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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

I MADRIGALI DI MICHELANGELO

di Beppe Giannoni

 

      

                                                                                                                          

 

 

            Michelangelo fu grandissimo scultore, nessuno lo può negare. Specie in questo momento storico in cui masse sempre  grandi si muovono anche d’oltre oceano, seppure talora per vezzo o moda, a vedere le sue opere magari  soltanto per potere raccontare di averlo visto anche se non l’ha apprezzato e capito, e fanno la fila. E come scultore fu particolarmente pagato ed apprezzato a suo tempo, scultore diventò in  opposizione al padre che stimava vile la scultura e disdicevole per il suo supponente livello sociale e passabile la pittura tanto da permettergli di andare a bottega da un pittore. Michelangelo volle per forza diventare scultore alla scuola di Bertoldo.

             Ma fu ancora più grande come pittore. Ricordo ancora l’ emozione di me poco più che ventenne nel vedere  nei miei consueti Uffizi la tavola restaurata del “Tondo Doni”, mi saltarono agli occhi stupefatti quei “rossi” vivaci, gli “arancio “ cangianti, i “verdi” teneri,, gli “azzurro” intensi,  quasi sfacciati, i “viola” pallidi, le lontananze ed i primi piani  trasfigurati nel variato contenuto seppure ambedue grandiosi nei teneri incarnati, colori che mai avevo trovato in pittori precedenti e che una mano di vernice opaca insieme al tempo avevano smorzato quelle brillantezze, quelle trasparenze, quel cangiarsi di continuo per l’amorfo grigiore della vernice sovrepposta, vernice  che   trasformava quel  Tondo, seppure sempre bellissimo da vedere, in un sempre apprezzabile monumentalismo ma niente più. Il dipingere di Michelangelo era svanito, era nascosto.

            Nessuno prima di Michelangelo aveva osato usare quei colori  che ritroveremo poi nel Rosso Fiorentino,  nel  Pontormo nel Beccafumi ed in tanti altri. Non  Cimabue,neppure con le sue lumeggiature d’oro , non  Giotto né Masaccio e neanche il genio innovatore di Leonardo, non Raffaello, non i precedenti veneziani.. 

            Così come è stato per la Cappella Sistina restaurata ché quei colori, checché piacciano o no, sono i veri colori di Michelangelo, del grandissimo pittore Michelangelo.

            Ma ancora più grande fu il Michelangelo poeta. Lo attestano le sue rime (e, tra le rime,  ancora dipiù i suoi sonetti ad i suoi madrigali) , quasi sconosciute o , se conosciute , conosciute ed apprezzate soltanto da pochi., e  più volte Michelangelo ebbe ad affermare di non essere poeta e di non sentirsi pittore forse per volontà di modestia. Come scultore era stato già proclamato ed osannato.

            A scuola non me lo fecero apprezzare, un po’ , se ben ricordo, mi fu parlato del sonetto scritto mentre dipingeva il soffitto della Cappella Sistina e dei versi sulla ”Notte”, ma non nelle lezioni di letteratura italiana ma a storia dell’arte, senza valorizzarne né contenuto né forma bensì me ne accennarono soltanto come semplice aneddoto, Tra l’altro anche il De Sanctis l’aveva trascurato assolutamente nella sua storia della letteratura italiana che informò  generazioni di studenti ed il Croce aveva detto che in quelle rime il gran Michelangelo non era poeta e che non era veramente, o solo in rari tratti, un Michelangelo poeta ed artista.

            Scrisse: 

            “Erano innamoramenti di varia qualità, talvolta sensuali, più spesso sentimentali e fantasiosi, rimasti nel vaneggiamento e corteggiamento e nel desiderio; era l’ideale dell’amor platonico, per la somma bellezza beatificante, a cui anch’esso credeva; erano le insofferenze e gli scatti di un temperamento tempestoso, di un animo virile che spesso si sentiva malsicuro e che inclinava al pessimismo; la tristezza degli anni tardi, che la seduzione dell’amore ancora visitava e pungeva, e sconvolgeva dolorosamente; la paura e l’attrazione insieme della morte , che dà pace; gli impeti di zelo e fervore religioso, della tradizionale religione, che in lui non soffrì mai travagli eterodossi”

            Calzolaio che non andava al di là della ciabatta, absit iniuria verbo.

            E seguitando: “E li metteva in verso nelle forme consuete della letteratura del suo tempo, qualche volta stambottesche, rusticane e bernesche ma il più delle volte petrarchesche, trattandole senza la disciplina e l’abilità del letterato, e perciò con improprietà, zeppe, oscurità, contorsioni, durezze, che non si possono accettare, perché realmente sgradevoli, e non si osa, nonché desiderare, neppur ideare che egli le avesse addolcite e abbellite con l’abile letteratura neppure essa di certo gradevole.....” e via di seguito, segno che appena appena le aveva scorse ma senza capirne alcun che.

            Furono quegli “innamoramoramenti di varia qualità” che nel periodo fascista, col suo Minculpop tutto teso all’esaltazione della virilità  guerriera e della razza pura, il Michelangelo poeta fu messo da parte, andazzo che continuò nel perbenismo bacchettone del dopoguerra.

            Perché Michelangelo, con le sue poesie, scava nel suo intimo, scende nel profondo della sua anima con una sincerità che sconvolge, mette a nudo la sua omosessualità scorticando la sua pelle e facendola sanguinare.         Una omosessualità  intrisa di dolore, difficilmente intravedibile in un artista titanico quale era e per tale motivo per tanti non accettabile perché ne avrebbe sminuito la grandezza.    

            “Innamoramenti di varia qualità” simili ma pure diversi di quelli dell’altro grandissimo, di Donatello, cui inevitabilmente fa pensare, che non volle avere accanto alcuna donna, del resto in ogni moglie si incarna sempre una Santippe, ( quale essere umano  poteva sopportare il genio di Donatello, condividendone la vita?) che sfogava la sua sessualità, d’accordo fuori della consueta ed approvata norma, la sfogava attivamente con gli efebi che gli capitavano, magari con i garzoni di bottega, provandone poi sconcerto e pentimento dimostrato  nelle sue opere della maturità, vedi nell’efebico David bronzeo del Bargello ai cui piedi, in contrasto all’umile David  mostrava una scena bacchica sull’elmo di Golia, simbolo dell’orgoglio e della lussuria, la stessa scena la mostrava sulla cornice superiore del Pulpito della Passione nella Chiesa di San Lorenzo a Firenze in contrasto al Cristo “mitis et humilis corde” cosiccome ai piedi della Giuditta, debole perché donna, sul basamento,metteva tre crudissime scene bacchiche, ed in una, una testa che rutteggia in maniera invereconda  a ricordare la natura del malvagio Oleoferne vinto ( Si vada a vedere l’interessantissima relazione della dottoress Erika Simon. all’importante Congresso Donatelliano del 1966 tenuto a Firenze ed a Padova, si parlava in quella relazione anche dell’ambiguo “Atis -Amorino” del Bargello, una divinità che a prima vista è angelica mentre in realtà è diabolico- bacchica, ) si ricordi anche lo sfrenato danzare dei putti sia di Prato che della cantoria di Firenze, ricordi e ri-visitazione di marmi veduti durante il soggiorno a Roma, che niente hanno di spirito religioso, segni tutti dell’intimo contrasto di Donatello che però non lasciò nulla di scritto.

            Certamente Michelangelo è più tormentato di Donato e lo dimostra nelle sue rime, ne è l’esempio il madrigale n.° 12 che sembra una parafrasi della lettera di San Paolo ai Romani “quel che non voglio faccio e non faccio quel che vorrei fare”.

 

                        Quantunque il tempo ne costringa e sproni

                        ognor con maggior guerra

                        a rendere alla terra

                        le membra afflitte, stanche e pellegrine,

                        non ha ancor fine

                        chi l’alma attrista e me fa così lieto.

                        Né par che men perdoni

                        a chi ‘l cor m’apre e serra

                        nell’ore più vicine

                        e più dubiose d’altro viver quieto;

                        ché l’error consueto

                        com più m’attempo ognor si fa più forte.

                        O dura mia più d’altra crudel sorte!

                        Tardi oramai può tormi tanti affanni;

                        c’un cor che arde e arso è già molt’anni

                        torna, se ben s’ammorza la ragione.

                        non più già cor, ma cenere e carbone.

 

            Ed in altra rima, in un sonetto

 

                        Vorrei voler, Signor, quel ch’io non voglio

 

            che rimanda, anche questo brano, con maggiore evidenza alla paolina lettera ai Romani.

            E si badi bene, non è soltanto un dolersi religioso superficiale e di maniera bensì ontologico giacché non bastano all’uomo qualche centinaio di generazioni  per cancellarne l’origine nella specie umana che non può fare a meno di essere animalesca; con solo poco più di cento generazioni si arriva andando all’indietro al tempo di Socrate, al tempo di Saffo   Ne son ben convinto dopo avere esercitato per  una vita la professione  di psichiatra relazionale e dopo avere incontrato ed aiutato persone di quel carattere, che tutte , al di fuori di qualsiasi credo religioso, fossero scettici od agnostici, certamente era più evidente in persone religiose, soffrivano di un contasto interiore, la difficoltà di accettarsi insieme alla difficoltà di farsi accettare, anche per le idee socialmente accettate   specie dai genitori (anch’essi purtroppo schiavi della  fondamentale libido di natura animale, come necessità della riproduzione della specie,  oggi fortunatamente ed inconsapevolmente ma anche consapevolmente meno sentita per ragioni demografiche e sociali quando rimossa a causa di uno smodato edonismo), quel sentirsi estraneo alla collettività comune ed al comune sentire al quale le  varie manifestazioni popolari del ”gay-pride” possono offrire una maschera ma non cambiare purtroppo la realtà che li circonda ma anche li impregna . Fatti purtuttavia da comprendere anche se non da condividere

            Michelangelo soffrì in modo particolare tale disagio, anche religioso, ne soffrì per ciò che stimava e sentiva come peccato sia per il  proprio “ethos” sia per la particolarità  dei tempi (erano ancora tempi crudeli e poco inclini alla comprensione) e la temuta, l’eventuale,  conseguenziale punizione,  l’esclusione sociale e la punizione corporale, (erano comuni i roghi,) forse fu questa la causa del suo rifiuto a pubblicare le sue rime, già pronte per la stampa, già in qualche modo ordinate, anche se era amico del papa, oppure un imprecisato ritegno contribuì nel non farle conoscere.

            Invero questo scritto non vuole essere un  trattato sull’ omosessualità che però anche qui voglio affermare non sia  ereditaria né determinata dai geni, e non è necessario che lo sia data l’estrema flessibilità e plasticità della mente umana, vedi gli studi recenti del cervello e della mente. Sempre comunque ho trovato in quei soggetti una particolare affetto verso la madre che era stata non capita dal padre  verso il quale c’era sempre una particolare ostilità o repugnanza, per via della grettezza paterna quasi che il figlio , escludendo un atto eterosessuale,  volesse non perpetrare l’oltraggio maschile paterno alla Donna personificata dalla madre.   Ma questi possono sembrare discorsi tanto per fare e possono distogliere dall’argomento. Sono comunque idee personali purtuttavia confortate dall’esperienza.

