FRENIS zero F m g m i s |
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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività I MADRIGALI DI MICHELANGELO di Beppe Giannoni
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Michelangelo fu grandissimo scultore,
nessuno lo può negare. Specie in questo momento storico in cui masse
sempre grandi si muovono anche d’oltre
oceano, seppure talora per vezzo o moda, a vedere le sue opere magari soltanto per potere raccontare di averlo
visto anche se non l’ha apprezzato e capito, e fanno la fila. E come scultore
fu particolarmente pagato ed apprezzato a suo tempo, scultore diventò in opposizione al padre che stimava vile la
scultura e disdicevole per il suo supponente livello sociale e passabile la
pittura tanto da permettergli di andare a bottega da un pittore. Michelangelo
volle per forza diventare scultore alla scuola di Bertoldo.
Ma fu ancora più grande come pittore. Ricordo ancora l’ emozione
di me poco più che ventenne nel vedere
nei miei consueti Uffizi la tavola restaurata del “Tondo Doni”, mi
saltarono agli occhi stupefatti quei “rossi” vivaci, gli “arancio “ cangianti,
i “verdi” teneri,, gli “azzurro” intensi,
quasi sfacciati, i “viola” pallidi, le lontananze ed i primi piani trasfigurati nel variato contenuto seppure
ambedue grandiosi nei teneri incarnati, colori che mai avevo trovato in pittori
precedenti e che una mano di vernice opaca insieme al tempo avevano smorzato
quelle brillantezze, quelle trasparenze, quel cangiarsi di continuo per l’amorfo
grigiore della vernice sovrepposta, vernice
che trasformava quel Tondo, seppure sempre bellissimo da vedere,
in un sempre apprezzabile monumentalismo ma niente più. Il dipingere di
Michelangelo era svanito, era nascosto.
Nessuno prima di Michelangelo aveva
osato usare quei colori che ritroveremo
poi nel Rosso Fiorentino, nel Pontormo nel Beccafumi ed in tanti altri.
Non Cimabue,neppure con le sue
lumeggiature d’oro , non Giotto né
Masaccio e neanche il genio innovatore di Leonardo, non Raffaello, non i
precedenti veneziani..
Così come è stato per la Cappella
Sistina restaurata ché quei colori, checché piacciano o no, sono i veri colori
di Michelangelo, del grandissimo pittore Michelangelo.
Ma ancora più grande fu il
Michelangelo poeta. Lo attestano le sue rime (e, tra le rime, ancora dipiù i suoi sonetti ad i suoi
madrigali) , quasi sconosciute o , se conosciute , conosciute ed apprezzate
soltanto da pochi., e più volte
Michelangelo ebbe ad affermare di non essere poeta e di non sentirsi pittore
forse per volontà di modestia. Come scultore era stato già proclamato ed
osannato.
A scuola non me lo fecero
apprezzare, un po’ , se ben ricordo, mi fu parlato del sonetto scritto mentre
dipingeva il soffitto della Cappella Sistina e dei versi sulla ”Notte”, ma non
nelle lezioni di letteratura italiana ma a storia dell’arte, senza valorizzarne
né contenuto né forma bensì me ne accennarono soltanto come semplice aneddoto,
Tra l’altro anche il De Sanctis l’aveva trascurato assolutamente nella sua storia
della letteratura italiana che informò
generazioni di studenti ed il Croce aveva detto che in quelle rime il
gran Michelangelo non era poeta e che non era veramente, o solo in rari tratti,
un Michelangelo poeta ed artista.
Scrisse:
“Erano innamoramenti di varia
qualità, talvolta sensuali, più spesso sentimentali e fantasiosi, rimasti nel
vaneggiamento e corteggiamento e nel desiderio; era l’ideale dell’amor
platonico, per la somma bellezza beatificante, a cui anch’esso credeva; erano
le insofferenze e gli scatti di un temperamento tempestoso, di un animo virile
che spesso si sentiva malsicuro e che inclinava al pessimismo; la tristezza
degli anni tardi, che la seduzione dell’amore ancora visitava e pungeva, e
sconvolgeva dolorosamente; la paura e l’attrazione insieme della morte , che dà
pace; gli impeti di zelo e fervore religioso, della tradizionale religione, che
in lui non soffrì mai travagli eterodossi”
Calzolaio che non andava al di là
della ciabatta, absit iniuria verbo.
E seguitando: “E li metteva in verso
nelle forme consuete della letteratura del suo tempo, qualche volta
stambottesche, rusticane e bernesche ma il più delle volte petrarchesche,
trattandole senza la disciplina e l’abilità del letterato, e perciò con improprietà,
zeppe, oscurità, contorsioni, durezze, che non si possono accettare, perché
realmente sgradevoli, e non si osa, nonché desiderare, neppur ideare che egli
le avesse addolcite e abbellite con l’abile letteratura neppure essa di certo
gradevole.....” e via di seguito, segno che appena appena le aveva scorse ma
senza capirne alcun che.
Furono quegli “innamoramoramenti di
varia qualità” che nel periodo fascista, col suo Minculpop tutto teso
all’esaltazione della virilità
guerriera e della razza pura, il Michelangelo poeta fu messo da parte,
andazzo che continuò nel perbenismo bacchettone del dopoguerra.
Perché Michelangelo, con le sue
poesie, scava nel suo intimo, scende nel profondo della sua anima con una
sincerità che sconvolge, mette a nudo la sua omosessualità scorticando la sua
pelle e facendola sanguinare. Una
omosessualità intrisa di dolore,
difficilmente intravedibile in un artista titanico quale era e per tale motivo
per tanti non accettabile perché ne avrebbe sminuito la grandezza.
“Innamoramenti di varia qualità”
simili ma pure diversi di quelli dell’altro grandissimo, di Donatello, cui
inevitabilmente fa pensare, che non volle avere accanto alcuna donna, del resto
in ogni moglie si incarna sempre una Santippe, ( quale essere umano poteva sopportare il genio di Donatello,
condividendone la vita?) che sfogava la sua sessualità, d’accordo fuori della
consueta ed approvata norma, la sfogava attivamente con gli efebi che gli
capitavano, magari con i garzoni di bottega, provandone poi sconcerto e pentimento
dimostrato nelle sue opere della
maturità, vedi nell’efebico David bronzeo del Bargello ai cui piedi, in
contrasto all’umile David mostrava una
scena bacchica sull’elmo di Golia, simbolo dell’orgoglio e della lussuria, la
stessa scena la mostrava sulla cornice superiore del Pulpito della Passione
nella Chiesa di San Lorenzo a Firenze in contrasto al Cristo “mitis et humilis
corde” cosiccome ai piedi della Giuditta, debole perché donna, sul
basamento,metteva tre crudissime scene bacchiche, ed in una, una testa che
rutteggia in maniera invereconda a
ricordare la natura del malvagio Oleoferne vinto ( Si vada a vedere
l’interessantissima relazione della dottoress Erika Simon. all’importante
Congresso Donatelliano del 1966 tenuto a Firenze ed a Padova, si parlava in
quella relazione anche dell’ambiguo “Atis -Amorino” del Bargello, una divinità
che a prima vista è angelica mentre in realtà è diabolico- bacchica, ) si
ricordi anche lo sfrenato danzare dei putti sia di Prato che della cantoria di
Firenze, ricordi e ri-visitazione di marmi veduti durante il soggiorno a Roma,
che niente hanno di spirito religioso, segni tutti dell’intimo contrasto di
Donatello che però non lasciò nulla di scritto.
Certamente Michelangelo è più
tormentato di Donato e lo dimostra nelle sue rime, ne è l’esempio il madrigale
n.° 12 che sembra una parafrasi della lettera di San Paolo ai Romani “quel che
non voglio faccio e non faccio quel che vorrei fare”.
Quantunque il tempo ne
costringa e sproni
ognor con maggior guerra
a
rendere alla terra
le membra afflitte,
stanche e pellegrine,
non ha ancor fine
chi l’alma attrista e me
fa così lieto.
Né par che men perdoni
a chi ‘l cor m’apre e
serra
nell’ore più vicine
e più dubiose d’altro
viver quieto;
ché l’error consueto
com più m’attempo ognor
si fa più forte.
O dura mia più d’altra
crudel sorte!
Tardi oramai può tormi
tanti affanni;
c’un cor che arde e arso
è già molt’anni
torna, se ben s’ammorza
la ragione.
non più già cor, ma
cenere e carbone.
Ed in altra rima, in un sonetto
Vorrei voler, Signor,
quel ch’io non voglio
che rimanda, anche questo brano, con
maggiore evidenza alla paolina lettera ai Romani.
E si badi bene, non è soltanto un dolersi
religioso superficiale e di maniera bensì ontologico giacché non bastano
all’uomo qualche centinaio di generazioni
per cancellarne l’origine nella specie umana che non può fare a meno di
essere animalesca; con solo poco più di cento generazioni si arriva andando
all’indietro al tempo di Socrate, al tempo di Saffo Ne son ben convinto dopo avere esercitato per una vita la professione di psichiatra relazionale e dopo avere
incontrato ed aiutato persone di quel carattere, che tutte , al di fuori di
qualsiasi credo religioso, fossero scettici od agnostici, certamente era più
evidente in persone religiose, soffrivano di un contasto interiore, la
difficoltà di accettarsi insieme alla difficoltà di farsi accettare, anche per
le idee socialmente accettate specie
dai genitori (anch’essi purtroppo schiavi della fondamentale libido di natura animale, come necessità della
riproduzione della specie, oggi
fortunatamente ed inconsapevolmente ma anche consapevolmente meno sentita per
ragioni demografiche e sociali quando rimossa a causa di uno smodato edonismo),
quel sentirsi estraneo alla collettività comune ed al comune sentire al quale
le varie manifestazioni popolari del
”gay-pride” possono offrire una maschera ma non cambiare purtroppo la realtà
che li circonda ma anche li impregna . Fatti purtuttavia da comprendere anche
se non da condividere
Michelangelo soffrì in modo
particolare tale disagio, anche religioso, ne soffrì per ciò che stimava e
sentiva come peccato sia per il proprio
“ethos” sia per la particolarità dei
tempi (erano ancora tempi crudeli e poco inclini alla comprensione) e la
temuta, l’eventuale, conseguenziale
punizione, l’esclusione sociale e la
punizione corporale, (erano comuni i roghi,) forse fu questa la causa del suo
rifiuto a pubblicare le sue rime, già pronte per la stampa, già in qualche modo
ordinate, anche se era amico del papa, oppure un imprecisato ritegno contribuì
nel non farle conoscere.
Invero questo scritto non vuole
essere un trattato sull’ omosessualità
che però anche qui voglio affermare non sia
ereditaria né determinata dai geni, e non è necessario che lo sia data
l’estrema flessibilità e plasticità della mente umana, vedi gli studi recenti
del cervello e della mente. Sempre comunque ho trovato in quei soggetti una
particolare affetto verso la madre che era stata non capita dal padre verso il quale c’era sempre una particolare
ostilità o repugnanza, per via della grettezza paterna quasi che il figlio ,
escludendo un atto eterosessuale,
volesse non perpetrare l’oltraggio maschile paterno alla Donna
personificata dalla madre. Ma questi
possono sembrare discorsi tanto per fare e possono distogliere dall’argomento.
Sono comunque idee personali purtuttavia confortate dall’esperienza.
La sua omosessualità. Passiva o
platonica soltanto che sia stata, dipendente dal desiderio sensuale soprattutto
del Cavalieri, (cui sono indirizzate molte rime,) che lui dice bellissimo, o di
altri, vedi Febo del Poggio o Gherardo
Perini, anche se, sembra, avesse avuto durante il suo soggiorno a Bologna una
intima relazione con una donna non meglio identificata. La passione per la
Colonna, o la donna crudele, questa certamente platonica, anche se, sempre, i
toni usati e le parole, indicano con precisione
la passionalità e la sofferenza passionale; la sua fantasia, il suo sogno ,
perciò poesia, che sopperisce alla
eventuale verità ed alla realtà per tramutarla in un veritiero gioco d’amore
passionale, nei deliri amorosi, nelle crudeli e strazianti amarezze.
Michelangelo, innamorato di natura,
non poteva vivere senza l’amore, anche se ne pativa la spasimante crudeltà,
illusione o realtà che fosse, il suo amore lo portava al di là della sua
sessualità fisiologica, lui vede
“un uomo in una donna,
anzi un dio”
riportando il suo corpo, nella
sua primitiva essenza, addirittura
prima della creazione di Adamo o di Eva, addirittura al Dio biblico che secondo
le recenti interpretazioni bibliche è madre oltre che padre, maschio e femmina
insieme, “simile a sé lui lo creò” (parlando della creazione di Adamo)
addirittura prima dell’Adam primordiale (e sembra anche rifarsi all’evangelico
padre del figliol prodigo che alla vista del figlio ritrovato si commuove fino
allo “splachnon” alle viscere o, meglio
tradotto, all’utero, e Rembrand ritrarrà
con una mano femminea il vecchio
signore ,) riportando la sessualità prima della venuta dei due sessi, prima
della venuta dell’altro sesso, oggettuale destinatario dei desideri e della
sessualità maschile.
Certamente la sua frequentazione in
casa Medici, in quell’ambito culturale intriso di neo platonismo e certamente
di raffinatezze non comuni, determinò un particolare atteggiamento culturale di
Michelangelo, e ne son prova i componimenti
poetici tipo ottave e stanze di canzoni, la barzelletta e vari pezzi
sciolti e relative rime che rimandano a quel tempo, ( a proposito quanta
produzione in versi di quel periodo
culturale, che a mio parere fu scarso di letteratura poetica quanto fu
produttivo di studi umanistici e di filosofia, è stato propinato alle mie
fatiche scolastiche, versi per me puerili e sterili) forse lì avrà imparato a
leggere Dante e Petrarca dei quali ,specie di Dante, fu appassionato lettore e
cultore:
“Di Dante dico, che mal conosciute
fue l’opre suo da quel popolo ingrato”
Il Foscolo, pur non apprezzandolo
completamente o, forse, non potendolo capire, orgoglioso del suo estro
poetico, afferma “ che Michelangelo
fosse disposto a poesia non è da dubitare” e continua: ”in gioventù sappiamo
che la sera egli leggeva agli amici Dante e Petrarca.” E soprattutto nei madrigali sentì la
vicinanza al Petrarca.
A Dante però lui si rimanda in tanti
versi che paion scritti da Dante stesso, versi come sentenze, scritte con
subbia e mazzuolo:
“sie dolce il dubbio a chi può nuocer ‘l vero”
“ch’in me non è di me
voler né forza”
“pagar del suo può già
chi è mortale”
“povero e vecchio, e
servo in forz’altrui”
“c’una lucciola sol gli
può far guerra”
e tanti altri versi sparsi nelle sue
rime. Il titanismo di Michelangelo non fece plagio né pura imitazione forse fu
un’ispirarsi a Dante; Michelangelo tra
l’altro sceneggiò e ritrasse e Caronte, e la sua barca, e i dannati ed i beati come li aveva visti Dante.
Oltre che di casa Medici però non si
deve dimenticare la sua frequentazione del convento agostiniano di Santo
Spirito, a Firenze, le cui stanze mortuarie furono palestra di segreta,
notturna notomia con la permissione del Priore di Santo Spirito, un uomo di
ampie vedute, ed allora il convento di Santo Spirito fu un importante centro
culturale alternativo a Santa Maria Novella ed a Santa Croce, centro
alternativo che Michelangelo frequentò e di quella frequentazione ne resta come
pegno quel famoso Crocifisso ritrovato e ben presentato alla recente mostra
fiorentina di “Michelangelo giovane”.
Fu denso e partecipato il suo
agostinismo, uguale e pari del resto all’agostinismo della Colonna che ad un
banale e conativo storico che storico non è, seppur sincero tanto da anmmettere
che scrive senza documenti, il quale tenta di far passare la Colonna come
protestante, dimenticandosi del travaglio in quei tempi nella Chiesa Cattolica
e che l’agostiniano Lutero aveva tratto proprio da Sant’Agostino l’idea che la
sola giustificazione dei peccati fosse soltanto il sangue di Cristo, idea che tante volte riprende Michelangelo
“poi che non fusti del
tuo sangue avaro
che sarà di tal don la tua clemenza
se il ciel non s’apre a noi con altra chiave”
Ed ancora
“Non mirin co’ iusizia i
tuo sant’occhi
il mie passato, e ‘l gastigato orecchio
non tenda a quello il tuo braccio severo.
Tuo sangue sol mie colpe lavi e
tocchi,
e più abondi, quant’i’ son più vecchio.
di pronta aita e di perdono
intero.”
Ed in altra parte ancora, alla fine di una quartina
“fuor del tuo sangue
no fa l’uomo beato”
ed in un frammento di sonetto
“Signor mie car tu sol
che vesti e spogli,
e col tuo sangue l’alme purghi e sani
da l’infinite colpe e moti umani”
Ed infine
“Ma pur par nel
sangue tuo si comprende
se per noi par non ebbe il tuo martire,
senza misura sien tuo cari doni”.
Così, a testimonianza della sua
frequentazione di Santo Spirito e di Sant’ Agostino.
Ma è anche da ricordare la sua partecipazione alle idee savonaroliane,
segno di comune aspirazione ad una corale nuova spiritualità e di non più tacevoli gravi eccessi politici e pseudo religiosi della Chiesa che portarono poi alla rivolta dei
palleschi per la eccessiva foga che
travalicò dallo spirituale e che mise
al rogo il Savonarola, rogo voluto dal papa. Meglio sarebbe stato per la
Chiesa soggetta alla smania del potere temporale e lontana ai dettami
evangelici, aver seguito gli inviti del Savonarola e di tanti che ambivano alla
spiritualità della Chiesa. Tale anelito è presente nelle opere di Michelangelo,
si veda nel Cristo Risorto di Santa Maria sopra Minerva in cui il Cristo non abbraccia la bandiera della
vittoria bensì la Croce e con essa la
Passione redentrice.
Vari i temi delle Rime e dei madrigali , e non tutte le rime sono
di livello altissimo ma anche le meno riuscite sono di grande livello come del
resto si può dire di tutti, da Dante stesso ed a Leopardi, ma non per questo
Dante e Leopardi non furono poeti grandissimi; madrigali e sonetti
riconducibili a tre temi fondamentali, quello che espone il suo tormentoso
amore omosessuale indirizzato al
Cavalieri o ad altri che parla del
sofferto suo strazio (ed invincibile ma fonte di piacere); il secondo,
il tema pregno di sconforto spasimante volto alla donna crudele od alla Colonna
ed il terzo tema, personalissimo ed intimo che riguarda sé stesso e la sua
religiosità, il mondo a venire, la paventata pena e lo sperato perdono, i
personali travagli ascetici e religiosi, la morte. Da trattare, questo, con
rispetto e considerazione sia per la profondità del discorso, sia per la
bellezza della forma sia della rispettabilità dell’uomo credente,
non da sottovalutare perché tale, non da escludere come preso da un
assurdo bigottismo come fece il Croce che parlò di “impeti di zelo e fervore religioso, della tradizionale
religione, che in lui non soffrì mai travagli eterodossi.”. Ma tanto ortodosso
ai voleri della pseudoreligione allora imperante proprio non lo fu, bastava
leggere il sonetto “Qua si fa elmi di calici e apade” ed i suoi scritti
Ne basti qualche esempio
“Signor, nell’ore streme
stendi ver me le tuo pietose braccia,
tommi a me stesso e fammi un che ti
piaccia.”
e
“Se, verde, in picciol
foco i’ piansi e arsi
che, più secco ora in un
sì grande, spero
che l’alma al corpo
lungo tempo duri?”
Proprio in questi, forse, ma
certamente per me, Michelangelo raggiunge la più alta vetta del lirismo ( come
del resto Dante la raggiunse nel Paradiso,
tralasciato dal De Sanctis e da tanti suoi successori, incapaci di leggere e capire Dante e la sua
grandezza così che impedirono a tanti nei faticosi e formativi studi scolastici di goderlo appieno.
A parte son da considerare le rime
in onore di Francesco (Cecchino)
Bracci, nipote di Luigi del Riccio, morto appena quindicenne, cinquantanove
rime che sono una variazione sullo stesso tema, un epitaffio, che soltanto la
fervida fantasia di Michelangelo avrebbe saputo svolgere.
Se nel finale del madrigale ”Ancor
che ‘l cor già molte volte sia” nel suo poetare
“Altro rifugio o via
mie vita non iscampa
dal suo morir , c’un
aspra e crudel morte,
nè contra morte è forte
altro che morte, sì
c’ogn’altra aita
è doppia morte a chi per
morte ha vita”
sembra di sentire la francescana e
dantesca “ morte secunda”; (e le “due
morti” le ritroviamo più volte nelle rime michelangiolesche) ed è tragico,
nelle rime sopra riportate, quel ribattere la parola “morte”, sembrano ripetuti
colpi di mazzolo, e nel sonetto alla
notte “O notte, o dolce tempo, benché nero”, il finale
“O ombra del morir, per
cui si ferma
ogni miseria a l’alma,
al cor nemica,
ultimo delli afflitti e
buon rimedio;
tu rendi sana nostra carn’inferma,
rasciughi i pianti e posi ogni fatica,
e furi a chi ben vive ogn’ira e tedio.
anticipa l’amletico monologo scespiriano.
Michelangelo fu certamente l’artista
più colto e preparato di tutti i tempi. Addirittura arduo sarebbe trovare a chi
si sia informato. In poesia certamente,lo si è già detto, a Dante e
Petrarca.
Ma divagando in scultura e lasciando per un poco la letteratura e Michelangelo, andando a ritroso, se l’antico di Donatello fu l’antico etrusco non l’antico romano o greco come bene ebbe ad illustrare il Salmi nella solenne conferenza introduttiva del congresso Donatelliano del 1966, quale fu il suo “moderno? A chi fra i moderni Donatello si ispirò? Cercando bene per tutto il trecento ed il quattrocento certamente si può affermare che per il “moderno” di Donatello si può guardare ad Andrea Pisano del quale certamente notò la modernità e le innovazioni formali studiandone la porta mentre nettava quella del Ghiberti (e si ricordi a proposito l’andata al deserto di Giovanni, non si è a lui rifatto il grande Piero nel suo Giovannino che va nel deserto, pittura di Luce?) ed il boia del martirio del Battista (mirabile figura dalla testa in scorcio sopra la spalla ed il braccio sinistro, sulla punta dei piedi per accrescere lo slancio del colpire con la lunga spada il boia che Andrea aveva ripreso da un fermaglio di piviale esposto nel museo primaziale di Pisa, allora non si vergognavano di riprendere idee da altri, non avevano raggiunto l’ossessione di essere originali per forza che avrebbe portato a mettere in scatola i propri escrementi, ciò che neanche lontanamente nessuno avrebbe mai pensato,) insieme alla trascurata Fortitudo in basso a destra della stessa porta con la medesima positura nello spazio del San Giorgio ed il medesimo scialle dalla medesima legatura ( è solo una coincidenza?) anche se seduta invece che l0all0in piedi el San Giorgio, sono già di impianto rinascimentale, si ricordi che il Rinascimento non fu fiore nato e sbocciato nel quattocento ma frutto da albero che aveva messo radici bene nel tempo precedente, si dica sempre parlando di Andrea Pisano che fu grande innovatore per il suo tempo, per il Cristo del Battesimo, nudo bellissimo seppur nascosto artificiosamente in parte dalle acque del Giordano, e per gli storpi nel pannello dei discepoli che interrogano Gesù (che anticipano il Masaccio del Pietro che sana con l’ombra nella cappella Brancacci). Il suo cavallo e cavaliere della base del campanile di Giotto, non anticipano il duello col drago dl Donatello nella predella del San Giorgio? Si dica anche per Nicola Pisano, che fa della Madonna nella Natività del pulpito del battistero di Pisa una matrona etrusca, cosiccome due matrone etrusche sono le due Madonne di Arnolfo nel museo dell’Opera del Duomo di Firenze, sdraiate anch’esse sul triclino, anticipando così l’etruschicità di Donatello.
E per Michelangelo cosa si può dire? Altero, non volle mai riconoscere e lodare i suoi maestri ,lui, titano autogenerato. Per ciò che riguarda il “moderno”, si può certamente guardare ai Rinascimento, a Bertoldo e, con lui, a Donatello ( ho osservato recentemente nella Mostra a San Giovanni Valdarno una piccola opera, deliziosa, un ovale di Donatello, uno “stiacciato” finissimo, che mette la Vergine al disopra dei diedri di una scala che mi ha rammentato i diedri degli scalini della Madonna di Michelangelo di Casa Buonarroti); e per il suo “antico”? Mi sono sempre meravigliato come per il grande Iacopo della Quercia lo si sia indicato solitamente come “michelangiolesco” quando Iacopo è di più di cent’anni prima ma c’è un perché, c’è la medesima origine. A Siena, da giovane, Iacopo trovò Giovanni Pisano ma Michelangelo? di Michelangelo si è parlato, nel catalogo della mostra di Michelangelo Giovane, a Firenze, di un suo viaggio ad Arezzo per vedere le opere di Piero della Francesca ( però chi più di Piero gli è distante per il compassato, fissato cristallineo suo rigore nei volumi che geometricamente e compassatamente si pongono nello spazio ben diversi dalle movimentate figure michelangiolesche?) non è probabile che si sia recato anche nella più vicina Pistoia a vedere le opere di quell’innovatore che fu Giovanni Pisano? Ricordo lo stupore nel mio viaggio in Toscana nel ‘66 dopo il congresso su Donatello quando mi trovai a Pistoia davanti al pulpito di Giovanni Pisano. Urlavo in Chiesa quella mattina mentre stavo tentando di disegnare i volumi di Giovanni , il loro espandersi ed il ritrarsi, il muoversi, il saltare, il torcersi delle figure, lo scagliarsi all’infuori, era la prima volta che le vedevo dal vivo (le foto anche se belle non danno quell’emozione) lo stesso spasimo che avrei provato successivamente difronte ai busti di Giovanni Pisano che allora stavano nel Battistero di Pisa, ma soprattutto nelle Sibille nei triangoli vicino ai capiltelli, sempre nel pulpito pistoiese, le stesse che si ritrovano identiche nella Cappella Sistina, con la stessa torsione su sé stesse.
E’ qui l’”antico- moderno” di Michelangelo paradossalmente il suo
“antico” gli veniva più consono al suo “moderno”, perché più a lui congeniale,
da Giovanni Pisano veniva il movimento del torcersi, l’avvitarsi della figura i
moti ascensionali,. e lo spumeggiare dei volumi in aggetto della ”Battaglia fra
Centauri e Lapidi” ricordano troppo bene i panelli del pulpito di Giovanni,
specie la Crocifissione, non la “Battaglia” di Bertoldo citata nel catalogo
della mostra “Michelangelo giovane” di anni fa a Firenze, tanto più che le
figure di Giovanni con il loro giustapporsi disegnano nel panello delle
metafigure geometriche, vedi la spirale nella “Natività e le linee oblique
nella Crocifissione, come nella
“Battaglia” michelangiolesca si delinea un rombo su base orizzontale segnato
dal corpo del Centauro morente con i due lati obliqui da sinistra a destra e
dall’alto in basso uno a sinistra indicato dallo splendido Lapide eretto ed a
destra dall’altro Lapide preso per il collo da un Centauro, rombo che presenta
all’interno una perfetta diagonale disegnata dalla testa e dal braccio del
Lapide che tiene per i capelli una donna e dal corpo della stessa. E quel
Giovanni, rivoluzionario e creativo,
(che nella Madonna dell’Altare della Cintola a Prato stravolge la “esse”
della “Schone Madonna” transalpina, la
“ esse” si attorciglia in profondità, nella tridimensionalità, nel suo vortice,
si strappa e le masse si espandono e si addensano tramite linee di forza mai
viste prima. Giovanni Pisano è il trait d’union fra Michelangelo e Iacopo della
Quercia; in verità Giovanni fu maestro di Iacopo da vivo mentre lo fu di
Michelangelo, anche se lui non lo dice, da risorto, tutti e due seppero
comprendere le novità formali del maestro e le fecero proprie tanto da far dare
di michelangiolesco ad Iacopo perché in Giovanni si somigliano.
Ma torniamo a bomba anche se la
poesia di Michelangelo fa un tutt’uno con la sua pittura e la sua scultura. In
fondo nella “Battaglia” michelangiolesca il mito è solamente una ispirazione
formale, sostanzialmente esprime il suo dissidio interiore che fin da giovane
sentiva e che bene espresse nelle Rime.
Si tentò di parlare di barocchismo,
da parte del Croce, riguardo alle rime michelangiolesche con intenzioni dispregiative. Si dimenticò
che nel nostro barocco ci fu un Borromini, un Bernini ed un Caravaggio, oltre
che fuori i confini uno Shakespeare e si dimenticò che Michelangelo fu il primo
a sentire stretti i panni del classico Rinascimento, si vada a rivedere le sue
sculture, i suoi colori e la breve scala che porta alla biblioteca di San
Lorenzo a Firenze, il sopra dei
basamenti dei sepolcri della
Sacristia Nuova e la stessa cupola di San Pietro.
In questo lavoro, di tutte le rime di Michelangelo saranno presi
in considerazione soltanto i madrigali per non ingigantire la mole dello
scritto anche se i sonetti e le altre rime siano pieni di sofferto pensare e
pregni di ardite immagini degne del Grande, non esistevano vestiti già
confezionati che gli potessero andar bene..
I madrigali!
Il madrigale, una composizione
poetica varia sia nella lunghezza della composizione, sia nella lunghezza del verso,
endecasillabi alternati con versi più corti, di solito settenari, sia nel
variato alternarsi delle rime che lo fa ben diverso del sonetto che comporta
regole più severe, più libero del sonetto, lì sono tutti endecasillabi e
tramite questi acquista un tono più solenne, più icastico specie se è
satiricamente ironico; di solito è di
quattordici versi e tutt’al più può essere caudato, e le sue rime sono
abbastanza fisse e solo nelle due terzine possono abbandonare il classico
incatenamento CDC DCD.
