrafia. ”I am awake in place where women die” è una delle scritte tracciate in stampatello sul corpo e immortalate da vicino nelle immagini di Jenny Holzer del ’94. Mentre in Family Tree del 2000 gli ideogrammi si moltiplicano e si sovrappongono sul viso impassibile di Zhang Huan fino rendere nera l’intera epidermide.
La foto non rimane unicamente modalità per documentare le azioni. Già nelle opere di Ketty La Rocca i sostantivi e le brevi frasi che segnano i movimenti delle mani sono apportati in un secondo momento sulla stampa. I paesaggi fantastici di Annette Messager in Mes Tropheés sono evocati con carboncino e pastello all’interno di un padiglione auricolare in bianco e nero. Si tratta di stampe su gelatine d’argento con scritte a mano anche per quanto riguarda le opere dell’iraniana Shirin Neshat, dove la ricerca di un’appartenenza viene impressa indelebile sull’individuo.>>


fino al 23.XII.2003
Me & More
Lucerna, Kunst Museum

L’immersione dell’individuo nel mare della moltitudine ne segna inevitabilmente la dissoluzione o l’esaltazione. Quando si cessa di essere considerati se stessi? Sullo splendido lago di Lucerna, ci si incontra per discuterne al Kunst Museum con 14 artisti di tutte le culture…

 


da "Exibart"

mercoledì 19 novembre 2003
L’interrogativo è semplice, la tematica è ampia: Me & More, io e gli altri. Al microscopio il tessuto continuo che integra l’individuo con il mondo circostante, una serie di rapporti algebrici lineari, intersezioni, esclusioni e unioni dell’io con il noi, caratteristici di quei processi che a volte ne esaltano, a volte ne sbiadiscono i connotati. Per rispondere si riuniscono a Lucerna 14 artisti, invitati da Peter Fischer e Susanne Neubauer: l’effetto è terapeutico.
Apre la mostra Magdalena Abakanowicz. La sua è una voce chiara al riguardo: Hurma, il suo più grosso raggruppamento di figure in juta, presenta involucri dalle fattezze umane, senza volto, a dimensioni reali uniti in una moltitudine muta, ma individuati dalla loro concavità, o dalla loro convessità. Alla spersonalizzazione del gormley_european_field processo di sagomatura si oppone una peculiarità dovuta all’irregolarità che il processo stesso porta con sé, l’effetto cita la dualità della tematica principale. Per Kiki Smith, invece, l’attenzione va focalizzata sulla costrizione di una società stratificata verticalmente. Nel suo Puppet l’individuo è trasformato in una marionetta vivente, dall’espressione viva e l’atteggiamento comandato dai cavi di un burattinaio, sospeso a mezz’aria in un limbo tra la volontà superiore e la libertà più terrena. Un’altra voce autorevole è quella di Anthony Gormley. In esposizione European Field, opera-performance del ‘94 in cui molti collaboratori hanno lavorato alla modellazione di piccoli pupazzi tutti diversi, ora qui presentati. C’è un tentativo di trasposizione diretta tra l’individuo e la rappresentazione di sé stesso, fusi in questo gruppo che ne unisce le voci amplificandole, pur preservandone tutte le sfumature. Ci sono anche gli Humanoìdes di Ernesto Neto, la sua metafora della corporeità si tocca e si indossa, riformulando l’esperienza collettiva in termini puramente sensoriali. Analogamente, nelle opere di Ross Bleckner si ritrova l’indagine sul rapporto tra micro e macrocosmo, elementi cellulari in un misto di olio e encausto aggregati in strutture più ampie con semplici regole relazionali, come in The architecture of the sky. Per Zhang Huan, artista cinese in America, l’interazione passa attraverso il filtro culturale del singolo. Riferendosi all’esperienza personale, Huan mostra come le tradizioni possano completamente mascherare, riducendo l’identità a una mera collocazione nazional-culturale. Barbara Kruger con l’opera che dà il titolo all’esposizione, propone il tema dell’indottrinamento. La sua ricontestualizzazione di immagini permutate ai media di comunicazione di massa ne sottolinea l’effetto plagiante intrinseco dell’informazione stessa.
Un collettivo di opere e dialettiche diverse, dall’aspetto corale ma dall’individualità elevata. Le opere si legano l’una all’altra costruendo un vero e proprio dibattito, dalle discussioni animate, le posizioni forti e le riflessioni profonde. Al visitatore non rimarrà che esprimere la propria.

fabio antonio capitanio
mostra visitata il 13 Novembre 2000


Kunst Museum Luzern, Europaplatz 1, 6002 Luzern, Svizzera.
Tel.0412267800 Info-Tel. 0412267878 http://www.kunstmuseumluzer.ch/
Catalogo con testi di Peter Fischer e Susanne Neubauer,
Edizioni Periferia, Inglese/Tedesco, Fr. 38.
Aperto Martedì- Domenica 10-17, Mercoledì e Giovedì fino alle 20



osicraN Narciso
10 ottobre - 6 dicembre 2003

La Galleria Planetario, dal 10 ottobre e fino al 6 dicembre, presenta Alberto Abate, Paolo Borghi, Bruno Chersicla, Ricardo Cinalli, Fabrizio Plessi, Antonio Violetta in una collettiva dal titolo OsicraN Narciso.