            La sua omosessualità. Passiva o platonica soltanto che sia stata, dipendente dal desiderio sensuale soprattutto del Cavalieri, (cui sono indirizzate molte rime,) che lui dice bellissimo, o di altri,  vedi Febo del Poggio o Gherardo Perini, anche se, sembra, avesse avuto durante il suo soggiorno a Bologna una intima relazione con una donna non meglio identificata. La passione per la Colonna, o la donna crudele, questa certamente platonica, anche se, sempre, i toni usati e le parole, indicano  con precisione la passionalità e la sofferenza passionale; la sua fantasia, il suo sogno , perciò poesia,  che sopperisce alla eventuale verità ed alla realtà per tramutarla in un veritiero gioco d’amore passionale, nei deliri amorosi, nelle crudeli e strazianti amarezze.

            Michelangelo, innamorato di natura, non poteva vivere senza l’amore, anche se ne pativa la spasimante crudeltà, illusione o realtà che fosse, il suo amore lo portava al di là della sua sessualità fisiologica, lui vede  

                       

                        “un uomo in una donna, anzi un dio”

 

            riportando il suo corpo, nella sua  primitiva essenza, addirittura prima della creazione di Adamo o di Eva, addirittura al Dio biblico che secondo le recenti interpretazioni bibliche è madre oltre che padre, maschio e femmina insieme, “simile a sé lui lo creò” (parlando della creazione di Adamo) addirittura prima dell’Adam primordiale (e sembra anche rifarsi all’evangelico padre del figliol prodigo che alla vista del figlio ritrovato si commuove fino allo “splachnon”   alle viscere o, meglio tradotto, all’utero, e  Rembrand ritrarrà con una  mano femminea il vecchio signore ,) riportando la sessualità prima della venuta dei due sessi, prima della venuta dell’altro sesso, oggettuale destinatario dei desideri e della sessualità maschile.

            Certamente la sua frequentazione in casa Medici, in quell’ambito culturale intriso di neo platonismo e certamente di raffinatezze non comuni, determinò un particolare atteggiamento culturale di Michelangelo, e ne son prova i componimenti  poetici tipo ottave e stanze di canzoni, la barzelletta e vari pezzi sciolti e relative rime che rimandano a quel tempo, ( a proposito quanta produzione in  versi di quel periodo culturale, che a mio parere fu scarso di letteratura poetica quanto fu produttivo di studi umanistici e di filosofia, è stato propinato alle mie fatiche scolastiche, versi per me puerili e sterili) forse lì avrà imparato a leggere Dante e Petrarca dei quali ,specie di Dante, fu appassionato lettore e cultore:

 

                        “Di  Dante dico, che mal conosciute

                         fue l’opre suo da quel popolo ingrato”

 

            Il Foscolo, pur non apprezzandolo completamente o, forse, non potendolo capire, orgoglioso del suo estro poetico,  afferma “ che Michelangelo fosse disposto a poesia non è da dubitare” e continua: ”in gioventù sappiamo che la sera egli leggeva agli amici Dante e Petrarca.”  E soprattutto nei madrigali sentì la vicinanza al Petrarca.

            A Dante però lui si rimanda in tanti versi che paion scritti da Dante stesso, versi come sentenze, scritte con subbia e mazzuolo:

 

                         “sie dolce il dubbio a chi può nuocer ‘l  vero”

 

                        “ch’in me non è di me voler né forza”

 

                        “pagar del suo può già chi è mortale”

 

                        “povero e vecchio, e servo in forz’altrui”

 

                        “c’una lucciola sol gli può far guerra”

 

            e tanti altri versi sparsi nelle sue rime. Il titanismo di Michelangelo non fece plagio né pura imitazione forse fu un’ispirarsi a Dante; Michelangelo  tra l’altro sceneggiò e ritrasse e Caronte, e la sua barca, e i dannati ed i  beati come li aveva visti Dante.

            Oltre che di casa Medici però non si deve dimenticare la sua frequentazione del convento agostiniano di Santo Spirito, a Firenze, le cui stanze mortuarie furono palestra di segreta, notturna notomia con la permissione del Priore di Santo Spirito, un uomo di ampie vedute, ed allora il convento di Santo Spirito fu un importante centro culturale alternativo a Santa Maria Novella ed a Santa Croce, centro alternativo che Michelangelo frequentò e di quella frequentazione ne resta come pegno quel famoso Crocifisso ritrovato e ben presentato alla recente mostra fiorentina di “Michelangelo giovane”.

            Fu denso e partecipato il suo agostinismo, uguale e pari del resto all’agostinismo della Colonna che ad un banale e conativo storico che storico non è, seppur sincero tanto da anmmettere che scrive senza documenti, il quale tenta di far passare la Colonna come protestante, dimenticandosi del travaglio in quei tempi nella Chiesa Cattolica e che l’agostiniano Lutero aveva tratto proprio da Sant’Agostino l’idea che la sola giustificazione dei peccati fosse soltanto il  sangue di Cristo, idea che tante volte riprende Michelangelo

 

                        “poi che non fusti del tuo sangue avaro

                         che sarà di tal don  la tua clemenza

                         se il ciel non s’apre a noi con altra chiave”

 

            Ed ancora

 

                        “Non mirin co’ iusizia i tuo sant’occhi

                         il mie passato, e  ‘l gastigato orecchio

                         non tenda a quello il tuo braccio severo.

                              Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi,

                              e più abondi, quant’i’ son più vecchio.

                              di pronta aita e di perdono intero.”             

 

            Ed in altra  parte ancora, alla fine di una quartina

 

                        fuor del tuo sangue no fa l’uomo beato”

 

            ed in un frammento di sonetto

 

                        “Signor mie car tu sol che vesti e spogli,

                          e col tuo sangue l’alme purghi e  sani

  da l’infinite colpe e moti umani”

 

            Ed infine

 

                        “Ma pur par nel sangue tuo si comprende

 se per noi par non ebbe il tuo martire,

                         senza misura sien tuo cari doni”.

 

            Così, a testimonianza della sua frequentazione di Santo Spirito e di Sant’ Agostino.

            Ma è  anche da ricordare la sua partecipazione alle idee savonaroliane, segno di comune aspirazione ad una corale nuova spiritualità e di non più  tacevoli gravi eccessi politici  e pseudo religiosi della Chiesa  che portarono poi alla rivolta dei palleschi  per la eccessiva foga che travalicò dallo spirituale e che mise  al rogo il Savonarola, rogo voluto dal papa. Meglio sarebbe stato per la Chiesa soggetta alla smania del potere temporale e lontana ai dettami evangelici, aver seguito gli inviti del Savonarola e di tanti che ambivano alla spiritualità della Chiesa. Tale anelito è presente nelle opere di Michelangelo, si veda nel Cristo Risorto di Santa Maria sopra  Minerva in cui il Cristo non abbraccia la bandiera della vittoria  bensì la Croce e con essa la Passione redentrice.

             Vari i temi delle Rime e dei madrigali , e non tutte le rime sono di livello altissimo ma anche le meno riuscite sono di grande livello come del resto si può dire di tutti, da Dante stesso ed a Leopardi, ma non per questo Dante e Leopardi non furono poeti grandissimi; madrigali e sonetti riconducibili a tre temi fondamentali, quello che espone il suo tormentoso amore  omosessuale indirizzato al Cavalieri o ad altri che parla del  sofferto suo strazio (ed invincibile ma fonte di piacere); il secondo, il tema pregno di sconforto spasimante volto alla donna crudele od alla Colonna ed il terzo tema, personalissimo ed intimo che riguarda sé stesso e la sua religiosità, il mondo a venire, la paventata pena e lo sperato perdono, i personali travagli ascetici e religiosi, la morte. Da trattare, questo, con rispetto e considerazione sia per la profondità del discorso, sia per la bellezza della forma sia della rispettabilità dell’uomo  credente,  non da sottovalutare perché tale, non da escludere come preso da un assurdo bigottismo come fece il Croce che parlò di  “impeti di zelo e fervore religioso, della tradizionale religione, che in lui non soffrì mai travagli eterodossi.”. Ma tanto ortodosso ai voleri della pseudoreligione allora imperante proprio non lo fu, bastava leggere il sonetto  “Qua si  fa elmi di calici e apade” ed i suoi  scritti

             Ne basti qualche esempio

 

                        “Signor, nell’ore streme

                          stendi ver me le tuo pietose braccia,                    

                          tommi a me stesso e fammi un che ti piaccia.”

 

            e

 

                        “Se, verde, in picciol foco i’ piansi e arsi

                        che, più secco ora in un sì grande, spero

                        che l’alma al corpo lungo tempo duri?”

 

 

            Proprio in questi, forse, ma certamente per me, Michelangelo raggiunge la più alta vetta del lirismo ( come del resto Dante la raggiunse nel Paradiso,  tralasciato dal De Sanctis e da tanti suoi successori,  incapaci di leggere e capire Dante e la sua grandezza così che impedirono a tanti nei faticosi  e formativi studi scolastici di goderlo appieno.

            A parte son da considerare le rime in onore di Francesco  (Cecchino) Bracci, nipote di Luigi del Riccio, morto appena quindicenne, cinquantanove rime che sono una variazione sullo stesso tema, un epitaffio, che soltanto la fervida fantasia di Michelangelo avrebbe saputo svolgere.

            Se nel finale del madrigale ”Ancor che ‘l cor già molte volte sia” nel suo poetare

 

                        “Altro rifugio o via

                        mie vita non  iscampa        

                        dal suo morir , c’un aspra e crudel morte,

                        nè contra morte è forte

                        altro che morte, sì c’ogn’altra aita

                        è doppia morte a chi per morte ha vita”

                         

            sembra di sentire la francescana e dantesca “ morte secunda”;  (e le “due morti” le ritroviamo più volte nelle rime michelangiolesche) ed è tragico, nelle rime sopra riportate, quel ribattere la parola “morte”, sembrano ripetuti colpi di mazzolo, e  nel sonetto alla notte “O notte, o dolce tempo, benché nero”, il finale

                                              

                        “O ombra del morir, per cui si ferma

                        ogni miseria a l’alma, al cor nemica,

                        ultimo delli afflitti e buon rimedio;

                            tu rendi sana nostra carn’inferma,

                            rasciughi i pianti e  posi ogni fatica,

                            e furi a chi ben  vive ogn’ira e tedio.

 

            anticipa  l’amletico monologo scespiriano.

 

 

            Michelangelo fu certamente l’artista più colto e preparato di tutti i tempi. Addirittura arduo sarebbe trovare a chi si sia informato. In poesia certamente,lo si è già detto, a Dante  e  Petrarca.