E la differenza di lunghezza del
verso insieme alla rima variata danno al madrigale una possibilità di un
diverso presentarsi, di un diverso danzare, anzi il succedersi delle varie
rime danno luogo ad un metaritmo, oltre il ritmo all’interno del verso. Tale
metaritmo talora si adegua al contenuto del madrigale, lo vedremo nel
proseguire dell’analisi, lo sottolinea, lo coinvolge, ne fa un tutt’uno
splendidamente evocativo.
Il discorrere michelangiolesco é
talora duro, talora oscuro, talora difficilmente comprensibile, ciò che può
averne scoraggiato la lettura ma non perciò può dirsi brutto e non poetico.
Le parole del discorso restano talvolta ostili e talora quasi o del
tutto incomprensibili, che talora diventano parti di voli pindarici dato il carattere irruente , problematico ed
introverso, e fantasioso di chi scriveva quelle parole che non era parole ma
cose
“e’ dice cose, e voi
dite parole”
come ben si esprime il Berni nel
Capitolo a Fra Bastian Dal Piombo, il
che può rendere ostica la lettura ma
che, superandone lo scoglio, ben si appiana. Chi non supera l’ostacolo dice che
Michelangelo è incomprensibile. Mutatis mutandis lo stesso discorso l’ho
sentito fare da emeriti psichiatri riguardo al parlare schizofrenico (sia ben
chiaro che schizofrenico non è il parlare di Michelangelo anche se parla con
”cose”) simili ad uno che ritenesse
incomprensibile un inglese non conoscendo la lingua inglese; è che bisogna
conoscere le lingue compreso lo schizofrenichese, nel quale, si parla, per mia esperienza, attraverso
similitudini ed associazioni, attraverso assonanze usando fatti che sembrano a
prima vista estranei al discorso ma a ben vedere appropriati. Come del resto
parlano i sogni che per essere capiti devono essere interpretati. Come quella
volta che incontrando un paziente che avevo sciolto un tempo dal letto di
contenzione nel manicomio di Firenze, ma dopo rilegato dal primario che mi
riteneva incompetente ed in quella occasione avevo conosciuto i familiari che
ne avevano imposto il ricovero come giovevole alla salute della sua persona,
domandandogli se fossero sempre vivi i suoi genitori, mi rispose ”io non ho
genitori, sono figlio della scimmia” e con ciò mi comunicava con una breve
frase, ma icastica, quale fosse la sua vera condizione. (A tal proposito, e per
inciso è sempre opportuno e necessario saper distinguere fra “colpa” e
“responsabilità.)
Del resto, di fronte alle variazioni
sintattiche e grammaticali nelle rime di Michelangelo, talora è difficile
capire dove si sia rintanato il soggetto, rime che spesso si fanno
personalissime dato la tempra dell’autore ma che denotano abbreviazioni, dilatazioni, esaltazioni. E restano
allora i segni come segni di subbia che abbiano fatto partire schegge, e che
schegge, par di vedere il dietro della Pietà del Duomo di Firenze, ora nel
Museo dell’Opera del Duomo, soltanto abbozzato a colpi di subbia, pare di
intravedere la bocca atteggiata a bacio affettuosissimo e pietoso della Vergine
al Figlio morto, nella stessa Pietà, solo accennato. Si ricordi che sempre nella stessa Pietà il grande Michelangelo fa
a meno di scolpire e di aggiungere la gamba sinistra del Cristo che sarebbe
uscita ed avrebbe scomposto, storpiato, distorto il mirabile ovale fatto dall’abbraccio
destro di Giuseppe d’Arimatea alla spalla destra della Pia Donna, dal braccio
destro del Cristo la cui mano cadaverica trova ostacolo in una piega della
veste della Pia Donna, dall’arto superiore della Pia donna stessa , dalle
braccia della Madonna che tirano a sé il Figlio morto e concluso dal braccio
sinistro di Giuseppe d’Arimatea che pietosamente, carezzandole la spalla con la
mano aperta sembra volerla consolare, ovale che racchiude come in una teca il
Cristo deposto. La stessa sintesi analitica dell’analisi logica e grammaticale
presente in tante sue rime.
Questo è Michelangelo. Un segnare
rapido e furioso che rimanda al suo
“Non finito”.
Perché le sue abbreviazioni , le sue
contrazioni anche nelle rime ci rammentano il suo voluto non finito quasi che
la sua conscia incapacità di raggiungere la desiderata perfezione della forma
(soltanto Donatello seppe conservare la freschezza dell’opera abbozzata
nell’opera finita ed in arte bisogna sapere bene a che punto fermarsi) ci portasse a vedere ancora più fascinosa
l’opera sua, vedi come esempio la Vergine col Figlio della Sacristia Nuova, è
ciò che ci fa sentire indispensabile la nostra personale partecipazione per
poter fruire appieno l’opera d’arte sia essa in pittura, in scultura od in
poesia. La nostra partecipazione è
diversa a seconda dei tempi e della variata sensibilità; si gode l’opera d’arte
quanto più la si ama e quanto più ci commuove e quanto più si ama l’autore se
ne gusta e apprezza la sua grandezza e bellezza, l’amore che trascura i difetti
sfrucolati da chi non ama quando non trasforma in gaudio la ritrovata bellezza.
Perché l’opera d’arte si possa dire compiuta è necessaria la partecipazione
dello spettatore che vede e gusta quell’opera d’arte, l’artista non opera solo
per sé stesso ma anche e soprattutto per chi vede l’opera.
Si sorvoli infatti se si incontra un “tuo” che sta per “tuoi” un
“suo” che sta per “sua” e così via ché forse Michelangelo parlava a quel modo
ma che è facile poter capire.
Solo chi sa amare passionalmente può
apprezzare Michelangelo. Evidentemente il Croce e quelli come
lui non lo sapevano fare.
E non lo capirono, malauguratamente
per loro.
Madrigali di
Michelangelo
(Le
lettere accanto al testo indicano la rima, le maiuscole per gli endecasillabe le
minuscole per i settenari; il numero rima del titolo è
il numero progressivo dei madrigali in questa pubblicazione. Lo scritto prima
del testo del madrigale riguarda il
contenuto, quello che lo segue la forma.
Il resto
bianco della pagina può servire, per chi lo voglia, a chiosare come più piace.
1)
Chi
è quel che per forza a te mi mena (7)
E' il mistero
dell'innamoramento. Perché
succede?
Quale
forza arcana mi trascina verso di lei, oilmé, oilmé, oilmé, perché mi
sento incatenato pur essendo libero e
non legato? Chi può difendermi
dal volto della donna amata, come posso scappare se di fatto non ci sono catene
che mi incatenino, se non ci sono mani
o braccia che mi tengano?
Un
paradosso, un avvincente
paradosso come quelli che, se
insistiti, possono fare uscire di senno.
Chi
è quel che per forza a te mi mena
A
oilmè, oilmè, oilmè b
legato e stretto, e son libero e
sciolto? C
Se tu incateni altrui senza catena,
A
e senza mane o braccia m'hai
raccolto, C
chi mi difenderà dal tuo bel volto?
A
Piacevole
e semplice anche se intenso; semplice ma garbato anche il concatenarsi degli endecasillabi nella rima con
l'intermezzo dell' "oilmè, oilmè, oilmè", un settenario, che rompe il ritmo delle rime alternate; la rima
baciata degli ultimi due versi, la
stessa del terzo verso, conclude e
chiude il madrigale.
La
brevità ne fa un vero gioiello
2)
Come può esser ch'io non sia più mio(8)
Sempre il misterioso sconvolgimento
dell'innamorarsi, della perdita della propria volontà, della costante presenza
di chi lo trafigge senza toccarlo, il suo sentire lievitare dentro il cuore la
persona amata che pare straboccare. Perché?
Come può
essere che io non sia più me stesso? o Dio, o Dio, o Dio, chi mi ha rubato a me
stesso, che a me fosse più vicino o potesse più di quanto io possa? O Dio, o
Dio, o Dio come fa a trapassarmi il cuore chi sembra ce nemmeno mi tocchi? Cosa
è questa cosa o Amore, che mi entra tramite gli occhi e che sembra che cresca
in un poco spazio? E succede che trabocchi?
Come può esser ch'io non sia più
mio? A
O Dio, o Dio, o Dio, a
chi m'ha tolto a me stesso, b
c'a me fusse più presso b
o più di me potesse che poss'io? A
O Dio, o Dio, o Dio, a
come mi passa el core c
chi non par che mi tocchi? d
Che cosa è questo, Amore, c
c'al core entra per gli occhi, d
per poco spazio dentro par che
cresca? E
E s'avvien che trabocchi? d
Agile lo svolgersi della rima; gli
endecasillabi frammezzo ai settenari incalzano con il loro metaritmo, nove
settenari e tre soli endecasillabi due dei
quali con la stessa rima, in rima baciata, col settenario seguente ed uno
(quello del penultimo verso) senza rima a rendere ancora più problematico e senza
perché, anche nella forma, il
vagoso contenuto e che con l’endecasillabo pare spezzare la rima baciata dei consueti ultimi due
versi, di solito due endecasillabi a rima baciata. Come quel
desiante domandare è rafforzato
da quei due punti interrogativi che chiudono i due ultimi versi, in più
agli altri tre seminati in questo madrigale
che fanno del madrigale un
susseguirsi di onde; come pure con i due versi dall' "o Dio" per tre volte ripetuto si esprime anche foneticamente l'angoscia
dell'inconoscibile.
3)
Quanto sare' men doglia il morir presto (11)
E'
il primo madrigale che parla dell'amore non corrisposto. Il sapere
di non essere riamato è una morte continua.
Quanto
sarebbe meno dolore il morire presto che provare mille volte l’ora di morire!
Non essere riamato è come morire mille volte ogni ora perché ogni ora penso
mille volte a lei che invece di accettare il suo amore vorrebbe farmi morire!
ahi che dolore infinito sente il mio cuore, quando al mio cuore si ricorda che colei che tanto amo non sente niente per
me! Come farò a restare in vita?.
Anzi lei mi dice, per farmi
soffrire ancora di più, che non ama
neanche se stessa; e sembra che sia vero, ma come può amarmi se neanche lei si
ama? ahi che triste sorte incombe su di me! E' una triste sorte che, in verità, mi porterà alla tomba.
Ad un punto
lo sdoppiarsi, la coscienza che osserva
i propri sentimenti, il "cor" che va a proporsi come personaggio indipendente da chi vive ed ama è lontano
ricordo delle
"Confessioni" agostiniane (libro IV, 7-12).
Quanto sare' men doglia il morir
presto A
che provar mille morte ad ora in
ora, B
da ch'in cambio d'amarla, vuol ch'io
mora! B
Ahi, che doglia infinita b
sente 'l mio cor, quando gli torna
in mente C
che quella ch'io tant'amo amor non
sente! C
Come resterò 'n vita? b
Anzi mi dice, per più doglia darmi, D
che se stessa non ama; e vero parmi. D
Come posso sperar di me le dolga, E
se se stessa non m'ama? ahi triste
sorte! F
Che fia pur ver ch'io ne trarrò la
morte? F
Tutti
endecasillabi salvo due settenari dalla stessa rima che intervallano le
continue rime baciate insieme ai due endecasillabi, il primo ed il terzultimo, senza rima, che vivacizzano
il triste madrigale come pure i
punti esclamativi ed interrogativi che si alternano specie negli ultimi due versi. Eppure l'ultimo,
interrogativo verso pare offrire il pensiero che ci possa essere una speranza.
Originale per la metrica e per la rima
questo splendido madrigale.
4)
Comm'arò dunche ardire (12)
Il
suo solo desiderio è che la donna amata abbia in mente quanto totale e sofferto
sia il suo amore che le dichiara.
Non
potrò dunque avere mai il coraggio di
vivere senza di voi, mio bene se mi è
impossibile chiedere aiuto all’
andarmene? Tutti quei singhiozzi,
quei pianti, quei sospiri, che vi accompagnarono con un cuore misero,
insieme alle mie sofferenze, dolorosamente dimostrarono che era vicina la mia
morte. . Ma se è vero che la mia
fadeltà venga meno con l’essere
assente, io vi lascio il mio cuore con voi, dato che non è più mio.
ll cuore è diventato un pegno d'amore.
Com'arò dunche ardire a
senza vo' ma', mio ben, tenermi 'n
vita, B
s'io non posso al partir chiedervi
aita? B
Que' singulti e que' pianti e que'
sospiri C
che 'l miser core voi accompagnorno, D
madonna,duramente dimostrorno D
la mia propinqua morte e ' miei
martiri. C
Ma se ver è che per assenza mai E
mia fedel servitù vada in oblio, F
il cor lasso con voi, che non è mio. F
L'agile
arsi del settenario del primo
verso, peraltro senza rima nei
versi seguenti,contrasta con il lento svolgersi del discorso composto di endecasillabi, in
specie per la quartina centrale da "sospiri" a
"martiri". Un nuovo stacco
avviene col verso terzultimo senza una
rima corrispondente, che pare stare sospeso ma che, forse involontariamente, si lega con la parola all'inizio
del verso successivo per la rima
rovesciata
5)
Di te me veggo e di
lontan mi chiamo (56)
La sua donna
con la belleza l’ha preso al lamo e brucia d’amore.
Vedo
bene che sono di te e da lontano ( da
dove tu sei) mi chiamo per avvivinarmi al cielo da dove derivo ed a causa delle
tue speciali virtù arrivo a quell’esca
con la quale mi tenti e sono come un pesce tirato dalla lenza abboccato
all’amo, E siccome un cuore tirato da
due parti dà un piccolissimo segno di vita, a te si è dato tutto per la qual
cosa, e tu lo sai, resto come in verità sono, cioè una ben poca cosa. E siccome un’anima fra due tendenze va
verso la più degna, sono costretto per
forza ad amarti sempre se io voglio
vivere, Giacché io sono di legno che brucia (sono fatto di passioni terrene) e
tu sei di legno e di fuoco (anche tu
sei fatta di passione umana che si infiamma, ma hai anche la oossibilità di
fare infiammare me). (Oppure sei fastta di terra e di cielo).
Di te me veggo e di lontan mi chiamo A
per appressarm’al ciel dond’io
derivo, B
e per le spezie all’esca a te
arrivo, B
come pesce per fil tirato all’amo. A
E perc’un cor fra dua picciol segno C
di vit’a te s’è dato ambo le parti D
ond’io resto, tu ‘l sai, quant’io
son, poco. E
E
perc’un’ alma infra duo va ‘l più degno C
m’è forza, s’i’ voglio esser, sempre
amarti; D
ch’i’ son sol legno, e tu se’ legno
e foco. E
Sembra un
sonetto cui manchi la prima quartina.Un po’ troppo dottorale, con tuti gli
endecasillabi che formano il sonetto, a mio parere, E per raggiugere la
lunghezza del verso, con troppe elisioni che appesantiscono e fiaccano l’andastura
invece di alleggerirla, come vorrebbero.Sibillino e chioccio (per il “E perc’un cor”) il quinto verso per il non
indicare a cosa veramente alluda, ( il cielo e la terra? il male ed il bene? la
dignità o l’indegnità? e poi al verso seguente ne fa d’erba un fascio..)
6)
Natura ogni valore (19)
La donna
che ama è l'apogeo della bellezza e della compiutezza raggiunta dalla natura,
l’amore per questa donna gli è fonte di dolore ma anche di gioia.
La natura ha
creato ogni bontà e bellezza di donna o di giovane donna per imparare alla fine
a fare quella che oggi da una parte mi brucia d’amore ma anche mi ghiaccia, per
il dolore, il cuore. Dunque, nel mio dolore mai fu qualsisi uomo triste né ci
fu mai, né ci fu una pari angoscia e il pianto, infatti a seguito di una grande
causa c’è un maggiore effetto. Nessun uomo ha amato come amo io,ma anche nel
piacere di amare nessuno fu più lieto di me.
Natura ogni valore a
di donna o di donzella b
fatto ha per imparare, insino a
quella B
c'oggi in un punto m'arde e ghiaccia
el core. A
Dunche nel mio dolore a
non fu tristo uom mai; c
l'angoscia e 'l pianto e ' guai, c
a più forte cagion maggiore effetto. D
Così po' nel diletto d
non fu né fie di me nessun più
lieto. E
Madrigale
incompiuto nella forma pur compiuto nel significato. La prima
quartina si presenta piuttosto particolare, due settenari seguiti da due
endecasillabi con la rima baciata fra il settenario e l'endecasillabo centrali. Poi ritornano i settenari epoi un endecasillabo, poi un
settenario e poi l'ultimo endecasillabo; in tal modo si iaccende l'altalenare del ritmo a delineare
l'alternarsi del gioco fra la bellezza e il dolore, fra il dolore e
la contentezza che alla fine vince.L’interruzioe potrebbe far pensare
che non sia finito l’altalenarsi
E’ vero che il madrigale è incompleto?
Comunque l'adesione fra la forma ed il contenuto è completa e lo fanno
splendido.
7)
Perché pur d'ora in ora mi lusinga (28)
Un
altro madrigale incompiuto, un
madrigale che parla dei begli
occhi di Amore.
Sono
accalappiato dal ricordo di ora in ora dei suoi occhi e dalla speranza di vederli di nuovo, per la qual cosa mi sento
non soltanto vivo ma, in più, beato; Amore deve sapere che la mia natura e
l'abitudine che non posso perdere
costingono con forza la mia ragione a doverliammirare per tutta la vita.
Se cambiasse tale mia condizione che è
vita per me nemorirei, senza quegli occhi perdere la mia umanità. O Dio come son belli! esclama. Chi ancora
non è ravvivato né troverei pace se non ci fossero quei begli occhi. O Dio
Essi sono veramente belli! Chi non vive per queli ancora nonè nato, e se qulcuno verràpoi a dircelo è giocoforza che
se è nato, muoia subito nel vederli perché chi non si innamora dei begli occhi,
non vive.
Avrebbe,
per copletare il madrigale, parlato dei bellissimi occhi della sua donna? O
della vita gioiosa che sorge nel guardarli?
Chissà. Però sembra sottinteso nel pur incompiuto madrigale.
Perché pur d'ora in ora mi lusinga A
la memoria degli occhi e la
speranza, B
per cui non sol son vivo, ma beato; C
la forza e la ragion par che ne
stringa, A
Amor, natura e la mia 'ntica usanza, B
mirarvi tutto il tempo che m'è dato. C
E s'i' cangiassi stato, c
vivendo in questo, in quell'altro
morrei; D
né pietà troverei d
ove non fussin quegli. e
O Dio, e' son pur begli! e
Chi non ne vive, non è nato ancora; F
e se verrà dipoi, g
a dirlo quì tra noi, g
forz'é che, nato, di subito mora; F
ché chi non s'innamora f
de' begli occhi, non vive. h
Due terzine
di endecasillabi , un andante con moto,
per inizio, come tante volte si trova
nei madrigali di Michelangelo. E poi il madrigale si dipana con più brio, le
rime baciate, i settenari intervallati
a tratti dagli endecasillabi , che a volte da lontano si cantano la rima
("ancora " e "mora"), a
volte se la baciano col settenario seguente, ("morrei e
"troverei", "mora" ed
"innamora") fanno danzare i versi.
La chiusa, brusca e
rapida, improvvisa per la rima nuova,
sembra evocare il finire subitaneo della vita di coloro che non si innamorano
degli occhi belli ma è squisita nel ritmo, per il "non vive"
finale dopo le undici sillabe
del penultimo verso e di parte
di quello finale prima della
virgola e, questa porzione del madrigale, ( dal “ché” del penultimo verso agli “occhi “
dell’ultimo) si presenta con l'andatura di un perfetto endecasillabo.
8)
Dagli occhi del mio ben
si parte e vola (30)
Dagli
occhi del mio bene parte e vola un raggio così luminoso ed infocato che trafigge il cuore passando attraverso i miei occhi
anche se chiusi. Amore però, viaggiando fra lei e lui, porta un
carico disuguale perché nel venire da me porta la luce della sua bellezza
mentre ritornando da lei mi può rubare solo il buio della mia bruttezza e del
mio non poterla fare innamorare.
Dagli occhi del mio ben si parte e
vola A
un raggio ardente e di sì chiara
luce B
che da' mie, chiusi ancor, trapassa
'l core. C
Onde va zoppo, Amore, c
tant'è dispar la soma che conduce, B
dando a me luce, e tenebre m'invola. A
Un
madrigale che pare fatto a cesello per il sapiente e raffinato alternarsi delle
rime, sei soli versi, il primo rimato conl’ultimo, il secondo col quinto, il terzo col quarto,centrali, a rima baciata. Ed il settenario fra gli
endecasillabi sembra davvero fare zoppo
Amore; come claudicante sembra
il verso seguente con tutte le dentali ed i due accenti
ravvicinati ("tant'è dìspar") all'inizio in confronto al piano svolgersi della seconda parte del
verso. La rima al mezzo del
sesto verso col verso precedente ("luce" e
"conduce") è vera
preziosità fonetica ed in quel "m'invola"
c'è l'immagine sia del portargli via le
tenebre sia del volare di Amore.
9)
Amor
non già, ma gli occhi miei son quegli( 31)
Non c’è
amore senza tormenti, ma è sì augurabile!
Non hanno
trovato l’amore i miei occhi in quei tuoi occhi così belli ma vita e morte
intera. Non tanto mi offende e mi opprime il danno (che ho avuto
nell’incontrarti) quanto più quel danno mi distrugge e mi brucia d’altra parte l’ amore mi nuoce
tanto quanto più trovo compiacenza Mentre che io penso al male e lo provo, il
bene mi cresce in un attimo. O nuovo e strano tormento! Però non mi sgomento se
l’aver miseria e stento è dolce qui dovemai c’è bene, io vado cercando il
dolore con maggiori pene.
Amor non
già, ma gli occhi miei son quegli A
e vita e
morte intera trovato hanno. B
Tante meno
m’offende e preme ’l danno, B
più mi
distrugge e cuoce; c
dall’altra
ancor mi nuoce c
tante amor,
più quante più grazia truovo. D
Mentre
ch’io penso e pruovo d
il male, el
ben mi cresce in un momento. E
O nuovo e
stran tormento! e
Però non mi
sgomento: e
s’aver miseria e stento e
è dolce qua
dove non è ma’ bene, F
vo cercando
‘l dolor con maggior pene. F
Madrigale sofferto, anche se pazientoso., che
insiste sulle rime baciate,che nel secondo e terzo endecasillabo rispondono
all’ineluttabilità del destino, e gli endecasillabi sono pari ai settenari
quasi che il destino ineludibile
sia pari alla straziante sofferenza.
Quattro rime, le
stesse, insistenti per quattro versi, “momento”, “tormento”,
”sgomento” e “stento”) quasi ad
indicare la dimensione della sofferenza. Contenuto e forma ben si adattano.
10)
Ogni cosa ch'i' veggio mi consiglia (81)
Può
soltanto amare e cercare e seguire e bramare la donna amata, e chi le
rassomiglia anche per un po, non vede altro che lei’,( cose frequenti per chi
siia innamorato) lei soltanto è bella.
Ogni cosa
che vedo mi consiglia e mi prega e mi spinge a seguirvi e ad amarvi giacché ciò che non siete non è
il mio bene. Amore che annienta pernime ogni altra meraviglia vuole, per la mia sallute, che io cerchi ed ami
soltanto voi, che siete il mio sole e così tiene la mia anima priva di ogni
altra speranza e di ogni altro valore e vuole che io arda e viva non sltanto di
voi ma anche chi vi somiglia negli occhi o soltanto nelle cglia, anche se solo
in minima parte.E chi si discosta dalla vostra somiglianza, o occhi, o mia
vita, non ha luce perchè il cielo non c’è dove voi non siete
Ogni cosa ch'i' veggio mi consiglia A
e prega e forza ch'i' vi segua e ami B
ché quel che non è voi non è mio
bene. C
Amor, che spezza ogni altra
maraviglia, A
per mia salute vuol ch'i' cerchi e
brami B
voi, sole, solo; e così l'alma tiene C
d'ogni altra spene e d'ogni valor
priva, D
e vuol che arda e viva d
non sol di voi, ma chi di voi
somiglia A
degli occhi e delle ciglia alcuna
parte. E
E chi da voi si parte, e
occhi, mia vita, non ha luce poi; F
ché 'l ciel non è dove non siate
voi. F
Madrigale che contro undici endecasillabi ed all’ottavo ed all’undicesimo verso ha
due soli settenari i quali
da parte loro, iniziando con un
"e" avente il significato di
un "ma", sono lì a
stravolgere il senso del discorso, (il
secondo settenario riporta il discorso al
senso iniziale); purtuttavia, legati paradossalmente con la rima baciata
ai versi del precedente senso
contrario, il salto ed il contrasto della connessione si fa più marcata. (Eforse stravedere, è vedere ”ciò
che non c’è , è delirare forse, dire
che la rima del verso significativo del primo cambiamento di
senso "non sol di voi, ma chi di voi somiglia," che sta in mezzo a
due paia di rime baciate, è la stessa del primo verso della dichiarazione dell'immenso amore, il
"maraviglia" del quarto verso?)
Il madrigale, iniziato con due terzine di endecasillabi come a proclamare pacatamente
ma decisamente il suo amore si svolge in seguito più agilmente
con nuove rime, (salvo quella
del già detto quintultimo verso
che è la stessa del primo), e
con i settenari. Giunge poi a concludersi , in piena e decisa pacatezza,
nella rima baciata dei due
endecasillabi finali.
Anche
come è articolato il madrigale va ad esprimere le apparenti contraddizioni di
chi ama il quale non può non amare anche chi somigli alla donna amata, ma lo
dice in maniera solenne.
11)
Perc'all'estremo ardore (91)
Dal contenuto forse troppo intimistico e
sforzato, vuole per forza essere drammatico e morbosamente triste e
doloroso,proteso alla ricerca dell'artificio. Affincché
la mia vita resista al chiudersi ed
all’aprirsi dei tuoi occhi, all’estremo ardore che toglie la vita quando si
chiudono e ritorna quando si aprono, quei tuoi occhi che mi attraggono come una
calamita attrae il ferro ed attraggono la mia anima,ed ogni mia potere; così
Amore, forse perché pure è cieco, indugia ad uccidermi,e trema ed ha paura ;
siccome nel trapassarmi il cuore deve trapassare le parti tue esterne essendo
io dentro al tuo cuore,non mi uccide affinché tu nion muoia insieme a me.O
graqn martirio,perché un dolore mortale senza che io muoia, raddoppia lo
sfinimento del quale sarei salvo se non fossi dentro di te. Deh, fammi tornare in me affinché possa
morire una buona volta.
Un vivere e
un morire di continuo, insopportabili.
Perc' all' estremo ardore a
che toglie e rende poi b
il chiuder e l'aprir degli occhi
tuoi B
duri più la mia vita, c
fatti son calamita c
di me, dell'alma e d'ogni mie
valore; A
tal c'anciderm' Amore, a
forse perch'è pur cieco, d
indugia, trema e teme. e
C'a passarmi nel core, a
sendo nel tuo con teco, d
pungere' prima le tue parte streme; E
e perché meco insieme e
non mora, non m'ancide. O gran
martire, F
c'una doglia mortal,senza morire, F
raddoppia quel languire, f
del qual, s' l' fussi meco, sare'
fora. G
Deh rendim'a me stesso, acciò ch'io
mora. G
Se il contenuto
è contorto ed affettato,
l'aspetto formale riabilita
il madrigale. Il collocarsi degli endecasillabi rispetto ai
settenari in rima baciata col
settenario precedente o col settenario seguente, il disporsi delle rime, le rime in "ore" ("ardore",
"valore", "Amore", "core"), quattro, poco meno di un quarto di tutti i versi, le rime baciate, specie la mitragliata
delle rime in "ire" ("martire","morire",
"languire"), e le due
coppiette "Amore-cieco" e "core-teco" danno al
madrigale una particolare vivacità. Son battiti di ciglia che si susseguono.
,
12)
Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni (92)
Un
madrigale, tormentato dal rimorso, dalla disperazione, dal dubbio e dalla
consunzione nel contrasto tra
l'anima rattistata dal
peccato ed il corpo rallegrato dal piacere..
Non muore l'amore
che affligge l'anima ed allieta il
mio corpo anche se il tempo ogni giorno
costringa e spinga verso la morte le
membra piangenti, stanche e pellegrine su questa terra. Ne' m i
sembra che Amore meno perdoni a chi mi apre il cuore alla gioia e che glielo attanaglia
nel pianto neanche nelle ore più vicine a quell'altra vita che
dovrebbe essere piena di pace; ma
quelle ore ultime sono sempre
più dubbiose del fatto che quella vita
sarà tale perché l'adusata consuetudine con l'errore si fa purtroppo più tenace nel mentre che invecchio.
O duro destino più crudele di
ogni altro!Tardi oramai puoi togliermi i miei tanti affanni, poiché un cuore
che brucia ed è arso già da molti anni,anche se la ragionevolezza
smorza la sua fiamma,non si cambia in cuore, ma in cenere e carbone..
Sembra
davvero riecheggiare la predica svonaroliana.
.
Quantunche 'l tempo ne costringa e
sproni A
ognor con maggior guerra b
a rendere alla terra b
le membra afflitte, stanche e
pellegrine, C
non ha ancor fine c
chi l'alma attrista e me fa così
lieto. D Nè par che men perdoni a
a chi 'l cor m'apre e serra, b
nell'ore più vicine c
e più dubiose d'altro viver quieto; D
ché l'error consueto, d
com più m'attempo, ognor più si fa
forte. E
O dura mia più d'altra crudel sorte! E
Tardi orama' può tormi tanti
affanni; F
c'un cor che arde e arso è già
molt'anni F
torna, se ben l'ammorza la ragione, G
non più già cor, ma cenere e
carbone. G
Il vorrei e non vorrei della
prima parte è suggerito anche
dall'alternarsi di settenari e
di endecasillabi e dalla varietà delle rime.