La vicenda di Narciso costituisce nella cultura occidentale una fonte inesauribile di interpretazioni e di corrispondenze. Dal carattere intransitivo della pulsione nasce il dramma dell’impossibilità di comunicare sul piano dell’oggettività della forma. Narciso è figura della pura identità, ed arriva ad identificarsi con la totale alterità di un’immagine riflessa irraggiungibile. Mentre Narciso, resta imprigionato, fino a morire, dall’oggettività e dalla matericità della visione, l’Arte, riflettendo su se stessa, si inoltra all’interno della forma fino a giungere alle fonti autorappresentative della visione. 

Il Narciso di Fabrizio Plessi gioca, grazie alla videoinstallazione, sulla percezione della luminosità, spiazzante in quanto la luce si duplica tra il neon stesso e la riproduzione del suo movimento, verso una contemplazione senza oggetto e soggetto ben delineati, ma avvalorata dal senso della pulsione. Le sculture, in terracotta e in bronzo dorato, di Antonio Violetta dal silenzio fermano il tempo e indagano sulla superficie materica nell’ambiente e nello spazio, sprigionando l’assolutezza dell’essere, mentre Paolo Borghi scava, manipolando e colorando la terracotta come riscoperta della gratificante immediatezza del gesto, oltre la superficie riflettente e indaga le dinamiche stratificate dell’universo. Il dato corporeo meticolosamente e ripetutamente indagato da Ricardo Cinalli, il cui lavoro viene associato a una sorta di mondo mitologico-piscologico contemporaneo, da’ eco alla tensione del singolo individuo al tutto cosmico. Il narcisismo quindi si propone in forma di compiacimento, ambivalenza ed esibizione in una tensione che diventa, nel predominio del gradiente materico, combinazione di forze che si irradiano, componendo e scomponendo l’essere, lungo le nervature delle figure lignee di Bruno Chersicla, individuandole in personaggi della vita di tutti i giorni. L’opera di Alberto Abate, la cui ricerca approda ad una perturbante ed intensa figurazione, densa di suggestioni antiche, infine, è del mito stesso la letterale e colta riscoperta. Tre elementi fondamentali emergono dall’opera dell’artista romano: la realtà, il suo riflesso, sede non più della duplicità ma dell’alterità, filtrata dallo specchio ed esplicitatasi nella presenza del fiore, che di Narciso condivide il nome e la sorte.

GALLERIA PLANETARIO
Via F. Filzi, 4 – 34132 TRIESTE
Tel. 040/639073 – Fax 040/369103
E-mail: planetario@artplus.it 
Orario: dal lunedì al sabato 10.00-13.00 e 16.00-19.00
Fuori orario: per appuntamento

   "The passions": Bill Viola a Londra 

'Bill Viola: The Passions'  , The National Gallery, 22.10.03 - 04.01.04

Bill Viola’s new work explores the power and complexity of human emotions. Visually stunning and psychologically gripping, Viola’s works are at the cutting edge of technology but they are also deeply rooted in the art of the past.

Using actors, shown in silence and extreme slow motion, ‘The Passions’ probe and reveal the nature of overwhelming emotion.

Info:  NG London-Future Exhibitions 'Bill Viola, The Passions' The Exhibition

 

  Jean Cocteau
Spanning the Century
Centre Georges Pompidou
Paris (FR)
da giovedì 25 settembre ore 11:00
a lunedì 05 gennaio 2004
info: www.centre.pompidou.fr  

Richard Serra a Napoli

da "EXIBART" di mercoledì 19 novembre 2003
Richard SerraSarà una spirale in ferro di quindici metri di diametro e quattro di altezza (visitabile anche dall'interno e 'sede' di iniziative) l'opera che verrà presentata all'aperto, a Napoli, in Piazza Plebiscito poco prima delle feste natalizie.
L'autore? Ma ovviamente lui: Richard Serra. Il grande scultore americano interverrà, con una realizzazione che avrà il nome di Naples in uno spazio che negli anni scorsi ha ospitato personalità del calibro di Rebecca Horn, Joseph Kosuth, Anish Kapoor, Mario Merz, Giulio Paolini e Mimmo Paladino.