            Ma divagando in scultura e lasciando per un poco la letteratura e Michelangelo, andando a ritroso, se l’antico di Donatello fu l’antico etrusco non l’antico romano o greco come bene ebbe ad illustrare il Salmi nella solenne conferenza introduttiva del congresso Donatelliano del 1966, quale fu il suo “moderno? A chi fra i moderni Donatello si ispirò? Cercando bene per tutto il trecento ed il quattrocento certamente si  può affermare che per il “moderno” di Donatello si può guardare ad Andrea Pisano del quale  certamente notò la modernità e le innovazioni formali studiandone la porta mentre nettava quella del Ghiberti (e si ricordi a proposito l’andata al deserto di Giovanni, non si è a lui rifatto il grande Piero nel suo Giovannino che va nel deserto, pittura di Luce?) ed il boia del martirio del Battista (mirabile figura dalla testa in scorcio sopra la spalla ed il braccio sinistro, sulla punta dei piedi per accrescere lo slancio del colpire con la lunga spada  il boia che Andrea aveva ripreso da un fermaglio di piviale esposto nel museo primaziale di Pisa, allora non si vergognavano di riprendere idee da altri, non avevano raggiunto l’ossessione di essere originali per forza che avrebbe portato a mettere in scatola i propri escrementi, ciò che neanche lontanamente nessuno avrebbe mai pensato,) insieme alla trascurata Fortitudo in basso a destra della stessa porta con la medesima positura nello spazio del San Giorgio ed il medesimo scialle dalla medesima legatura ( è solo una coincidenza?)  anche se seduta invece che l0all0in piedi el San Giorgio,  sono già di impianto rinascimentale, si ricordi che il Rinascimento non fu fiore nato e sbocciato nel quattocento ma frutto da albero che aveva messo radici bene nel tempo precedente,  si dica sempre parlando di Andrea Pisano che fu grande innovatore per il suo tempo, per il Cristo del Battesimo, nudo bellissimo seppur nascosto artificiosamente in parte dalle acque del Giordano,  e per gli storpi nel pannello dei discepoli che interrogano Gesù (che anticipano il Masaccio del Pietro che sana con l’ombra nella cappella Brancacci). Il suo cavallo e cavaliere della base del campanile di Giotto, non anticipano il duello col drago dl Donatello nella predella del San Giorgio? Si dica anche per Nicola  Pisano, che fa della Madonna nella Natività del pulpito del battistero di Pisa una matrona etrusca, cosiccome due matrone etrusche sono le due Madonne di Arnolfo nel museo dell’Opera del Duomo di Firenze, sdraiate anch’esse sul triclino, anticipando così l’etruschicità di Donatello.

            E per Michelangelo cosa si può dire? Altero, non volle mai riconoscere e lodare i suoi maestri ,lui, titano autogenerato. Per ciò che riguarda il “moderno”, si può certamente  guardare ai Rinascimento,  a Bertoldo  e, con lui, a Donatello ( ho osservato recentemente nella Mostra a San Giovanni Valdarno una piccola opera, deliziosa, un ovale di Donatello, uno “stiacciato” finissimo, che mette la Vergine  al disopra dei diedri di una scala che mi ha rammentato i diedri degli scalini della Madonna di Michelangelo di Casa Buonarroti); e per il suo  “antico”? Mi sono sempre meravigliato come per il grande Iacopo della Quercia lo si sia indicato solitamente come “michelangiolesco” quando Iacopo è di più di cent’anni prima ma c’è un perché, c’è la medesima origine. A Siena, da giovane, Iacopo trovò Giovanni Pisano ma Michelangelo? di Michelangelo si è parlato, nel catalogo della mostra di Michelangelo Giovane, a Firenze, di un suo viaggio ad Arezzo per vedere le opere di Piero della Francesca ( però chi più di Piero gli è distante per il compassato, fissato cristallineo suo rigore nei volumi che geometricamente e compassatamente si pongono nello spazio ben diversi dalle movimentate figure michelangiolesche?) non è probabile che si sia recato anche nella più vicina Pistoia a vedere le opere di quell’innovatore che fu Giovanni Pisano? Ricordo lo stupore nel mio viaggio in Toscana nel ‘66 dopo il congresso su Donatello quando mi trovai a Pistoia davanti al pulpito di Giovanni Pisano. Urlavo in Chiesa quella mattina mentre stavo tentando di disegnare i volumi di Giovanni , il loro espandersi ed il ritrarsi, il muoversi, il saltare, il torcersi delle figure, lo scagliarsi all’infuori, era la prima volta che le vedevo dal vivo (le foto anche se belle non danno quell’emozione) lo stesso spasimo che avrei provato successivamente difronte ai busti di Giovanni Pisano che allora stavano nel Battistero di Pisa, ma soprattutto nelle Sibille nei triangoli vicino ai capiltelli,  sempre nel pulpito pistoiese, le stesse che si ritrovano identiche nella Cappella Sistina, con la stessa torsione su sé stesse.

            E’ qui  l’”antico- moderno” di Michelangelo paradossalmente il suo “antico” gli veniva più consono al suo “moderno”, perché più a lui congeniale, da Giovanni Pisano veniva il movimento del torcersi, l’avvitarsi della figura i moti ascensionali,. e lo spumeggiare dei volumi in aggetto della ”Battaglia fra Centauri e Lapidi” ricordano troppo bene i panelli del pulpito di Giovanni, specie la Crocifissione, non la “Battaglia” di Bertoldo citata nel catalogo della mostra “Michelangelo giovane” di anni fa a Firenze, tanto più che le figure di Giovanni con il loro giustapporsi disegnano nel panello delle metafigure geometriche, vedi la spirale nella “Natività e le linee oblique nella Crocifissione,  come nella “Battaglia” michelangiolesca si delinea un rombo su base orizzontale segnato dal corpo del Centauro morente con i due lati obliqui da sinistra a destra e dall’alto in basso uno a sinistra indicato dallo splendido Lapide eretto ed a destra dall’altro Lapide preso per il collo da un Centauro, rombo che presenta all’interno una perfetta diagonale disegnata dalla testa e dal braccio del Lapide che tiene per i capelli una donna e dal corpo della stessa. E quel Giovanni, rivoluzionario e creativo,  (che nella Madonna dell’Altare della Cintola a Prato stravolge la “esse” della “Schone  Madonna” transalpina, la “ esse” si attorciglia in profondità, nella tridimensionalità, nel suo vortice, si strappa e le masse si espandono e si addensano tramite linee di forza mai viste prima. Giovanni Pisano è il trait d’union fra Michelangelo e Iacopo della Quercia; in verità Giovanni fu maestro di Iacopo da vivo mentre lo fu di Michelangelo, anche se lui non lo dice, da risorto, tutti e due seppero comprendere le novità formali del maestro e le fecero proprie tanto da far dare di michelangiolesco ad Iacopo perché in Giovanni si somigliano.

            Ma torniamo a bomba anche se la poesia di Michelangelo fa un tutt’uno con la sua pittura e la sua scultura. In fondo nella “Battaglia” michelangiolesca il mito è solamente una ispirazione formale, sostanzialmente esprime il suo dissidio interiore che fin da giovane sentiva  e che bene  espresse nelle Rime. 

            Si tentò di parlare di barocchismo, da parte del Croce, riguardo alle rime michelangiolesche  con intenzioni dispregiative. Si dimenticò che nel nostro barocco ci fu un Borromini, un Bernini ed un Caravaggio, oltre che fuori i confini uno Shakespeare e si dimenticò che Michelangelo fu il primo a sentire stretti i panni del classico Rinascimento, si vada a rivedere le sue sculture, i suoi colori e la breve scala che porta alla biblioteca di San Lorenzo a Firenze, il sopra dei  basamenti  dei sepolcri della Sacristia Nuova e la stessa cupola di San Pietro. 

            In questo lavoro, di  tutte le rime di Michelangelo saranno presi in considerazione soltanto i madrigali per non ingigantire la mole dello scritto anche se i sonetti e le altre rime siano pieni di sofferto pensare e pregni di ardite immagini degne del Grande, non esistevano vestiti già confezionati che gli potessero andar bene..

 

 

 

 

            I madrigali!

            Il madrigale, una composizione poetica varia sia nella lunghezza della composizione, sia nella lunghezza del verso, endecasillabi alternati con versi più corti, di solito settenari, sia nel variato alternarsi delle rime che lo fa ben diverso del sonetto che comporta regole più severe, più libero del sonetto, lì sono tutti endecasillabi e tramite questi acquista un tono più solenne, più icastico specie se è satiricamente ironico;  di solito è di quattordici versi e tutt’al più può essere caudato, e le sue rime sono abbastanza fisse e solo nelle due terzine possono abbandonare il classico incatenamento CDC DCD.

            E la differenza di lunghezza del verso insieme alla rima variata danno al madrigale una possibilità di un diverso presentarsi, di un diverso danzare, anzi  il succedersi delle  varie rime danno luogo ad un metaritmo, oltre il ritmo all’interno del verso. Tale metaritmo talora si adegua al contenuto del madrigale, lo vedremo nel proseguire dell’analisi, lo sottolinea, lo coinvolge, ne fa un tutt’uno splendidamente evocativo.

            Il discorrere michelangiolesco é talora duro, talora oscuro, talora difficilmente comprensibile, ciò che può averne scoraggiato la lettura ma non perciò può dirsi brutto e non poetico.

            Le parole del discorso  restano talvolta ostili e talora quasi o del tutto incomprensibili, che talora diventano parti di  voli pindarici dato il carattere irruente , problematico ed introverso, e fantasioso di chi scriveva quelle parole che non era parole ma cose

 

                        “e’ dice cose, e voi dite parole”

                                                                                                                    

            come ben si esprime il Berni nel Capitolo a  Fra Bastian Dal Piombo, il che  può rendere ostica la lettura ma che, superandone lo scoglio, ben si appiana. Chi non supera l’ostacolo dice che Michelangelo è incomprensibile. Mutatis mutandis lo stesso discorso l’ho sentito fare da emeriti psichiatri riguardo al parlare schizofrenico (sia ben chiaro che schizofrenico non è il parlare di Michelangelo anche se parla con ”cose”)  simili ad uno che ritenesse incomprensibile un inglese non conoscendo la lingua inglese; è che bisogna conoscere le lingue compreso lo schizofrenichese, nel quale, si  parla, per mia esperienza, attraverso similitudini ed associazioni, attraverso assonanze usando fatti che sembrano a prima vista estranei al discorso ma a ben vedere appropriati. Come del resto parlano i sogni che per essere capiti devono essere interpretati. Come quella volta che incontrando un paziente che avevo sciolto un tempo dal letto di contenzione nel manicomio di Firenze, ma dopo rilegato dal primario che mi riteneva incompetente ed in quella occasione avevo conosciuto i familiari che ne avevano imposto il ricovero come giovevole alla salute della sua persona, domandandogli se fossero sempre vivi i suoi genitori, mi rispose ”io non ho genitori, sono figlio della scimmia” e con ciò mi comunicava con una breve frase, ma icastica, quale fosse la sua vera condizione. (A tal proposito, e per inciso è sempre opportuno e necessario saper distinguere fra “colpa” e “responsabilità.)   