Negli ultimi versi, tutti endecasillabi a rima baciata, affiora anche
nella forma, appare l'ineluttabilità insistita del suo destino.
13)
Spargendo il senso il
troppo amor cocente (93)
Ha l'aspetto di presentarsi come tentativo di
placare la gelosia dell’amato sorta
per avere guardato altri che lui.
Il mio sentimento spargendo l’amore che toppo
mi arde , al di fuori del tuo bel volto in un alrro
volto, diminuisce la sua forza o
signore, come un alpestre e tumultuoso
torrente fa dividendosi in più rami. ll cuore mio che vive del più ardente
fuoco d’amore,male si accorda con il piangere meno e con i sospiri meno ardenti
.L’anima in questo errore presente gode
che uno di questi sospiri muoia nel suo dileguarsi in cielo là dove l’anima
sembra che aspiri. . La ragione infine divide le pene d’amore fra i sensi,
e fra le dure prove d'amore e si accordano
tutti e quattro ad amartI sempre più.
A mio
parere non fra i più belli, come contenuto; mi pare troppo elucubrato.
Spargendo il senso il troppo amor
cocente A
fuor del tuo bello, in alcun altro
volto, B
men forza ha, signor, molto b
qual per più rami alpestro e fier
torrente. A
Il cor, che del più ardente a
foco più vive, mal s'accorda allora C
co' rari pianti e men caldi sospiri. D
L'alma all'error presente a
gode c'un di lor mora c
per gire al ciel, là dove par c'aspiri. D
La ragione i martiri d
fra lor comparte; e fra più salde
tempre E
s'accordan tutt'a quattro amarti
sempre. E
.
Schema
metrico simile ad altri madrigali; una
quartina per iniziare, con un settenario al terzo verso, seguono due terzine il
cui primo verso si accorda per la rima all'ultimo verso della quartina. Dopo le due terzine un settenario
dalla rima baciata col
terzo verso delle terzine. Finisce con due endecasillabi dalla rima
baciata. E' piuttosto variato e libero
l'alternarsi fra settenari ed
endecasillabi, la forma è più
pregevole del contenuto..
14)
Gli occhi mie vaghi delle cose belle (107)
Considerazioni
su cosa sia l'amore.
I miei occhi
desiderosi di vedere cose belle
e la mia anima desiderosa della salvezza non hanno altra facoltà per salire al cielo che mirare la bellezza,
mentre sale al cielo il desiderio di
bellezza Discende dalle stelle più alte una luce splendente che
attira il desiderio: questo quaggiù si chiama
amore. Non c'è altro che possa fare innamorare il cuore gentile ed incitarlo ad
innamorarsi
che
un volto che nel brillare degli
occhi somigli a quella luce
desiderata.
Gli occhi mie vaghi delle cose belle A
e l'alma insieme della sua salute B
non hanno altra virtute b
c'ascenda al ciel, che mirar tutte
quelle . A
Dalle più alte stelle a
discende uno splendore c
che 'l desir tira a quelle, a
e quì si chiama amore. c
Né altro ha il gentil core c
che l'innamori e arda, e che 'l
consigli, D
c'un volto che negli occhi gli
somigli. D
Una
quartina ad iniziare: tre endecasillabi con al terzo verso un settenario che in
rima baciata col precedente tiene sospeso il ritmo. Seguono quattro settenari,
ilprimo a rima baciata con l'endecasillabo precedente e fra di loro a rima
alternata, i quali, con un altro settenario, a rima baciata con quello che
precede, fanno più agile il parlare, travolgente il ritmo, anche se discorsivo e didascalico, un po’, per il
contenuto Con i due endecasillabi del finale si introduce nel madrigale la corporeità
degli occhi della persona amata a
rendere più terrena la poesia e l’amore, congiungendo la grazia celeste al
desiderio umano.
15)
Non sempre a tutti è sì pregiato e caro (109)
C'è
la sottolineatura in questo madrigale, del fatto che solo persone elette e magari disprezzate hanno la facoltà
di godere ciò che davvero è bello e
buono.
Perché non sempre ciò che piace ai sensi è pregiato e soave se è vero che da qualcuno
quello che a tanti sembra dolce viene
sentito come pessimo e spiacevole. Il
buon gusto è così raro tanto che al gente comune, che di solirto sbsglia,manca
di vedere come veramente è (cede in vista) ciò
di cui gode,
E proprio per questo io
perdendo,imparo perdendociò che superficalmente non vede chi ha l’animo torvo e
non sente i suoi sospiri che sorgono dal vedere ciò che è in realtà. Purtroppo il mondo è cieco e di suo, per sua
natura o merito,conferisce onori e riconoscimentia chi vuole essere meno
meritevole; tale modo di fare è come una staffilata per chi ha il gusto delle cose belle e di
pregio che da una parte fa male ma
anche insegna a non tener contodella vertà delle cose.
Non sempre a tutti è sì pregiato e
caro A
quel che 'l senso contenta b
c'un sol non sia che 'l senta b
se ben par dolce, pessimo e amaro. A
Il buon gusto è sì raro a
c'al vulgo errante cede c
in vista, allor che dentro di sé gode. D
Così, perdendo, imparo a
quel che di fuor non vede c
chi l'alma ha trista, e ' suoi
sospir non ode. D
El mondo è cieco e di suo gradi o
lode D
più giova a chi più scarso esser ne
vuole, E
come sferza che insegna e parte
duole. E
Sono
più belli i madrigali passionali;
quando Michelangelo si mette a scrivere in tono didascalico diventa meno
esaltante, il tormento è l'essenza
del suo sentire.Anche l'alternarsi della rima, lo stesso
del madrigale 11, non offre a
questo madrigale quella originalità formale alla quale siamo abituati;
neanche la metrica, pur variata
rispetto al suddetto madrigale nel
susseguirsi degli endecasillabi e dei settenari, sa offrire brio e
spigliatezza a parte qualche versoisolato, sublime nello scadire le parole (“
se ben par dolce, pessimo e amaro”, “in vista allor ché dentro di sé gode”, “
così pedendo imparo “, “come sferza che insegna e parte duole” e via leggendo).
16)
S'egli è,donna, se puoi (111)
Si
pente di non essersi innamorato subito di lei, di non aver capito subito che
pur essendo divina era anche mortale e l'invita a trasformarlo come lei vuole, lui sarà felice, diventerà allora
un'opera d'arte. Splendido madrigale in questa metamorfosi amorosa, questo
trasformarsi della sua persona in opera d'arte come lui fa con un pezzo di
marmo o con un foglio di carta, lui diventato una cosa inanimata di front
all'amore. Amore ed arte, scultura e poesia si confondono.
Se
è vero che pur essendo divina ltu, o
donna, puoi anche, come un essere mortale, ancora viva, mangiare, dormire e
parlare su questa terra allora quale
pena sarà adeguata al peccato di chi, dopo aver compreso la di lei
totale natura, non la segua subito, colpito dalla sua grazia e dal suo valore? Purtroppo l'uomo, sperso nei suoi vani pensieri, non vede a causa
dell’occhio che non vede e si innamora
tardi a causa della propria natura. Che
tu m possa disegnare su di me come fo
io con la pietra o con un foglio bianco
che nulla ha dentro, che tu mi possa adoprare
come una semplice pietra, come un foglio di carta bianco, sarà ciò che
lo voglio.
S'egli è, donna se puoi a
come cosa mortal, benché sia diva B
di beltà, c'ancor viva c
e mangi e dorma e parli quì fra noi, A
a non seguirti poi, a
cessato il dubbio, tuo grazia e
mercede, D
qual pena a tal peccato degna fora? E
Ché alcun ne' pensier suoi, a
con l'occhio che non vede, d
per virtù propria tardi s'innamora. E
Disegna in me di fuora, e
com'io fo in pietra o in candido
foglio, F
che nulla ha dentro, e èvvi ciò
ch'io voglio. F
In
un consueto alternarsi della rima il
variegato, sapiente, misurato
dispiegarsi degli endecasillabi e dei settenari disegna un ritmo
incalzante sottolineato dalla accorta
punteggiatura che induce a pause ed a riprese e che, nella prima
parte,conduce ansiosamente all'arsi
del punto interrogativo. Così i due settenari del sestultimo e
del quintultimo verso con la virgola alla fine preparano il dipanarsi lento quasi una pausa dell'endecasillabo
che li segue; e quel "Disegna in
me di fuora", rapida invocazione di un desiderio cocente racchiusa in un
settenario fra due endecasillabi, ha lo
stesso piglio ed il medesimo ritmo dell' "e èvvi ciò ch'io
voglio"finale, volendo un altro
settenario (voluto?) dopo la virgola al
mezzo del verso,che come una assoluta certezza, come un punto fermo oltre il
quale non si può andare, chiude magistralmente il madrigale.
17)
Il mio refugio e 'l mio ultimo scampo (112)
L'anima
invaghita dall'amore e dilaniata dal dolore per l'amore non corrisposto nel
desiderio contrastato fra il morire
ed il continuare a vivere; però vince la concretezza della vita terrena
che gli permette di vedere fisicamente la donna "altiera", anche se
non può fare altro che piangere e pregare. L'amore vince la morte.
Quale
mio rifugio, quale mio ultimo scampo può essere più sicuro e valido per me che il piangere ed il pregare? Ma
Amore e la sua crudeltà hanno posto per me il campo di battagliia, Amore armato
da una parte di compassione e l’alta di
morte: questa mi uccide e l’altra mi tiene in vita. Così l’anima, impedita del
mio morire, sola cosa che potrebbe giovarmi, più volte si è mossa per andare
lassù dove spera sempre di essere ma
non ne trova giovamento. Si scontrano sul suo campo di battaglia amore e crudeltà, l'amore armato di pietà, la crudeltà di morte e se la morte mi luccide
l'amore mi fa vivere. Così la mia anima
pur non avendo licenza di lasciare il mio corpo, ciò che per me sarebbe di
giovamento, ha più volte pensato di andarsene là dove sempre spera di andare,
dove la bellezza esiste al difuori della donna purtroppo altezzosa che
amo. Ma la sua immagine vera perché carnale, della quale io
vivo, allora riemerrge nel mio cuore affinché
l’amore non sia vinto dalla
morte.
Il mio refugio e 'l mio ultimo
scampo A
qual più sicuro è, che non sia men
forte, B
ch'el pianger e 'l pregar? e non
m'aita. C
Amore e crudeltà m'han posto il
campo: A
l'un s'arma di pietà, l'altro di
morte; B
questa n'ancide, e l'altra tien in
vita. C
Così l'alma impedita c
del mio morir, che sol poria
giovarne, D
più volte per andarne d
s'è mossa là dov'esser sempre spera, E
dov'è beltà sol fuor di donna
altiera; E
ma l'immagine vera, e
della qual vivo, allor risorge al
core, F
perché da morte non sia vinto amore. F
Soltanto
tre settenari su quattordici versi ma
capaci di suggerire contrasti e rivolgimenti anche formali oltre che di
contenuto. Dopo una prima parte fatta di due terzine di endecasillabi (ed in quel "e non m'aita" dopo l'interrogativo
del terzo verso, avviene la prima
antitesi), compare un settenario,
al settimo verso, in rima baciata col precedente verso che così lega pur disgiungendo; da quel punto i versi sono a rime baciate con la
ribattitura della terzultima rima
sulla rima baciata precedente, un'altra
antitesi formale ma anche contenutistica,
rima che paradossalmente la lega col verso che precede nei ripetuti
ripensamenti del madrigale.
18)
Esser non può già ma' che gli occhi santi (113)
Madrigale
somigliante nel contenuto al madrigale 30 (Dagli occhi del mio ben).
Dagli
occhi della donna amata esce dolcezza mentre dai miei non
possono che uscire amare lacrime sì che
Amore è come zoppo portando così diversi pesi andando avanti e
indietro. Mai potrà capitare che gli occhi della donna che amo prendano diletto come io dai suoi
perché non posso ridare altro che
pianti amari e tristi come risposta alla dolce allegrezza che quelli
emanano; la speranza di chi ama non
risponde mai alle aspettative, non ci si aspetterebbe mai che l'infinita
bellezza, la tanta luce degli occhi di
lei possano essere così dissimili e
diverse dal mrio modo di comportarmi e che ardendo dentro di me non ardano pure
nei suoi occhi. Così Amore nell'andare fra i due visi si turba e da uno, dal
mio viso, parte zoppo e non può fare a meno di provare dispiacere quando entra
in un cuore gentile come di fuoco
e pare uscirne dal mio che è
come di acqua.
Esser non può giamma' che gli occhi
santi A
prendin de' mie, com'io di lor,
diletto, B
rendendo al divo aspetto, b
per dolci risi, amari e tristi
pianti. A
O fallace speranza degli amanti! A
Com'esser può dissimile e dispari C
l'infinita beltà, 'l superchio lume D
da ogni mie costume, d
che meco ardendo, non ardin del
pari? C
Fra duo volti diversi e sì contrari C
s'adira e parte da l'un zoppo Amore; E
né può far forza che di me
gl'incresca, F
quand'in un gentil core e
entra di foco, e d'acqua par che
n'esca. F
Tre
quartine, le prime due con la rima baciata fra i versi centrali e
l'ultima a rima alternata, inframezzate da un verso a rima baciata con l'ultimo
verso della quartina precedente. I
settenari interrompono l'incedere degli endecasillabi. All'interno del quartultimo verso l'accentuazione pare
zoppicare, quasi a volere rendere visivo nel ritmo lo zoppicare di Amore..
19)
Ben vinci ogni durezza (114)
Sempre
alla donna "altiera" il cui sguardo gentile fa innamorare ma che poi
nega il suo amore.
Con i tuoi
occhi luminosi tu vinci ogni
resistenza,per come sei superiore ad ogni altra luce però, se qualcuno morisse
per la gioia di averli visti,a quel punto sarebbe giunta l’l'ora che la
compassione comandasse alla grande bellezza di
concedersi. Se la mia anima non fosse abituata ai tormenti sarei subito
morto al vedere la bellezza dei tuoi primi sguardi che promettevano l'amore
quando i miei occhi, nemici perché
possono portarlo a perdizione, non furono tardivi ad essere ingordi;
neanche potrei rammaricarmi delle tua mancanza di compassione che non
c’è in te. La tua infinita bellezza e
la tua ugualmente infinita piacevolezza, dove più capaci si mostrano di porgere
aiuto, non possono non togliere la vita
né non puoi nonaccecare chiunque tu guardi.
Ben vinci ogni durezza a
cogli occhi tuo,com'ogni luce
ancora; B
ché,s'alcun d'allegrezza avvien che
mora, B
allor sarebbe l'ora b
che gran pietà comanda a gran
bellezza. A
E se nel foco avvezza a
non fusse l'alma, già morto sarei C
alle promesse de' tuo primi sguardi, D
ove non fur ma' tardi d
gl'ingordi mie nemici, anz'occhi
miei; C
né doler mi potrei c
di questo non poter che non è teco. E
Bellezza e grazia equalmente
infinita, F
dove più porgi aita, f
men puoi non tor la vita, f
né puoi non far chiunche tu miri
cieco. E
Piuttosto
singolare la struttura di questo madrigale, quasi anarchica, a stento si
rintraccia nel suo andare una quartina, la sola, fra il settimo e l'ottavo
verso; per il resto rime ribattute tre volte
("ancora","mora", "ora" ed "infinita",
"aita", "vita"), a rinforzare il concetto, che
distanziano inusualmente altre rime ad
evidenziare il contrasto.
20)
Lezzi, vezzi, carezze, or, feste e perle, (115)
Sibillino
il terzo verso del breve madrigale pur
intendendo il "vedere" come un "distinguere" o
"separare"; purtuttavia a mio
parere uno dei più riusciti ,anche se il potare sintattico
ed i contorcimenti
grammaticali siano troppo arditi, per denotare divina la bellezza
della donna amata, la sua bellezza che dà splendore alle pietre preziose,
all'oro, all'argento.
Chi
potrebbe mai distinguere l'umano lavoro
dall'opera divina delle sue leziosità,delle sue grazie, dei suoi
modi gentili, della sua letizia
talora feste e perle dato che l'argento e l'oro ricevono la luce da lei
ed a causa sua raddoppiano il loro
brillare? Ogni gemma riluce più per lo
splendore che emana dai suoi occhi che per virtù propria.
Lezzi, vezzi, carezze, or, feste e
perle A
chi potria ma' vederle a
cogli atti suo divin l'uman lavoro, B
ove l'argento e l'oro b
da le' riceve o duplica la luce? C
Ogni
gemma più luce c
dagli occhi suo che da propria
virtute. D
Tre
coppie,costruite da un endecasillabo e da un settenario, a rima baciata insieme
ad un ultimo verso che non trova rima nel madrigale, questa la semplice trama
ritmica che conduce alla sigolare proprietà degli occhidella donna amata
singolarità rinforzata dlla rima solitaria.
Forse
il tarpare sintattico era necessario a disegnare la forma: il già
suindicato sibillino terzo verso, difficile ad essere districasto
grammaticalmente, tramite la suggestiva,
rimarcata e ribattuta
accentuazione col "divìn l'umàn", diventa guizzante quanto contrasto.
21)
Non mi posso tener né voglio (116)
Questo
madrigale, alquanto astratto e complesso, denso di sottintesi, ci vuol dire che
quanto più Amore si mette a tormentare tanto più l'anima ne trae beneficio; perciò per il suo
bene non può astenersi dal dolore che provaed il poco affetto ricevuto è un
grande guadagno anche se soffretanti tormenti d’amore, senza quei tormenti
sarebbe morte.
Non posso e neanche voglio
trattenermi al tuo furore mentre cresce, Amore, dal dirti e giurarti, quanto
piu tu inasprisca e renda più faticosa la vita, l’anima consigli
a seguire una maggior saggezza e
mi sproni e se talvolta comprende la mia morte, gli angosciosi pianti come
quelli di colui che muore, mi sento
mancare il cuore dentro di me mentre mi mancano i miei tanti tormenti. Occhi
miei splendenti e santi, la poca grazia
che da voi mi viene è così dolce e cara, tanto da fami pesare che assai
acquista chi impara molto col sapere di
perdere,
Non mi posso tener né voglio, Amore, A
crescendo al tuo furore, a
ch'i' nol te dica e giuri; b
quante più inaspre e 'nduri, b
a più virtù l'alma consigli e
sproni; C
e se talor perdoni c
a la mia morte, agli angosciosi
pianti, D
com'a colui che muore, a
dentro mi sento il core a
mancar, mancando i miei tormenti
tanti. D
Occhi lucenti e santi, d
mie poca grazia m'è ben dolce e
cara, E
c'assai acquista chi perdendo
impara. E
Tutte
coppie di rime baciate col successivo verso, salvo due endecasillabi, al
settimo ed al decimo verso, con la
stessa rima, distanziati da
una coppia di settenari a
rompere la cadenza piuttosto monotona
della prima parte del madrigale
affievolita dalla diversa lunghezza del verso ,certe volte, cosicché i due settenari a rima baciata fra i due
endecasillabi trovano una cadenza diversa e ad una cadenza diversa porta il
salto fra il secondo endecasillabo ed il settenario
che segue pur con rima baciata; anche l'interpunzione all'interno del decimo
verso che raccorda la prima
parte col settenario precedente e stacca la seconda parte con quel suo ritmo
lento e conclusivo de determina un diverso incedere del madrigale il quale va a
finire nella rima baciata dei due endecasillabi dal ritmo eguale fra di loro.
22)
S'egli è che 'l buon desio (117)
Probabile,
come scrive Ettore Barelli che il madrigale
fosse già composto perFebo del Poggio e poi modificato per Vittoria
Colonna; risulta infatti che Luigi del Riccio copiando il madrigale metteva al
quarto verso "sol un'opera è quella" ed al quindicesimo "come
suo fin per quel qua phebo onora".
Se
è vero che un affettuoso desiderio elevi a Dio quando venga da questa terra una qualche cosa bella, solo la mia donna è così per me e per chi vede come me, soltanto la mia
donna è degna di essere portata così in alto. Io dimentico ogni altra
cosa e soltanto di questo mi prendo cura.. Per cui non è da meravigliarsi se
l'amo, se la bramo, se la invoco ad
ogni momento, né è per mio merito se l'anima per la sua natura si appoggia alla
persona che somiglia negli occhi agli
occhi di lei, per i quli esce la sua bellezza.
( gli occhi sono la porta da cui
passa l'anima e l’amore che inducono..)
Se l'anima sente come suo scopo l'amore primo, Dio dal quale nacque l'amore, onora questa donna quaggiù per lo
stesso motivo; che dette infatti al servo l' ordine di amare chi adora il
Signore.
S'egli è che 'l buon desio a
porti dal mondo a Dio a
alcuna cosa bella, b
sol la mie donna è quella, b
a chi ha gli occhi fatti com'ho io. A
Ogni altra cosa oblio a
e sol di tant'ho cura. c
Non è gran maraviglia, d
s'io l'amo e bramo e chiamo a tutte
l'ore; e
né propio valor mio, a
se l'alma per natura c
s'appoggia a chi somiglia d
negli occhi gli occhi, ond'ella scende fore . E
Si sente il primo amore e
come suo fin, per quel qua questa onora: F
c'amar diè 'l servo chi 'l signore
adora. F
Un
verso che è una perla ed un altro che è una vera bruttura , l'uno "s'io
l'amo e bramo e chiamo a tutte l'ore" con l'insistere delle parole in rima stessa nel corso del
verso, rima tenera anche
foneticamente dolce e l'altro
davvero chioccio e cacofonico "come suo fin,
per quel qua questa onora"
che, senza volere, anticipa Walt Disney
con i nipoti di Paperino.( salvo si voglia denotare con quelle prole chiocce la
diversità del terrestrte col divino).
Detto ciò l'articolazione delle
rime e l'alternarsi di settenari e di
endecasillabi è originale, due coppie di rime baciate alla fine del madrigake, con la rima della seconda coppia uguale
al secondo ed al sesto verso, e che sta nel mezzo delle due quartine inisiali, quartine composte
da tre settenari ed un endecasillabo
con le stesse rime nella prima e nella seconda quartina
(oblio,"cura","maraviglia","ore"
rispettivamente con "mio","natura","somiglia","fore") e dall’ ultimo endecasillabo,che si ribatte
sulla stessa rima del settenario che
viene dopo, a congiungere la bellezza di lei con l’amor suo. Meraviglioso anche
se involontario, forse. il concatenarsi del metaritmo che si adegua al
contenuto.
23)
Ancor che 'l cor già
molte volte sia (118)
Ogni nuovo amore
porta con sé un tormento mortale
che solo la morte può far cessare. Anche l’amore terreno può essere causa di
morte, e morte eterna. Ritorna il tema francescano delle “morte secunda” insieme al “ Benedetto sie, mi’ Signore per sora nostra morte corporale”.
Anche se un
cuore si sia acceso molte volte ma che alla fine si sia spento, d amolti anni,l’ultimo mio tormento
d’smore sarebbe un tormento mortale
purché io non morissi. Per la
qual cosa l’onima mia, arrivata agli ultimi giorni della mia vita terrena,
mentre che l’amore mi brcia, desidara
l’ultimo giorno della mia vita che sarà il primo vissuto in un ambiente più
trnquillo. Un altro rifugio ed un’altra via di scampo non c’è fuori dal tormento infernale della dell’anima mia che
una morte del corpo aspra e crudele; ;né contro alla morte dell’anina è capace
di resistene nient’altro che la morte temporale , cosicché ogni altro aiuto
rappresenta una doppia morte per chi , al contrari, morendo, acquista la vita
eterna.
Ancor che 'l cor già molte volte sia A
d'amore acceso e da molt'anni
spento, B
l'ultimo mie tormento b
sarie mortal senza la morte mia. A
Onde l'alma desia a
de' giorni mie, mentre c'amor
m'avvampa, C
l'ultimo, primo in più tranquilla
corte. D
Altro refugio e via a
mie vita non iscampa c
dal suo morir, c'un aspra e crudel morte; D
né contr'a morte è forte d
altro che morte, sì c'ogn'altra aita E
è doppia morte a chi per morte ha
vita. E
Uno
schema metrico non originale per dare veste al tormentato contenuto di questo
madrigale: una quartina all'inizio poi
due terzine il cui primo verso, (delle
due terzine), si aggancia alla rima dell'ultimo verso della quartina
precedente“desia” con “mia”; le due terzine formate irregolarmente da settenari
ed endecasillabi ; il settenario, che precede i due endecasillabi finali (“né
contr’a morte è forte”) con la rima baciata ribatte sulla rima dell'ultimo
verso delle terzine, “forte” con “morte”.
Aggettivi, verbi, nomi che hanno a che fare con la morte,
"mortal""morir", "morte", (e questa parola è
rinforzata dalla rima "forte" nel terzultimo verso) si affacciano con
insistenza, (sei volte negli ultimi quattro versi) come martellanti rintocchi
funebri.
24)
Dal primo
pianto all'ultimo sospiro (119)
L'averla incontrata è stata per lui una sventura
anche perchè lei fa finta di averpietà
di lui ma non è sincera. Solo chi scappa da lei può vincere.
Per
tutta la vita, dal primo vagito all'ultimo respiro al quale sono vicino,
nessuno mai ha ricevuto un così
crudele sorte come me da una
donna celeste davvero splendente ma
anche feroce. Non dico che sia malvagia e traditrice, meglio
sarebbe che si manifestasse esteriormente con sincerità affinché il mostrarsi
sdegnosa facesse troncare l'amore; ma al contrario, se per caso la guardo, mi
sembra promettere di essere pietosa dei
miei patimenti mentre il suo cuore, nel suo intimo, non ha
alcuna pietà. O desiderato ardore! Soltanto un uomo vigliacco che scappi da lei può vincere con te per cui ringrazio
il cielo, essendomene accorto; ; questa contraddizione mi vinca sempre, che mi accompagni sempre se
solo la fierezza ed il valore possono insieme perdere.
Dal primo pianto all'ultimo sospiro, A
al qual son già vicino, b
chi contrasse giammai sì fier
destino B
com'io da sì lucente e fera stella? C
Non dico iniqua e fella, c
ch'el me' saria di fore, d
s'aver disdegno ne troncasse amore; D
ma più, se pur la miro, e
promette al mio martiro e
dolce pietà, con dispietato cuore. D
O desiato ardore! d
ogni uom vil sol potria vincer con
teco, F
ond'io, s'io non fui cieco, f
ne ringrazio le prime e l'ultime ore D
ch'io la vidi; e l'errore d
vincami; e d'ogne tempo sia con
meco, F
se sol forza e virtù perde con seco. F
Dopo
il primo verso senza rima, il madrigale si distende con coppie di rime baciate,
di solito formate da un endecasillabo e da un settenario salvo una coppia di
settenari, a dare il movimento che,
accresciuto da quei rimbalzi, suggeriti
dalla punteggiatura nello scorrere dei
versi, specie nel terzultimo e nel penultimo verso, (qui due
punto e virgola), si placa nel
ritmo fluente dell'endecasillabo
finale. Da notare poi che nello
scandire in due sillabe quell' "ogni uom" del
sestultimo verso fa dopo scivolare
l'accento su "sol" e poi rintoccare su "vìncer" e
"téco" danno al verso un ritmo particolare, ritmo che rimbalza
vivacemente nel settenario che segue “ ond’io, s’io non fui cieco”.
25)
Ben tempo saria omai (120)
Anche
se vecchio non può non essere malato d'amore; meno male, pare che dica, perché
purtoppo chi resta malato, per ironia della sorte, non muore.
Amore
come tu sai, sebbene sarebbe tempo di smettere di soffire per amore giacché
l'età avanzata si accorda male col desiderio amoroso,c’è peròl l’anima, cieca e
sorda del tempo passato e del morire d’amore che mi ricorda di essere in faccia
alla morte non bada al tempo che passa ed alla morte vicina. E se, per
caso ,l'anima mia volesse farla finita con l'amore spezzando in mille pezzi
l'arco e la corda,lui, Amore, non gli faccia
mai mancare uno dei suoi malanni; perché chi non guarisce mai non può
morire.
I
mali d'amore pur facendo soffire tengono lontana la morte.
Ben tempo saria omai a
ritrarsi dal martire, b
ché l'età col desir non ben
s'accorda; C
ma l'alma cieca e sorda, c
Amor, come tu sai, a
del tempo e del morire b
che, contro a morte ancor, me la
ricorda; C
e se l'arco e la corda c
avvien che tronchi o spezzi d
in mille e mille pezzi, d
prega te sol non manchi un de' tuoi
guai: A
che mai non muor chi non guarisce
mai. A
La
varia articolazione delle rime ne fà
un madrigale singolare, la rima del
primo verso è quella del quinto e dei due
finali, la rima del secondo è la stessa del sesto la terza coln la rima del settimo verso; le altre
rime son tutte baciate. acome del
resto, fra i tanti settenari i due
endecasillabi cenìtrali dalla stessa rima( “ accorda” e “ricorda”) rallentano
il madrigale insieme ai due endecasillabi finali, quasi a rendere l’idea del
ritardare della morte a causa della malattia d’amore.
26)
Come non puoi non esser cosa bella (121)
Sembra di
sentir cantare, nel contenuto, l’antifona “ ubi charitas et amor ibi Deus est”.