"La mia scultura - ha dichiarato Serra - prende significato dall'esperienza che ne ricavano gli spettatori". E, infatti, a Napoli, la grande opera creerà un camminamento interno che consentirà al pubblico napoletano una prolungata e insolita visione".




inaugurazione sabato 20 dicembre ore 12 a Piazza Plebiscito. Napoli. A cura di Eduardo Cicelyn e Mario Codognato. Organizzazione Id. Art


 

L’energia di Piazza Plebiscito

Con grande sensibilità e intuizione femminile l’artista crea una delle più suggestive installazioni mai realizzate per il Natale di Napoli. E’ stata da poco smontata l’installazione di Rebecca Horn. E paiono placarsi anche le tantissime polemiche che ha generato. Ora diciamo noi cosa ne pensiamo…

 


 

Da "Exibart" di lunedì 13 gennaio 2003
L’artista tedesca, unica donna fino ad ora invitata a misurarsi con l’allestimento natalizio della Piazza, concepisce lo spazio come un immenso campo di energia, divisa tra i due elementi ancestrali della terra e dell’aria.
In questo modo, affrontare lo spazio monumentale si rivela una scelta vincente. Invece di creare un “oggetto”, anche smisurato, come centro focale per lo sguardo (lo fecero in anni passati artisti come Anish Kapoor e Mimmo Paladino), Rebecca Horn evita il confronto con la grandiosità degli edifici circostanti disseminando il suolo di sculture e l’aria di luci. Lo spettatore è catturato in mezzo ai due campi da questa duplice attrazione, sposta lo sguardo dall’orizzontalità della terra alla verticalità della luce e del cielo. Non si può non pensare a Joseph Beuys, perché il grande artista tedesco aveva fatto dell’energia il fondamento della sua filosofia della natura e la base del rapporto tra l’uomo e il mondo naturale. La Horn dimostra di aver assimilato gli elementi di questa visione in modo del tutto personale condensandoli in un’opera dal potente impatto scenografico.Rebbecca Horn Ma per chi non era presente all’inaugurazione, gran parte dell’effetto è perduto. Perché il suono ha una parte rilevante nella percezione che si affida alla multisensorialità fondendo con perfetta sinergia i due poli opposti del campo di energia.
In questa scissione, in questa tensione sta il senso stesso dell’uomo e del divino. Al suolo cosparso di teschi, simbolo di mortalità e fragilità umana, corrisponde un empireo di aureole che illuminano la verità del divino. Su questo limite sta il senso stesso dell’uomo e del divino. L’uomo, al centro di questi due elementi riconosce che al di là del mistero dell’essere e del mistero del nulla, c’è un mistero che non lo sovrasta e uccide, un mistero che è suo, uno spazio intermedio. In questo spazio il suo sguardo non è inchiodato al suolo al mistero della morte, ma si innalza verso la luce, verso lo stupore della perdita della realtà.
Questo è il significato esoterico che la Horn ha rintracciato nella tradizione misterica napoletana, la sua radice gnostica che permea di sé il significato più profondo dell’opera. E’ un messaggio di speranza e di riscatto per l’uomo, non un lugubre simbolismo di morte o una facile lettura del culto delle Fontanelle (il cimitero della città partenopea) come è stato detto e scritto da fantomatici benpensanti.
Accanto alle forme della verità, accanto ai fatti della storia di Napoli, la Horn sembra aver rintracciato dei valori più persistenti di questi e di quella nell’immagine che ha preso corpo attraverso la sua idea dell’arte, in una forma che può anche essere effimera e fugace. L’installazione resiste nella sua precarietà come se proprio questa fosse il segno più sicuro e prezioso di esistenza. E rende davvero concreto l’eventuale alone, l’aura delle cose. Eppure, in maniera del tutto concettuale è l’aggregarsi delle cose e chi le percepisce, chi davvero le vede. Se esistono prima o dopo una percezione, se esistono più nella testa, nella mente del soggetto o più in una rete di soggetti e di relazioni. La moltitudine di teschi in dura ghisa, semisepolti nel pavimento, è là, deve solo essere scoperta, percepita sotto i piedi per interrompere il cammino obbligato sui sentieri.
E allo stesso tempo le aureole sono segni di luce nell’aria, come un sogno, perché il sogno sorvola la vita. E’ questo parallelo continuo della vita che possiamo solo sforzarci di ricordare, di ricostruire. E’ nostro, crediamo che sia nostro, e nello stesso tempo ci sfugge come la vita ed è accecante, come la possibilità di pensare e di fermarsi.

maya pacifico

 

"L'art brut et libre sur les ailes de la folie" a Parigi
(da "LE MONDE" del 25.07.03)
La Galerie nationale du Jeu de paume, à Paris, expose, jusqu'au 28 septembre, la  collection ancienne du Centre d'étude de l'expression  de l'hôpital Sainte-Anne. Réalisées par des malades internés, ces œuvres souvent étranges et troublantes interrogent la définition même de la création artistique.