            Del resto, di fronte alle variazioni sintattiche e grammaticali nelle rime di Michelangelo, talora è difficile capire dove si sia rintanato il soggetto, rime che spesso si fanno personalissime dato la tempra dell’autore ma che  denotano abbreviazioni, dilatazioni, esaltazioni. E restano allora i segni come segni di subbia che abbiano fatto partire schegge, e che schegge, par di vedere il dietro della Pietà del Duomo di Firenze, ora nel Museo dell’Opera del Duomo, soltanto abbozzato a colpi di subbia, pare di intravedere la bocca atteggiata a bacio affettuosissimo e pietoso della Vergine al Figlio morto, nella stessa Pietà, solo accennato. Si ricordi che sempre  nella stessa Pietà il grande Michelangelo fa a meno di scolpire e di aggiungere la gamba sinistra del Cristo che sarebbe uscita ed avrebbe scomposto, storpiato, distorto il mirabile ovale fatto dall’abbraccio destro di Giuseppe d’Arimatea alla spalla destra della Pia Donna, dal braccio destro del Cristo la cui mano cadaverica trova ostacolo in una piega della veste della Pia Donna, dall’arto superiore della Pia donna stessa , dalle braccia della Madonna che tirano a sé il Figlio morto e concluso dal braccio sinistro di Giuseppe d’Arimatea che pietosamente, carezzandole la spalla con la mano aperta sembra volerla consolare, ovale che racchiude come in una teca il Cristo deposto. La stessa sintesi analitica dell’analisi logica e grammaticale presente in tante sue rime.

            Questo è Michelangelo. Un segnare rapido e furioso  che rimanda al suo “Non finito”.     

            Perché le sue abbreviazioni , le sue contrazioni anche nelle rime ci rammentano il suo voluto non finito quasi che la sua conscia incapacità di raggiungere la desiderata perfezione della forma (soltanto Donatello seppe conservare la freschezza dell’opera abbozzata nell’opera finita ed in arte bisogna sapere bene a che punto fermarsi)  ci portasse a vedere ancora più fascinosa l’opera sua, vedi come esempio la Vergine col Figlio della Sacristia Nuova, è ciò che ci fa sentire indispensabile la nostra personale partecipazione per poter fruire appieno l’opera d’arte sia essa in pittura, in scultura od in poesia. La nostra  partecipazione è diversa a seconda dei tempi e della variata sensibilità; si gode l’opera d’arte quanto più la si ama e quanto più ci commuove e quanto più si ama l’autore se ne gusta e apprezza la sua grandezza e bellezza, l’amore che trascura i difetti sfrucolati da chi non ama quando non trasforma in gaudio la ritrovata bellezza. Perché l’opera d’arte si possa dire compiuta è necessaria la partecipazione dello spettatore che vede e gusta quell’opera d’arte, l’artista non opera solo per sé stesso ma anche e soprattutto per chi vede l’opera.

             Si sorvoli infatti se si incontra un “tuo” che sta per “tuoi” un “suo” che sta per “sua” e così via ché forse Michelangelo parlava a quel modo ma che è facile poter capire.

            Solo chi sa amare passionalmente può apprezzare Michelangelo.                                      Evidentemente il Croce e quelli come lui non lo  sapevano fare.

            E non lo capirono, malauguratamente per loro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                               Madrigali di Michelangelo

 

 

 

 

 

            (Le lettere accanto al testo indicano la rima, le maiuscole per gli endecasillabe le minuscole  per i  settenari; il  numero rima del titolo  è il numero progressivo dei madrigali in questa pubblicazione. Lo scritto prima del testo del madrigale riguarda  il contenuto, quello che lo segue la forma.

            Il resto bianco della pagina può servire, per chi lo voglia, a chiosare come più piace.

 

 

 

 

 

 

            1)

                        Chi è quel che per forza a te mi mena (7)

                                                          

            E'  il mistero  dell'innamoramento.  Perché succede?

            Quale forza arcana mi trascina verso di lei, oilmé, oilmé, oilmé, perché mi sento  incatenato pur essendo  libero e  non legato? Chi  può difendermi dal volto della donna amata, come posso scappare se di fatto non ci sono catene che mi incatenino,  se non ci sono mani o braccia che mi tengano?

            Un paradosso, un avvincente   paradosso  come quelli che, se insistiti, possono fare uscire di senno.

 

 

            Chi è quel che per forza a te mi mena           A

            oilmè, oilmè, oilmè                                         b

            legato e stretto, e son libero e sciolto?             C

            Se tu incateni altrui senza catena,         A

            e senza mane o braccia m'hai raccolto,           C

            chi mi difenderà dal tuo bel volto?         A

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 

            Piacevole e semplice anche se intenso; semplice ma garbato  anche il concatenarsi degli endecasillabi nella rima con l'intermezzo dell' "oilmè, oilmè, oilmè", un settenario, che  rompe il ritmo delle rime alternate; la rima baciata degli ultimi  due versi, la stessa  del terzo verso, conclude e chiude il madrigale.

            La brevità ne fa un vero gioiello

 

 

 

 

                                                          

 

 

 

            2)

                        Come può esser ch'io non sia più mio(8)

 

               Sempre il misterioso sconvolgimento dell'innamorarsi, della perdita della propria volontà, della costante presenza di chi lo trafigge senza toccarlo, il suo sentire lievitare dentro il cuore la persona amata che pare straboccare. Perché?

            Come può essere che io non sia più me stesso? o Dio, o Dio, o Dio, chi mi ha rubato a me stesso, che a me fosse più vicino o potesse più di quanto io possa? O Dio, o Dio, o Dio come fa a trapassarmi il cuore chi sembra ce nemmeno mi tocchi? Cosa è questa cosa o Amore, che mi entra tramite gli occhi e che sembra che cresca in un poco spazio? E succede che trabocchi?

 

            Come può esser ch'io non sia più mio?                           A

            O Dio, o Dio, o Dio,                                                a

            chi m'ha tolto a me stesso,                                                 b

            c'a me fusse più presso                                                      b

            o più di me potesse che poss'io?                         A                                           

            O Dio, o Dio, o Dio,                                                a

            come mi passa el core                                                       c

            chi non par che mi tocchi?                                      d                                            

            Che cosa è questo, Amore,                                               c

            c'al core entra per gli occhi,                                               d

            per poco spazio dentro par che cresca?              E

            E s'avvien che trabocchi?                                       d

 

            Agile lo svolgersi della rima; gli endecasillabi frammezzo ai settenari incalzano con il loro metaritmo, nove settenari  e tre soli endecasillabi due dei quali con la stessa rima, in rima baciata, col settenario seguente  ed uno  (quello del penultimo  verso)  senza rima a rendere   ancora più problematico e  senza  perché, anche nella  forma, il vagoso contenuto e che con l’endecasillabo pare spezzare la rima baciata  dei consueti ultimi  due  versi, di solito due endecasillabi a rima baciata.  Come quel  desiante domandare è rafforzato  da quei due punti interrogativi che chiudono i due ultimi versi, in più agli altri tre seminati in questo madrigale  che fanno  del madrigale un susseguirsi di  onde; come  pure con i due  versi dall' "o Dio" per tre  volte ripetuto si esprime anche foneticamente l'angoscia dell'inconoscibile.

 

 

 

 

 

 

 

            3)

                        Quanto sare' men doglia il morir presto (11)

 

            E' il primo  madrigale che parla  dell'amore non  corrisposto. Il sapere di non essere riamato è una morte continua.

            Quanto sarebbe meno dolore il morire presto che provare mille volte l’ora di morire! Non essere riamato è come morire mille volte ogni ora  perché  ogni ora penso mille volte a lei che invece di accettare il suo amore vorrebbe farmi morire! ahi che dolore infinito sente il mio cuore, quando al mio cuore si ricorda  che colei che tanto amo non sente niente per me! Come farò a restare in vita?.  Anzi  lei mi dice, per farmi soffrire  ancora di più, che non ama neanche se stessa; e sembra che sia vero, ma come può amarmi se neanche lei si ama? ahi che triste sorte incombe su di me! E' una triste sorte che, in verità,  mi porterà alla tomba.

            Ad un punto lo sdoppiarsi, la coscienza  che osserva i propri sentimenti, il "cor" che va a proporsi come personaggio  indipendente da  chi vive ed ama è  lontano ricordo           delle "Confessioni" agostiniane (libro IV, 7-12).

 

 

            Quanto sare' men doglia il morir presto                            A

            che provar mille morte ad ora in ora,                                B

            da ch'in cambio d'amarla, vuol ch'io mora!                        B

            Ahi, che doglia infinita                                                         b

            sente 'l mio cor, quando gli torna in mente                        C

            che quella ch'io tant'amo amor non sente!                        C

            Come resterò 'n vita?                                                          b

            Anzi mi dice, per più doglia darmi,                                    D

            che se stessa non ama; e vero parmi.                              D

            Come posso sperar di me le dolga,                                 E

            se se stessa non m'ama? ahi triste sorte!                        F                    

            Che fia pur ver ch'io ne trarrò la morte?                            F     

 

 

            Tutti endecasillabi salvo due settenari dalla stessa rima che intervallano le continue rime baciate insieme ai due endecasillabi, il primo ed il  terzultimo, senza rima, che vivacizzano il  triste madrigale come pure i punti  esclamativi ed  interrogativi  che si alternano specie negli ultimi due versi. Eppure l'ultimo, interrogativo verso pare offrire il pensiero che ci possa essere una speranza. Originale per la metrica e per la rima  questo splendido madrigale.

 

 

 

 

 

4)

                        Comm'arò dunche ardire (12)

 

            Il suo solo desiderio è che la donna amata abbia in mente quanto totale e sofferto sia il suo amore che le dichiara.

            Non potrò dunque avere mai il  coraggio di vivere senza di voi, mio bene  se mi è impossibile chiedere aiuto  all’ andarmene?  Tutti quei  singhiozzi,  quei pianti, quei  sospiri,  che vi accompagnarono con un cuore misero, insieme alle mie sofferenze, dolorosamente dimostrarono che era vicina la mia morte.  . Ma se è vero che la mia fadeltà venga meno con l’essere  assente, io vi lascio il mio cuore con voi, dato che non è più mio.      

            ll  cuore è diventato un pegno d'amore.

 

            Com'arò dunche ardire                                           a

            senza vo' ma', mio ben, tenermi 'n vita,                 B

            s'io non posso al partir chiedervi aita?                 B

            Que' singulti e que' pianti e que' sospiri               C

            che 'l miser core voi accompagnorno,                  D

            madonna,duramente dimostrorno             D

            la mia propinqua morte e ' miei martiri.                C

            Ma se ver  è che per assenza mai             E

            mia fedel servitù vada in oblio,                              F

            il cor lasso con voi, che non è mio.                        F

 

            L'agile arsi del  settenario del  primo  verso, peraltro senza  rima nei versi  seguenti,contrasta  con il lento svolgersi del  discorso composto  di endecasillabi, in  specie per la quartina centrale da "sospiri" a "martiri". Un nuovo  stacco avviene  col verso terzultimo  senza una  rima corrispondente, che pare stare sospeso ma  che, forse involontariamente, si lega  con la parola  all'inizio del  verso successivo per la rima rovesciata

 

 

 

 

 

           

 

            5)

                        Di te me veggo e di lontan mi chiamo           (56)

           

           

            La sua donna con la belleza l’ha preso al lamo e brucia d’amore.

            Vedo bene  che sono di te e da lontano ( da dove tu sei) mi chiamo per avvivinarmi al cielo da dove derivo ed a causa delle tue speciali virtù arrivo a quell’esca  con la quale mi tenti e sono come un pesce tirato dalla lenza abboccato all’amo,  E siccome un cuore tirato da due parti dà un piccolissimo segno di vita, a te si è dato tutto per la qual cosa, e tu lo sai, resto come in verità sono, cioè una ben poca cosa.  E siccome un’anima fra due tendenze va verso  la più degna, sono costretto per forza  ad amarti sempre se io voglio vivere, Giacché io sono di legno che brucia (sono fatto di passioni terrene) e tu sei di legno e di fuoco  (anche tu sei fatta di passione umana che si infiamma, ma hai anche la oossibilità di fare infiammare me). (Oppure sei fastta di terra e di cielo).