Dato
che tu sei per forza una cosa bella non puoi essere che
caritatevole verso di me; essendo tutta per me (cosa? la donna? o è da
intendere che nei suoi confronti l'interesse di lei sia tutta caritatevole e
gli trasetta questa sua virtù?)per forza sono come distrutto e senza
vigore. Così pur non cessando sempre la mia compassione di essere pari alla tua bellezza che quì è
molta, la fine del tuo bel volto sarà nello stesso tempo e con quella mia compassione sarà la fine dl mio cuore ardente d’amore. Però quando lo
spirito, dopo che sarà sciolto dal corpo, ritornerà al cielo a godere di quel signore che rende eterni i corpi
a chiunque muoia, o nella pace (del
paradiso) o nel dolore (dell'inferno), io fo voti che il signore voglia che il mio corpo, benché brutto,come è quì con te lo voglia in
paradiso sempre con te; perché un cuore pieno di compassione ha lo stesso
valore di un bel viso, sia di quà che di là.
Come non puoi non esser cosa bella, A
esser non puoi che pietosa non sia; B
sendo po' tutta mia, b
non può poter non mi distrugga e
stempre. C
Così durando sempre c
mie pietà pari a tua beltà qui
molto, D
la fin del tuo bel volto d
in un tempo con ella a
fie del mie ardente core. e
Ma
poi che 'l spirto sciolto d
ritorna alla sua stella, a
a fruir quel signore e
ch' e' corpi a chiunche muore e
eterni rende o per quiete o per
lutto; F
priego 'l mie, benché brutto, f
com'è qui teco il voglia in
paradiso; G
c'un cor pietoso val quanto un bel viso. G
Madrigale
contorto e di difficile interpretazione
in ispecie per quel"sendo tutta mia" che non si sa a che cosa o a chi
riferire cosiccome "mie pietà" del sesto verso non si comprende bene
se la "pietà" sia della donna rivolta a lui o sia quella sua rivolta
a lei; il periodo poi che si svolge per ben cinque versi, dal decimo al
quattordicesimo, manca della frase principale, salvo che si tolga il
punto e virgola e la si trovi nei due
versi seguenti.
Neanche la prevalenza dei settenari rendono scorrevole il
madrigale, l'insistere delle rime baciate (dodici versi a rima baciata
contro cinque) lo appesantiscono e gli
danno un ritmo monotono che i settenari centrali, pur non a rima baciata, sia per il numero sia
per l'eguale ritmo interno, non sanno, a mio parere, vivacizzare.
27)
Se 'l foco al tutto nuoce (122)
Continua
a vivere pur avviluppato dal fuoco dell'amore e né lui né la donna amata
l'hanno di proposito condannato a quel patire, ma solo il Dio che sta nei
cieli; per tale motivo lei lo deve perdonare.
Se
il fuoco che tutto distrugge mi fa bruciare ma non mi annienta non è perché lio
sono più forte ed il fuoco meno potente è che, come una salamandra, (che la
credenza popolare la faceva capace di potere resistere al fuoco), può vivere
mentre un altro nella stessa situazione morirebbe. Non so chi, pur essendo in
pace, m’ha portato a quel martirio, non
fu lei a farsi quel suo viso né da me fu fatto il proprio cuore
né tanto meno sarà disfatto da noi il
suo amore; sta più in alto quel signore che pose la mia vita negli occhi tuoi,.
Per tale motivo seio ti amo ed a lei non pesa , tu mi devi perdonare comei io
perdono all'atroce dispiacere che mi vuole che io muoia eccetto
chi veramente mi uccide.
Si
noti il citare la “salamandra” ,diceria comune agli orafi che vedevano correre
una salamandra nel fremere dell’oro al momento che l’oro fuso fosse
pronto, e solo allora, per esser re
colato nella forma. Il nonno del Cellini fece sì che il nipote ricordasse bene
quel momento con un sonoro scapaccioone dato in quel preciso istante.
Se 'l foco al tutto nuoce, a
e me arde e non cuoce, a
non è mia molta né sua men virtute, B
ch'io sol trovi salute b
qual salamandra, là dov'altri muore. C
Non so chi in pace a tal martir m'ha
volto: D
da te medesma il volto, d
da me medesmo il core c
fatto non fu, né sciolto d
da noi fia mai il mio amore; c
più alto è quel signore c
che ne' tuoi occhi la mia vita ha
posta. E
S'io t'amo, e non ti costa, e
perdona a me com'io a tanta noia, F
che fuor di chi m'uccide vuol ch' i'
muoia. F
Scorrevole
ed agile questo breve madrigale sia per
l'inusualità del collegarsi delle rime,
sia per l'inserimento di qualche endecasillabo fra tanti settenari (per ritrovare la terza rima
"muore" c'è da aspettare che passino
quattro versi, due settenari a rima baciata,e poi un endecasillabo ed un settenario
sempre a rima baciata ma nuova;
la quale terza rima ritorna ancora tre volte, “core”, “amore” e “signore” e le
ultime due baciate; I due primi
settenari a rima baciata, “amore” e “signore”, cantano con un diverso ritmo interno dovuto alla diversa
posizione degli accenti da cui
scaturisce un piglio vivace, fanno pendant con i due endecasillabi del quinto e
sesto verso, anch'essi a rima baciata, anch'essi dalla diversa accentatura
mentre i due finali hanno identico il ritmo salvo la parte finale. Da
notare, anche, che le due stesse parole
che fanno rima al sesto ed al settimo verso, “volto,” e vòlto sono due forme grammaticali distinte anche
se hanno la stessa scrittura.
C'è
inoltre da notare che il ritmo si ribatte al settimo ed all'ottavo verso a
rinforzare l'identità fra lei e lui, di
quei "medesma" e "medesmo", ma anche che l'ottavo verso scivola nel nono, prima
della virgola, a formare un perfetto
endecasillabo.
28)
Quante più par che'l mio mal maggior senta(123)
Chi
ama, pur non riamato, fa diventare bella la donna amata, la fa diventare più
bella, essa si può sentire bella solo
perché è amata, una moderna intuizione estetica e filosofica, il reale è
tale solo se avvertito da altri. E chi
ama e soffre stima fruttuoso e dolce il suo patire.
Quanto più
forte mi senta il soffrire, ed il mio
viso doloroso ve lo dimostra, tanto più mi sembra che al viso vostro si
aggiunga bellezza, cosicché il dolore diventa dolce. Chi mi tormenta ,pur
crudele, fa bene a tormentarmi se in parte vi fa bella con la mia pena pessima;
se il mio malanno che è il mio crudele e mortale destino, cosa succederà con la
mia morte? Ma se è pure vero che la vostra bellezza avvenga perr il mio
martirio.ed a quel martirio manchi soltanto il morire, morendo io morirà anche
la vostra leggiadria. Perciò fate in modo che io stia vivo con meno dolore per
avere anche voi un minor danno e se siete più bella quanto più è maggioreil mio
malanno, la mia anima ne ha più tranquillità: giacché un gran piacere sopporta
un grande affanno
Quante più par che 'l mio mal
maggior senta, A
se col viso vel mostro, b
più par s'aggiunga al vostro b
bellezza, tal che 'l duol dolce
diventa. A
Ben fa chi mi tormenta, a
se parte vi fa bella c
della mia pena ria; d
se 'l mio mal vi contenta, a
mia cruda e fera stella, c
che farie dunche con la morte mia? D
Ma s'è pur ver che sia d vostra beltà dall'aspro mio martire, E
e quel manchi al morire, e
morend'io, morrà vostra leggiadria. D
Però fate ch'i' stia d
col mio duol vivo, per men vostro
danno; F
e se più bella al mio mal maggior
siete, G
l'alma n'ha ben più quiete: g
c'un gran piacer sopporta un grande
affanno. F
Splendido madrigale; solo se amata la donna è bella
e tanto è più bella quanto più è
amata. Inizia con una quartina, composta da due settenari in rima baciata tra due endecasillabi, che
ha l'aspetto di una dichiarazione solenne. Poi
si stempera al venire delle due
terzine fatte di cinque settenari e da un endecasillabo finale dal tono discorsivo e l’ endecasillabo, in rima
baciata col settenario che lo
segue, inizia le successive coppie di settenari e di endecasillabi a rima
baciata dal ritmo di danza che si
raffrena nella quartina finale
il cui terzo verso si contrae in settenario per donare l'invito ritmico a trovare
l'ambita serenità nell'ultimo verso in rima non baciata col precedente, come
suole, ma col quartultimo verso. Come
in altri madrigali oltre al ritmo insito nei versi, talora rapido, talora
rallentato, c'è un metaritmo delle varie rime che si succedono e
nell'alternarsi dei settenari con gli endecasillabi.che lo rendonopiù vivace e
piacevole.
29)
Questa mie donna è sì pronta e ardita (124)
Al
contrario del madrigale precedente quì è il dolore a soverchiare la gioia, male
che dura viene a noia alle mura.
Quella
donna che amo è così disposta
esfacciata che mentre mi toglie ogmi
mio bene mi promette ogni vantaggio cogli occhi ma nello stesso tempo mi rigira nella ferita il ferro crudele del rifiuto. Così dentro all'anima prova
nel medesimo istante due sentimenti
contrastanti, il sentimento di morte e quello
di vita; però la gioa mi scaccia
il tormento come per mettermi ad una prova più lunga; perché il male nuoce più di quanto giovi il bene.
Questa mie donna è sì pronta e ardita, A
c'allor che la m'ancide ogni mio
bene B
cogli occhi mi promette,e parte
tiene B
il crudel ferro dentro la ferita. a
E così morte e vita, a
contrarie, insieme in un picciol
momento C
dentro all'anima sento; c
ma la grazia il tormento c
da me discaccia per più lunga
pruova; D
c'assai più nuoce il mal che 'l ben
non giova. D
Una
quartina di agili endecasillabi per
introdurre seguita da un settenario in
rima col quarto verso e dopo un endecasillabo e due settenari, (questi
tre versi dalla rima identica, “momento”, “sento” e “tormento”“), a
vivacizzare lo svolgersi altalenante
dello spigliato madrigale che va a
chiudedersi con due endecasillabi a rima baciata..
30)
Tanto di sé promette (125)
Al
vecchio il pensiero della morte impedisce ogni desiderio amoroso.
Da
una parte la donna "pietosa e bella" e dall'altra la morte "invidiosa e fella", da una parte il calore ed il fuoco dell'amore e
dall'altra la funerea freddezza della
morte, da una parte i brevi, fugaci attimi di oblio dall'altra l'incessante
ricordo che la morte è vicina, da una parte la speranzosa e incerta promessa
d'amore dall'altra la certezza della morte; lui nel mezzo, oramai vecchio.
Tanto
mi fa sognare amore la bella donna che
mi offre la sua benignità che quando la
guardo ritorno come fui un tempo da giovane anche se ora sono vecchio ed è
tardi ormai per pensare all'amore. Ma siccome fra gli sguardi miei dolenti ed i
suoi benevoli si intromette la morte,
invidiosa di chi prova amore e traditrice
perché colpisce a tradimento,
può sentire il fuoco dell'amore soltanto quando dimentica il volto
della morte. Siccome però il reo
pensare gliela riporta davanti allora quel dolce fuoco è spento
dal ghiaccio della morte.Uno fra
i madrigali più toccanti e tragici specie se chi lo legge è vecchio.
Tanto di sé promette a
donna pietosa e bella, b
c'ancor mirando quella b
sarie qual fu' per tempo, or vecchio
e tardi. C
Ma perc'ognor si mette a
morte invidiosa e fella b
fra ' mie dolenti e ' suo pietosi
sguardi, C
solo convien c' i' ardi c
quel picciol tempo che 'l suo volto
oblio. D
Ma poi che 'l pensier rio d
pur la ritorna al consueto loco, E
dal suo ghiaccio è spento il dolce
foco. E
Una
continua altalena
Da
una parte la donna "pietosa e bella" e dall'altra la morte "invidiosa e fella", da una parte il calore ed il fuoco dell'amore e
dall'altra la funerea freddezza della
morte, da una parte i brevi, fugaci attimi di oblio dall'altra l'incessante
ricordo che la morte è vicina, da una parte la speranzosa e incerta promessa
d'amore dall'altra la certezza della morte; lui nel mezzo, oramai vecchio.
Lo
svolgersi del madrigale sia nel ritmo, sia nelle rime, sia nel dispiegarsi
degli endecasillabi e dei settenari è originale, fuori da ogni schema come anche i tre ripetuti
settenari dell’inizio; rime che si cercano da lontano ( "promette" e "mette", "bella" e
"fella", "tardi" e
"sguardi"), rime che si baciano, due endecasillabi dalla stessa rima
fra tanti settenari, al quarto ed al settimo verso (“tardi” e “sguardi). Splendido
il paradossale contrasto di rime identiche per i diversissimi attributi,
dei diversissimi attori, della donna e della morte.
31)
Se l'alma è
ver, dal suo corpo disciolta (126)
La
speranza di essere corrisposto in amore travalica la morte, addirittura come in
questo madrigale si arriva a sognarla nel ritornare in un'altra vita terrena.
La follia dell'amore è assoluta.
Se
è vero che l'anima, separata che sia
dal suo corpo, ritorni ancora in un
altro corpo ai pochi giorni che
passano così alla svelta per vivere
e morire un'altra volta, quella donna tanto bella agli occhi sumiei sarà a quel tempo così crudele come è oggi? Se
verrà tenuto conto del suo pensiero dovrei poterla attendere piena di
amorevolezza e priva di asprezza di animo. Io credo, infatti che, se per caso
chiuda i suoi begli occhi , per l'aver
provato cosa significhi morire, quando si rinnoverà la sua vita avrà
compassione del mio morire attuale.
Se l'alma è ver, dal suo corpo
disciolta, A
che 'n alcun altro torni b
a' corti e brevi giorni, b
per vivere e morire un'altra volta, A
la donna mie, di molta a
bellezza agli occhi miei, c
fie allor com'or nel suo tornar sì
cruda? D
Se mie ragion s'ascolta, a
attender la dovrei c
di grazia piena e di durezza nuda. D Credo, s'avvien che chiuda d
gli occhi suo begli, arà, come
rinnuova, E
pietà del mie morir, se morte
pruova. E
Un
madrigale tutto al condizionale con quei tre "se" all'inizio ed a un
po' più della metà e quasi alla fine. Una quartina per iniziare, al centro
della quale due settenari in rima
baciata, e poi due terzine il cui primo verso è legato per la rima al primo ed
al quarto verso della quartina mentre
la rima del terzo verso è ribattuta dalla rima
del settenario che precede i due
endecasillabi finali che chiudono a rima baciata il madrigale.
32)
Non pur la morte, ma 'l timor di quella (127)
Una
variante del madrigale "Tanto di sé promette" (27); se in quelllo sta ad impedire le gioie
dell'amore qui il timore della
morte lo difende e gli fa scampare il pericolo ed il patire dell'amore, due facce della stessa medaglia nella
relatività della vita
Non la morte ma il timore della morte mi difende e mi
fa scampare dalla donna tanto malvagia quanto bella che ancora mi fa morire; e se talvolta mi incendia più del solito quel fuoco nel quale sono
incappato non trova altro aiuto che avere ferma nel cuore l'immagine della
morte: perché dove sta la morte il cociore straziante dell'amore non può essere sentito.
Una sconfortante "consolatio".
Non pur la morte ma 'l timor di
quella A
da donna iniqua e bella, a
c'ognor m'ancide, mi difende e
scampa; \ B
e se talor m'avvampa b
più che l'usato il foco in cui son
corso, C
non trovo altro soccorso c
che l'immagin sua ferma in mezzo il
core: D
che dov'è morte non s'apprezza
amore. D
Tre
coppie di versi, un endecasillabo ed un
settenario a rima baciata con una quarta oppia di endecasillabi anch'essi a
rima baciata compongono questo madrigale.
Il
ritmo scorrevole è dato dall'alternarsi degli endecasillabi e dei settenari e
dalle pause imposte dalla punteggiatura
che lo rendono armonico e prezioso.
33)
Se il timor della morte (128)
Continua
la "consolatio" del madrigale precedente. Lo stesso binomio: l'amore
che fa soffrire , la morte che salva e che apre all'anima la porta della gioia.
Se
chi fugge e scaccia sempre il timore della morte lo potesse lasciare fin da quando inizia, il crudele ed
invincibile Amore con ostinati tormenti
farebbe, su chi ha un animo gentile, prove spietate. Ma, siccome l'anima
spera di gioire un giorno fuori da questo mondo per effetto della morte e
della grazia divina, chi è destinato a morire tiene in considerazione quel
timore di fronte al quale ogni altro
timore è di meno importanza. Non c'è altro riparo in difesa delle eccelse
eparticolari bellezze di una donna superba
atto a schivare il suo disprezzo
o la sua ricompensa. Lui giura a chi non lo crede che soltanto chi lo può far morire davvero lo lo
può difendere e proteggere dalla donna che ride del suo piangere.
Sembra
volersi convincere per forza che soltanto la morte sia la sua salvezza facendo
appello anche alla Fede in un mondo ultra terreno, la terra purtroppo è pregna
di dolore e lui non può sopportare chi ride del suo dolore, meglio morire.
Se 'l timor della morte a
chi 'l fugge e scaccia sempre b
lasciar là lo potessi onde ei si muove, C
Amor crudele e forte a
con più tenaci tempre b
d'un cor gentil faria spietate
pruove. C
Ma perché l'alma altrove c
per morte e grazia al fin gioire
spera, D non può non morir gli è 'l timor
caro E
al qual ogni altro cede. f
Né contro all'alte e nuove c
bellezze in donna altera d
ha forza altro riparo e
che schivi suo disdegno o sua
mercede. F
Io giuro a chi nol crede, f
che da costei, che del mio pianger
ride, G
sol mi difende e scampa chi
m'uccide. G
Sempre
madrigali per la donna "bella e crudele". In questo si dilunga, non
c'è in questo madrigale l'accurata sintesi insieme alla compiutezza del
messaggio con la sapienza compositiva
del precedente. Complicato, a mio
parere con troppa ricercatezza e con affettazione manierata, il procedere della rima .
34)
Da maggior luce e da più chiara stella (129)
Alquanto
confuso nel contenuto ed il lapalissiano finale non in sintonia con quello che
il madrigale dice fino allora; la bellezza della donna fa diventare bello chi è brutto ma, sembra poi anche dire,
se è bella è più bella, per
contrasto, stando insieme ai brutti e lì dovrebbe stare.Non c'è dubbio che, se
chi è bello rendesse un po' della sua bellezza a chi è brutto, sarebbe
meno bello il suo volto e più bello il volto del brutto.
Il
cielo di notte, da lontano, illumina le sue stelle con la stella che possiede
una maggior luce ed è più chiara, dal sole, e così la donna amata, sola fra tutte le donne, rende più bella ogni cosa
meno bella che stia presso di lei.
Quale delle due fatti (non capisco bene
se intenda il celeste ed il terreno)
può muovere e spingere a pietà il suo cuore
affinché chi arde di passione
non si raffreddi? quelli che pur non essendo belli fanno
diventare bella e gentile la persona di lei insieme al volto e
gli occhi ed i suoi biondi e belli capelli. Dunque lei va contro il
proprio interesse se li scansa, e lui con loro, se è vero che chi è bello
diventa più bello stando fra i brutti.
Se rendesse ai brutti quella bellezza che fu loro tolta lei sarebbe meno
bella ed i brutti più belli.
Da maggior luce e da più chiara
stella A
la notte il ciel le sue da lunge
accende: B
te sol presso a te rende b
ognor più bella ogni cosa men bella. A
Qual cor più questa o quella A
a pietà muove e sprona, c
c'ognor chi arde almen non
s'agghiacc'egli? D
Chi, senza aver ti dona c
vaga e gentil persona c
e 'l volto e gli occhi e 'biondi e
be' capegli. D
Dunche, contra te quegli d
ben fuggi e me con essi, e
se 'l bello infra ' non begli d
beltà cresce a se stessi. e
Donna , ma s' tu rendessi e
quel che t'ha dato il ciel, c'a noi
l'ha tolto, F
sarie più 'l nostro, e men bello il tuo
volto F
La
forma però è elegante e scorrevole sia per il ribattere ed il saltare della
rima, sia per i settenari frapposti tra gli endecasillabi oppure ripetuti più
volte e talora a rima baciata fra di loro talaltra con gli endecasillabi
precedenti.
35)
Non è senza periglio (130)
Appare,
come in altri madrigali scritti per il Cavalieri, il timore costante per lui
già vecchio della condanna eterna a causa dell'amore peccaminoso. Già nel madrigale "Quantunche 'l tempo
ne costringa e sproni" è stato incontrato tale tema che incontreremo anche
nel madrigale seguente.
Il
volto dell'amato è pericoloso per l'anima di chi, come lui, è vicino alla morte
che ogni momento sente incombente: per
tale motvo egli si sforza e medita di
difendersi da quel volto prima di morire. Però l'appagamento di vederlo, pur
essendo vicina la fine,gli toglie la libertà di essere come vorrebbe; né alcuna
lo scioglie da quella tenerezza:
Un giorno solo, tutto a un tratto non può yogliere l'andazzo inveterato di
molti anni.
Non è senza periglio a
il tuo volto divino b
dell'alma a chi è vicino b
com'io a morte, che la sento ognora; C
ond'io m'armo e consiglio a
per far da quel difesa anzi ch'i'
mora. C
Ma tuo mercede, ancora c
che 'l fin sia da presso, d
non mi rende a me stesso; d
né danno alcun da tal pietà mi
scioglie: E
ché l'uso di molt'anni un dì non
toglie. E
Un
breve ma denso madrigale.
Un'insistenza
quasi ossessiva di rime baciate mentre la prima rima trova la compagna al
quinto verso dove si inserisce fra due
rime uguali, "ognora" e "mora", che chiudono due
endecasillabi dal medesimo contenuto di
morte, ambedue solenni e ponderosi nel ritmo.
Quel
"anzi ch' i' mora" è da intendersi nella francescana (e dantesca)
prima e seconda morte ed i versi fra
dal settimo all’ottavo sembrno riandare alla” lettea ai Romani” di San
Paolo .
36)
Sotto duo belle ciglia
(131)
Ritornano
i begli occhi e le belle ciglia del Cavalieri esaltate già nel madrigale
"Ogni cosa ch' i' veggio mi consiglia" (il n° 7), ritorna il tormento
e la paura della morte eterna, ritorna la giustificazione dell'impossibilità di uscire dall'abusata
abitudine.
Amore
riprende le forze all'ombra di due begli
occhi nel tempo che dovrebbe spezzargli l'arco e le ali. Ma, pur vecchio, i propri occhi ancora ghiotti di
ogni stupefacente meraviglia esperimentano la doglia provocata da più di un
fiero strale che viene da quelle belle ciglia ed anche questa doglia somiglia a
cosa
meravigliosa. Ed intanto lo
assale, insieme al dolce pensare, anche un aspro pensiero insopprimibile e di
vergogna e di morte; però Amore non è
sconfitto da un così grande timore e da
così grandi castighi: perché un
'abitudine che dura da anni non può essere vinta in breve tempo.
Sotto duo belle ciglia a
le forze Amor ripiglia a
nella stagion che spezza l'arco e
l'ale. B
Gli occhi mie ghiotti d'ogni
maraviglia A
c'a questa s'assomiglia, a
di lor fan pruova a più d'un fero
strale. B
E parte pur m'assale, b
appresso al dolce, un pensier aspro
e forte C
di vergogna e di morte; c
né perde Amor per maggior tema o
danni: D
c'un or non vince l'uso di molt'anni. D
Se
nel contenuto, pur diverso e variato, somiglia
al precedente madrigale, la forma è nuova e quanto mai originale; le
rime, poche, quattro su undici versi
insistono, sembrerebbe a delineare un
incubo, per quattro volte ( "ciglia" e e "ripiglia"
e "maraviglia" e "s'assomiglia"), per tre volte
("ale,"assale","strale")
e tutte le altre raddoppiate. Il
ritmo si distende talvolta andantemente, talaltra con più moto ad esprimere
in questo madrigale una piacevole
musicalità.
37)
Mentre che 'l mie passato m'è presente (132)
Vecchio,
rivede tutto il suo passato pieno di dolorosa ed inquieta falsità, di inevitabili colpe e ne conclude che meglio
sarebbe una vita breve.
Quando
gli è presente il suo passato, come
ogni giono gli torna così tanto alla
mente, allora si avvede bene quanto
questo falso mondo sia causa di errori e di
danni all'umana gente: il cuore, che magari dopo aver tergiversato alla fine
cede alle lusinghe del mondo ed ai suoi vani piaceri, procura guai dolorosi
all'anima. Bene sa chi è
cosciente come il mondo promette la pace ed il bene che non ha né deve mai
avere. Per questo chi più vive in
questo mondo ottiene meno vere grazie: giacché chi meno vive torna al cielo
meno carico di colpe.
"Vanitas
vanitatum, et omnia vanitas".
Mentre che 'l mie passato m'è
presente, A
sì come ognor mi viene, b
o mondo falso, allor conosco bene B
l'errore e 'l danno dell'umana
gente: A
quel cor, c'alfin consente a
a' tuo lusinghi e a' tuo van
diletti, C
procaccia all'alma dolorosi guai. D
Ben lo sa chi lo sente, a
come spesso prometti c
altrui la pace e 'l ben che tu non
hai D
né debbi aver già mai. d Dunque ha men grazia chi più quà soggiorna: E
ché chi men vive più lieve al ciel
torna. E
Madrigale
dal ritmo piano e discorsivo, costruito
con usata maestria, come in tanti altri madrigali (vedi "Spargendo
il senso il troppo amor cocente" (10), "Non sempre a tutti è sì pregiato e caro"(12), "S'egli è,
donna, se puoi"(13), "Esser non può gia ma' che gli occhi santi"
(15), "Ancor che 'l cor già molte
volte sia" (20), "Se l'alma è ver, dal suo corpo disciiolta"
(28),nel dispiegarsi analogo di quartine, di terzine, di rime baciate, con la
chiusa dei ultimi due endecasillabi. Però quì l'effetto è più gradevole
forse perché più si addice al contenuto, forse perché è
diversa la disposizione degli endecasillabi e dei settenari che
origina una diversa musicalità.
38)
Condotto da molt'anni all'ultim'ore (133)
Ancora
un madrigale tutto rivolto ai propri problemi sul rapporto personale fra la
vita terrena e l'aldilà, fra il peccato
e la grazia, fra la condanna e la
sensualità incontinente nella certezza che chi vive più a lungo è destinato ad
un maggior pericolo di dannazione. E
neanche al corpo giova il troppo
vivere.
Portato
dai molti anni alle ultime ore di vita conosce
tardivamente la vera natura dei piaceri del mondo; bene ha capito come
il mondo promette la pace che
non possiede e come la requie promessa muore ancor prima di essere nata. La vergogna ed il timore consoni ai suoi troppi anni, che la legge divina gli suggerisce, non gli riportano alla mente
altro che l'errore fatto in passato e che allora gli sembrò piacevole,
che però uccide l'anima e niente giova al corpo di chi vive troppo in
quell'errore. Lo può ben dire e ne ha
la prova per esperienza personale che solo chi ebbe la morte vicina alla sua
nascita ha un destino migliore in cielo.
Condotto da molt'anni all'ultim'ore A
tardi conosco, o mondo, i tuoi
diletti: B
la pace che non hai altrui prometti B
e quel riposo c'anzi al nascer
muore. A
La vergogna e 'l timore a
degli anni, c'or prescrive c
il ciel, non mi rinnuova d
che 'l vecchio e dolce errore, a
nel qual chi troppo vive, c
l'anima 'ncide e nulla al corpo
giova. D
Il dico e so per pruova d
di me, che 'n ciel quel sol ha
miglior sorte E
ch'ebbe al suo parto più presso la
morte. E
Ancora
la stessa rispondenza e la stessa articolazione delle rime però ancora una
diversa posizione degli endecasillabi rispetto ai settenari, la quartina
iniziale è fatta di tutti endecasillabi
che la fanno somigliare ad un inizio di
sonetto. Una nuova variazione sul medesimo
tema, per ciò che riguarda sia il contenuto che la forma.
39)
Beati voi che su nel ciel godete (134)
Un
madrigale a responsorio, non è l'unico;
questo con le anime beate del paradiso, un confronto fra il cielo e la terra,
fra chi ama in cielo e chi ama in terra, una considerazione sul dolore cui è
sottoposto per amore.
Interroga
i beati, che in cielo godono il
frutto del dolore che il mondo non
ricompensa, se pure lassù amore faccia loro violenza oppure se a causa
della morte ne siano liberi.- La loro
eterna quiete, rispondono, che sta al
dilà di ogni tempo, non conosce invidia pur amando ed è senza dolore.- E allora
con cattivo profitto lui deve
vivere, come le anime beate possono vedere, a causa del suo
amare e dell'obbedire all'amore soffrendo. Se il cielo è amico a chi ama
mentre il mondo a chi ama è ingrato, per quale motivo è venuto al mondo? per vivere così tanto? questo lo
spaventa: che il poco vivere è già troppo a chi attentamente obbedisce
all'amore e vive malamente.
”Beati voi che su nel ciel godete A
le lacrime che 'l mondo non ristora, B
favvi amor forza ancora, b
o pur per morte liberi ne siete? “ A
“La nostra etterna quiete, a
fuor d'ogni tempo, è priva c
d'invidia, amando, e d'angosciosi
pianti.” D
“Dunche a mal pro' ch' i' viva c
convien, come vedete, a
per amare e servire in dolor tanti. D
Se il cielo è degli amanti d
amico, e 'l mondo ingrato, e
amando, a che son nato? e
A viver molto? E questo mi spaventa: F
ché 'l poco è troppo a chi ben serve
e stenta.” F
Simile
ma non uguale al precedente, quindici versi invece di tredici, due terzine all’inizio, la rima non nella stessa sequenza nelle due terzine, due versi
a rima baciata dopo il verso che
ribatte l'ultima rima delle terzine;
ma l'inversione della rima fra l'ottavo ed il nono verso sembra
rimarcare la differenza, si avverte nella musicalità ritmica una specie di
salto, fra il cielo e la terra.