En exposant la collection ancienne de l'hôpital Sainte-Anne, le Jeu de paume rouvre un dossier souvent négligé en France, celui de la création en milieu asilaire et des relations mal connues entre maladies mentales et expressions artistiques. En 1948, André Breton publie aux Cahiers de la Pléiade L'Art des fous, la clé des champs. A propos des œuvres des pensionnaires d'asile, on y lit cette phrase : "Il est à observer qu'une gêne croissante, dès qu'il s'agit de la place à faire à de telles œuvres, n'a cessé depuis un demi-siècle de s'exprimer dans les milieux psychiatriques - soit dans un cercle où pourtant ces œuvres étaient essentiellement considérées en fonction de leur valeur "clinique"."

Aujourd'hui, c'est dans les milieux artistiques que la gêne ne cesse de s'exprimer. Comment expliquer autrement qu'il ait fallu un demi-siècle, avant que la collection ancienne du Centre d'étude de l'expression de Sainte-Anne puisse être montrée dans un lieu muséal central, le Jeu de paume ? La première exposition eut lieu à l'hôpital Sainte-Anne en 1950 sous le nom d'"Exposition internationale d'art psycho-pathologique". Par la suite, des présentations partielles ont eu lieu, soit à Sainte-Anne, soit à l'étranger, mais cet ensemble d'une grande richesse était peu accessible.

En France, l'attention portée à ce que l'on a longtemps appelé "l'art des fous" a été le fait de psychiatres et d'une minorité d'artistes - Breton et Dubuffet au premier chef. Ce qui donne raison à Breton, en 1948 : "Le public peut dormir sur ses deux oreilles : les verrous sont tirés non seulement sur les individus qui n'ont pas toujours su montrer patte blanche mais encore sur tout ce qu'ils font parfois d'admirable, qui pourrait les rappeler à lui."

La question est bien posée : c'est celle du confort de l'esprit. Le plus simple est en effet de considérer que l'activité artistique est un genre de métier, avec ses hiérarchies, ses plans de carrière et ses systèmes d'évaluation financiers et critiques. C'est évidemment la tendance générale, qui s'est renforcée depuis les années 1960, quand l'art, défini par ses théoriciens comme un "champ autonome", est devenu de plus en plus affaire de spécialistes - producteurs, médiateurs, collectionneurs.

Admettre à l'inverse l'immense intérêt d'œuvres et d'objets produits en dehors de ce monde, par des individus qui ne sont pas de profession artistique, c'est renvoyer l'art à des notions difficiles à saisir, la nécessité intérieure, l'expression individuelle, la santé mentale. Et c'est encore affronter des problèmes peut-être insolubles, tels que celui-ci : comment et pourquoi Antonin Artaud, qui était jusqu'alors acteur et écrivain, a-t-il pu tracer, en peu de temps, quelques-uns des portraits les plus aigus et les plus puissants du XXe siècle, au sortir de sa réclusion à Rodez ?

ÉNIGMATIQUE MILLET

Il n'y pas d'Artaud dans la collection de Sainte-Anne, mais il y a des dessins aux crayons de couleur d'Aloïse Corbaz, internée de 1918 à 1964, grandes et opulentes effigies féminines parées de rouge qui fascinèrent Dubuffet quand il les découvrit et qui, grâce à lui, sont devenues célèbres. Et il y a surtout ceux que l'on ne connaissait pas jusque-là, des inconnus, des anonymes, dont les travaux sortent de la nuit.

Ainsi Auguste Millet. Il serait né vers 1905 et a été interné à l'asile du Vinatier, près de Lyon, vers 1927, après avoir été brièvement soyeux. Pendant des années - on ignore la date de sa mort -, Millet a écrit des poèmes, copié des textes de dictionnaires et de manuels d'histoire et d'algèbre. Il a aussi pratiqué le dessin et l'aquarelle pour inventer des scènes d'une vie légèrement étrange, où des canards nagent dans une maison, où une vache entre dans un café. D'une belle écriture, il ajoute ses "titres": Margaritas ante porcos, Route dans le roc, L'Impromptu de la Bovidée in naturalibus. Le dessin est soigné, quoiqu'un peu raide, et les inscriptions sont énigmatiques. Faut-il y voir une ironie volontiers bouffonne ou des visions sérieusement symboliques ?

Les mêmes termes valent pour Maurice Blin, qui, dans ses cahiers, alterne portraits grotesques, schémas d'ingénieur compliqués jusqu'à l'impossible, fragments de drames et chansons. Il est tantôt peintre, tantôt poète, tantôt musicien et parfois savant, d'une science fantasque. Il a, lui aussi, des titres qui sidèrent : Baiser de Saturne à la Terre, Révérende Mère de la Renaissance.