 

 

            Di te me veggo e di lontan mi chiamo                              A

            per appressarm’al ciel dond’io derivo,                             B

            e per le spezie all’esca a te arrivo,                                    B

            come pesce per fil tirato all’amo.                          A

            E perc’un  cor fra dua picciol segno                                  C

            di vit’a te s’è dato ambo le parti                                        D

            ond’io resto, tu ‘l sai, quant’io son, poco.             E

            E  perc’un’ alma infra duo va ‘l più degno             C

            m’è forza, s’i’ voglio esser, sempre amarti;                       D

            ch’i’ son sol legno, e tu se’ legno e foco.              E

 

 

            Sembra un sonetto cui manchi la prima quartina.Un po’ troppo dottorale, con tuti gli endecasillabi che formano il sonetto, a mio parere, E per raggiugere la lunghezza del verso, con troppe elisioni che appesantiscono e fiaccano l’andastura invece di alleggerirla, come vorrebbero.Sibillino e chioccio (per il  “E perc’un cor”) il quinto verso per il non indicare a cosa veramente alluda, ( il cielo e la terra? il male ed il bene? la dignità o l’indegnità? e poi al verso seguente ne fa d’erba  un fascio..)

 

 

 

            6)

                                   Natura ogni valore (19)

 

            La donna che ama è l'apogeo della bellezza e della compiutezza raggiunta dalla natura, l’amore per questa donna gli è fonte di dolore ma anche di gioia.

            La natura ha creato ogni bontà e bellezza di donna o di giovane donna per imparare alla fine a fare quella che oggi da una parte mi brucia d’amore ma anche mi ghiaccia, per il dolore, il cuore. Dunque, nel mio dolore mai fu qualsisi uomo triste né ci fu mai, né ci fu una pari angoscia e il pianto, infatti a seguito di una grande causa c’è un maggiore effetto. Nessun uomo ha amato come amo io,ma anche nel piacere di amare nessuno fu più lieto di me.

 

            Natura ogni valore                                       a

            di donna o di donzella                                             b

            fatto ha per imparare, insino a quella                    B

            c'oggi in un punto m'arde e ghiaccia el core.   A

            Dunche nel mio dolore                                            a         

            non fu tristo uom mai;                                              c

            l'angoscia e 'l pianto e ' guai,                                 c

            a più forte cagion maggiore effetto.                      D

            Così po' nel diletto                                       d

            non fu né fie di me nessun più lieto.                      E

 

            Madrigale incompiuto  nella forma  pur compiuto nel significato. La prima quartina si presenta piuttosto particolare, due settenari seguiti da due endecasillabi con la rima baciata fra il settenario e l'endecasillabo  centrali. Poi ritornano i  settenari epoi un endecasillabo, poi un settenario e poi l'ultimo endecasillabo; in tal modo si iaccende  l'altalenare  del ritmo a delineare  l'alternarsi del gioco fra la bellezza e il dolore, fra  il dolore e  la contentezza che alla fine vince.L’interruzioe potrebbe far pensare che non sia finito l’altalenarsi

             E’ vero che il madrigale è incompleto? Comunque l'adesione fra la forma ed il contenuto è completa e lo fanno splendido.

 

 

 

 

            7)

                        Perché pur d'ora in ora mi lusinga (28)

 

            Un altro madrigale  incompiuto, un madrigale che  parla dei  begli  occhi di Amore.

            Sono accalappiato dal ricordo di ora in ora dei suoi occhi e dalla speranza di  vederli di nuovo, per la qual cosa mi sento non soltanto vivo ma, in più, beato; Amore deve sapere che la mia natura e l'abitudine che  non posso  perdere  costingono con forza la mia ragione a doverliammirare per tutta la vita. Se cambiasse tale mia condizione  che è vita per me nemorirei, senza quegli occhi perdere la mia umanità.  O Dio come son belli! esclama. Chi ancora non è  ravvivato né troverei pace  se non ci fossero quei begli occhi. O Dio Essi sono veramente belli! Chi non vive per queli ancora nonè nato, e se  qulcuno verràpoi a dircelo è giocoforza che se è nato, muoia subito nel vederli perché chi non si innamora dei begli occhi, non vive.                         

            Avrebbe, per copletare il madrigale, parlato dei bellissimi occhi della sua donna? O della vita gioiosa che sorge nel guardarli?  Chissà. Però sembra sottinteso nel pur incompiuto madrigale.

           

            Perché pur d'ora in ora mi lusinga             A                    

            la memoria degli occhi e la speranza,                  B

            per cui non sol son vivo, ma beato;                       C

            la forza e la ragion par che ne stringa,                  A

            Amor, natura e la mia 'ntica usanza,                     B

            mirarvi tutto il tempo che m'è dato.                        C

            E s'i' cangiassi stato,                                              c

            vivendo in questo, in quell'altro morrei;                 D

            né pietà troverei                                           d

            ove non fussin quegli.                                              e

            O Dio, e' son pur begli!                                           e

            Chi non ne vive, non è nato ancora;                      F

            e se verrà dipoi,                                           g

            a dirlo quì tra noi,                                         g

            forz'é che, nato, di subito mora;                             F

            ché chi non s'innamora                                           f

            de' begli occhi, non vive.                             h

 

            Due terzine di endecasillabi , un andante con  moto, per  inizio, come tante volte si trova nei madrigali di Michelangelo. E poi il madrigale si dipana con più brio, le rime baciate, i settenari  intervallati a tratti dagli endecasillabi , che a volte da lontano si cantano la rima ("ancora " e "mora"), a  volte se la baciano col settenario seguente, ("morrei e "troverei", "mora" ed  "innamora") fanno danzare i versi.

La chiusa,  brusca e rapida, improvvisa per la  rima nuova, sembra evocare il finire subitaneo della vita di coloro che non si innamorano degli occhi belli ma è squisita nel ritmo, per il  "non vive"  finale dopo le undici sillabe  del penultimo  verso e di parte di  quello  finale  prima della virgola  e,  questa porzione del madrigale, ( dal “ché”  del penultimo verso agli “occhi “ dell’ultimo)  si presenta  con l'andatura di  un perfetto endecasillabo.

 

 

 

 

           

            8)

                        Dagli occhi del mio ben si parte e vola (30)

 

            Dagli occhi  del mio bene  parte e vola   un raggio così luminoso ed infocato che trafigge  il cuore passando  attraverso  i  miei occhi  anche se  chiusi.  Amore però, viaggiando fra lei e lui, porta un carico disuguale perché nel venire da me porta la luce della sua bellezza mentre ritornando da lei mi può rubare solo il buio della mia bruttezza e del mio non poterla fare innamorare.

 

            Dagli occhi del mio ben si parte e vola                 A

            un raggio ardente e di sì chiara luce                     B

            che da' mie, chiusi ancor, trapassa 'l core.            C

            Onde va zoppo, Amore,                                          c

            tant'è dispar la soma che conduce,                       B

            dando a me luce, e tenebre m'invola.                   A

 

            Un madrigale che pare fatto a cesello per il sapiente e raffinato alternarsi delle rime, sei soli versi, il primo  rimato conl’ultimo, il secondo col  quinto, il terzo  col quarto,centrali, a rima baciata. Ed il settenario fra gli endecasillabi sembra davvero fare zoppo  Amore; come  claudicante sembra il verso  seguente con  tutte le dentali  ed i due  accenti ravvicinati ("tant'è dìspar") all'inizio  in confronto  al  piano svolgersi  della seconda parte del  verso. La rima al  mezzo del sesto verso col  verso precedente  ("luce" e "conduce")  è vera preziosità  fonetica ed in quel "m'invola" c'è l'immagine  sia del portargli via le tenebre sia del volare di Amore.

 

 

 

 

 

            9)

                        Amor non già, ma gli occhi miei son quegli( 31)

 

            Non c’è amore senza tormenti, ma è sì augurabile!

            Non hanno trovato l’amore i miei occhi in quei tuoi occhi così belli ma vita e morte intera. Non tanto mi offende e mi opprime il danno (che ho avuto nell’incontrarti) quanto più quel danno mi distrugge e  mi brucia d’altra parte l’ amore mi nuoce tanto quanto più trovo compiacenza Mentre che io penso al male e lo provo, il bene mi cresce in un attimo. O nuovo e strano tormento! Però non mi sgomento se l’aver miseria e stento è dolce qui dovemai c’è bene, io vado cercando il dolore con maggiori pene.

 

 

            Amor non già, ma gli occhi miei son quegli             A        

            e vita e morte intera trovato hanno.                                 B

            Tante meno m’offende e preme ’l  danno,                        B

            più mi distrugge e cuoce;                                      c

            dall’altra ancor mi nuoce                                       c

            tante amor, più quante più grazia truovo.                        D

            Mentre ch’io penso e pruovo                                             d

            il male, el ben mi cresce in un momento.                        E

            O nuovo e stran tormento!                                     e

            Però non mi sgomento:                                                     e

             s’aver miseria e stento                                                      e

            è dolce qua dove non è ma’ bene,                                   F

            vo cercando ‘l dolor con maggior pene.                          F

 

 

             Madrigale sofferto, anche se pazientoso., che insiste sulle rime baciate,che nel secondo e terzo endecasillabo rispondono all’ineluttabilità del destino, e gli endecasillabi sono pari ai  settenari  quasi che il  destino  ineludibile  sia pari alla straziante sofferenza.   Quattro  rime,  le  stesse,  insistenti per  quattro versi, “momento”, “tormento”, ”sgomento” e  “stento”) quasi ad indicare la dimensione della sofferenza. Contenuto e forma ben si adattano.

 

 

 

 

            10)

                        Ogni cosa ch'i' veggio mi consiglia (81)

 

            Può soltanto amare e cercare e seguire e bramare la donna amata, e chi le rassomiglia anche per un po, non vede altro che lei’,( cose frequenti per chi siia innamorato) lei soltanto è bella.