40)
Mentre c'al tempo la mie vita fugge (135)
Riecheggia
la già citata lettera di Paolo ai
Romani come nel madrigale 9
"Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni".
Mentre
dal suo inizio la sua vita si allontana rapidamente è distrutto ancor più da
amore che neanche lo lascia per un'ora come un tempo credette che
potesse succedere quando avesse avuto molti anni. La sua
anima che trema per la paura della pena e si ribella come un uomo che muoia a torto, si duole con lui per
gli eterni danni che le farà subire. Fra il timore di un aldilà e gli
inganni dell'amore e della morte è dubbioso sul valore della vita che conduce
cosicché cerca per un istante il meglio ma
dopo prende il peggio del timore e degli inganni, talmente il buon
proposito è vinto dalla cattiva consuetudine.
Mentre c'al tempo la mie vita fugge A
amor più mi distrugge, a
né mi perdona un'ora, b
com'io credetti già dopo molt'anni. C
L'alma, che trema e rugge, c
com'uom c'a torto mora, b
di me si duol, de' sua etterni
danni. C
Fra 'l timore e gl'inganni c
d'amore e morte, allor tal dubbio
sento, D
ch' i' cerco in un momento d
del me' di loro e di poi il peggio
piglio; E
sì dal mal uso è vinto il buon
consiglio. E
Scorrevole
per il ritmo interno dei versi e per il musicale svolgersi della rima e della
metrica dei dodici versi, inconsuete. Inizia con una coppia di versi a rima
baciata il secondo dei quali dà inizio
a due terzine, sull'ultima rima di
queste due terzine ribatte quella di un
settenario cui seguono due
coppie di versi a rima baciata.
Gli endecasillabi con il loro
distendersi invitano ad una pausa mentre scultoreamente dantesco è il "com'uom c'a torto mora" che ben si addice a
"L'alma, che trema e rugge", davvero onomatopeica.
41)
L'alma che sparge e
versa (136)
Parla
a sé stesso, parla al fuoco
dell'amore, parla alla sua anima, parla agli occhi dell'anima, ripensa alla
situazione dalla quale non può uscire. Ancora un
paradosso, le lacrime che
sgorgano dalla sua anima dolorante sono a far sì che non si spenga il fuoco
dell'amore;pure se di quel pianto e di
quell'amore egli vive.E' il suo destino.
L'anima
sparge e versa fuori degli occhi le lacrime
che sgorgano dal di dentro e questo l'anima lo fa affinché non sia spento il fuoco dell'amore nel quale è trasformata. Ogni altro aiuto
sarebbe vano se è vero che il piangere sempre lo ravviva al quel fuoco, pur essendo vecchio e vicino alla
morte. Il suo doloroso destino e la sua
avversa fortuna non hanno la possibilità di sottometterlo a più dure prove che l'affliggano più di quanto
l'affligga quel fuoco; in
maniera tale che quegli sguardi degli occhi dell'anima che fuori versano lacrime li chiude in se stesso e così gode e
vive soltanto di ciò di cui un altro morirebbe.
L'alma che sparge e versa a
di fuor l'acqua di dentro, b
il fa sol perché spento c
non sie da loro il foco in che' è
conversa. A
Ogni altra aita persa a
saria, se 'l pianger sempre d
mi resurge al tuo foco, vecchio e
tardi. E
Mie dura sorte e mie fortuna avversa A
non ha sì dure tempre, d
che non m'affligghin men, dove più
m'ardi; E
tal ch' e' tuo accesi sguardi, e
di fuor piangendo, dentro
circunscrivio F
e di quel c'altri muor sol godo e
vivo. F
Continui
sottintesi, continue abbreviazioni in un continuo cambiare dei diversi interlocutori,
colpi di subbia che abbozzano ma fanno intendere. Anche l'andamento della rima
è scomposto e sconvolto, le rime si affacciano, poi ritornano, non ci sono
quartine, non ci sono coppie di terzine, soltanto tre coppie di versi a rima
baciata, una al quarto ed al quinto, le altre due alla fine e la penultima
costruita su di un endecasillabo ed un
settenario a muovere il ritmo mentre gli endecasillabi suggeriscono
pause del pensiero..
42)
Se per gioir pur brami
affanni e pianti (137)
La
morte toglie ogni dolore. La morte è desiderata.
Se
Amore per gioire desidera gli affanni ed i pianti degli innamorati a lui gli è
più ben voluta ogni freccia la più crudele che non framette né tempo né spazio
fra il ferire e la morte: cosicché Amore, ad uccidere chi ama, perde i pianti
che lo fanno gioire e gli amanti
soffrono un minore strazio. Per
ciò lo ringrazia se lo fa morire mentre non per i dolori che gli procura, chi
toglie la vita sana ogni malattia.
Il
contenuto è all'opposto di quello del madrigale precedente.
Se per gioir pur brami affanni e
pianti, A
più crudo, Amor, m'è più caro ogni
strale, B
che fra la morte er 'l male b
non dona tempo alcun, né breve
spazio: C
tal c'a 'ncider gli amanti a
i pianti perdi, e 'l nostro è meno
strazio. C
Ond'io sol ti ringrazio c
della mie morte e non delle mie
doglie, D
c'ogni mal sana chi la vita toglie. D
Una
coppia di endecasillabi, una all'inizio
ed una alla fine, a fare lento il ritmo
mentre nel resto del madrigale l'alternarsi
degli endecasillabi e dei settenari determinano un ritmo saltellante
accresciuto dal fatto che nella seconda coppia composta da un endecasillabo ed un settenario la rima non è baciata però
"amanti" trova subito all'inizio del verso seguente quel
"pianti" che ribatte il suono. Breve il madrigale, poche le rime ma
ben tre sono uguali ("spazio", strazio", "ringrazio")a
farne un madrigale singolare.
43)
Porgo umilmente all'aspro giogo il collo (138)
Ritorna
il concetto più volte ripetuto che il patire scongiura la morte con l'altro che
il patire per amore è desiderabile e dona felicità.
Umilmente
porgo il collo alla gogna ed il volto
lieto alla cattiva sorte ed alla mia donna dal cuore pien di fede e di fuoco
che mi è nemica; né mi scrollo di dosso quel martirio anzi temo che venga meno.
Poiché se il suo volto sereno mi trasforma il grande martirio in cibo e
vita, quale può essere un dolore tanto crudele tale da farmi morire?
Porgo umilmente all'aspro giogo il
collo, A
il volto lieto alla fortuna ria, B
e alla donna mia b
nemica il cor di fede e foco pieno; C
né dal martir mi crollo, a
anz'ogni or temo non venga meno. C
Ché se il volto sereno c
cibo e vita mi fa d'un gran martire, D
qual crudel doglia mi può far
morire? D
Madrigale
breve e pacato per i tanti
endecasillabi che trattengono il ritmo; anche il susseguirsi della rima
vi contribuisce per via di tante rime baciate mentre, può sembrare ad adeguarsi
al dualismo del contenuto, le due rime non baciate, "collo" e
"crollo" si pongono a contrasto
ed a rompere il ritmo nel mezzo del madrigale. Fa pensare alla dimestichezza con tanti umanisti negli anni
giovanili in casa di Lorenzo quell'ablativo assoluto de " nemica il
cor di fede e foco pieno" ed il "timeo ne" del "non venga
meno".
44)
In più leggiadra e men
pietosa spoglia (139)
Michelangelo
amava ed aveva ben studiato Dante, quì sembra di sentire l'eco di Paolo e
Francesca: pur di stare insieme all'amata
anche nell'inferno egli si sentirà beato.
Non
c’è nessun corpo più
leggiadro e meno disponibile
che quello tuo o donna,che trattenga il
moto ed il dolce desiderare; però, a
causa dela volontà contraria al donare
la propria bellezza, per te è più adatto l'inferno di quanto sia per me, a
causa del mio soffrire,sia adatto il paradiso: né lo dico né lo celo se
desideri o no allo stesso modo il mio ed il tuo peccato affinché, se da vivo non sono stato con te, da morto
io lo possa essere con
nell'inferno oppure, per la
mutata volontà da ingrata in amorevole,
la pace eterna sia anche per me là dove il
patire per causa tua su questa terra mi avrà fatto essere beato in
eterno. Percui se dolce sarà per me l'inferno stando con te, come starà in
paradiso? Allora io soltanto,
doppiamente beato sarei a godere, nel divino coro dei beati, tanto quel Dio che
sta in cielo e l'altro che adoro su questa terra.
In più leggiadra e men pietosa
spoglia, A
all'anima non tiene b
che la tuo, donna, il moto e 'l
dolce anelo; C
tal c'alla ingrata voglia a
al don di tuo beltà perpetue pene B
più si convien c'al mie soffrire il
cielo: C
I' nol dico e nol celo c
s' i' bramo o no come 'l tuo 'l mie
peccato, D
ché se non vivo, morto ove te sia, E
o, te pietosa, che dove beato D
mi fa 'l martir, si' etterna pace
mia. E
Se dolce mi saria e
l'inferno teco, in ciel dunche che
fora? F
Beato a doppio allora f
sare' a godere i' sol nel divin coro G
quel Dio che 'n cielo e quel che 'n
terra adoro. G
Due
terzine all'inizio, varie nella metrica, poi un settenario dalla medesima
rima dell'ultimo verso della seconda terzina, poi una quartina
di endecasillabi con dopo un
settenario in rima baciata col
quarto endecasillabo ed infine una
coppia di versi a rima baciata, la prima formata da un endecasillabo e da
un settenario, l'ultima parte formata da due endecasillabi. I cinque settenari posizionati con maestria
danno brio al madrigale mentre gli undici endecasillabi, ed in particolare i
quattro della quartina centrale, danno un moto amabilmente andante al madrigale.
45)
Se l'alma alfin ritorna (140)
E'
meglio stare con la donna amata nell'inferno per tutta l'eternità oppure insieme a lei in paradiso?
Forse il soffrire meno è più importante del godere meno se questo èdovuto al
peccato di amarla più che Dio, tale da
far pensare al Paolo e Francesca dell’Inferno dantesco.
Se
come si crede alla fine dei tempi
l'anima tornerà nella sua veste corporea dolce e desiderata,sia che Dio la
salvi o la condanni , nell'inferno ci
sarà meno tormento se tu sarai lì ad adornarlo per il fatto che ti
si potrà contemplare e vedere.Mentre, se
salirà e tornerà in
paradiso, come io insieme all'anima desidero con tanta premura ed
appassionato desiderio, sarà
godere meno di Dio se qualsiasi altro piacere lascia il passo al
divino e dolce sembiante di te come mi succede in questo mondo. Per cui attendo di amarti sempre di
più se è vantaggioso al dannato
soffrire meno di quanto non nuoce in paradiso l'essere meno beato.
Un
amore davvero follemente immenso e terrestre.
Se l'alma alfin ritorna a
nella suo dolce e desiata spoglia, B
o danni o salvi il ciel, come si
crede, C
ne l'inferno men doglia, b
se tuo beltà l'adorna, a
fie, parte c'altri ti contempla e
vede. C
S'al cielo ascende e riede, c
com'io seco desio d
e con tal cura e con sì caldo
affetto, E
fie men fruire Dio, d
s'ogni altro piacer cede, c
come di qua,al tuo divo e dolce
aspetto. E
Che me' d'amarti aspetto, e
se più giova men doglia a chi è
dannato, F
che 'n ciel non nuoce l'esser men
beato. F
Tanto
nelle prime due terzine quanto nelle seconde due la rima si presenta non in sequenza perfetta, quasi un
disordine formale che si adatta al paradosso amoroso del contenuto, il godimento maggiore viene dalla donna amata
piuttosto che da Dio e rimanda
all' "amor inordinatus" di Agostino,
inversione di valori nel prefererire un bene inferiore ad uno superiore
(vedi "Confessioni", libro II, 5,10).
Cosiccome
è agostiniano quel "fruire" nel cui termine c'è pure il concetto di
godere ed Agostino distingue bene l' "uti" dal "frui"
("De Trinitate" X, 10,13). Da notare altresì come le due prime
terzine che parlano dell'inferno sono legate alle due seconde che parlano del paradiso da una stessa rima che lega, a
rima baciata, l'ultimo verso delle
prime due al primo delle seconde,
congiungendo dolore e gioia, premio e
condanna, desiderio e volontà ,
terrestrità e mondo dell'aldilà,
terrestrità come amor profano che vince.
E la rima dei versi 12 e 13
“aspetto” non è una ripetizione pure se
possiede lo stesso suono ché l'una è nome e l'altra voce di verbo.
46)
Perc’all’’alta mie speme
è breve e corta (141)
E’ meglio
essere in dubbio di essere amato che la certezza di non esserlo.
Perché
la fiducia che mi dai, o donna , è
breve e corta rispetto alla mia speranza che vola alta, godrò, per non stare peggio, di quanto superficialmente prometti con gli
occhi,; poiché dove è morta la compassione, non è che la bellezza non diletti.
E se effetti contrari dentro di te sento effetti contrari di quanto i
tuoi occhi ostentino di compensare,non tento di essere certo del tuo
amore ma prego invece, anche se la gioia è meno che intera che il dubbio sia
dolce a chi può nuocere la verità.
Madrigale
di contenuto altamente psicologico, che mi fa venire in mente le lettere
d’amore di un mio paziente, mai spedite alla persona amata, in una delle quali
scriveva che mai avrebbe azzardato di dichiararle il suo svscerato amore per la
paura di avenre il rifiuto.
Perc’all’’alta mie speme è breve e
corta, A
donna,tuo fe’, se con san occhio il
veggio B
goderò per non peggio b
quante di fuor con gli occhi ne
prometti; C
chè dove è pietà morta, a
non è che gran bellezza non diletti. C
E se contrari effetti c
agli
occhi di mercé dentro a te sento D
la certezza non tento, d
ma prego, ove ‘l gioire è men che
intero, E
sia dolce il dubbio a chi nuocer può
‘l vero. E
La forma si adatta bene al
contenuto, agile anche se la maggioranza dei versi sono endecasillabi, seguiti
solitamentedai rapidi settenari in rima baciata, che fa risaltare la vagosità
tutta interiore del madrigale; sapientemente usate le cesoie delle
abbreviazioni lessicali, vere scorciature e scorciatoie, anche il ritmo
interiore all’endecasillabo, valga uno per tutti il “non è che gran bellezza
non diletti”, fa risaltare il ritmo da
andante con brio di tutto il madrigale.
47)
Credo, perc’ancor
forse (142)
Ancora
un bel viso lo fa innamorare.
Credo che Amore, perché ancora non sia spenta forse la fiamma della passione nel tempo senza calore dell’età non
più verde,abbia teso l’arco all’improvviso ,
Amore che si rammenta che non sbaglia mai colpo se mira in un cuore
gentile e sa fare ritornare verde un’età matura a causa di un bel volto
e sa anche che è peggiore la mia
ricaduta all’ultima sua freccia che il
male del primo innamoramento.
Credo, perc’ancor forse a
non sia la fiamma spenta b
nel freddo tempo dell’età men verde, C
l’arco subito torse a
Amor,che si rammenta b
che ‘n gentil cor ma’ suo colpo non
perde; C
e la stagion rinverde c
per un bel volto; ;e peggio è al
sezzo strale D
mie
ricaduta che ‘l mio primo male. D
Piccolo
madrigale dalle poche rime,col riemergere di lontane parole dantesche ( il
“sezzo strale” ricorda il dantesco “venimmo al pié d’una torre al da sezzo” ed
il “che in gentil cor ma’ suo colpo non perde” ricorda troppo l’ “ al cor
gentile ripara sempre amore”), semplice nella forma e nel contenuto, piano nella comprensione, agile per le rime a b
C, a b C ripetute e ribattute dalla
terza c che rimbalza in arsi e per i settenari in quantità maggiore rispetto
agli endecasillabi.
48)
Quant’ognor fuggeil
giorno che mi resta (143)
Tanto più
rapidamente fugge il giorno che mi resta del mio vivwere corto e poco tanto più
mi stringe il fuoco dell’amore nel breve tempo
che per me comporta più danno e stazio: giacché il cielo non presta
aiuto per andar contro la vecchia usanza, cosa che dovrei fare in così breve spazio di tempo. Siccome poi, non sei sazio, o Amore, del fuoco
che mi assedia, nel quale fuoco nemmeno una pietra può conservare la sua natura nonché un ouore, ti ringrazio se il
cuore ancora indomito non duri se per qualche tempo resta chiuso in questo fuoco. Ma ciò che per me è la cosa peggiore diventa la mia fortuna,perché il
vivere ai tuoi voleri (vivendo sotto la tua insegna) non mi è caro
purché almeno da morto tu non infieriscasu di me.
Meglio la
pace eterna che soffrire le sofferenze dell’amore.
Quant’ognor fuggeil giorno che mi
resta A
del viver corto e poco, b
tanto più serra il foco b
in picciol tempo a mie più
danno e strazio: C
c’aita il ciel non presta a
contr’al vecchio uso in così breve
spazio. C
Pur poi che non se’ sazio c
del foco circumscritto, d
in cui pietra non serva suo natura E
non c’un cor, ti ringrazio, c
Amor, se ‘l manco invitto d
in chiuso foco alcun tempo non dura. E
Mie peggio è mia ventura, e
purché la vita all’arme che tu porti F
cara non m’è, s’almen perdoni a’ morti. F
Madrigale
che si svolge pianamente, si direbbe quasi consolatorio anche se doloroso ed
impellente data la brevità del tempo a disposizione. Già il primo endecasillabo
lo fa capire nel ritmo pacato salvo il “quant’ognor” iniziale che esprime bene
l’ineluttabilità della rapidità del tempo che passaa; nche i due settenari
seguenti, dallo stesso ritmo per la medesima accentazione e dalla stessa
rima, fanno sentire la rassegnazione
ribadita dal ritmo e dalla rima; come del resto tutti gli endecasillabi sono definizioni declamative ed
esaustive.Senza invocazioni pleonastiche
sche rompano il ritmo il madrigale si svolge fino al “perdoni a’ morti”
che lo chiude.
49)
Passo innanzi a me
stesso (149)
E’ vana idea pensare di avere ancora lunga
vita.
vado al
eilà delle mie possibilità coi pensieri ambiziosi e ponderati e prometto a me stesso il passare del tempo che non
debbo avere. O pensiero vano e folle! perché ,avendo la morte appresso io perdo il presente ed anche non
posso avere l’avvenire, rivolto
ad un volto leggiadro sono infiammato e con quello spero risanarmi e vivere , anche se invece sarò già
morto in qegli anni dove la mia vita
non arriverà.
Passo innanzi a me stesso a
con alto e buon concetto b
e ‘l tempo gli prometto b
c’aver non deggio. O pensier vano e
stolto! C
chè con la morte appresso a
perdo il presente, e l’avvenir m’è
tolto, C
a d’un leggiasdro volto c
ardo e spero sanar, che morto viva D
negli anni ove la vita non arriva. D
Agile e
breve madrigale dal sentore analogo al precedente che inizia con una terzina di
settenari si spiana nell’endecasillabo del quarto verso poi
si spiega da lì in due coppie formate da un endecasillabo
e da un settenario, la seconda in rima baciata fino ai due enddecasillabi
finali in rima baciata. Rapida e scorciata la sintassi, abbreviata pure la grammatica a dare l’idea dell’insussistenza del pensare-
50)
Se costei gode e tu
solo, Amor, vivi (145)
Pur di
vivere sarebbe meglio non essere amati
.
Se costei
gode e tu soltasnto vivi, o Amore, dei nostri pianti e se io debba nutrire la mia vita di lacrime e di mestizia dunque
diverremo prvati della vita dalla benigità di una donnamisericordiosa.. Sarebbe
meglio il contrario: cibi diversi hanno diversi,ché a lei procurerebbero
la gioia ed a noi torrebbero la vita,
in quanto sei tale che allo stessotempo prometti più dar la morte laddove porgi
aiuto. Per l’anima sbigottita
vale più vivere con un destino doloroso che avere benevolenza accanto
alla morte
Tenta di
consolarsi.
Se costei gode e tu solo, Amor, vivi A
de’ nostri pianti,e s’io, come te,
soglio B
di lacrime e cordoglio b
e d’un ghiaccio nutrir la vita mia, C
dunche, di vita privi a
saremo da mercé di donna pia.. C
Meglio il peggio saria: c
contrari cibi han sì contrari
effetti D
c’a lei il godere,a noi torrien la
vita; E
tal che insieme prometti d
più morte, là dove più porgi aita. E
A
l’’alma sbigottita e
viver molto più val con dura sorte F
che grazia c’abbiasé presso la morte F
51)
Gli sguardi che tu
strazi (146)
Gli sguardi
con i quali tu strazi tutti, a me tutti
gli togli enemmeno è furto che fai a me ciò che tu non mi doni, ma se
sazi il volgo e i brutti e me ne privi,
non è omicidio , che sempre mi spingi a corire. O Amore, perché perdoni per tua
somma cortesia, che sia qui tolta la
bellezza a chi la sa godere e la desidera e sia data a gente che non la sa apprezzare?Deh, un’altra
volta falla di dentro benevola e così di fuori brutta che a me non piaccia e di
me si innamori.
Gli sguardi che tu strazi a
a me tutti gli togli; b
né furto è già quel che del tuo non
doni; C
ma se ‘l vulgo ne sazi a
e ‘ brutti, e me ne spogli, b
omicidio non è,c’a morire ognor mi
sproni. C
Amor, perché perdoni c
tuo somma cortesia d
sie di beltà qui tolta e
a chi gusta e desia, d
e data a gente stolta? e
Deh, falla un’altra volta e
pietosa dentro e sì brutta di fuori F
c’a me dispiaccia, e di me
s’innamori. F
La
maggioranza dei settenari fanno spigliato, nella forma, questo madrigale che si adatta al contenuto,
alkquanto leggero e forse superficiale
ma scorrevole, (non ha il tono serio e sofferto di altri madrigali,) La
grammatica talora è abbreviata,, cosiccome la sintassi, senza togliere al madrigale una buona
comprensione. Sembra quasi sentire il
“mi torrei donne giovani e leggiadre / e laide e grasse lasserei altrui”
dell’antico Cecco.
52)
“Deh dimmi, A mor, se
l’alma di costei (147)
Dialogo fra
il porta ed Amore.
Deh,
dimmi , o Amore, se l’anima di costei fosse pietosa come ha bello il volto, se
qualcuno sarebbe tanto stupido da non togliersi a sé stesso e si desse a lei? Ed io che più potrei
servirla ed amarla se mi fosse amica e
che essendomi nemica, l’amo invece di
più di quanto dovrei fare?” “ Io
dico che a voi, pertutti i potenti
dei, conviene che ogni cosa dannosa sia
sopportata. Dopo che sarete morti, delle mille ingiurie e torti che tu soffri
te ne potrai fare giustamente vendetta,
perché ti amerà come ora tu ardi
di lei. Ahimé, infelice pure chi
aspetta troppo che io giunga tanto tardi a confortarlo ! Ancora, se guardi bene, o Amore,un cuore generoso, altero e nobile
perrdona e porta amore a chi l’offenda.
“Deh dimmi, A mor, se
l’alma di costei A
fusse pietosa com’ha bell’il volto, B
s’alcun saria sì stolto b
ch’a sé non si togliessi e dessi a lei? C
E io, che più potrei c
servirla, amarla, se mi fuss’amica, D
che, sendomi nemica d
l’amo più c’allor far non doverei?” C
“Io dico che voi, potenti
dei, C
convien c’ogni riverso si sopporti. D
Poi che sarete morti, d
di mille ‘giurie e torti d
amando te com’or di lei tu ardi, E
far ne potrai giustamente vendetta. F
A himè, lasso chi pur tropp’aspetta F
ch’i’ gionga a’ suoi conforti tanto
tardi! E
Ancor, se ben riguardi, e
un generoso, alter e nobil core G
perdon’e porta a chi l’offend’amore”. G
Uno dei
madrigali lunghi di Michelangelo; si trascina fiaccamente e contraddittoriamente. E’ un poco
artificioso il suo discorrere
tra lui ed Amore, non aiutano la stentata dialettica i i settenari a
rima baciata, anche insistita tre volte di seguito, ( “ sopporti”, “morti”,
”torti”) otto su diciassette versi,che
vorrebbero ravvivare il madrigale. Solo formalmente vi riescono, c’è una
antinomia tra forma e contenuto . e Forse eccessive le tante elisioni ad inizio
di parola o alla fine di un verbo o di
un avverbio o di
un ‘aggettivo, di un pronome, dì una
congiunzione (“ ‘ngiurie”,
”com’ha”, “bell’il”,“ ch’a”, “fuss’amica”, “tropp’aspetta”, “ch’i’,
”perdon’e”, “offend’amore”, “alter” e
“nobil” ), frequenti nel madrigale, utili
soprattutto a trovare il giusto numero
di battute sillabiche del verso; specie il finale “offend’amore” che
ingarbuglia la comprensione elidendo anche la congiunzione “ e” che sta nel
“perdon’e” precedente.
53)
Con più certa
salute (148)
Rispondere
all’amore di lei, per lui è troppo
pericoloso.
Una minor
benevolenza, o donna, mi terrebbe ancora vivo con una salvazione più certa;il petto sarebbe meno bagnato a causa degli
occhi che piangono. La vostra troppa benevolenza di tanto vince e mette in
ombra e mi toglie la mia poca forza; ma
neanche un saggio, se non si incalzasse da sé stesso
e non si spronasse, mai volle
gioire di ciò di cui non può
essere capace. Volere il troppo è
vanità e follia; perché una modesta
persona di unili destini raggiunge una pace più tranquilla. Quello che a voi è
lecito fare a me, o donna, a me reca
dispiacere; chi si dona ad altri
che non si può lusingsre, quel tale aspetta la morte per un eccessivo piacere.
Con più certa salute a
men grazia, donna, mi terrie ancor
vivo; B
dall’uno e l’altro rivo b
degli occhi il petto sarie manco
molle. C
Doppia mercé mie piccola virtute A
di tanto vince che l’adombra e
tolle; C
nè saggio alcun ma’ volle, c
se non sè incalza e sprona, d
di quel gioir ch’esser non può capace. E
Il troppo è vano e folle; c
chè modesta persona d
d’umil fortuna ha più tranquilla pace. E.
Quel c’a vo’ lice, a me, donna,
dispiace: E
chi si dà altrui, c’altrui non
si prometta, F
d’un superrchio piacer morte
n’aspetta. F
Fra l’adulazione e la ressegnazione questo
madrigale facile ed agile nell’aternanza delle rime che talora son baciate,
altre volte alternate anche di più di un verso; si svolge, con parità di
settenari ed endecasillabi salvo i due endecasillabi della chiusa finale, ed
inizia con un settenario. Anche il metaritmo
delle rime è contenuto ed
abbastanza sereno, incline alla rassegnazione. La chiusa seppur didascalica non
ostenta, come altre volle, durezza né sintatticamente né grammaticalmente, sia
pure triste ma non crudele.
54)
Non posso non mancar d’ingegno d’arte (149
Di fronte
alla sua donna si sente indegno.
Non posso
non mancare d’ingegno e d’arte di fronte a chi mi toglie la vita conl
venirmi tpoppo in aiuto, tanto che ottengo assaai minore
ricompensa divina quanto più ne prendo da lei. Da quando
l’anima mia si discosta da lei, come un
occhio offeso da una fonte troppo luminosa ,e va oltre toppo più in alto della mie impotenza; per farmi pari al più piccolo dono di una donna alta e serena essa non mi innalza a ciò che lei è, ed
allora conviene che io impari che quello che io posso fare mi porta da lei come
se fossi un ingrato . Questa donna,, piena di grazia, è cos’ abbondante e
infiamma gli altri di un tale fuoco, che,quando brucia con troppo calore come
fa, arde con minor calore di quando brucia meno..
Non posso non mancar d’ingegno
d’arte A
a chi mi to’ la vita b
con tal superchia aita, b
che d’assai men mercè più se ne
prende. c
D’allor l’alma mie parte a
com’occhio offeso da chi troppo
splende, C
e sopra me trascende c
a l’impossibil mie; per farmi pari D
al minor don di donna alta e serena, E
seco non m’alza; e qui convien
ch’impari D
che quel ch’i ‘ posso ingrato a lei mi mena. E
Questa, di grazie piena, e
n’abonda e ‘nfiamma altrui d’un
certo foco, F
che ‘l troppo con men caldo arde che ‘l poco. F
Armonioso e
pacato questo madrigale, a parte quel “don di
donna” al nono verso ,un din-don-dan che stona col resto del
madrigale.Danno brio i due settenari del secondo e terzo verso in rima baciate
fra due endecasillabi con rima diversa, cosiccome il settenario con rima nuova
al quinto verso fra due endecasillabi dalla stessa rima, ribattuta dal
successivo settenario, come anche
l’avere omesso gli articoli davanti ad “ingegno” ed “arte” danno spigliatezza
al madrigale. Il metaritmo delle rime è
brioso, ben adattato al garbo affettuoso
del madrigale
55)
Sì come per levar, donna, si pone(152)
Ancora l'intersecarsi di amore e scultura
come nel madrigale “S ‘egli è,
donna, se il n°16. Alla donna impresta la sua prassi scultoria, splendido il "levar"
che rimanda alla maieutica socratica, per fare apparire la bontà e la
bellezza della propria anima cosicché la donna diventa una
"levatrice" ed al modo suo di “levare” il sasso fino a scoprire la
figura racchiusa.
Come
dentro un pezzo di marmo sta una figura pronta ad essere fatta nascere e che si mostra man mano viene tolto il più
che la nasconde, così il
di più della carne, che fa da corteccia crudele e dura per l'anima
vibrante, nasconde le opere buone E tu, donna amata, tu sola, hai il potere di
togliere la parte carnale e far
venire fuori il buono ed il bello
dell'anima mia, io non avrei né
il volere né la forza.