Des termes tels que folie ou maladie mentale seraient bien pauvres pour définir son comportement. Quant à en analyser le processus de création en lui-même, on en est réduit aux hypothèses. Seule certitude : pour lui, comme pour Millet, il n'existe aucune césure entre les divers modes d'expression. Dessin et écriture sont inséparables. De leur union naît le trouble qui émane de leurs œuvres.

D'autres doivent ce trouble à leur chromatisme - la gouache sanglante de Gaston Duf, les aquarelles tourbillonnantes de Guillaume Pujolle. Ces dernières sont d'une impressionnante dextérité, inattendue de la part d'un homme qui, avant l'asile, avait été soldat, puis douanier, très loin de toute formation artistique - ce qui pose évidemment une nouvelle question embarrassante, celle de l'autodidacte qui dépasse sans peine le meilleur élève.

L'OBSESSION SUR LE DESSIN

Comment Charles Schley, enfant abandonné, interné dès l'âge de 17 ans, réputé schizophrène, est-il parvenu à une telle maîtrise du crayon de couleur et a-t-il su perfectionner une si étrange géométrie d'angles aigus, de pointes et d'obliques jusqu'à saturer la feuille et à créer une telle sensation de claustrophobie ?

Il y a ceux enfin qui imposent la forme visuelle de leurs angoisses ou de leurs désirs avec une terrible simplicité, une évidence sans concession. Cette forme peut être celle d'une tête humaine, telle celle que peint Antonio Brangança : un visage de profil, la calotte crânienne ouverte sur le cerveau - si ce n'est que, à la place de l'encéphale, il y a un couple en plein coït.

La même obsession sexuelle animait Albino Braz, qui vécut seize ans dans l'hôpital psychiatrique de Sao Paulo. Il y dessinait inlassablement des femmes, souvent nues, jouant avec des félins, brandissant des bougies et des fleurs. Et les dessinait à petits coups de crayon, avec une précision et une obstination telles qu'on peut les étudier longtemps sans qu'elles perdent leur faculté hallucinatoire.

Devant de telles œuvres, il est tentant de croire, comme l'écrivait Dubuffet en 1949, qu'il existe une "opération artistique toute pure, brute, réinventée dans l'entier de toutes ses phases par son auteur, à partir seulement de ses propres impulsions" et que "la folie allège son homme et lui donne des ailes".

Philippe Dagen

"La Clé des champs", Galerie nationale du Jeu de paume, 1, place de la Concorde, Paris-8e. Tél. : 01-47-03-12-52. Du mardi au vendredi de 12 heures à 19 heures, le dimanche de 10 heures à 19 heures. 6 €. Jusqu'au 28 septembre.

ARTICLE PARU DANS L'EDITION DU 25.07.03

 

     Il quarto sesso a Firenze

(Dall'Espresso, articolo di Alessandra Mammì)

Androgini. Violenti. Giovani. Nichilisti. Una tribù che ha imposto un dirompente canone estetico. Oltre ogni limite. E coinvolge tutto: arte, cinema, letteratura, moda