            Ogni cosa che vedo mi consiglia e mi prega e mi spinge a seguirvi  e ad amarvi giacché ciò che non siete non è il mio bene. Amore che annienta pernime ogni altra meraviglia vuole, per  la mia sallute, che io cerchi ed ami soltanto voi, che siete il mio sole e così tiene la mia anima priva di ogni altra speranza e di ogni altro valore e vuole che io arda e viva non sltanto di voi ma anche chi vi somiglia negli occhi o soltanto nelle cglia, anche se solo in minima parte.E chi si discosta dalla vostra somiglianza, o occhi, o mia vita, non ha luce perchè il cielo non c’è dove voi non siete

 

            Ogni cosa ch'i' veggio mi consiglia                       A

            e prega e forza ch'i' vi segua e ami                       B

            ché quel che non è voi non è mio bene.                C

            Amor, che spezza ogni altra maraviglia,             A

            per mia salute vuol ch'i' cerchi e brami                 B

            voi, sole, solo; e così l'alma tiene               C

            d'ogni altra spene e d'ogni valor priva,                 D

            e vuol che arda e viva                                             d

            non sol di voi, ma chi di voi somiglia                     A

            degli occhi e delle ciglia alcuna parte.                  E

            E chi da voi si parte,                                               e

            occhi, mia vita, non ha luce poi;                             F

            ché 'l ciel non è dove non siate voi.                       F

 

        Madrigale che  contro undici  endecasillabi ed all’ottavo ed all’undicesimo verso  ha  due soli  settenari  i quali  da parte loro,  iniziando con un "e" avente  il significato di un "ma",  sono lì a stravolgere  il senso del discorso, (il secondo settenario riporta il discorso al  senso iniziale); purtuttavia, legati paradossalmente con la rima baciata ai versi del  precedente senso contrario, il salto ed il contrasto della connessione si fa più  marcata. (Eforse stravedere, è vedere ”ciò che non c’è , è delirare forse, dire  che la  rima del verso  significativo del  primo  cambiamento di senso "non sol di voi, ma chi di voi somiglia," che sta in mezzo a due paia di rime baciate, è la stessa del primo verso della dichiarazione  dell'immenso amore, il "maraviglia" del quarto verso?)  Il  madrigale,  iniziato con  due terzine di endecasillabi come a proclamare  pacatamente  ma  decisamente  il suo amore si  svolge in seguito più agilmente  con nuove  rime, (salvo quella del già detto  quintultimo  verso  che è la stessa  del primo), e con i settenari.  Giunge poi a  concludersi , in piena e decisa pacatezza, nella  rima baciata dei due endecasillabi finali.

            Anche come è articolato il madrigale va ad esprimere le apparenti contraddizioni di chi ama il quale non può non amare anche chi somigli alla donna amata, ma lo dice in maniera solenne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            11)

                        Perc'all'estremo ardore (91)

 

             Dal contenuto forse troppo intimistico e sforzato, vuole per  forza essere  drammatico e  morbosamente  triste e doloroso,proteso  alla ricerca  dell'artificio.                                                            Affincché la mia vita resista  al chiudersi ed all’aprirsi dei tuoi occhi, all’estremo ardore che toglie la vita quando si chiudono e ritorna quando si aprono, quei tuoi occhi che mi attraggono come una calamita attrae il ferro ed attraggono la mia anima,ed ogni mia potere; così Amore, forse perché pure è cieco, indugia ad uccidermi,e trema ed ha paura ; siccome nel trapassarmi il cuore deve trapassare le parti tue esterne essendo io dentro al tuo cuore,non mi uccide affinché tu nion muoia insieme a me.O graqn martirio,perché un dolore mortale senza che io muoia, raddoppia lo sfinimento del quale sarei salvo se non fossi dentro di  te. Deh, fammi tornare in me affinché possa morire una buona volta.

            Un vivere e un morire di continuo, insopportabili.

 

            Perc' all' estremo ardore                             a

            che toglie e rende poi                                             b

            il chiuder e l'aprir degli occhi tuoi               B

            duri più la mia vita,                                      c

            fatti son calamita                                         c

            di me, dell'alma e d'ogni mie valore;                     A        

            tal c'anciderm' Amore,                                            a

            forse perch'è pur cieco,                                          d

            indugia, trema e teme.                                            e

            C'a passarmi nel core,                                            a

            sendo nel tuo con teco,                                           d

            pungere' prima le tue parte streme;                      E

            e perché meco insieme                                          e

            non mora, non m'ancide. O gran martire,            F

            c'una doglia mortal,senza morire,              F

            raddoppia quel languire,                             f

            del qual, s' l' fussi meco, sare' fora.                       G

            Deh rendim'a me stesso, acciò ch'io mora.  G

 

            Se il  contenuto  è  contorto ed affettato, l'aspetto  formale  riabilita  il madrigale. Il collocarsi degli endecasillabi rispetto ai settenari  in rima baciata col settenario precedente o col settenario seguente, il disporsi  delle rime, le rime in "ore" ("ardore", "valore", "Amore", "core"), quattro,  poco meno di un  quarto di tutti i versi, le rime baciate, specie la mitragliata delle rime in "ire" ("martire","morire", "languire"), e le due  coppiette "Amore-cieco" e "core-teco" danno al madrigale una particolare vivacità. Son battiti di ciglia che si susseguono.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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            12)

                        Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni (92)

 

            Un madrigale, tormentato dal rimorso, dalla disperazione, dal dubbio e dalla consunzione  nel contrasto  tra  l'anima  rattistata  dal  peccato  ed il  corpo rallegrato dal piacere..

            Non muore l'amore che affligge l'anima  ed allieta il mio  corpo anche se il tempo ogni giorno costringa  e spinga verso la morte le membra piangenti, stanche e pellegrine su questa terra.  Ne' m i  sembra    che  Amore meno perdoni a chi mi apre  il cuore alla gioia e che glielo attanaglia nel pianto  neanche  nelle ore più vicine a quell'altra vita che dovrebbe essere piena di pace; ma  quelle ore ultime sono sempre  più dubbiose del fatto che quella vita  sarà tale perché l'adusata consuetudine con l'errore si fa  purtroppo più  tenace nel mentre che invecchio.  O duro destino  più crudele di ogni altro!Tardi oramai puoi togliermi i miei tanti affanni, poiché un cuore che  brucia ed è arso  già da molti anni,anche se la ragionevolezza smorza la sua fiamma,non si cambia in cuore, ma in cenere e carbone..

            Sembra davvero riecheggiare la predica svonaroliana.

. 

            Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni                        A

            ognor con maggior guerra                                      b

            a rendere alla terra                                                  b

            le membra afflitte, stanche e pellegrine,                           C

            non ha ancor fine                                                     c

            chi l'alma attrista e me fa così lieto.                                   D                                                                    Nè par che men perdoni                                         a

            a chi 'l cor m'apre e serra,                                      b         

            nell'ore più vicine                                                     c

            e più dubiose d'altro viver quieto;                          D

            ché l'error consueto,                                                d

            com più m'attempo, ognor più si fa forte.             E

            O dura mia più d'altra crudel sorte!                                   E

            Tardi orama' può tormi tanti affanni;                                  F

            c'un cor che arde e arso è già molt'anni                           F

            torna, se ben l'ammorza la ragione,                                  G

            non più già cor, ma cenere e carbone.                             G

           

            Il  vorrei e non vorrei  della  prima parte  è suggerito  anche  dall'alternarsi di  settenari e di endecasillabi e dalla varietà delle rime.  Negli ultimi versi, tutti endecasillabi a rima baciata, affiora anche nella forma, appare l'ineluttabilità insistita del suo destino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            13)

                        Spargendo il senso il troppo amor cocente (93)

 

 

             Ha l'aspetto di presentarsi come tentativo di placare la   gelosia dell’amato sorta per avere guardato  altri che lui.

             Il mio sentimento spargendo l’amore che toppo mi arde , al di fuori del tuo bel volto in un alrro

volto, diminuisce la sua forza o signore, come un  alpestre e tumultuoso torrente fa dividendosi in più rami. ll cuore mio che vive del più ardente fuoco d’amore,male si accorda con il piangere meno e con i sospiri meno ardenti .L’anima in questo errore presente  gode che uno di questi sospiri muoia nel suo dileguarsi in cielo là dove l’anima sembra che aspiri. . La ragione infine divide le pene d’amore fra i sensi, e  fra le dure prove d'amore e si accordano tutti e quattro ad amartI sempre più.

            A mio parere non fra i più belli, come contenuto; mi pare troppo  elucubrato.

 

 

            Spargendo il senso il troppo amor cocente                      A

            fuor del tuo bello, in alcun altro volto,                                 B

            men forza ha, signor, molto                                    b

            qual per più rami alpestro e fier torrente.              A

            Il cor, che del più ardente                                        a

            foco più vive, mal s'accorda allora                        C

            co' rari pianti e men caldi sospiri.                          D

            L'alma all'error presente                                         a

            gode c'un di lor mora                                                          c

            per gire al ciel, là dove par c'aspiri.                                  D

            La ragione i martiri                                                  d

            fra lor comparte; e fra più salde tempre                            E

            s'accordan tutt'a quattro amarti sempre.                          E

.

            Schema metrico  simile ad altri madrigali; una quartina per iniziare, con un settenario al terzo verso, seguono due terzine il cui primo verso si accorda per la rima all'ultimo verso della  quartina. Dopo le  due terzine un settenario  dalla rima baciata  col terzo  verso delle terzine.  Finisce con due endecasillabi dalla rima baciata. E' piuttosto  variato e libero l'alternarsi fra settenari ed  endecasillabi,  la forma è più pregevole del contenuto..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            14)

                        Gli occhi mie vaghi delle cose belle (107)

 

            Considerazioni su cosa sia l'amore. 

            I  miei occhi  desiderosi  di vedere cose belle e  la mia  anima desiderosa della salvezza non hanno            altra facoltà per salire al cielo che mirare la bellezza, mentre sale al cielo il desiderio di  bellezza              Discende dalle stelle più alte una luce splendente che attira il desiderio: questo quaggiù si     chiama amore. Non c'è altro che possa fare innamorare il cuore gentile ed incitarlo ad innamorarsi

            che un volto che nel  brillare degli occhi  somigli a quella luce desiderata. 

           

 

            Gli occhi mie vaghi delle cose belle                      A

            e l'alma insieme della sua salute               B

            non hanno altra virtute                                             b

            c'ascenda al ciel, che mirar tutte quelle .            A

            Dalle più alte stelle                                      a

            discende uno splendore                             c

            che 'l desir tira a quelle,                              a

            e quì si chiama amore.                                           c

            Né altro ha il gentil core                              c

            che l'innamori e arda, e che 'l consigli,                 D

            c'un volto che negli occhi gli somigli.                     D

           

            Una quartina ad iniziare: tre endecasillabi con al terzo verso un settenario che in rima baciata col  precedente tiene  sospeso il ritmo. Seguono quattro settenari, ilprimo a rima baciata con l'endecasillabo precedente e fra di loro a rima alternata, i quali, con un altro settenario, a rima baciata con quello che precede, fanno  più agile il  parlare, travolgente il ritmo, anche se  discorsivo e didascalico, un po’, per il contenuto  Con i due  endecasillabi del finale si  introduce nel madrigale la corporeità degli  occhi della persona amata a rendere più terrena la poesia e l’amore, congiungendo la grazia celeste al desiderio umano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            15)

                        Non sempre a tutti è sì pregiato e caro (109)

 

            C'è la sottolineatura in questo madrigale, del fatto che solo persone  elette e magari disprezzate hanno la facoltà di godere ciò che  davvero è bello e buono.

             Perché non sempre ciò  che piace ai sensi è  pregiato e soave se è vero che da qualcuno quello che a tanti  sembra dolce viene sentito come pessimo e  spiacevole. Il buon gusto è così raro tanto che al gente comune, che di solirto sbsglia,manca di vedere come veramente è (cede in vista) ciò  di cui gode,                 E  proprio per questo io perdendo,imparo perdendociò che superficalmente non vede chi ha l’animo torvo e non sente i suoi sospiri che sorgono dal vedere ciò che è in realtà.  Purtroppo il mondo è cieco e di suo, per sua natura o merito,conferisce onori e riconoscimentia chi vuole essere meno meritevole;  tale modo  di fare è come  una staffilata per chi ha il gusto delle cose belle e di pregio  che da una parte fa male ma anche insegna a non tener contodella vertà delle cose.