Sì come per levar, donna, si pone A
in pietra alpestra e dura b
una viva figura, b
che là più cresce u' più la pietra scema; C
tal alcun'opre buone, a
per l'alma che pur trema, c
cela il superchio della propria
carne D
con l'inculta sua cruda e dura
scorza. E
Tu pur dalle mie streme f
parti puo' sol levarne, d
ch'in me non è di me voler né forza. E
Madrigale
variatissimo per l'alternarsi fra endecasillabi e settenari al di fuori di
schemi consueti e di rime (una sola
rima baciata), per il verbo
"pone" del primo verso privo
di rima insieme all'aggettivo "streme" pure privo di rima, tutt'al più in assonanza con "scema" e
"trema",(pare proprio che la
rima di "streme" sia davvero voluta, avrebbe ben potuto
scrivere "dalla mia strema
- parte" e niente
sarebbe cambiato nella metrica e nel senso) e che sembrano denotare la
ricerca travagliata di ciò che è celato
e ad arruffare, a tenere il madrigale in trepida aspettativa. Il madrigale è
privp del finale consueto dei due endecasillbi a rima baciata che l’avrebbero
però appesantito togliendogli qualla grazia che lo rende paticolarmente
aggraziato.Sembrerebbe non finito ma
èfinito perfettamente. Fino al sesto verso ha lo stesso varire della
rima del madrigale ”Non posso non mancar d’ingegno ed arte”
56)
Non pur d'argento o d'oro (153)
Come
una forma aspetta di essere riempita
d'oro o d'argento fuso e poi essere rotta
per fare uscire la preziosa fusione così io, acceso dentro da fuoco d'amore,aspetto di compensare il suo
desiderio, vuoto però della bellezza infinita della donna adorata che è l'anima
ed il cuore della propria vita mortale. E la donna, così magnifica e desiderata , entra dentro di me
attraverso gli occhi (i "sì brevi spazi") e diventa la smia preziosa
opera d'arte. Ma per renderla manifesta deve essere disfatto e straziato e
rotto come il guscio dello stampo per la
fusione.
Tutto
il madrigale si svolge nel contrasto fra il pieno di lei ed il vuoto di lui,
che la vorrebbe contenere, fra il di lei prezioso ed il vilio di lui..
Non più d'argento o d'oro a
vinto dal foco esser po' piena
aspetta, B
vota opra prefetta, b
la forma, che sol fratta il tragge
fora; C
tal io, col foco ancora c
d'amor dentro ristoro a
il desir vòto di beltà infinita, D
di coste' ch'i' adoro, a
anima e cor della mia fragil vita. D
Alta donna e gradita d
in me discende per sì brevi spazi, E
c'a trarla fuor convien mi rompa e
strazi. E
"Oro"
e "argento" evocano la
preziosa bellezza ed il fulgore della donna amata la cui immagine riempie il vuoto
ardente del suo desiderio,
la rima congiunge la di lei
bellezza e la di lui fragilità e
piacere
("infinita","vita" e "gradita") e l'
"oro" viene a richiamare il "ristoro" e l'
"adoro". La forma ed il contenuto si adeguano in modo perfetto
anche per via del ricercato intarsio delle rime e di settenari e endecasillabi.
I
due endecasillabi finali a rima baciata
concludono il madrigale in una sofferta
ed accettata necessità.
57)
Tanto sopra me stesso (154)
La
donna ed il Paradiso sono un tutt’uno.
Tu,
o donna, mi fai tanto salire al disopra di me stesso, che non soltanto io non
posso dirlo con parole e neanche pensarealle mie nuove oqssibilità che
tu mi hai fatto avere,perché non sono lo stesso di prima.Dunque perché, avendo
in prestito le ali che mi hai fornite non mi alzo e volo fino al tuo bel viso e
così possa restare con te e se il cielo
me lo permette di poter ascendere in quello che sarebbe il mio paradiso col mio
corpo mortale ? E’ una mia fortuna se il mio corpo non sia diviso dalla mia
anima (come succede normalmente
all’anima quando giunge in Paradiso a causa del distacco dal corpo, per grazia
tua, e che questa mia anima possa fuggire insieme a te, per merito tuo, la sua
morte, la sua dannazione.
Tanto sopra me stesso a
mi fai, donna, salire, b
che non ch’i’ ‘l possa dire, b
nol so pensar, perch’io
non son più desso. A
Dunche, perché più
spesso, a
se l’alie tuo mi presti c
non m’alzo e volo al tuo
leggiadro viso D
e che con teco resti, c
se dal ciel n’è concesso a
ascender col mortale in
paradiso? D
Se non ch’i’ sia diviso d
dall’alma per tuo
grazia, e che quest’una E
fugga teco sua morte, è
mie fortuna. E
Sogna
il paradiso,ché sarebbe il suo paradiso poter vivere con la donna amata, ancora
vivo e tramite lei potrebbe trovare il permesso celeste, forse un umano,
terrestre sogno pari a quello che ebbe in sorte Dante, riecco forse Dante, con
Beatrice,nel trentesimo canto del Purgatorio, forse la Commedia di Dante è stato di suggerimento a
Michelangelo per il madigale. Un madrigale agile, pochi endecasillabi molti
settenari, e gli endecasillabi nello scorrere del madrigale sono ampi colpi
d’ala, ed i settenari, che con poche rime, coll ritmo del metaritmo danzano e ridanzano con richiami lontani e
prossimi fino ad arrivare al finale magari sentenzioso per i due endecasillabi
con la nova rima baciata ma che è sogno
nel sogno. Il madrigale è pieno di
dolci sottintesi ed anche la sintassi pare che voli da un sottinteso all’altro
58)
Le grazie tua e la fortuna mia (153)
Un
alternarsi fra le grazie della donna amata e la sua sorte dolorosa.
Le
tue grazie e la mia sorte ,o donna, producono cosi vari effetti perché così possa imparare a vivere
framezzo a dolore ed amarezza. Mentre ti mostri nella tua interiorità benigna e
devota e nel tuo aspetto esteriore appari quanto sei bella al mio ardente desiderio.
la mia sorte aspra e malvagia,
facendosi nemica ai nostri piaceri con tanti oltraggi, offende la mia possibilità di gioire; se al
contrario poi la mia sorte si piega alle mie voglie allora mi viene meno,mi
scompare la tua benevolenza. Fra il riso ed il pianto in così contrastati
estremi non c’è una via di mezzo che faccia diminuire questo mio grande dolore .
Le grazie tua e la fortuna mia A
hanno,donna, sì vari b
gli effetti, perch’io impari b
in fra il dolce e l’amar qual mezzo
sia A
Mentre benigna e pia a
dentro, e di fuor ti mostri c
quante se’ bella al mie ‘rdente
desire, D
La fortun’aspra e ria, a
nemica a’ piacer nostri, c
con mille oltraggi offende ‘l mie
gioire; D
se per avverso po’ di tal martire D
si piega alle mie voglie, e
tuo pietà mi si toglie. e
fra ‘l riso e il pianto, en sì
contrasti stremi F
mezzo non è c’una gran doglia scemi. F
Contrasto fra
la donna e lui, fra le diverse nature e destini, fra la gioia ed il dolore, fra
il desiderio e la realtà, fra l’offesa che viene dalla realtà ed il sognato desiderio del paradiso, in un
madrigale dalla leggera prevalenza dei
settenari, otto su sette endecasillabi, che suscita il brio in un madrigale
serioso e che negli endecasillabi sembra soffermarsi a meditare.
59)
A l’alta tuo lucente diadema (156)
La
bellezza dell’amata sta così in alto
che è una gran fatica arrivarvi e spera che gli perdoni quel peccato dellaver
sperato di poter godere della sua bellezza quando lei si abbassa fino a lui.
Non
c’è chi possa arrivare al tuo così brillante diadema della tua bellezza perché
per arrivarci la strada è ripida e lunga se costui non porta con sé anche
umiltà e cortesia, per me poi la difficoltè della salita cresce mentre
diminuisce la forza e mi manca il respiro a mezza strada. Che la tua bellezza
sia superiore a tutte le altre bellezze sembra che dia piacere al mio cuore che
è ghiotto e desideroso di ogni rara cosa straordinaria; poi inoltre desidero
,per potere goderla, che la tua bellezza scenda al punto della salita che ho
potuto raggiungere e mi appago nel pensare che forse il tuo sdegno, che prevede
il mio desiderio, ti perdona a te stessa il peccato che io ho commesso, di godere
del tuo amore che si è abbassato a me ed odiare te quando stai tanto più in
alto.
A
l’alta tuo lucente diadema A
per strada erta e lunga, b
non è, donna, chi giunga, b
s’umiltà non si aggiugni e cortesia: C
il montar cresce, e ‘l mie valore
scema, A
e la lena mi manca a mezza via. C
Che tuo beltà pur sia c
superna, al cor par che diletto
renda, D
che d’ogni rara bellezza è ghiotto e
vago; E
po’ per gioir della tuo leggiadria C
bramo pur che discenda d
là dov’aggiungo.e ‘n tal
pensierm’appago E
se ‘l tuo sdegno presago, e
per basso amare e alto odiar tuo
stato, F
a te stessa perdona il mie peccato. F
Un
madrigale piuttosto convoluto, pieno di contrasti e di difficoltà, e di rimorso
imprestato alla donna amata che son possibili in un’anima meditativa (può
accadere che uno si senta colpevole anche se senza colpa pensando alla colpa
dell’altro e addossandosene la responsabilità).Le rime baciate che si ribattono
nei due settenari a fila o fra un endecasillabo ed un settenario invitano al movimento che è chiuso e fermato
dalla rima baciata fra i due endecasillabi finali ; la seconda parte dà
l’impressione di essere più varia nella
rima.
60)
Pietosa e dolce
aita (157)
Effetti
dello stargli accanto la donna amata e del suo andare via.
O
donna, se io sono con te, gli spiriti della vita spargono dal cuore per le
parti estreme il pietoso ed il dolce sollievo che vengono da te per cui l’anima
mia, impedita del suo corso naturale, per l’immediato gioire, si allontani da
me. Dopo, quando sei partita dolorosamente per me, per un mio umano aiuto
tornano al cuore più che copiosi gli spiriti già sparsi. Ma se ti vedo
ritornare li sento partire di nuovo dal cuore perciò sento un’eguale tormento
sia l’aiuto sia l’offesa mortale: la via di mezzo,la mancanza assoluta, a chi
ama troppo, è sempre la peggiore.
Pietosa e dolce aita a
tuo, donna, teco insieme, b
per le mie parti streme b
spargon dal cor gli spirti della
vita, A
onde l’alma, impedita a
del suo natural corso c
pel subito gioir, da me disparti. D
Po’ l’aspra tuo partita, a
per mie mortal soccorso, c
tornan superchi al cor gli spirti
sparti. D
S’a me veggio tornarti, d
dal cor di nuovo dipartir gli sento; E
onde d’egual tormento e
e l’aita e l’offesa mortal veggio: F
al mezzo,a chi troppo ama, è sempre
il peggio. F
Ancora
un latino ablativo assoluto, il ”teco insieme” inziale che abbrevia il discorso
in questo madrigale che indica il suo stato d’animo sia alla venuta sia
all’andar via della donna amata , lui
si sente sempre morire. Ma è meglio però sentirsi morire vedendola apparire od
andare via che vivere senza vederla mai, meglio l’agitazione del cuore che
toglie i sensi, il contrrio sarebbe una vita piatta e senza scopo. Un
tormentoso sentire accompagnato dal tormentato metaritmo della rima, irregolare
e molteplice tenuto conto della non eccessiva lunghezza del madrigale. Ardita
la sintesi di quel “al mezzo” che sta per “chi resta al mezzo” fra il venire e
l’andare via della donna amata, cioè per chi resta sempre senza vederla mai.
61)
Amor, la morte a forza
(158)
Sempre
il tormento della passione amorosa che lo distrugge e lo fa morire.
O
Amore, pare che la morte mi faccia
scappare dal pensiero della passione ma
con i tuoi favori voglia ostacolare la mia anima che senza quei favori sarebbe più contenta., E’ caduto il frutto
maturo e secca è digià la scorza
dell’albero ( è passata la stagione dell’amore e già sono vecchio), e ciò che
per me fu dolce sembra che io lo senta ora amaro; anzi soltanto mi tormenta in
queste mie ultime ore che passano così alla svelta,quell’infinito piacere in
così breve spazio di tempo. Così tale
beneficio mi spaventa. la tua pietà che mi giunge già tardi e cosi dura, che è
morte per il mio corpo e strazio al compiacimento intellettuale; per la qual cosa
io ti ringrazio pure essendo io in questa
età: perché se muoio in tale destino, tu lo fai più col compiacermi che
con l’uccidermi,
Amor, la morte a forza a
del pensier par mi scacci, b
e con tal grazia impacci b
l’alma che, senza, sarie più
contenta. C
Caduto è ‘l frutto e secca è già la scorza. A
e quel, già dolce, amaro or par ch’i
senta; C
anzi, sol mi tormenta c
nell’ultim’ore e corte, d
infinito piacere in breve spazio. E
Sì, tal mercè, spaventa c
tuo pietà tardi e forte, d
c’al corpo è morte. e al diletto
strazio; E
ond’io pur ti ringrazio e
in questa età : ché s’i ‘ muoio in tal sorte, F
tu ‘l fai più con mercé che con
la morte. F
Un
madrigale pieno di rimpianto ed anche
di atrcce presentimento nel finale pur ringraziando Amore per i suoi benefici
che gli fa avere più per benignità che per
odio. S entimenti in parte contraddittori e la vena è piuttosto arida,
così è stanco l’incedere, tre settenari di fila seguiti da tre endecasillabi
ponderosi e sentenziosi che rallentano il madrigale ;bellissimo comunque il
quinto verso ”Caduto è il frutto e
secca è già la scorza” chètrasferisce all’aspetto di un albero autunnale se non
invernale la sua tarda età. seguono due
terzine dallo stesso ritmo e dalla
identica segueza della rima, poi un settenario in rima baciata col precedente
endecasillabo prima del finale dei due
endecasillabi a rima baciata. Semmai al
penultimo verso i due punti dopo “età” ravvivano il verso spezzandolo, per la
necessaria pausa, in due parti.
62)
Per qual mordace lima (161)
Un
modo di dire a Dio :”Fiat voluntas Tua”.
Quale
sarà la lima che conduce a morte e fa
diminuire e rendere manchevole la tua stanca veste del corpo, o anima inferma?
Ora quando sarà che ti sciolga da quella veste il tempo, la mordace lima, e tu
torni dove stavi in cielo, candida e lieta prima di venire al mondo ed avrai
deposto il velo che per te è pericoloso ed in sé mortale? Anche se io cambi il
pelo in questi ultimi anni che passano in fretta io non posso cambiare il mio
vecchio vizio che man mano che passano i giorni mi tormenta e mi incalza. O
Amore, a te non nascondo che porto
invidia ai morti, sbigottito e confuso,tanto che la mia anima insieme a me
trema e teme. O Signore del Cielo,
nelle ultime ore stendi verso di me le tue pietose braccia e togliendomi ai
miei voleri fammi secondo i tuoi voleri, fai di me uno che piaccia solo a Te.
Per qual mordace lima A
dicresce e manca ognor tuo stanca
spoglia, B
anima inferma?or quando fie ti
sciolga B
da quella il tempo, e torni
ov’eri,in cielo, C
candida e lieta prima, a
deposto il periglioso e mortal velo? C
C’ancor ch’ i’ cangi ‘l pelo c
per gli ultim’anni e corti, d
cangiar non posso il vecchio mie
antico uso, E
che con più giorni più mi sforza e
preme. F
Amore,a te nol celo, c
ch’i’ porto invidia a’ morti, d
sbigottito e confuso, e
sì di sé meco l’alma trema e teme. F
Signor, nell’ore streme, F
stendi ver’ me le tue pietose
braccia, G
tomm’a me stesso e fammi un che ti
piaccia. G
Un
madrigale che si comprende bene senza tante spiegazioni. Solenne al principio
per i tre endecasillabi in fila,il secondo ed il terzo verso a rima baciataper
conferirgli ancora più solennità e la prima rima che si congiunge col quinto
verso. E, dopo un’altro endecasillabo
con nuova rima, una terzina di rime in
versi vari nella lunghezza
, (il terzo verso della terzina di rime è un dodecasillabo che
pare prolungare
l’ “antico uso”) terzina che si
ripete in una altra terzina di settenari dopo essere stata alternata da un
endecasillabo con una nuova rima che
ritorna nela rima baciata dopo la
terzina di settenari. Il madrigale si conclude nei due ultimi due endecasillabi a rima baciata. Un complicato
ma razionale metaritmo delle rime che contribuisce alla bellezza del madrigale per me fra i più ben
fatti. Bellissime le similitudini,(la “mordace lima”, la “stanca spoglia“ il periglioso e mortal
velo”, il “cangi ’l pelo” ) splendido il finale.
63)
Ora in sul destro, ora
in sul manco piede (162)
Prega
la donna amata che gli dica il vero, confortandolo.
Ora
un po’ a destra ora un poì a sinistra, barcollando, vado alla ricerca della mia
salute.Fra il vizio e la virtù il cuore in confusione mi affatica e mi stanca,
come chi cammina e non vede il
cielo e che si sperde per ogni sentiero
e non sa dove andare. Porgo una carta bianca affinchè, nero su bianco,
sacralmente, amore mi tolga dagli inganni e pietà scriva il vero; che poi
l’anima, diventata più sicura di sé, non si rivolga ai soliti nostri errori nel breve tempo che mi rimane
di vivere e che io viva meno cieco. Io vi chiedo, donnna eminente e divina, di
poter sapere se in cielo ha importanza minore il peccatore che umilmente si
pente oppure chi ha ben vissuto sempre in modo eccessivo alle sue forze.
(Sembra chiedere conferma all’evangelico “sarà più festa in cielo per un
peccatore pentito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di
penitenza”.)
Ora in sul destro,ora in sul manco
piede A
variando cerco della mia salute. B
Fra ‘l vizio e la virtute b
il cor confuso mi travaglia e stanca, C
come chi ’l ciel non vede, a
che per ogni sentier si perde e
manca. C
Porgo la carta bianca c
a’ vostri sacri inchiostri, d
c’amor mi sganni e pietà il ver ne
scriva: E
che l’alma, da sé franca, c
non pieghi agli error nostri d
mie breve resto, e che men cieco
viva. E
Chieggo a voi,alta e diva e
donna, saper se ‘’n ciel men grado
tiene F
l’umil peccato che ‘l superchio
bene. F
Madrigale
che si svolge pacato per i tanti endecasillabi seppure con andamento
saltellante per la rima ed i susseguenti settenari mai fra di loro in rima
baciata, quasi “a pio zoppo”. Preziosa la sintesi, vedi il “mie breve resto” e
la contrazione sintattica nell’aver parlato del peccato al posto del peccatore
e del vivere giustamente ( ‘l superchio bene) in vece del giusto. Interessanti,
che danno l’andatura al madrigale, le rime alternate dei settenari dei versi
7-8 e 10 -11intercalati coll’endecasillabo del verso 9 che ritrova la rima con
l’endecasillabo ed il settenario rispettivamente ai versi 12 e 13.
64)
Quante più
fuggo e odio ognor me stesso /163)
Gli
occhi della sua donna sono una vera beatitudine.
Quanto
io fuggo ed odio sempre me stesso quanto ricorro a te, o donna, con speranza
vera, e l’anima neanche ha paura di me stesso , quanto più sono vicino a te. Io
aspiro guardando nel tuo volto e nei tuoi begli occhi pieni di ogni salvezza a
ciò che il cielo mi ha promesso: e bene mi accorgo spesso in ciò che miro in
altra persona, che gli occhi senza
amore non hanno virtù. O luce mai vista! né mi può sminuire il desiderio
lo stare a guardarli perché il vederli di rado è quasi dimenticarli.
Quante più fuggo e odio ognor me stesso A
tanto, a te donna, con verace speme B
ricorro; e manco teme b
l’alma di me, quant’a te son più
presso. A
A quel che ‘l ciel promesso a
m’ha nel tuo volto aspiro c
e ne’ begli occhi, pien d’ogni
salute: D
e ben m’accorgo spesso, a
in quel c’ogni altro miro, c
che gli occhi senza il cor non han
virtute. D
Luci già mai vedute! d
né dal vederle è men che’l gran
desio; F
ché ‘l veder raro è prossimo a
l’oblio. F
E’
fresco il madrigale per via del venire gli endecasillabi seguiti dai settenari
a rima baciata, eppure discorsivo per
la varietà delle rime e della loro alternanza tra la sesto ed il decimo verso.
Strutturato talvolta con grammatica e sintassi personalissima l’esclamazione
all’undicesimo verso preclude il finale distensivo che va dal “desio” all’ “oblio finale come se il non vedere gli
occhi ed il viso dell’amata fosse come morire. Un madrigale d’amore bellissimo
e suggestivo.
65)
Per fido esemplo alla
mia vocazione (164)
Il rivolgersi alla bellezza è la
vocazione fin dalla nascita per questo è stato impressionato dalla bellezza
della donna amata che fa ascendere al cielo.
Come fedele esempio alla mia vocazione fin
dalla nascita mi fu dato la bellezza.che di tutte e due le mie arti, la
scultura e la pittura, mi è lume e specchio. Se si pensa in altro modo si
sbaglia.. Soltanto la bellezza porta l’occhio a quel livello al quale mi
appresto qui dipingendo e scolpendo. Se quei giudizi temerari e sciocchi
portano la bellezza ala sensualità, la quale bellezza, invece, porta verso il cielo ogni intelletto
integro, perché gli occhi infermi non vanno dal mortale al divino ma restano
fermi proprio là da dove senza la grazia è vano sperare salire in alto .
Per fido esemplo alla mia vocazione A
nel parto mi fu dato la bellezza, B
che d’ambo l’arti m’è lucerna e
specchio. C
S’altro si pensa, è falsa opinione. A
Questo sol l’occhio porta a quella
altezza B
c’a pingere e scolpir quì
m’apparecchio. C
S’e’ giudizi temerari e sciocchi D
al senso tiran la beltà, che muove E
e porta al cielo ogni intelletto
sano, F
dal mortale al divin non vanno gli
occhi G
infermi, e fermi sempre pur là d’ove H
ascender senza grazia è pensier
vano. H
Un
madrigale particolare fatto con due sestine di tutti endecasillabi che gli
danno un tono egualmente particolare e sentenzioso pur nella lepidezza dei
concetti, alla cui sentenzionziosità
contribuisce la forzata dieresi alla fine del quarto verso. Le rime dela prima
sestina sono quanto mai ripetute e speculari eadeguate al madrigale. Il
verso finale poi ricorda quel “ che
qual vuol grazia e a te non ricorre / sua disianza vuol volar senz’ali” di
dantesca memoria.
66)
Se ‘l commodo
degli occhi alcun costringe (165)
Non
vede a sufficienza gli occhi della donna amata , per questo non perde
l’obbiettività, è rimato abbagliato la prima volta che li vide.
Se
qualcuno obbliga alla comoda usualità
gli occhi perde nello stesso momento una parte di ciò che vede, insieme
alla ragione e teme di ingannarsi perché più si inganna quello che crede dipiù
a sé stesso, percui dipinge per bello
quello che è inferiore alla bellezza. Però io vi dico in verità , o donna, che
la comoda usualità non mi ha preso perché raramente vedo i vostri occhi che
stanno circoscritti laggiù dove soltanto il desiderio vola. In un punto solo,
un volta sola ne fui abbagliato né più
li vidi che soltnto una volta..
Se il commodo degli occhi alcun
costringe A
con l’uso, parte insieme b
la ragion perde, e teme b
ché più s’inganna quel c’a sé più
crede: C
onde nel cor dipinge d
per bello quel c’a picciol beltà
cede. C
Ben vi fo, donna, fede c
che’l commodo né l’uso non m’ha
preso, E
sì di raro e’ mie veggion gli occhi
vostri F
circoscritti ov’a pena il desir
vola. G
Un punto sol m’ha acceso, H
né più vidi c’una volta sola H
Affine
al precedente solo un poco, per la sentenziosità, seppure abbia altro ritmo ed
altro contenuto: un ritmo più vario ed il contenuto parla di cose più
psicologiche, l’abitudine che trae in inganno ed appiattisce la visione
distanziandola dalla passione amorosa sempre importante per amare , l’essere
abbagliato, acceso d’amore, il colpo di fulmine, la fiamma che incendia..
67)
La morte, A
mor,del mie medesmo loco, (167)
La
morte viene per tutti, anche per la donna amata, “vanitas vanitatum et omnia
vanitas”: La morte, o
Amore, dal luogo mio medesimo ti
scaccia e ti disprezza non soltanto col suo arco e con le sue pungenti frecce e
col suo feroce ghiaccio smorza il tuo fuoco amoroso poiché porta i giorni
sempre più corti e brevi. Tu vali in ogni cuore virile meno della morte (o
donna amata), anche se tu porti con te le ali con le quali giungesti fino a me,
ora anche tu fuggi ed hai paura perché ciò che si fa nell’età giovanile fa
schifo negli ultimi giorni.
La morte, Amor, del mie medesmo loco A
non che con l’arco e co’ pungenti
strali, B
ti scaccia e sprezza, e col fier
ghiaccio il foco A
tuo dolce ammorza, c’ha dì corti e
brevi. C
In ogni cor veril men di le’ vali B
e se ben porti l’ali, b
con esse mi giugnesti, or fuggi e
temi D
c’ogni età verde è schifa a’ giorni
stremi. D
Madrigale
melanconico anche se scritto per la donna amata, breve composizione senza sfarzo
nella rima, e perciò serioso, sono poche le rime non solo per la brevità del
madigale, che sembra però mostrare un
rispettoso pudore, non rivolgendosi né nominando come è uso negli altri
madrigali la parola “donna” che però sottintende al verso quinto. il settenario
del verso sesto, l’unico settenario del madrigale dà la sensazione di un vero
volare sia per la brevità rispetto agli altri versi sia per il suo ritmo
interno sia per la parola finale del verso.
68)
Perchè’l
mezzo di me che dal ciel viene (168)
Vorrei
e non vorrei, ma spero. Per stare con la donna amata venderebbe l’anima al
diavolo, de resto la paragona al
Paradiso.
Perché
quel mezzo di me che viene dall’alto del cielo ritorna in cielo con grande
desiderio e vola e lì arrivo restando
insieme ad una donna piena di bellezza
che, pur essendo di ghiaccio in
lei ardo, lei che spezzato in due parti mi tiene, contrarie fra di loro, che
l’una ruba all’altra il bene che non dovrei dividere con lei. Ma, se per caso
lei cambia il suo modo di essere verso di me, cosicché una mia metà non sia più del cielo, e se
tale metà fosse da lei accettata, i miei sparsi e stanchi pensieri saranno
tutti rivolti in quella mia donna, e se allora il cielo disacciasse la mia
anima che da me è adorata, almeno spero
in quel tempo, quando sarò suo tutto intero, non più soltanto mezzo.
Perché ‘l mezzo di me che dal ciel
viene A
a quel con gran desir ritorna e vola B
restando in una sola b
di beltà donna, e ghiaccio ardendo
in lei, C
in duo parte mi tiene a
contrarie sì, che l’una all’altra
invola B
il ben che non diviso aver devrei. C
Ma se già ma ‘ costei c
cangia ‘l suo stile, e c’a a l’un
mezzo manchi D
il ciel,quel mentre c’a le’ grato
sia, E
e’ mie sì sparsi e stanchi d
pensier fien tutti in quella donna
mia, E
e se ‘lor che m’è pia, e
l’alma il ciel caccia, almen quel
tempo spero F
non più mezz’esser, ma suo tutto
intero. F
Vola
la sua anima, volano i suoi pensieri
col continuo rimbalzare dei versi,i settenari che si intermettono fra gli
endecasillabi i quali da parte loro danno autorevolezza al madrigale. La
sintassi talora è abbreviatissima, le sincopi si susseguono ardite,un continuo
spezzare, formale oltre che contenutistico. “quel mentre” al decimo verso che
sta “mentre quel” nella sua inversione contribuisce ad esprimere formalmente la
contraddittorietà psicologica dell’autore.
69)
Nel mie ‘rdente desio (
169)
Delusioni
in amore, colpa di chi si è fidato
troppo.
A
causa del mio ardente desiderio lei mi prende in giro, apparentemente si mostra
pietosa mentre in cuor suo è aspra e feroce. O Amore non te lo dissi io, che
sarei diventato una nullità e che chi spera in ciò che un altro posiede perde
anche ciò che è suo? Orbene, se lei vuole che io muoia, è colpa mia e mio
danno se c’è qualcuno, ossia io , che
le ha prestato fede come ad una che non è colpevole verso chi ha creduto più di
quanto dovesse credere.
Nel mie ‘rdente desio, a
coste’ pur mi trastulla, b
di fuor pietosa e nel cor aspra e
fera. C
Amor, non tel diss’io, a
ch’e’ no’ ne sare’ nulla b
e che’l suo perde chi ‘n quel
d’altri spera? C
Or s’ella vuol ch’i’ pera c
mie colpa, e danno s’ha prestarle
fede D
com’a
chi poco manca a chi più crede D
Piccolo
madrigale, agiie nella e forma a causa della prevalenza dei settenari
prima dei sentenziosi
endecasillabi finali e
dell’articolazione delle rime, con due endecasillabi nel corso del madrigale
che a distanza di due versi hanno la stessa rima. Nel discorso si notano
abbreviazioni logiche e a quanto mi pare,
cambiamenti di soggetto che un
poco possono ostacolarne la comprensione.
Il “trastulla” del secondo verso irride
alla sua condizione e ne rende l’idea, accrescendo il sapido sapore del
madrigale.