Siamo sfortunati, ma giovani e virili. Camminiamo per i corridoi e il campo da gíoco e siamo più alti degli altri, radiosi. Siamo orfani. E in quanto orfani celebrità: dal romanzo di Dave Eggers "L'opera struggente di un formidabile genio", 2000.
Settembre 2002: "Ken Park" il film di Larry Clark scandalizza Venezia. Prima scena: un giova: nissimo skater dopo una mirabo lante acrobazia si siede sul bordo dell'half-pipe (la pista). Estrae dallo zainetto una telecamerina digitale e la posiziona su di sé. Poi prende una pistola e si spara un colpo in testa. Ken Park - giovane, virile, sfortunato, alto e radioso - filma la sua morte e si assicura 115 minuti di celebrità.
Dove siamo? Siamo nei "territori estremi defl'adolescenza". In piena Trash Generation. Travolti da un nuovo nichilismò: individualismo e violenza senza freni. E al centro eh uno stile di vita che coinvolge tutto, cinema, arte, musica, letteratura, comunicazione, moda. Siamo in bilico su un vuoto esistenziale e ne percorriamo il confine a folle velocità. Siamo nelli comunità degli skaters, tra i ragazzi delle periferie e accanto a quelli borghesi che ne imitano i comportamenti. Siamo insomma nel "Quarto sesso" quello dei mutanti, degli androgini, di tutti gli adolescenti. Titolo geniale per una mostra della, Fondazione Pitti che alla stazione Leopolda di Firenze, dal 9 gennaio al 16 febbraio, ci costringerà a guardare quel che non vorremmo vedere. Ci costrin-gerà a capire (anche attraverso una bibbia- catalogo curata da Maria Luisa Frisa) che un filo rosso lega le fotografie degli artisti della new wave inglese, le campagne pubblicitarie della Díesel, l'horror vacui delle camerette dei ragazzi, i film alla "Boys Don't Cry" e la strage di Columbine. Il 20 aprile 1999, alla periferia di Denver (Colorado), due ragazzini Eric Harris e Dylan Klébold, rispettivamente 17 e 18 anni aprono il fuoco sui loro compagni della,Columbine Ffigli School, uccidendo 12 ragazzi e un'insegnante prima di togliersí loro stessi la vita. La polizia scopre nelle loro camerette alcuni video girati prima della strage in cui Eric e Dylan motivano la carneficina come gesto estetico che garantirà loro imperitura fama. Le foto terribili di quel giorno (consacrato anche dallo straordinario film di Michael Moore, "Bowiíng for Columbine") saranno in mostra, accanto a moltissime,altre immagini che arrivano dall'arte, dal cinema o dalla pubblicità. Sospendiamo il giudizio e osserviamo: siamo di fronte a qualcosa di nuovo che coinvolge un'intera generazíone e segna l'inizio del secolo. "La tensione fra desiderio, visione e distruzione fa parte di questo momento inimitabile e irrinunciabile di ogni vita umana che va sotto il nome di adolescenza", dice Francesco Bonami curatore con lo stilista Raf Simons della rassegna. Ma questi adolescenti hanno caratteristiche diverse da quelli che li hanno preceduti: si esprimono con le immagini e soprattutto per immagnu si raccontano. Per tentare un primo approccio non resta, come farà la mostra, che raccontarli attraverso le loro opere, le loro foto, i loro luoghi, i loro oggetti.

Trash Generation: ragazzi borghesi che imitano i coetanei delle periferie


L'oggetto per ecce-llenza,'un vero totem, è lo skateboard. Intorno alla tavoletta con rotelle si muove una nuova filosofia di vita e una comunità sempre più vasta. Gli skaters orinai hanno i loro skate artisti, skate registi, skate stilisti. Quasi una ricostruzione futurista dello skate universo, basata sulle stesse parole d'ordine dell'avanguardia di Boccioni & soci: velocità, individualismo, coraggio, appartenenza al branco. ricerca estetica, edificazione di un mondo alternativo. "DogtowriandZ-Boys" èilloro film-manifesto. Il suo regista, Stacy Peralta (uno skater professionista), ha vinto l'ultimo Sundance Film Festival. Dogtown, suburbia di Santa Monica, degradata e trasformata in una "no mans land" è la Mesopotamia del movimento: tutto è nato lì. Lì si sono definìtivamente marcate le differenze con i vecchi surfisti, comunità anni Sessanta e Settanta sorrette dall'ìdeoìogia híppíe, ecologica, utopista, alla ricerca di un rapporto perfetto fra uomo e natura esemplificato dalle onde dell'Oceano. Niente a che vedere con gli skaters. metropolìtani, acrobati, adrenalinicí, pronti a spaccarsi eroicamente tutte le ossa, guerrieri ai lirníti della legalità (lo skateboard è, vietato in molte città Usa).
Se Stacy Peralta è il regista, se Aaron Rose proprietario della Alleged Gallery in New York è il loro gallerista, Ed Templeton è l'artista per eccellenza. Fotografo, pittore, fondatore della società Toy Machine che produce attrezzature per skaters e naturalmente campione di skateboard. I titoli delle mostre di Templeton sono degli slogan "Waìtíng for the Earth to Explode" (aspettando che la Terra esploda), "The Sado-Voyeur% "Teen smokers" e l'ultima "The Golden Age of NeglecC (l'età &oro dello sfascio) che ha tríonfalmente occupato a ottobre le sale parigine del Palaìs de Tokyo. A portare 350 lavori di Templeton in Italia (a Roma in febbraio, sede da definire) sarà Paulo Lucas Von Vacano, una sorta di antropologo del presente, giornalista, organizzatore di mostre, fondatore di un'agenzia e di una casa editrice, Drago, dedicata alle culture emergenti. P- Vacano a spiegare le fondamenta della nuova estetica.
In principio c'è il corpo. Un campo di battaglia. Ma niente a che vedere con la lìberazione sessuale e la scoperta del corpo nudo dei loro genitori. Il corpo è lo strumento dei fight club. Coperto di lividi e ferite, massacrato o umiliato che sia, è un'arma contro il sistema: contro la tecnología, l'aseffico, potere dei virtuale, la dittatura dei computer. Il corpo come strumento di morte. Con tutte le sue secrezioni (sangue-sudore-sperma) è protagonista dei film e delle foto dell'intera generazione.