                       

            Non sempre a tutti è sì pregiato e caro                 A

            quel che 'l senso contenta                           b

            c'un sol non sia che 'l senta                        b

            se ben par dolce, pessimo e amaro.                    A

            Il buon gusto è sì raro                                              a

            c'al vulgo errante cede                                            c

            in vista, allor che dentro  di sé gode.                     D

            Così, perdendo, imparo                                          a

            quel che di fuor non vede                            c

            chi l'alma ha trista, e ' suoi sospir non ode.    D

            El mondo è cieco e di suo gradi o lode                D

            più giova a chi più scarso esser ne vuole,            E

            come sferza che insegna e parte duole.               E

 

            Sono più belli  i madrigali passionali; quando Michelangelo si mette a scrivere in tono didascalico diventa meno esaltante, il tormento è l'essenza  del  suo sentire.Anche  l'alternarsi  della  rima,  lo  stesso del  madrigale 11, non  offre a  questo madrigale quella originalità formale alla quale siamo abituati; neanche la metrica, pur  variata rispetto  al suddetto madrigale  nel  susseguirsi degli endecasillabi e dei settenari, sa offrire brio e spigliatezza a parte qualche versoisolato, sublime nello scadire le parole (“ se ben par dolce, pessimo e amaro”, “in vista allor ché dentro di sé gode”, “ così pedendo imparo “, “come sferza che insegna e parte duole” e via leggendo).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

            16)

                        S'egli è,donna, se puoi (111)

 

            Si pente di non essersi innamorato subito di lei, di non aver capito subito che pur essendo divina era anche mortale e l'invita a  trasformarlo come lei vuole, lui sarà felice, diventerà allora un'opera d'arte. Splendido madrigale in questa metamorfosi amorosa, questo trasformarsi della sua persona in opera d'arte come lui fa con un pezzo di marmo o con un foglio di carta, lui diventato una cosa inanimata di front all'amore. Amore ed arte, scultura e poesia si confondono.

            Se è vero che  pur essendo divina ltu, o donna, puoi anche, come un essere mortale, ancora viva, mangiare, dormire e parlare su questa terra  allora quale pena sarà adeguata al peccato di chi, dopo aver compreso  la di lei  totale natura, non la segua subito, colpito dalla  sua grazia e dal suo valore?  Purtroppo l'uomo, sperso  nei suoi vani pensieri, non vede a causa dell’occhio che non vede e si  innamora tardi  a causa della propria natura. Che tu m possa disegnare su di me  come fo io  con la pietra o con un foglio bianco che nulla ha dentro, che tu mi possa adoprare  come una semplice pietra, come un foglio di carta bianco, sarà ciò che lo  voglio.

                       

            S'egli è, donna se puoi                                           a

            come cosa mortal, benché sia diva                      B

            di beltà, c'ancor viva                                                c

            e mangi e dorma e parli quì fra noi,                       A

            a non seguirti poi,                                        a

            cessato il dubbio, tuo grazia e mercede,            D

            qual pena a tal peccato degna fora?                    E

            Ché alcun ne' pensier suoi,                        a

            con l'occhio  che non vede,                         d

            per virtù propria tardi s'innamora.              E

            Disegna in me di fuora,                                          e

            com'io fo in pietra o in candido foglio,                  F

            che nulla ha dentro, e èvvi ciò ch'io voglio.            F

 

            In un consueto alternarsi  della rima il variegato, sapiente, misurato  dispiegarsi degli endecasillabi e dei settenari disegna un ritmo incalzante sottolineato dalla accorta  punteggiatura che induce a pause ed a riprese e che, nella prima parte,conduce  ansiosamente all'arsi del  punto interrogativo.  Così i due settenari del sestultimo e del  quintultimo verso con la  virgola alla fine  preparano il dipanarsi lento quasi una pausa dell'endecasillabo che li segue;  e quel "Disegna in me di fuora", rapida invocazione di un desiderio cocente racchiusa in un settenario fra due  endecasillabi, ha lo stesso piglio ed il medesimo ritmo dell' "e èvvi ciò ch'io voglio"finale, volendo un  altro settenario  (voluto?) dopo la virgola al mezzo del verso,che come una assoluta certezza, come un punto fermo oltre il quale non si può andare, chiude magistralmente il madrigale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

            17)

                        Il mio refugio e 'l mio ultimo scampo (112)

                       

            L'anima invaghita dall'amore e dilaniata dal dolore per l'amore non corrisposto nel desiderio  contrastato fra il morire ed  il continuare a vivere;  però vince la concretezza della vita terrena che gli permette di vedere fisicamente la donna "altiera", anche se non può fare altro che piangere e pregare. L'amore vince la morte.

            Quale mio rifugio, quale mio ultimo scampo può essere  più sicuro e valido per me che il piangere ed il pregare? Ma Amore e la sua crudeltà hanno posto per me il campo di battagliia, Amore armato da una parte di compassione  e l’alta di morte: questa mi uccide e l’altra mi tiene in vita. Così l’anima, impedita del mio morire, sola cosa che potrebbe giovarmi, più volte si è mossa per andare lassù dove spera sempre di essere ma  non ne  trova giovamento. Si  scontrano sul suo campo di battaglia amore e  crudeltà, l'amore  armato di pietà, la crudeltà di morte e se la morte mi luccide l'amore mi fa vivere.  Così la mia anima pur non avendo licenza di lasciare il mio corpo, ciò che per me sarebbe di giovamento, ha più volte pensato di andarsene là dove sempre spera di andare, dove la bellezza esiste al difuori della donna purtroppo altezzosa che amo.  Ma la sua  immagine vera perché carnale, della quale io vivo, allora riemerrge nel mio cuore affinché  l’amore  non sia vinto dalla morte.

           

            Il mio refugio e 'l mio ultimo scampo                     A

            qual più sicuro è, che non sia men forte,            B

            ch'el pianger e 'l pregar? e non m'aita.                 C

            Amore e crudeltà m'han posto il campo:             A

            l'un s'arma di pietà, l'altro di morte;                       B

            questa n'ancide, e l'altra tien in vita.                      C

            Così l'alma impedita                                               c

            del mio morir, che sol poria giovarne,                   D

            più volte per andarne                                              d

            s'è mossa là dov'esser sempre spera,                 E

            dov'è beltà sol fuor di donna altiera;                      E

            ma l'immagine vera,                                    e

            della qual vivo, allor risorge al core,                      F

            perché da morte non sia vinto amore.                  F

 

            Soltanto tre settenari su quattordici versi  ma capaci di suggerire contrasti e rivolgimenti anche formali oltre che di contenuto. Dopo una prima parte fatta di due terzine di  endecasillabi  (ed in quel "e non m'aita" dopo l'interrogativo del  terzo  verso, avviene  la  prima  antitesi), compare un  settenario, al settimo verso, in rima baciata col precedente verso che così  lega pur disgiungendo; da quel  punto i versi sono a rime baciate con la ribattitura della terzultima  rima sulla  rima baciata precedente, un'altra antitesi formale ma anche  contenutistica, rima che  paradossalmente  la lega col verso che precede nei ripetuti ripensamenti del madrigale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            18)

                        Esser non può già ma' che gli occhi santi (113)

           

            Madrigale somigliante nel contenuto al madrigale 30 (Dagli occhi del mio ben).

            Dagli occhi della  donna amata  esce dolcezza  mentre  dai miei non possono che uscire amare  lacrime sì che Amore  è come zoppo  portando così diversi pesi andando avanti e indietro. Mai potrà capitare che gli occhi della donna che  amo prendano diletto come io dai suoi perché  non posso ridare altro che pianti amari e tristi  come  risposta alla dolce allegrezza che quelli emanano; la speranza di chi ama non  risponde mai alle aspettative, non ci si aspetterebbe mai che l'infinita bellezza,  la tanta luce degli occhi di lei possano essere così  dissimili e diverse dal mrio modo di comportarmi e che ardendo dentro di me non ardano pure nei suoi occhi. Così Amore nell'andare fra i due visi si turba e da uno, dal mio viso, parte zoppo e non può fare a meno di provare dispiacere quando entra in un cuore gentile come di fuoco  e  pare  uscirne dal mio  che è come di acqua.

 

            Esser non può giamma' che gli occhi santi    A

            prendin de' mie, com'io di lor, diletto,                   B

            rendendo al divo aspetto,                           b

            per dolci risi, amari e tristi pianti.               A

            O fallace speranza degli amanti!               A

            Com'esser può dissimile e dispari                       C

            l'infinita beltà, 'l superchio lume                              D

            da ogni mie costume,                                             d

            che meco ardendo, non ardin del pari?                C

            Fra duo volti diversi e sì contrari                C

            s'adira e parte da l'un zoppo Amore;                    E

            né può far forza che di me gl'incresca,                 F

            quand'in un gentil core                                            e

            entra di foco, e d'acqua par che n'esca.               F

 

            Tre quartine,  le prime due con  la rima baciata  fra i versi  centrali e l'ultima a rima alternata, inframezzate da un verso a rima baciata con l'ultimo verso della quartina precedente.  I settenari  interrompono l'incedere  degli endecasillabi. All'interno del  quartultimo verso l'accentuazione pare zoppicare, quasi a volere rendere visivo nel ritmo lo zoppicare di Amore..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            19)

                        Ben vinci  ogni  durezza (114)

 

            Sempre alla donna "altiera" il cui sguardo gentile fa innamorare ma che poi nega il suo amore.

            Con i tuoi occhi luminosi  tu vinci ogni resistenza,per come sei superiore ad ogni altra luce però, se qualcuno morisse per la gioia di averli visti,a quel punto sarebbe giunta l’l'ora che la compassione comandasse alla grande bellezza di  concedersi. Se la mia anima non fosse abituata ai tormenti sarei subito morto al vedere la bellezza dei tuoi primi sguardi che promettevano l'amore quando i miei occhi, nemici  perché possono portarlo a perdizione, non furono tardivi  ad essere ingordi;  neanche potrei rammaricarmi delle tua mancanza di compassione che non c’è in te.  La tua infinita bellezza e la tua ugualmente infinita piacevolezza, dove più capaci si mostrano di porgere aiuto, non  possono non togliere la vita né non puoi nonaccecare chiunque tu guardi.

 

            Ben vinci  ogni  durezza                              a

            cogli occhi tuo,com'ogni luce ancora;                   B

            ché,s'alcun d'allegrezza avvien che mora,            B

            allor sarebbe l'ora                                        b

            che gran pietà comanda a gran bellezza.            A

            E se nel foco avvezza                                             a

            non fusse l'alma, già morto sarei               C

            alle promesse de' tuo primi sguardi,                     D

            ove non fur ma' tardi                                    d

            gl'ingordi mie nemici, anz'occhi miei;                   C

            né doler mi potrei                                        c

            di questo non poter che non è teco.                      E

            Bellezza e grazia equalmente infinita,                   F

            dove più porgi aita,                                     f

            men puoi non tor la vita,                              f

            né puoi non far chiunche tu miri cieco.                  E

 

            Piuttosto singolare la struttura di questo madrigale, quasi anarchica, a stento si rintraccia nel suo andare una quartina, la sola, fra il settimo e l'ottavo verso; per il resto rime ribattute tre volte ("ancora","mora", "ora" ed "infinita", "aita", "vita"), a rinforzare il concetto, che distanziano  inusualmente altre rime ad evidenziare il contrasto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            20)

                        Lezzi, vezzi, carezze, or, feste e perle, (115)

 

            Sibillino il terzo verso del  breve madrigale pur intendendo il "vedere" come un "distinguere" o "separare"; purtuttavia a mio  parere uno dei più riusciti ,anche se il potare  sintattico  ed i contorcimenti  grammaticali  siano troppo  arditi, per denotare divina la bellezza della donna amata, la sua bellezza che dà splendore alle pietre preziose, all'oro, all'argento.