70)
Spargendo
gran bellezza ardente foco (170
Se
il sasso duro diventa calce e poi può essere sciolto è meglio ce le sue lacrime
eterne lo disciolgano anzuché rimanere come un duro sasso nella fornace senza
morire.E’ il foco che calcina il sasso. è il fuoco dell’amore che lo brucia
Una
grande bellezza spargendo un ardente fuoco che accende mille cuori, è come una
cosa pesante che può uccidere un uomo se pesa su lui solo ma che se molti la reggono diventa leggera e
di poco conto. Ma se il duro sasso, chiuso in un piccolo locale, si calcina col
fuoco, e poi l’acqua lo scioglie in un momento così di una divina donna io ho dentro il fuoco, che potrebbe
annientare mille persone,che mi ha bruciato l’interno del mio cuore, ma se le mie lacrime eterne mi estinguessero anche se fosse il mio
cuore duro e forte, sarebbe meglio che io mi discioglessi che bruciare sempre,
senza mai morire.
Spargendo gran bellezza ardente foco A
per mille cori accesi, b
come cosa è che pesi, b
c’un solo ancide, a molti è lieve e
poco. A
Ma, chiuso in picciol loco, a
s’il sasso dur calcina, c
che l’acque poi il dissolvon ’n un
momento, D
così d’una divina c
de mille il foco ho dentro e
c’arso m’ha il cor nelle mie parte
interne; F
ma le lacrime etterne f
se
quel dissolvon già sì duro e forte, G
fie me’ null’esser c’arder senza morte. G
Le
lacrime etterne ricordano il dantesco ” che va piangendo i suoi etterni
danni,”che Dante mette in bocca a Brunetto Latini, un vero infernale supplizio,
il piangere etterno come l’etterno fuoco, uno struggersi d’amore come la
calcina tante volte adoprata, i mille fuochi li avverte tutti lui, il dentro
del suo cuore è la sua fornace in cui vorrebbe struggersi lui vivente e
piangente che si versa lacrime addosso per disciogliersi nel nulla: Onda dopo
onda, endecasillabi seguiti da due settenari, ma onde sempre diseguali, i
settenari o a rima baciata fra di loro o in rima con l’endecasillabo precedente
o con nessun’altro verso; con due versi in rima, al settimo ed al nono verso,
rime che invece sono un’assonanza (“ momento” e “dentro”) ma che il solo ultimo
settenario, dopo il quarto endecasillabo e prima dei due endecasillabi finali,
dà un moto diverso e rende più spigliata la finale. Le manchevolezze che un
pignolo potrebbe trovare diventano il “non finito” che esalta il dinamismo e la
bellezza del lavoro poetico.
71)
Nella memoria
delle cose belle (171)
Si mette in questa raccolta anche
questo madrigale anche se sembra
scritto per Cechhino Bracci.
E’
necessario che la morte vada nella memoria delle cose belle per toglierle il
volto di lui a lei come a voi
ugualmente di lui, se il calore si muta in freddo e la gioia si tramuta in
dolore, con un tale odio di quelle cose belle tanto che esse non si possano più
vantare di risiedere in un cuore ormai vuoto. Ma se lui riporta i suoi begli
occhi nei vostri cuori sarà come mettere legne secche in un fuoco ardente.
Nella
memoria delle cose belle A
morte bisogna,per tor di costui B
il volto a lei, com’a voi di costui B
se il foco in ghiaccio e ’l riso
volge in pianto, C
con tale odio di quelle, a
che del cor voto più non si dien
vanto. C
Ma se rimbotta alquanto c
i suoi begli occhi nell’usato loco, D
fien legne secche in un ardente foco
D
Madrigale
dalle poche, insistenti rime. soprattutto costruito con endecasillabi che gli
danno un tono più austero come si conviene al tema, ravvivato dai due
settenari. L’uso del verbo “rimbotta” da l’idea di un giovane discolo che
faccia una marachella.
72)
Costei pur si
delibra (172)
Viene
preso in giro dall’amata, ma riesce a sopravvivere con l’essere
scultoreaffermato.
Essa
decide ,indomita e selvaggia, anche se io arda e muoia e cada per quel che mi
fa, che ha un peso minore di un’oncia. Lei gioisce di sé e si riacconcia
davanti al suo fidato specchio dove si vede uguale al paradiso poi si rivolge a
me e mi tratta male con parole sudice così che non solo mi sento vecchio ma
vedendomi nello specchio nel confronto col mio viso rendo più bello il suo
viso per la qual cosa sono ancora più
deriso col sentirmi brutto e per me è una buona sorte se io riesco col mio
lavoro di far bella la natura.
Costei pur si delibra, a
indomita e selvaggia, b
ch’i arda , mora e caggia b
a quel c’a peso non sie pure
un’oncia; C
La si gode e racconcia c
nel suo fidato specchio, d
ove si vede equale al paradiso; E
poi volta a me, mi concia c
sì,c’oll’altr’esser vecchio, d
in quel col mie fo più bello il suo
viso, E
ond’io vie più deriso e
son d’esser brutto; e pur m’è gran
ventura F
s’i’ vinco, a farla bella, la natura
Madrigale
leggero se non scherzoso, una risposta ironica alla di lei altezzosità e
superbia. Prima dei due endecasillabi finali della definitiva
sentenza,abbondano i settenari che danno un piglio leggero, peso “meno di un’oncia”. Mette la donna
“indomita e selvaggia” di fronte alla vanità dello specchio “ove si vede equale
al paradiso”, vanità delle vanità. La rima ed il metaritmo della rima ben si
adattano al contenuto del madrigale.
73)
Se dal cor lieto viene
bello il volto (173)
Il
bello scaturisce dal bello e viceversa.
Se
da un cuore lieto viene un bel volto e da un tristo cuore uno brutto e se di ciò ne lo ha colpa una donna cattiva ma bella, chi
sarà mai quella che di me non arda come io ardo di lei? poiché i miei occhi furono fatti dal mio destino
tali da distnguere bene il bello dal bello, essa è non meno crudele a sé stessa
(se fa quel che fa) tanto che spesso io le dica:” Tutto ciò viene dal mio cuore
smorto” Che se un qualcuno dipingesse
sé stesso ( però potrebbe tradursi
anche: “se qualcuno facesse ciò che sa fare e così sarebbe sé stesso, cioè un
pittore“, oppure se dipingesse la donna cui vorrebbe tanto somigliare da
poterne fare un autoritratto, però mi sembrerebbe più giusta la traduzione
precedente) dipingendo una donna, in quella donna cosa potrà mai fare se ha il
cuore sconsolato? Dunque ambedue ne avrebbero vantaggio se la ritraesse avendo
il cuore lieto lui perché amato da quella donna bella ed il viso senza pianto,
lei farebbe bella se stessa se allietasse il cuore del pittore e me non farebbe brutto.
Se dal cor lieto viene bello il
volto A
dal tristo il brutto, e se donna
aspra e bella B
il fa, chi fie ma’ quella b
che non arda di me com’io di lei? C
Po’ c’a destinguer molto D
dalla mie chiara stella b
dal bello al bel fur fatti gli occhi
mei, C
contr’a sè fa costei c
non men crudel che spesso e
dichi.”Dal cor mie smorto il volto
viene.” F
Che s’altri fa se stesso, f
pingendo donna, in quella b
che farà poi, se sconsolato il
tiene? F
Dunc’ambo n’arien bene f
ritrarla col cor lieto e’l viso
asciutto G
sé farie bella e me non farie
brutto. G
Un
madrigale un po’ burrascoso nel discorso, con cambiamenti di soggetto e di
complemento oggetto che lo rendono alquanto difficile a capire.Sembra quasi che
la donna cui sia stato fatto il ritratto si sia rammaricata del ritratto fatto
male e che lui pittore dia la colpa a lei. Comunque a mio giudizio è uno dei
madrigali meno riusciti, anche la rima, la sua cadenza, il suo metaritmo
contribuisce a farlo tale.
74)
Per quel che di vo’,
donna, di fuor veggio (174)
Aspetta
sempe una manifesazione d’amore ma se la donna contina nella sua crudelfà lui continua
a godere dei di lei inganni.
A
causa di ciò che vedo esternamente a voi,o donna spero di dare riposo per un
po’ di tempo al triste pensare che mi
stanca e mi sfianca, quantunque
l’occhio non possa trapassare in verità dentro di voi, ma saperne il peggio
della vostra interiorità forse per il mio patire sarebbe un male (sarebbe
perdere la speranza di avere il vostro beneplacido). Se la crudeltà dimora in
un cuore che vorrebbe promettere una compassione vera coi vostri begli occhi al nostro piangere, adesso sarebbe ora che
voi vi mostrassi amorosa con me che
altro da me non si spera fuori che di
un amore onesto, ma se, o donna , l’anima, il vostro intimo, è in contrasto con
i vostri occhi, con la vostra
esreriorità., io pur contrario a quella vostra decisione sono appagato degli
inganni. della bella donna che siete.
L’illusione
,spese volte, può molcere la realtà.
Per quel che di vo’, donna, di fuor
veggio A
quantunche dentro al ver l’occhio
non passi, B
spero a’ mie stanchi e lassi b
pensier riposo a qualche tempo
ancora; C
e ‘l più saperne il peggio, a
del vostro interno, forse al mie mal
fora. C
Se crudeltà dimora c
‘n un cor che pietà vera d
co’ begli occhi prometta a’ pianti
nostrii E
ben sareb’ora l’ora c
c’altro gia non si spera d
d’onesto amor, che quel ch’è di fuor mostri. E
Donna, s’agli occhi vostri e
contrario è l’alma, e io, pur contro
a quella, F
godo gl’inganni d’una donna bella.. F
Le
rime vanno di pari passo al variare dei pensieri. dapprima la speranza di un
cambiamento poi ritornano alla cruda realtà ad infine trvovano godimento nello
stato di fatto consolandosi di poter vedere gli occhi belli dell’amata anche se
non è amato. Talora le abbreviature ed i sottintesi fanno sintesi sintattica e
grammaticale che il “a senso” supplisce godendo il ritmo dei versi e del
concatenarsi delle rime.
75)
No’ salda, Amor, de’ tuo
dorati strali (175)
Nelle
guerre d’amore è meglio fuggire.
Amore,
ancora non è saldata la piaga più piccola dei tuoi dorati strali, fra le
antiche piaghe rimaste, che la mia mente, che si ricorda dell’antiche ferite, è
anche presaga che tu mi porti ad una peggiore situazione Se nei vecchi colpi,
in passato, sei stato meno valente nel colpirmi, dovrei ancora vivere, se tu non vuoi veramente uccidere, adesso,
in guerra.Se oltre l’arco porti l’ali contro me che sono zoppo e nudo, (ed io
non ho scampo),e porti per insegna quei due occhi di donna che uccidono più che
le tue feroci frecce, chi sarà a confortarmi? Io non ho né elmo né scudo ma
solo ciò che mi connota onorato, se perdo, e te ti connota di biasimo se in
quelle condizioni mi dai fuoco.Essendo un debole vecchio, per la fuga è tardi e
la fuga è lenta per poter andare nel
luogo dove è il mio scampo; e chi fuggendo vince (salvandosi la vita) non deve restare nel campo di
battaglia.
No’ salda, Amor, de’ tuo dorati
strali A
fra le mie vecchie ancor la minor
piaga, B
che la mente, presaga b
del mal passato, a peggio mi
trasporti. C
Se ne’ vecchi men vali, a
campar dovria,se non fa’ guerra ai
morti. C
S’ a l’arco l’alie porti c
contra me zoppo e nudo d
con gli occhi per insegna, e
c’ancidon più ch’e’ tuo più feri
dardi, f
chi fia che mi conforti? C
Elmo non già ne’ scudo, d
ma sol quel che mi segna c
d’onor, perdendo, e biasmo a te, se
m’ardi, F
. Debile e vecchio, è tardi f
la fuga è lenta, ov’è posto ’l mie
scampo; E
e chi vince a fuggir,non resti in
campo. E
Lo
scorrere della rima, per l’abbondanza delle rime, somigliia ai colpi di
fioretto in un duello. Fantasioso il mettere l’ insegna di due occhi bellissimi
di una donna sulla bandiera di guerra. I sovrastanti, per numero, settenari rispettto agli endecasillabi
escludendo i due finali, ed in quest’ultimi due endecasillabi, lo spezzarsi del
verso per le pause segnate dalla punteggiatura, danno al madrigale un ritmo
garoso e baldanzoso.
76)
Mestier non era all’alma
tuo beltede (176)
L’amore
bene si adatta ai giovani , da vecchi non è pssibile ritornare giovani.
Non
era importante che l’anima tua piena
di bellezza si industriasse nel legare me con qualsiasi corda in quanto ero già
vinto perché, se bene mi rammento, soltanto con un tuo sguardo fui tuo
prigioniero e preda; che a seguito degli sforzi usati, è gioco-forza, che uno uno, debole di coraggio, ceda
immediatamente. Ma chi sarà mai che ci creda che, preso dai tuoi begli occhi,
in pochi giorni, io che sono come un legno secco e bruciato diventi giovane come un legno verde ?
Mestier non era all’alma tuo beltade A
legar me vinto con alcuna corda; B
ché, se ben mi ricorda b
sol d’uno sguardo fui prigione e
preda: C:
c’alle gran doglie usate d
forz’è c’un debilcor subito ceda. C
Ma chi fie ma’ che ‘l creda c
preso da’tuo begli occhi in brevi giorni, E
un legno secco e arso verde torni? E
Breve
madrigale, sintetico. Quasi una breve sentenza, un lento procedere con pochi
salti dei settenari che sono sempre in rima baciata col precedente
endecasillabo ed un verso, un settenario, il quinto, senza rima o se si vuole con un’assonanza col primo verso
77)
S’è ver, com’è, che dopo
il corpo viva, (77)
Un
madrigale insieme ai quarantotto epitaffi scritti per la morte di Cecchino
Bacci, insieme ad un sonetto.
Se
è vero, come è vero, che dopo che il corpo muore, l’anima, viva,disciolta dal
corpo, al quale mal grado dura soltanto
per legge divina, l’anima soltanto allora è beata, non prima; dopo di che
diventa divina per la morte del corpo
cosiccome per natura era destinata a morire. Dunque, essendo senza
peccati, chi sia parente del defunto
deve stabilire che ogni suo dolore sia da cambiare in gioia se chi è morto è
uscito da una fragile scorza ed è giunto
fuori di ogni miseria in una vera pace al momento dell’ultima ora di
vita o che punto l’abbia vissuta.. Tanto deve essese apprezzato il desiderio
dell’amico morto quanto valga meno il fruire di questa terra che di Dio.
,
S’è ver, com’è, che dopo il corpo
viva, A
da quel disciolta, c’a mal grado regge B
sol per divina legge, b
l’alma e non prima,allor sol è
beata; C
po’ che per morrte diva a
è fatta sì, com’a morte era nata.. C
Dunche,sine peccata, c
in riso ogni suo doglia d
prescriver debbe alcun del suo defunto,
E
se da fragile spoglia d
fuor di miseria in vera pace è giunto E
de l’ultim’ora o
punto. e
Tant’esser de’ dell’amico il desio, F
qunte men val fruir terra di Dio. F
Un
madrigale consolatorio anche nella
forma discorsiva. Interessante l’inserimento del latino nel testo, il “sine peccata” che ricorda certe usanze
della Divina Commedia dantesca, che dà al madrigale un tono religioso oltre al
contenuto sostanzialmente pio.
78)
Occhi mie, siate
certi (229)
La
morte è ineluttabile ma quando l’amata morirà niente di bello ci sarà da vedere
quaggiù
Occhi
miei state certi che il tempo passa e
l’ora della morte si avvicina.,quell’ora
fatale che serra il passo.alle lacrme , che impedisce loro di sgorgare.
Voi occhi La divozione vi tenga aperti
lmentre la mia divina donna si degna di restare sulla terra ma se il cielo,
come suole fare con le anime dei beati,apre la sua grazia, se le fa la
grazia di chiamarla e se questo mio sole vivente morendo l’anima sua torna
lassù e si parte da noi che cosa avrete da vedere poi?
Occhi mie, state certi a
che ‘l tempo passa e l’ora s’avvicina B
c’a le lacrime triste il passo serra c.
Pietà vi tenga aperti, a
mentre la mie divina b
donna si degna d’abitare in terra. C
Se grazia il ciel disserra, c
com’a’ beati suole, d
questo mie vivo sole d
, se lassù torna e partesi da noi, E
che cosa arete qui da veder poi? E
Subito
un’allusione, gli “occhi mie” solo atti a piangere, lo fa capire senza dirlo.
Il ritmo delle rime scorre piano per via delle rime baciate due a due salvo le
prime tre e il ritmo del terzo verso aiutato dal punto in fondo al verso e dal
nuovo finale fa fermare le lacrime ed il rimo generale. Un’altalena fra vita e
morte, fra pianto e devozione, fra cielo e terra fino alla desolazione finale.
79)
Non è piu tempo,Amor,che
’l cor m’ifiammi (231)
Alla fine della vita è tempo di pentirsi e
pianger.e,
. Non
è piu tempo, o Amore, che il cuore si infiammi né che il cuore più goda di una
bellezza mortale, è giunta l’ultima ora che il tempo male impiegato nel peccato
più duole a chi ha meno tempo. La morte con i sioi grandi colpi
diminuisce la forza del tuo braccio (si rivolge a sé stesso) mentre accresce la
forza dei suoi bracci più che non è solita fare. I sogni e le parole passati e
che furono a mio danno e da te infiammati (si rivolge sempre ad Amore) si
tramutano in lacrime e Dio voglia che
io le versi insieme a tutti i miei peccati.
Non è più tempo, Amor, che ‘l
cor m’infiammi A
né che beltà mortal più goda o tema B
giunta è già l’ora strema b
che ‘l tempo perso, a chi men n’ha,
pià duole. C
Quante ‘l tuo braccio dammi, d
morte i gran colpi scema b
e ‘
sua accresce più che far non suole. C
Gl’ingegni e le parole c
da te di foco a mio mal pro passat,i E
in acqua son conversi; f
e Dio voglia c’or versi f
con essa insieme tutti e’ mie
peccati. E
Un
personale “miserere”, fra il sacro ed il profano, si rivolge prima ad Amore,
terreno, ed infine nomina il volere e la misericordia di Dio. Col verbo usato per chiudere il primo verso
sembra proprio vedere l’improvviso ed imprevisto prender fuoco e le rime
alternate fanno saltare dall’ieri all’oggi e dall’oggi all’ieri, fra la
bellezza terrena e la sperata gioia
celeste, fra il peccato e la salvazione, fra il piacere dell’ieri ed il rimorso
dell’oggi. La chiusa non è, come al solito, fatta con una rima baciata. va a
ripescare la rima a’l quart’ultimo verso ,imponendo al madrigale un salto insolito
dello spirito verso mete celest, in una chiusa piana e serena.
80)
Non altrimenti contro a
sé cammina (232)
Anche
da vecchio Amore lo perseguita
Non
altrimenti contro la sua volontà cammina come sto io facendo contro la morte
chi è tratto con forza perché
condannato da una
corte severa ma giusta
al patibolo dove l’anima lascia la vita, il cuore,
tanto mi è la morte vicina salvo
il fatto che il mio restante tempo trapassa più lento. Non per questo Amore mi
lascia viver un’ora senza due pericoli per i quali sono sempre nel dormire e nel vegliare: la speranza che si
mostra umile e di poco conto nel primo pericolo mi dà preoccupazione per
l’anima mia e nell’altro pericolo mi dà fiducia infiammandomi d’amore purché sia stanco e vecchio:.Neanche so
quale sia il minore od il maggior danno ma temo ancora di più che con i tuoi
sguardi più alla svelta mi uccidi,
quanto più tardi vieni, cioé se vieni quando sia io più vecchio, che tu Amore
mi uccida e non mi dia il tempo di pentirmi.
Non altrimenti contro a sé cammina A
ch’ i mi facci alla morte, b
chi è da giusta corte b
tirato là dove l’alma il cor lassa; C
tal m’è morte vicina, a
salvo più lento el mie resto
trapassa. C
Né per questo mi lassa c
Amor viver un’ora d
fra duo perigli, ond’io mi dormo e
veglio: E
la speme umile e bassa c
nell’un forte m’accora, d
e l’aqltro parte m’arde, stanco e
veglio. E
Né so ‘l men danno o ‘l meglio e
ma pur più temo, A mor, che co’ tuo
sguardi F
più presto ancide quando vien più
tardi. F
Aleggia,
non detta, la paura della “morte secunda” di francescana memoria. E’ un
trascinarsi zoppicando fino all’utimo verso, il rtmo l’accompagna, severo. La
tentazione incombe. ma ancor più il timore di morire.
81)
Tanto non è, quante da
te non viene, (234)
Non vede altro che lei la
quale da parte sua con la sua grazia
può sottomettere cielo e terra.
Non
c’è nient’altro che non venga da te
che, come riflessa da uno
specchioai miei occhivenga una
visione alla qual cosa il mio cuore ormai stanco cede; che se vede
un’altra bellezza. gli pare vedere la morte, o donna mia, se non ti somiglia è
come un vetro non bene riprende il suo oggetto senza un’altra scorza (se non è
trattato nel dietro come si deve per farne uno specchio). Esempio di una vera
meraviglia ben sarà a chi non spera più di sver il tuo aiuto al suo infelice stato se i begli occi tuoi e
le tue ciglia insieme alla tua pietà tu ri volgi a me per farmi così tardi,
essendo io già vecchio, ma anche adesso puoi farmi beato;. nato per essere in
miseria,se al feroce destino prevale grazia e fortuna, facendo tu questo, sarai vittoriosa sul cielo e la terra.
Tanto non è, quante da te non viene,
agli occhi specchio, a che ‘l cor
lasso cede;
che s’altra beltà vede,
gli è morte, donna, se te non
somiglia,
qual vetro che non bene
senz’altrascorzaognisu’obbiettopiglia
. .
Esemplo e maraviglia
ben fie a chi si dispera
della tuo grazia al suo ‘nfelice
stato,
s’ e’ begli occhi e le ciglia
con tuo pietà vera
vulgi a far me sì tardi ancor beato:
a la miseria nato,
s’al fier destin preval grazia
eventura,
da te vinto il cielo e la natura
Un
insieme di abbreviazioni e di voli pindarici in questo madrigale, ne è esempio
mirabile quel “agli occhi specchio”. Bellissimo poi il paragone del vetro che non essendo specchio, non riflette
l’immagine ed è un mettere insieme e
ciò di cui parla, lo specchio, e la donna specchiata e la donna amata. la
finale del madrigale sembra voler dire che l’amore fa perdonare il peccato se
dato da una donna virtuosa.quasi parafrasando il Dantedella ”Vita nova”.Il
metaritmo fa da corona al canto.
82)
Un uomo in una
donna,anzi uno dio
Niente
è pari a lei da quando l’ha vista è morto a sé stesso ed anche le altre donne
sono per lui morte. Ma è meglio così.
Un
uomo in una donna anzi un dio parla per sua bocca onde, per ascoltarla, divento
tale che mai più sarò io. Credo bene
dopo che io fui rubato a me stesso da lei, di avere pietà di me fuorché di me stesso così tanto il suo bel
volto mi spinge al disopra il mio vano desiderio che io vedo morte in ogni
altra bella donna. O donna che nei giorni che sono tuttavia lieti purgate le anime facendole piangere e le
infiammate d’amore, fate però che io non torni più in me stesso.
Un uomo in una donna,anzi uno dio A
per la sua bocca parla, b
ond’io per ascoltarla, b
son fatto tal, che ma’ più sarò mio A
I’ credo ben, po’ ch’io a
a me da lei fu’ tolto, c
fuor di me stesso aver di me
pietate; D
sì sopra ‘l van desio a
mi sprona il suo bel volto, c
ch’ i’ veggio morte in ogni altra
beltate. D
O
donna che passate d
per acqua e foco l’alme a’ lieti
giorni, E
deh, fate c’a me stesso più non
torni E
Simbolo, queso madrigale, di
tante altre rime di Michelangelo specie nel primo verso.sconvolgente che la
donna amata contenga anche un maschio,
anzi un dio, il suo amore va al dilà della comune sessualità, è come l’amore
per un dio che contenga le due forme insieme e di fronte a lei-lui tutto
scompare, niente ha più valore nell’amore che tutto sconvolge. Splendido il
verso finale , meglio essere non più sé stessi
che non essere innamorati. Bella la concatenazione delle poche rime e la
musicalità insieme al danzare dei ritmo dei due settenari che seguono
l’endecasillabo, per ben tre volte a fila,
ritmo che si accresce con il solo settenario prima dei due endecasillabi
finali; un ardito balzare di ruscello che si placa, dopo il balzo finale, nella
quiete di un lago,
83)
Sol d’una pietra viva
(240)
La
natura dovrebbe far vendetta dell’operato di sé stessa.
Scolpita
in una pietra in maniera tale che sembra
viva l’arte mia umana vuole che il suo volto qui rappresentato viva lo
stesso tempo degli anni di lei..Cosa dovrebbe fare il cielo di lei essendo mie queste brutte fattezze, ed io
sono mortale, mentre lei non è un
essere mortale ma è un essere fatto da Dio non soltanto ai miei occhi? Eppure
il tempo passa via ed in breve termine. Da un lato il suo destino è manchevole,
se un sasso scolpito resta e la morte gli affretta il tempo a lei che pure è
divina. chi ne farà vendetta? Soltanto la natura, se dei due nati insieme
soltantola mia opera dura mentre la morte ruba il suo tempo.
Sol d’una pietra viva a
l’arte vuol che qui viva b
al par degli anni il volto di
costei. C.
Che dovria il ciel di lei, c
sendo mie, e quesa suo fattura, D
non già mortal, ma diva,, a
non solo agli occhi miei? c
E pur si parte e picciol tempo dura. D
Dal lato destroè zoppa sua ventura, D
s’un sasso resta e pur lei morte
affretta. E
Chi ne farà vendetta? e
natura sol, se dei due nati sola G
l’opra qui dura, ela suo l tempo
invola. G
L’iperboe
amorosa della “Vita nova” è niente nei confronti di quella di queste “Rime”,
lui scultore affermato scolpisce
l’immgine di lei che dura dipiù dell’immgire carnale di lei che la morte può
ben distruggere, Il metartmodelle rime scorre scorre piano ma sembra inciampare
al settenario dell’undicesimo verso che così fa risaltare la parola
inaspettabile“vendetta” come anche la vocalità dell’ultima parola “invola
esprime magistralmente la apidità del tempo che fugge.. Per ciò che riguarda
l’uso della stessa parola”viva” nella rima dei primi due versi si deve notare
che l’una e un aggettivo e l’altra un verbo.
84)
Negli anni molti e nelle
molte pruove (241)
Provando
e riprovando, sembra dire.ed anche: andare avanti per tentativi ed errori.
Per
molti anni e con molti tentativi chi sa fare arriva ad una buona
esecuzione di un bun ritratto che
sembri vivo soltanto quando è vicino alla morte, lavorando in una pietra che
viene da un alto monte ed è dura a scolpire , ed a queste ultime cose di alto
livello arriva tardi, e dopo poco viene a morte. Allo stesso modo la natura nel
tempo, da un volto all’altro se errando tantissime volte è arrvata a fare la
tia bellezza divina che già la natura è
vecchia e già deve perire per la qual cosa io temo,anche per la tua bellezza,
il mio desiderio si nutre di un delirante cibo,né so pensare né dire quale
nuoccia o mi giovi dipiù visto come mi appare se io tema di più la fine
dell’universo oppure la fine del mio piacere per aver compiuto la mia opera.
Negli anni molti e nelle molte
pruove, A
cercando, il saggio a buon concetto
arriva B
d’un’immagine viva, b
vicino a morte, in pietra alpesre e
dura; C
c’all’alte cose nuove a
tardi si viene, e poco poi si dura. C
Similmente natura, c
di tempo in tempo, d’uno in alì¥ÁI
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8L<ortuna ria c
contr’a chi basso vola, d
girando, trionfar d’alta ruina; E
ché mie benigna e pia c
povertà nuda e sola, d
m’è nuova verza e dolce disciplina: E
c’a l’alma pellegrina e
è più salute, o per guerra o per
gioco, F
ognor perdere assai che vincer poco. F
l
contrasto interiore, fra ciò che vorrebbe fare e non fa, si risolve nel pacato
finale di questo madrigale seppur la lotta interna si mostra nel suo ritmo
contrastato. La sintassi stessa talora denunzia un’arrovellarsi
dell’autore, utile a far comprendere il
senso delle parole, il paradosso che accetta. Anche le durezze grammaticali
danno il loro contributo.
87)
-Se’l volto di
ch’i’ parlo, di costei, (245)
Un
dialogo intentato con A more.
-Se
il volto di chi parlo , di costei , non avessi visto negarmi gli occhi suoi, o
Amore, quale prova di più ardente
fuoco di passione mi potresti far sostenere se pur non vedendo meglio lei cn i
suoi occhi tu ancora , e non poco mi infiammi?
La parte minore del giocp ce l’ha chi non perde nulla, se nel desiderare
rende vano ogni deaiderio, in uno che è sazio la seranza non rinverdisce se non
spera nella dolcezza falsa che risiede in ogni
sofferenza amorosa. -Anzi voglio ancora parlare sulla speranza: se a
quello che spero mi offre una grande
abbondanza di beni, la tua mercede non smorza il mio desiderio delle cose del cielo.
Il
madrigale in esame ricalca i temi del precedente.