L'oggetto totem è lo skateboard: l'origine di una inedita filosofia della vita


A cominciare da quelli che sono considerati i padri del movimento: Larry Clark e Nan Goldin. Corpi sfatti e tras=ati di genitori falliti, alcolizzati e tabagisti sono al centro delle storie fotografiche dell'inglese Richard Billingham; corpí mostruosi e mutanti appaiono nelle sculture dei fratelli Chapman che scandalizzarono il mondo con un trionfo della guerra degno della più cupa fantasia gotica; corpi non meno sconvolgenti sono quelli perfetti, depilati ma donati e robotìzzati che trionfano nelle performance di Vanessa Beccroft.
Contraltare di tanta fisicità è il "Kawaii". In giapponese significa carino, ma anche infantilizzazione della società. Il carinoterribile è un elemento ricorrente. Anche il più cattivo degli skater riempirà la sua tavoletta di disegníni infantili, le sue strade di graffiti e andrà pazzo per i manga. rimmagíne simbolo dei Kawaii è un gigantesco ragazzo rosa dai capelli azzurri che si masturba con eleganza, mentre lo sperma lanciato nello spazio diventa una barocca voluta che lo circonda come un'aureola. Lopera è il capolavoro di Takashi Murakami, il leader dei Kawaii pensiero.

Il punto forte di questa estetica è il diario, l'autobiografia


Nel giugno passato Murakami ha invaso la Fondation Cartier di Parigi con una mostra-manifesto che raccoglieva tutti gli artisti a lui vicini. Un trionfo di neo-pop-culture, tanto carina quanto dissacrante, basata interamente sulle anime giapponesi. Il terzo punto forte della nuova estetica è l'autobiografia, il diario, la poetica della cameretta. Il nichilismo che si isola dal mondo e diventa autismo. "Fuori tutti" gridava un profetico libro di Einaudi-Stile Libero del '96 (autori Carlo Antonelli, Marco Delogu e Fabio De Luca). Corale ritratto di "una generazione in camera sua". "La cameretta è il nucleo originale, l'isolamento da quel sistema ordinato che è la casa dei genitori, paradígma dell'altro sistema più ordinato e oppressivo, quello sociale", spiega il curatore della mostra, Bonami: "Una bolla di libertà dove, in assenza di ideologia e credo politico, è possibile sperimentare in piena libertà l'ultimo, gesto che rimane, il gesto estetico". resibízione della vita privata diventa un futile atto di ribellione, un mero gesto provocatorio, un prínùtivo richiamo tribale.

Il corpo con le sue secrezioni è un perfetto oggetto d'arte


Nel '99 l'artista inglese Tracey Emin, fu candidata al Tumer Prize grazie a "My Bed": un letto sfatto e sporco, la sfacciata messa in scena della sua intimità. Non vince, ma Charles Saatclìi paga 150 mila sterline per accaparrarsi l'opera. E siamo all'ultimo punto: l'apoteosi di una cultura nicliflista, autodìstruttiva, individualista, nata nelle strade dei ghetti e nelle più claustrofobiche camerette, che si trasforma in status symbol.
In mostra a Firenze vedremo anche le campagne pubblicitarie di famosi fotografi con ragazzini in mutande e sguardo torvo, ragazzine con apparecchi ai denti, creature androgine dai capelli ossigenati. Vedremo l'estetica dello sfascio diventare stile, poster, seconda e terza linea. Vedremo Diesel e Sisley accanto alle foto di Columbine. E sospenderemo il giudizio. Perché questa è la "Golden age of neglect". Ed è appena cominciata.

 

    Gli espressionisti a Roma

       Max Ernst a Roma
Vittorio Bolaffio - Ritratto di Umberto Saba
Leonor Fini - Ritratto di Svevo
Arturo Nathan - Il passaggio del veliero (solitudine)
Arturo Nathan - L'attesa (autoritratto al tramonto)
Arturo Nathan - Rupi vulcaniche
Cesare Sofianopulo - Maschere
Vito Timmel - Fochi