“Se’l volto di ch’i’ parlo, di
costei, A
no’ avessi negati gli occhi suoi, B
Amor, di me qual poi b
pruova faresti di più ardente foco, C
s’a non veder me’ di lei a
co’ suo begli occhi tu m’ardi e non
poco?” C
“La men parte del gioco c
ha chi nulla perde, d
se nel desir vaneggia ogni desire E:
nel sazio non ha loco c
la speme e non rinverde d
nel dolce che preschive ogni
martire.” E
“A nzi di lei vo’ dire: e
s’a quel c’aspiro suo gran copia
cede, F
l’alto desir non quieta tuo
mercede.” F
Parla
con se stesso e si risponde facendo finta di parlare con Amore, l’amore
interiore che ancora lo tenta,sembra che tornino alla mente le antiche parole
del Savonarola. Lo stesso contenuto del precedente ma drigale portano all
stessa metrica ed allo stesso ordinarsi della rima.bello e sintetico nella
forma grammaticale e sintattica quel “s’a veder me’ dilei-co’ suo begli occhi
che esprimono la resa dolente dell’artisra e la causa; cosiccome il verbo
“preshive”al dodicesimo verso dà la sensazione di un neologismo :lo “ schivare
prima che avvenga il fatto” ed una vera sintesi lessicale.
88)
Te sola del mie mal
contenta veggio, (246)
Quali
pene d’amore gli fa soffrire la sua donna bella e crudele!
Vedo
soltanto te contenta dei miei malanni eppure ti chiedo soltanto di poterti amare;non c’è pace in se
senza che io pianga per causa tua, e la
mia morte per te non è il mio male peggiore. Che se io metto in pari il mio
dolore alla tua volontà altera di farmi del male, per fuggire da questa vita
quale spietato aiuto mi viene se non
un aiuto che mi uccide e mi strazia e che poi non vuole che io muoia?( che mi
vuol fare vivere continuando a soffrire) Perché tanto si fa presto a morire
quanto è lento il durare della tua feroce crudeltà. Ma chi patisce a torto
spera sempre non meno nella pietà che nella giustizia.
Te sola del mie mal contenta veggio,
né d’altro ti richieggio amarti
tanto;
non è la pace tua senza il mio
pianto,
e la mia morte a te non è ‘l mie
peggio.
Che s’io colmo e pareggio
il cor di doglia alla tua voglia
altera,
per fuggir questa vita
qual dispietate aita
m’ancide e straziae non vuol poi
ch’io pera?
Poiché il morire è corto
a lungo andar di tua crudeltà fera.
Ma chi patisce a torto
non men pietà che gran giustizia
spera.
“veggio”
e “richieggio” due parole in forzata rima che si vogliono somogliare per le
lacrime versate in ambedue le circostanze,
la seconda a mezzo verso a preludere il “amarti tanto” sempre doloroso e pregno di pianto ed il
pianto, la morte, il dolore la fanno da padroni nei solenni quattro
endecasillabi dell’inizio del madrigale che poi si svolge più cortese anche se
sempre drammatico per giungere alla quiete finale in cui spera pietà e
giustizia per chi patisce, sembra con altre parole echeggiare il”beati coloro
che hanno fame e sete di giustizia perché saranno sfamati” non c’è più una
speranza terrena ma la speranza nella grande misericordia divina
nell’abbandonare l’amore terreno, ché or non è più tempo di seguire.
89)
Te sola del mio mal
contenta veggio, (246)
La sua donna crudele sta bene solo
se lui sta male
Vedo te soltanto contenta del
mimale, né di altro ti chiedo che solamente volerti bene; non sei in pace
senza vedermi piangere e la mia morte secondo te non è la cosa peggiore per me.
Che se riempio il mio cuore e faccio
pari alla tua voglia orgogliosa, per fuggire questo modo di vivere, qule
crudele aiuto mi uccide straziandomi e
nello stesso trmpo non vuole ce io perisca? Perché il morire dura poco
rispetto alla lunghezzdella tua feroce
crudeltàa. Ma chi patisce a torto non spera meno nell’indulgenxa di quanto di più nella giustizia.
Te sola del mio mal contenta veggio, A
nè d’altro ti richieggio amarti
tanto; B
non è la pace tua sanza il
mio pianto B
e la mia morte a te non e ‘l mie
peggio. C
Che s’io colmo e pareggio c
il cor di doglia alla tua voglia
altera, D
per fuggir questa vita, e
qual dispietata aita e
m’ancide e strazia e non vuol poi ch’io pera? D
Perché il morire è corto f
al lungo andar di tua crudeltà fera. D
Ma chi patisce a torto f
non men pietà che gran iustizia
spera. D
Sembra
che anche a questo madrigale manchi del consueto finale a rima baciata, che però lo chiude con maggior
fermezza; la rima dell’ultimo verso è
ripetuta in precedenza ben tre volte su
dodici versi( “spera” e “fera”, “pera”, “altera”). Il madrigale si stende con
solennità di ritmo, otto
endecasillabi contro soli cinque settenari., versi lunghi per un
lungo soffrire e morire la rima dell’ultimo verso è ripetuta in precedenza ben tre volte su dodici versi( “spera” e “fera”, “pera”, “altera”), la
rima poi dell’ultimo verso è ripetuta in precedenza altre tre
volte su dodici versi( “spera” e
“fera”, “pera”, “altera”).. Il ripetere della prima rima a metà del secondo
verso fa quasi soffermare su “amarti tanto”
seguente che obbligatoriamente viene scandito
e sottolineato.
90)
“Per molti, donna, anzi
per mille amanti (249)
Sembrano,nella
prima parte, riecheggiare ancora le
parole contro i Medici del Savonarola.
“Fosti
fatta per molti, anzi per mille persone innamorate di te, ed anche fatta in una
forma angelica, ora sembra che tu
dormendo in cielo non pensi più, se uno solo , uno dei Medici, si è
appropriato di te che fosti fatto per essere data a tanti. Ritorna da noi che
siamo in lacrime e riportaci il sole degli occhi tuoi che sembra non volere
illuminare e riscaldare chi caduto in questa mancanza misera del tuo
sole.”
“Deh, non turbate i vostri santi
desideri perché colui che sembra che vi spogli e vi privi di me non gode di
questa gran ruberia, che ha commesso, per via della grande paura che lo prende
e perché fra chi ama vive meglio chi
frena gran parte del suo desiderio che quelli quelli che stando in una grande
miseria sono pieni di speranza.”
Parole che vogliono indurre alla
rassegnazione.
“Per molti, donna, anzi per mille
amanti A
creata fusti, e d’angelica forma; B
or par che ’n ciel si dorma, b
s’un sol s’appropria quel ch’è dato
a tanti. A
Ritorna a’ nostri pianti a
il sol degli occhi tuo, che par che schivi C
chi del suo dono in tal miseria è
nato.” D
”Deh, non turbate i vostri desir
santi, A
ché chi di me par che vi spogli e
privi, C
col gran timor non gode il gran
peccato; D
ché degli amanti è men felice stato D
quello, ove il gran desir gran copia
affrena, E
c’una miseria di speranza piena. E
I
molti endecasillabi di questo madrigale gli danno un tono predicatorio e
sussiegosamente declamatorio, non spontaneo. Neanche il metaritmo della rima è
spigliato
91)
Perch’è troppo
molesta, (252)
Madrigale
cortese, ma non troppo secondo la mia suscettibilità, sembra dire all’inizio, a
causa di una erta superbia, il contrario di quello che ci sarebbe da dire con
riconoscenza, a seguito di una grande cortesia ricevuta da un amico in
conseguenza di una malattia di Michelangelo.
Anche
se l’amore sia dolce, quella ricompensa che è solita legare i nostri sentimenti
mi è troppo molesta e il mio spirito libero più che per un furto si lamenta e
si duole di questa vostra alta cortesia. E come un occhio che, costretto a
guardare, si fissi nel sole annulla la capacità di vedere che all’occhio
dovrebbe essergli veramente a causa di
una maggiore luce così la mia natura datami dal destino non vuole imperfetta
dentro la riconoscenza mia interiore
che crebbe per merito vostro. Poiché
spesso il poco necessario spesso si
allarga nel troppo e questo troppo non perdona questo allargarsi, giacché
l’amore accetta soltanto gli amici simili e pari per fortuna e virtù, per la
quale ragione sono tanto rari. E’ così che riconosce l’amico superiore a lui
stesso.
Perch’è troppo molesta, a
amor che dolce sia, b
mie libertà di questa A
vostr’alta cortesia b
più che d’un furto si lamenta e
duole. C
E com’occhio nel sole c
disgrega suo virtù ch’esser dovrebbe D
di maggior luce, s’a vederne sprona, E
cos’ì ‘l destin ,non vuole c
zoppa la grazia in me, che da vo’
crebbe. D
Ché ‘l poco al troppo spesso
s’abbandona, E
né questo a quel perdona: e
c’amor sol gli amici. onde son rari, F
di fortuna e virtù simili e pari. F
La
cortesia del madrigale è precisata dai settenari ripetuti all’inizio che danno
piacevolezza, anche se ostentata, già nei primi quattro versi, ed il successivo
susseguirsi delle rime gli dà il suo
contributo.
92)
S’i’ fussi stato
ne’prim’anni accorto (253)
Se
ci avessi pensato prima!
Se
fossi stato avveduto negli anni giovanili
del fuoco, cheora mi arde nel più profondo dell’animo ora nel più
profondo dell’animo, allora mi ardeva superficialmente, con un male minore non
che avrei spento quel fuoco ma almeno avrei privato dell’anima il mio debole cuore o del colpo ricevuto, ora che è morto; ma
soltanto ne ha colpa il mio errore primo
O anima infelice se nelle prime ore, in gioventù nessuno si è mall difeso, da utimo, quando
sono già vecchio sento il bruciore intenso e muoio a causa del fuoco acceso
prima : ma se accade che non può non essere bruciato e colpito chi è in età
giovanile, ora, che c’e il lume della ragione e lo specchio della verità, basta
un fuoco meno forte a distruggerlo del tutto lui che è stanco e vecchio.
S’i’ fussi stato ne’prim’anni
accorto A
del fuoco, allor di fuor, che m’arde
or dentro B
per men mal , non che spento c
ma privo are’ dell’alma il debil
core D
o del colpo, or ch’è morto; a
ma sol n’ha colpa il nostro
prim’errore. D
Alma infelice, se nelle prim’ore D
alcun s’e mal difeso, e
nell’utim’arde e muore d
del primo foco acceso: e
ché chi non può non esser arso e
preso F
nell’età verde,c’or c’è lume e
specchio, G
men foco assai ‘l distrugge stanco e
vecchio. G
Un
ripensamento intimo notturno mentre non può dormire, come scrive sotto il
madrigale, ripensamenti nella vecchiaia
, avrebbe potuto sì morire perché privato dell’anima per il dolore mentre ora è
morto solo spiritualmente il che è peggio, sembra affacciarsi come in tante
altre volte la”morte secunda”. L’andare poetico sembra, come un vecchio,
zoppicare e ripensare specie al terzo verso il cui finale non in rima ma è in
assonanza col verso precedente (“spento” e “dentro”) insieme all’insistere
della stessa rima in due versi successivi
cambiandola in altra magari
pescandone una lontana, senza cambiarla in una non esistente.
93)
Donn’a me vecchio e
grave (254)
L’ultimo
ripensamento rivolto a chi lo turbò in gioventù e l’ultima, suo malgrado,
decisione; se non fosse vecchio forse potrebbe ricascarci.
Donna,
a me che sono pesantemente triste il cielo mi porge le chiavi percui io ritorno
e rientro dentro nel tempo passato come al peso si permette di trovare il
centro fuori del quale il peso non ha riposo. .Amore le infila e gira e apre ai
fortunati il petto di lei, a me vieta le voglie inique e perverse ma mi spinge,
anche se sono stanco e pauroso, fra i i
rari semidei. Piacevolezze vengono da lei strane ma nello stesso tempo dolci
tali che chiunque per lei e per le sue dolcezze è morto vive lui stesso, chi rifiuta le sue dolcezze
trova la sua vita eterna.
L’amore
si addice ai giovani.
Donn’a me vecchio e grave, a
ov’io torno e rientro b
e come a peso il centro c
che fuor di quel riposoalcun non
have, A
il ciel porge le chiave, a
Amor le volge e gira d
e apre a’iusti il petto di costei; E
le voglie inique e prave a
mi vieta e là mi tira, d
già stanco e vil, fra ‘ rari e
semidei. E
Grazie vengon da lei e
strane e dolce e d’un certo valore, F
che per sé vive chiunche per le’
more. F
Un
ripetuto ricordare e ripescare la prima rima come ricorda e ritorna all’antico
amore , è come il fermarsi al centro del suo roteare del filo a piombo
consueto allìoperare di Michelangelo.
94)
Mentre i begli occhi
giri (255)
Gli
occhi sono la finestra dell’anima.
Mentre
giri i tuoi occhi intorno a me e sei vicina, o donna,in loro specchiandomi vedo me stesso, quanto tu vedi
te stessa tanto quando ti specchi nei miei.
Come io sono, imbruttito dagli anni e dai martirii dell’amore, quei tuoi
occhi mi rispecchiano totalmente mentre i miei guardandoli ti trasforma in più
che lucente stella. Ben sembra che si adiri il cielo che io specchiandomi in
così begli occhi mi veda così brutto ed i nei miei occhi brutti,
guardandoti ti veda così bella; né è
meno crudele e traditrce dentro di me c’è la ragione per cui attraverso loro mi
trapassi fino al cuore e l’altra che il tuo cuore mi serri fuori. Perché la tua grande facoltà è tale che,
attraverso uno che è minore a te ,aumenta la tua durezza in quanto l’amore vuole un pari stato e una
pari giovinezza.
Mentre i begli occhi giri, a
donna,ver’ me da presso, b
tanto
veggio me stesso b
in lor, quante ne’ mie te stessa
miri. A
Dagli anni e da’ martiri a
qual io son,quegli a me rendono in
tutto, C
e’ mie lor te più che lucente
stella. D
Ben par che ‘l ciel s’adiri a
che ‘n sì begli occhi i’ mi veggia
sì brutto, C
e ne’ mie brutti ti veggia sì bella; D
ne’ men crudele e fella d
dentro è ragion,c’al core e
per lor mi passi, e quella d
de’ tuo mi serri fore. e
Perché ’l tuo gran valore e
d’ogni men grado accresce suo
durezza, F
c’amor vuol pari stato e giovanezza. F
Le allusioni ed i sottintesi
fanno una sintassi ed una grammatica personale. L’articolazione della rima è
scorrevole nei primi quattro
versi adeguandosi al siignificato piano e semplice del contenuto mentre si fa
più complicata nel resto, articolato in diseguali terzine fino alle due rime
baciate finali che, con questi quattro versi chiudono il madrigale quasi
frenandonelo srotolarsi.
95)
S’alcuna parte in donna
è che sia bella, (256)
L’amante
non può vedere la eventuale bruttezza dell’amata, è bello ciò che piace.
Se
qualche parte in una donna che sia bella mentre le altre parti siano brutte
debbo amarle tutte le parti per il grande piacere che prendo di quella parte
sola?La parte brutta che si appella alla ragione, mentre ne attrista il mio
gioire,vuole anche che la non volontaria mancanza sia scusata ed amata. Amore,
che mi parla del dispiacere del vedere quella parte brutta, tutto irato suole
dire che dove comanda non è possibile che
si attenda o si invochi la ragione. Ed il cielo vuole che io desideri
quello che desidero e che non c’è posto per un’inutile pietà perché l’uso della
vista da parte di chi ama risana ogi malefatto della natura.
S’alcuna parte in donna è che sia bella, A,
benché l’altre sien brutte, b
debb’io amarle tutte b
pel gran piacer ch’i’ prendo sol di
quella? A
La parte che s’appella, a
mentre il gioir n’attrista, c
a la ragion,pur vuole d
che l’innocente error di scusi e
ami. E
Amor, che mi favella a
della noiosa vista, c
com’irato dir suole d
che nel suo regno non s’attenda o
chiami. E
E ‘l ciel vuol ch’i’ brami e
a quel che spiace non sie pietà
vana: F
che l’uso agli occhi ogni malfatto
sana. F
Madrigale
un po’ fiacco,un po’ stiracchiato sia per il non travolgente contenuto sia
anche per la forma, tutto diventa lezioso e non originale.
96)
Quantunque sia che la
beltà divina (258)
La
lontananza attutisce l’amore, l’ha cantato anche Modugno.
Quantunque
sia la divina bellezza a manifestarsi col mostrare il tuo bel volto umano, o
donna, il piacere che mi viene dal tuo viso che sempre mi è lontano non mi basta, tanto che non mi parto
dal tuo volto, perché alla mia anima
pellegrina su questa terra è duro ogni altro sentiero che è sempre, per me, in
salita e difficoltoso. Per questo scompartisco il tempo del giorno e della
notte, di giorno uso gli occhi e la notte ti sogno col sentimento del cuore,
senza alcun intervallo in cui io aspiri al cielo, senza mai rivolgermi alle
cose divine. Se il destino che mi fece nascere mi fa fermare al tuo splendore
che non lascia che i miei ardenti desideri di andare in alto, che non c’e altro
che mi tiri la mia mente al cielo o per gazia o per merito, tardivamente,
lentamente il cuore ama ciò che il cuore non vede.
Quantunque sia che la beltà divina A
quì manifesti il tuo bel volto
umano, B
donna, il piacer lontano b
mi è corto sì, che del tuo non mi
parto, C
c’a l’alma pellegrina a
gli è duro ogni altro sentiero erto
o arto. C
Ond’il tempo comparto c per gli occhi il giorno e per la
notte il core, D
senza intervallo alcun c’al cielo
aspiri. E
Sì il destinato parto c
mi ferm’al tuo splendore, d
c’alzar non lassa i mie ardenti
desiri, E
s’altro non è che tiri e
la mente al ciel per grazia o per
mercede: F
tardi ama il cor quel che l’occhio
non vede. F
Mentre
le rime dei ripensamenti intimi della vecchiaia sono arrovellate ma spendide
quelle amorose sono flebili e stanche come questa. E’ un arrampicarsi sugli
specchi,le rime escono piene sì di gentilezza ma gentilezza troppo leziosa e
studiata, non di getto, quell’ erto o arto” del sesto verso ne è la prova.
anche se non mancano, qua e là, versi scintillanti, vedi, ad esempio, quel “per
gli occhi il giorno e per la notte il core”.
Sempre il metaritmo delle rime è saltellante,e l’effetto è dato dalla
diversità di ritmo e di lunghezza dei versi. Alquanto abborracciato e
frettoloso il finale che nello scorrere del discorso sembra troppo non finito
ed il quartultimo verso che pare strascinarsi con una sillaba in più, come
zoppo sembra il sesto verso che con tutte le sue elisioni manca una battuta..
97)
Amor se tu se’ dio (262)
Chiede
ad Amore, che è sempre giovane, di pensare allo stesso modo suo, lui che è
già vecchio.
Amore
se tu sei un dio non puoi fare ciò che vuoi? Deh fa’ per me, se tu puoi, ciò
che io farei per te se io fossi un dio.
Non si confà. a chi desideri troppo, lo sperare in una grande bellezza, ed
ancor di più il buon risultato di tale speranza è sconveniente per chi è vicino
alla morte. Metti in ciò che ti piace ciò che piace a me, pensa come me, ad uno
gli sarà dolce ciò che lo strizza? dacché un favore che dura poco raddoppia lo
star male. Ed anche ti voglio dire come sarebbe la morte a chi muore giunto alla
sua più alta sorte segià ai miseri è dura?
Amor se tu se’ dio, a
non puo’ ciò che tu vuoi? b
Deh fa per me, se puoi, b
quel ch’i’ fare’per te,s’Amor,
fuss’io. A
Sconviensi al gran desio a
d’alta beltà la speme, c
vie più l’effetto a chi press’al
morire. D
Pon nel tuo grado il mio: a
dolce gli fie ch’il preme? c
Chè grazia per poc’or doppia ’l martire. D
Ben ti voglio ancor dire: d
che sarie morte, s’a miseri è dura, E
a chi muor giunto all’alta suo
ventura? E
i
molti settenari danno brio al ritmo generale di questo componimento sia nei
primi quattoversi sia nei successivi sei ,due terzine con la stessa rima,
fomate da due settenari seguiti da un endecasillaboil terzultimo verso, un
settenario a rima baciata con l’endecasillabo precedente, prepara la chiusa
finale. Il discorso si svolge piano e chiaro pur nei ricercati contrasti, anche se non eroici.
98)
La nuova beltà
d’una (263)
La bellezza di una nuova donna
mi sprona mi toglie i freni del ritegno, mi flagella però non solo
è passato terza ma anche nona e
vespro ed è prossima la sera. Il mio parto (la mia nascita) ed la mia sorte,
l’uno scherza con la morte e l’altra non mi può dare qui una pace piena. Io che
avevo messo d’accordo la testa canuta insieme con i molti anni ,già tengo in
mano il pegno dell’altra vita, ciò che per quella promette un ben contrito cuore. Nell’ultima partita più perde chi
ha meno timore di Dio, fidandosi del
proprio ardimento contro l’usato ardore amoroso : se alla memoria non
resta l’esperienza non giova l’essere vecchio , se non ha la grazia di Diio.
La nuova beltà d’una a
mi sprona,sfrena e sferza b
né sol passato è terza b
ma nona e vespro, e prossim’è la
sera. C
Mie parto e mie fortuna a
l’un co’ la morte scherza, b
nè l’altra dar mi può qui
pace intera. C
I’ c’accordato m’era c
col capo bianco e co’ molt’anni
insieme, D
già l’arra in man tene’ dell’altra
vita, E
qual ne promette un ben contrito
core. F
Più perde chi men teme d
nell’ultima partita, e
fidando sé nel suo propio valore F
contr’a l’usato ardore: f
s’a la memoria sol resta l’orecchio,
G
non giova,senza grazia, l’essere
vecchio. G
Le
molte rime che si svolgono in questo madrigale manifestano il susseguirsi dei
pensieri di Michelangelo già vecchio e stanco di combattere con le passioni, e
si alternano con studiata maestria accompagnate dal ritmo veloce dei settenari
che si placa nel ritmo più blando degli endecasillabi. frasi scultoree si
susseguono, vedi “ma nona e vespro, e prossim’è la sera” il ristingimento
grammaticale ”prossim’è” dà l’idea del rapido incombere della morte o “col capo
bianco e co’ molt’anni insieme” o “qual
ne promette un ben contrito core” ed altre.
99)
Come portato ho già più
tempo in seno (264)
Dopo
la morte della donna amata, la natura dovrà fare una nuova donna a lei somigliante
affinchè la terra non rimanga priva della immagine di lei.
Come ho portato per
tanto e più
tempo la tua immagine nel seno,
o donna, ora che la morte si avicina,
Amore mi stampi, come un privilegio, la sua anima, la quale sia
felice di deporre
la sua salma pesante che fu il suo carcere terreno, sicura, sia che il tempo faccia tempesta o che sia bello, col segno della
croce che diventi il segno contro i
suoi nemici, e ritorni, lei modella per fare gli angeli che nell’alto del cielo brillano, in quel cielo
dove ti rubò la natura, la quale dovrà imparare a rifare nel mondo
un’anima rinvoltata dalla carne, e
così, dopo te resti qui in terra il tuo bel volto ancora..
Come portato ho già più tempo in
seno A
l’immagin, donna del tuo volto
impressa, B
or che morte s’appressa, b
con previlegio Amor ne stampi
l’alma, C
che del carcer terreno a
felice sia ‘l dipor suo grieve
salma. C
per procella o per calma c
con tal segno sicura, d
sie come croce contro a’ suo
avversari; E
e donde in ciel ti rubò la natura, D
ritorni, norma agli angeli alti e
chiari, E
c’a rinnovar s’impari e
là sù pel mondo un spirto in carne
involto, F
che dopo te gli resti il tuo bel
volto. F
Una
splendida poesia amorosa, un ultimo desiderio, un’ultima speranza con parole
serene anche se piangenti, ed i singhiozzi son dati dal variare della lunghezza
del verso e dal variare della rima che sembra inconsueta, ed il simbolo della
croce rimanda alla battaglia di Costantino contro Massenzio di Piero della
Francesca vista ad Arezzo; il suo rimpianto va tanto alle di lei fattezze umane
quanto, e vieppiù all’immagine della di lei anima, le fattezze umane restino
alla terra. Dall’immagine dell’anima che Amore gli dona con un salto passa alla
vera anima di lei e quel salto si avverte .
100)
Per non s’averea
ripigliarda tanti (265)
L
a bellezza della donna amata sarebbe stata bastevole per fare belli tutti i
mortali.
Per
non avere da riprendere da tanti quella quantità di bellezza che non c’era
sulla faccia della terra da tanti fu prestata e Dio ne fece una donna alta e
sincera sotto il candido velo del suo corpo, che se avesse dovuto riscuotere
quella bellezza da quanti sono al mondo il cielo sarebbe stato ricompensato
male.Ora in un breve ultimo respiro, anzi in un momento, Dio, dal mondo poco
sagace,se l’è ripresa e l’ha tolta ai nostri occhi. Però non può mettere nel
dimenticatoio, benché il corpo di lei sia morto, i suoi scritti soavi leggiadri
e mistici. Una crudele misericordia qui mostri
che se quella bellezza il cielo la prestava a chi è brutto , se ora con la di lei la rivuole, adesso morremo
tutti.
Per non s’avere a ripigliar da tanti A
quell’insieme beltà che più non era, B
in donna alta e sincera b
prestata fu sott’un candido velo, C
c’a riscuoter da quanti a
al mondo son,mal si rimborsa il
cielo. C
Ora in un breve anelo, c
anzi in un punto,Iddio d
dal mondo poco accorto e
se l’ha ripresa, e tolta agli occhi
nostri. F
Né metter può in oblio, d
benché’l corpo sie morto, e
i suoi dolci, leggiadri e sacri
inchiostri. F
Crudel pietà, qui mostri f
se quanto a questa il ciel prestava
a’ brutti G
s’or per morte il rivuol, morremo or
tutti. G
Un’altra
gentilissima e castissima poesia d’amore per la bellezza della donna
amata,mescola Dio e bellezza, morte e vita,l’anima che Dio si riprende e torna al cielo e le cose, i suoi scritti, le
rime, che lascia quaggiù imperiture, per esaltarne la persona che ha perduto,
pochi poeti hanno scritto in onore della donna amata in così bella maniera fra
i pochi Dante nel Paradiso e certamente ancor dipiù. I versi sembrano scorrere
più pacati che nel precedente, simile l’incatenarsi della rima nella prima
parte ma con un ritmo dei versi più calmo, se ne discosta nella seconda parte,
anche per la durata del verso che cambia la forma insieme al contenuto che ben
si adattano, senza più martiri, in piena pace e misericordia, nel sereno
periodare.
Quel “brutti” al penultimo verso
indica anche foneticamente la mortalità terrena che per misericrdia rimane in
confronto alla bellezza di lei che Dio si riprende.
101)
Perché l’età ve ‘nvola (278)
L’ultimo
affanno amoroso
Perché
la mia età porta via il desiderio cieco alla visione del danno che òi apporterà
e sordo ai richiami della ragione mi metto d’accordo con la morte, ora che sono
già stanco e vicino allultimo respiro. L?anima mie che teme e onora ciò che l’occhio mio non vede, dal tuo bel
volto o donna si allontana, come se fosse casa pericolosa ed inutile. Amore,
che non cede al vero di nuovo mi appaga il cuore col fuoco dell’amore e con la
speranza di essere amato, mi pare che dica,amare....
Perché l’età ve ‘nvola a
il desir cieco e sordo, b
con la morte m’accordo, b
stanco e vicino all’ultima parola., A
L’alma che teme e cola a
quel che l’occhio non vede, c
comedacosaperigliosaevaga, D
dal tuo bel volto, donna.
m’allontana. E
Amor, c’al ver non cede, e
di nuovo il cor m’appaga d
di foco e speme, e non già cosa
umana E
mi par mi dice ,amar.... x
La
mancanza della chiusa finale anzi quel finale sospeso accresce la preziosità ed
il fascino di questo piccolo madrigale,leggero e scorrevole a causa della
maggioranza dei settenari sugli endecasillabi che spezzano il ritmo che sarebbe
troppo vivace rispetto al contenuto ma anche si deve apprezzare come quel ritmo
vivace induca a pensare alla ineluttabile, rapida vanuta della morte ed il
subitaneo, seppur venir tardo, dell’amore. Slendida la movenza del settimo
verso che ricorda la medesima cadenza dell’ “uscito fuor del pelago alla riva”
ed anche si avvicina al successivo verso dantesco “si volge all’acqua
perigliosa e guata” addirittura mrttendoci la stessa parola “perigliosa”.
102)
Or d’un fiero ghiaccio,
or d’un ardente foco, (269)
Il
suo testamento spirituale.
Sono
preso ora da un feroce ghiaccio di morte,
ora da un ardente fuoco d’amore, ora dai miei anni e dai miei guai
passati, ora sono difeso dalla vergogna che provo, fo specchiare nel passato il
mio futuro carico di triste ed addolorante speranza e sento il bene col suo
breve durare non meno del male che mi
affligge e mi incalza. Chiedo sempre perdono alla buona ed alla cativa mia
sorte, ambedue stanche di me,e riconosco che la fortuna e la benevolenza hanno
le ore brevi e corte se la morte cura la miseria
Or d’un fiero ghiaccio, or d’un
ardente foco, A
or d’anni o guai, or di vergogna armato, B
l’avvenir nel passato b
specchio con trista e dolorosa speme C
e ‘l ben, per durar poco, a
sento non men ch’el mal m’affigge e
preme. C
Alla buona, alla rie fortuna
insieme, C
di me già stanche, ognor chieggio
perdono: D
e veggio ben che della vita sono D
ventura e grazia l’ore brieve e
corte, E
se la miseria medica la morte. E
Più
severo e sofferente questo ultimo madrigale sia per la preponderanza degli
endecasillabi, ed i settenari hanno parvenza di singhiozzi, sia per il ritmo
delle rime, quelle ripetute rime baciate finali, il tutto che fa un’unità di
forma e contenuto in questo mirabile madrigale. La sorpresa della mancata rima
baciata del quinto verso offre il respiro come di una pausa, un arsi in levare
che rimanda alla rimaq del primo verso.