TRIESTE NELLA PSICOANALISI
VOLTI

Voci ma, accanto alle voci, anche i volti di una stagione culturale irripetibile per Trieste: quella de "gli anni della psicanalisi", di cui lo scrittore Giorgio Voghera è stato l'ultimo, nostalgico testimone ed efficace evocatore.
Trieste è stata la città che vide soggiornare Freud, giovane studente di medicina per la sua prima ricerca , la città che diede i natali a Edoardo Weiss, allievo diretto di Freud e fondatore del movimento psicoanalitico italiano, la città in cui, con grande anticipo rispetto al resto d'Italia, si praticarono trattamenti freudiani e che assistette tra il 1920 e il 1930 ad un infervorarsi quasi maniacale per tutto quello che sapeva di psicoanalisi, la città infine in cui l'intreccio tra psicoanalisi e letteratura e psicoanalisi e arte è testimoniata dall'opera di scrittori e artisti di riconosciuta grandezza.
Al problema dell'arte Freud aveva prestato sin dall'inizio molta attenzione, avendo maturato la convinzione che per la psicoanalisi "artisti e poeti sono alleati preziosi", da prendere in attenta considerazione nella loro testimonianza, per il fatto che "nelle conoscenze dello spirito essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono ancora state aperte alla scienza".
L'interesse della psicoanalisi per le opere degli artisti e dei poeti non poteva rimanere a senso unico, ed in effetti molte avanguardie culturali, più o meno in tutta Europa, reagirono abbastanza presto dinanzi alle teorie di Freud, trasponendo, come nel caso del surrealismo, con una sorta di presa in diretta, l'inconscio nell'arte, oppure, passando agli scrittori, lasciandosi più o meno influenzare, come, tra i primi, Italo Svevo in "La coscienza di Zeno" , dalle concezioni psicoanalitiche, sviluppando però sottili ma non per questo meno incisive resistenze.
Tra i poeti un caso a sé fu Umberto Saba. Esponente di spicco di quella intellettualità ebraica triestina che fu coinvolta dal "ciclone psicoanalitico", Saba, incalzato sin da giovane dalla nevrosi, decise, in seguito a una crisi depressiva più forte delle altre, di entrare in analisi alla fine degli anni venti con Edoardo Weiss. L'esperienza dell' analisi costituì, a detta di Saba, una svolta, oltre o più che nella sua vita, nella sua poesia, che egli celebrò con la raccolta "Il piccolo Berto", dedicandola a Weiss, per il cui tramite egli aveva ritrovato in analisi il proprio Io infantile.
Ma se Saba, tra i poeti, fu senz'altro uno dei primi in Italia a sperimentare l'analisi, altrettanto avvenne per un altro artista triestino, la cui vicenda in rapporto a tale esperienza è molto meno nota ma per questo non meno significativa. Si tratta del pittore Arturo Nathan . Iniziò l'analisi con Weiss alla fine del 1921, prima dunque di Saba, e la concluse intorno al 1925. Per Nathan fu un'esperienza, più risolutiva che per Saba, un' esperienza che anch' egli registrò attraverso la sua arte. E quale migliore sismografo degli stati della propria interiorità per un pittore che ricorrere all'autoritratto? Tra il 1923 e il 1926 Nathan si cimentò in una serie di autoritatti di grande suggestione, che testimoniano un percorso progressivamente chiarificatore e liberatorio.
Dall'accostamento di queste due esperienze è nata l'idea di questa mostra. Se molte voci di poeti e scrittori triestini hanno infatti risuonato nel descrivere, come protagonisti o interpreti indiretti, la stagione de "gli anni della psicanalisi", i volti, il versante cioè della contemporanea arte figurativa triestina, è stato molto meno considerato da questa particolare visuale. Si tratta di una proposta di lettura che non intende naturalmente escludere altre possibili.
La figura di Nathan e l'uso che ha fatto dell'autoritratto, collegato alla sua analisi, costuisce il filo conduttore della mostra, che è composta essenzialmente di ritratti e di autoritratti.
Tre sono le sezioni. La prima dedicata agli scrittori e artisti triestini protagonisti o testimoni della stagione della psicoanalisi, raffigurati dai pittori triestini loro contemporanei: Italo Svevo, Umberto Saba, Virgiglio Giotti, Gianni Stuparich, Vittorio Bolaffio, Ruggero Rovan, Marion Wulz. La seconda si sofferma su una serie di autoritratti ,da cui si evince come gli artisti triestini nei primi trent'anni del secolo sono stati parecchio dediti a questo genere, quasi a registrare problemi sottili di identità a livello generazionale, in un periodo storico di transizione e di grossi cambiamenti. La terza sezione infine accosta Arturo Nathan, la coscienza più sensibile e sofferta di ciò che si andava drammaticamente preparando in quegli anni, a due pittori i cui autoritratti rispecchiano aspetti che, nell'autenticità della pittura di Nathan, hanno trovato una integrazione e sublimazione: l'incombere della follia e l'Io diviso di Vito Timmel, il falso sé e la moltiplicazione ludica ed esteriore dell'identità, secondo il modello pirandelliano dell'"uno, nessuno, centomila", di Cesare Sofianopulo.

Anna Maria Accerboni Pavanello

 

    

   

    

        

 

 

        

 

 Responsabile editoriale: Giuseppe Leo

Copyright - FRENIS ZERO All right reserved 2003