            Chi potrebbe mai distinguere l'umano lavoro  dall'opera divina delle sue leziosità,delle sue grazie,  dei suoi  modi gentili, della  sua letizia talora feste e perle  dato che  l'argento e l'oro  ricevono  la luce da lei ed a causa sua  raddoppiano il loro brillare? Ogni  gemma riluce più per lo splendore che emana dai suoi occhi che per virtù propria.

 

 

            Lezzi, vezzi, carezze, or, feste e perle                   A

            chi potria ma' vederle                                              a

            cogli atti suo divin l'uman lavoro,                B

            ove l'argento e l'oro                                     b

            da le' riceve o duplica la luce?                               C

            Ogni gemma più luce                                              c

            dagli occhi suo che da propria virtute.                  D

 

            Tre coppie,costruite da un endecasillabo e da un settenario, a rima baciata insieme ad un ultimo verso che non trova rima nel madrigale, questa la semplice trama ritmica che conduce alla sigolare proprietà degli occhidella donna amata singolarità rinforzata dlla rima solitaria.

            Forse il tarpare sintattico era necessario a disegnare  la forma: il già  suindicato sibillino terzo verso, difficile ad essere districasto grammaticalmente, tramite la suggestiva,  rimarcata  e ribattuta accentuazione col "divìn l'umàn", diventa guizzante quanto  contrasto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

            21)

                        Non mi posso tener né voglio (116)

 

            Questo madrigale, alquanto astratto e complesso, denso di sottintesi, ci vuol dire che quanto più  Amore si mette a  tormentare tanto più  l'anima ne trae beneficio; perciò per il suo bene non può astenersi dal dolore che provaed il poco affetto ricevuto è un grande guadagno anche se soffretanti tormenti d’amore, senza quei tormenti sarebbe morte.

Non posso e neanche voglio trattenermi al tuo furore mentre cresce, Amore, dal dirti e giurarti, quanto piu tu inasprisca e  renda più  faticosa la vita, l’anima  consigli  a seguire una maggior saggezza  e mi sproni e se talvolta  comprende  la mia morte, gli angosciosi pianti come quelli  di  colui che muore,  mi sento mancare il cuore dentro di me mentre mi mancano i miei tanti tormenti. Occhi miei splendenti e santi, la poca  grazia che da voi mi viene è così dolce e cara, tanto da fami pesare che assai acquista chi impara  molto col sapere di perdere,

 

            Non mi posso tener né voglio, Amore,                  A

            crescendo al tuo furore,                              a

            ch'i' nol te dica  e giuri;                                            b

            quante più inaspre e 'nduri,                        b

            a più virtù l'alma consigli e sproni;             C

            e se talor perdoni                                        c

            a la mia morte, agli angosciosi pianti,                  D

            com'a colui che muore,                                           a

            dentro mi sento il core                                            a

            mancar, mancando i miei tormenti tanti.               D

            Occhi lucenti e santi,                                               d

            mie poca grazia m'è ben dolce e cara,                E

            c'assai acquista chi perdendo impara.                 E

 

            Tutte coppie di rime baciate col successivo verso, salvo due endecasillabi, al settimo ed al decimo verso, con la  stessa rima,  distanziati  da  una coppia di settenari  a rompere la cadenza piuttosto monotona  della  prima parte del madrigale affievolita dalla diversa lunghezza del verso ,certe volte, cosicché  i due settenari a rima baciata fra i due endecasillabi  trovano una cadenza  diversa e ad una cadenza diversa porta il salto fra il secondo endecasillabo ed il         settenario che segue pur con rima baciata; anche l'interpunzione all'interno del decimo verso che             raccorda la prima parte col settenario precedente e stacca la seconda parte con quel suo ritmo lento e conclusivo de determina un diverso incedere del madrigale il quale va a finire nella rima baciata dei due endecasillabi dal ritmo  eguale fra di loro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            22)

                        S'egli è che 'l buon desio (117)

 

            Probabile, come scrive Ettore Barelli che il madrigale  fosse già composto perFebo del Poggio e poi  modificato per  Vittoria Colonna; risulta infatti che Luigi del Riccio copiando il madrigale metteva al quarto verso "sol un'opera è quella" ed al quindicesimo "come suo fin per quel qua phebo onora".

            Se è vero che un affettuoso desiderio elevi a Dio quando venga da  questa terra una qualche cosa bella,  solo la mia donna è così per me e  per chi vede  come me, soltanto la mia  donna è degna di essere portata così in alto. Io dimentico ogni altra cosa e soltanto di questo mi prendo cura.. Per cui non è da meravigliarsi se l'amo, se la bramo, se la  invoco ad ogni momento, né è per mio merito se l'anima per la sua natura si appoggia alla persona che somiglia negli occhi  agli occhi di lei, per i quli esce la sua bellezza.  ( gli occhi sono la  porta da cui passa l'anima e l’amore che  inducono..) Se l'anima  sente   come suo scopo l'amore  primo, Dio dal  quale nacque l'amore, onora questa  donna  quaggiù per lo stesso motivo; che dette infatti al servo l' ordine di amare chi adora il Signore.

 

            S'egli è che 'l buon desio                            a

            porti dal mondo a Dio                                             a

            alcuna cosa bella,                                        b

            sol la mie donna è quella,                           b

            a chi ha gli occhi fatti com'ho io.                A

            Ogni altra cosa oblio                                               a

            e sol di tant'ho cura.                                    c

            Non è gran maraviglia,                                            d

            s'io l'amo e bramo e chiamo a tutte l'ore;            e

            né propio valor mio,                                     a

            se l'alma per natura                                     c

            s'appoggia a chi somiglia                          d

            negli occhi  gli occhi, ond'ella scende fore .           E

            Si sente il primo amore                                          e

            come suo fin, per quel  qua questa onora:            F

            c'amar diè 'l servo chi 'l signore adora.                 F

 

            Un verso che è una perla ed un altro che è una vera bruttura , l'uno "s'io l'amo e bramo e chiamo a tutte l'ore" con l'insistere  delle parole in rima stessa nel corso del verso, rima tenera anche foneticamente dolce e l'altro  davvero  chioccio e  cacofonico "come  suo fin,  per quel  qua questa onora" che, senza volere,  anticipa Walt Disney con i nipoti di Paperino.( salvo si voglia denotare con quelle prole chiocce la diversità del terrestrte col divino).  Detto ciò l'articolazione  delle rime e l'alternarsi  di settenari e di endecasillabi  è  originale, due coppie di  rime baciate  alla fine del madrigake, con la rima della seconda coppia uguale al secondo  ed al  sesto verso, e  che sta nel mezzo delle due quartine inisiali, quartine composte da tre settenari ed un  endecasillabo con le stesse rime nella prima e nella seconda quartina  (oblio,"cura","maraviglia","ore" rispettivamente con "mio","natura","somiglia","fore")  e dall’ ultimo endecasillabo,che si ribatte sulla stessa  rima del settenario che viene dopo, a congiungere la bellezza di lei con l’amor suo. Meraviglioso anche se involontario, forse. il concatenarsi del metaritmo che si adegua al contenuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            23)

                        Ancor che 'l cor già  molte volte sia (118)

 

                                                                                                         

            Ogni  nuovo amore  porta con sé un  tormento mortale che solo la morte può far cessare. Anche l’amore terreno può essere causa di morte, e morte eterna. Ritorna il tema francescano delle “morte  secunda” insieme al  “ Benedetto sie, mi’ Signore  per sora nostra morte corporale”.

            Anche se un cuore si sia acceso molte volte ma che alla fine  si  sia  spento, d amolti anni,l’ultimo mio tormento d’smore sarebbe un tormento mortale  purché  io non morissi. Per la qual cosa l’onima mia, arrivata agli ultimi giorni della mia vita terrena, mentre  che l’amore mi brcia, desidara l’ultimo giorno della mia vita che sarà il primo vissuto in un ambiente più trnquillo. Un altro rifugio ed un’altra via di scampo non c’è fuori dal  tormento infernale della dell’anima mia che una morte del corpo aspra e crudele; ;né contro alla morte dell’anina è capace di resistene nient’altro che la morte temporale , cosicché ogni altro aiuto rappresenta una doppia morte per chi , al contrari, morendo, acquista la vita eterna.               

 

 

            Ancor che 'l cor già  molte volte sia                       A

            d'amore acceso e da molt'anni spento,                B

            l'ultimo mie tormento                                               b

            sarie mortal senza la morte mia.                A

            Onde l'alma desia                                        a

            de' giorni mie, mentre c'amor m'avvampa,            C

            l'ultimo, primo in più tranquilla corte.                     D

            Altro refugio  e via                                        a

            mie vita non iscampa                                              c

            dal suo morir, c'un aspra  e crudel morte;            D

            né contr'a morte è forte                                           d

            altro che morte, sì c'ogn'altra aita              E

            è doppia morte a chi per morte ha vita.                E

 

            Uno schema metrico non originale per dare veste al tormentato contenuto di questo madrigale: una quartina  all'inizio poi due  terzine il cui primo verso, (delle due terzine), si aggancia alla rima dell'ultimo verso della quartina precedente“desia” con “mia”; le due terzine formate irregolarmente da settenari ed endecasillabi ; il settenario, che precede i due endecasillabi finali (“né contr’a morte è forte”) con la rima baciata ribatte sulla rima dell'ultimo verso delle terzine, “forte” con “morte”.  Aggettivi,  verbi,  nomi che hanno a che fare con la morte, "mortal""morir", "morte", (e questa parola è rinforzata dalla rima "forte" nel terzultimo verso) si affacciano con insistenza, (sei volte negli ultimi quattro versi) come martellanti rintocchi funebri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

           

            24)

                        Dal primo pianto all'ultimo sospiro (119)

 

            L'averla  incontrata è stata per lui una sventura anche  perchè lei fa finta di averpietà di lui ma non è sincera. Solo chi scappa da lei può vincere.

            Per tutta la vita, dal primo vagito all'ultimo respiro al quale sono vicino, nessuno mai ha ricevuto un così  crudele  sorte come me  da una  donna celeste davvero splendente ma anche feroce. Non  dico che sia malvagia e traditrice, meglio sarebbe che si manifestasse esteriormente con sincerità affinché il mostrarsi sdegnosa facesse  troncare l'amore;  ma al contrario, se per caso la guardo, mi sembra promettere di  essere  pietosa dei  miei patimenti  mentre  il suo cuore, nel suo intimo, non ha alcuna  pietà.  O desiderato ardore! Soltanto un uomo  vigliacco che scappi da lei può vincere con te per cui ringrazio il cielo, essendomene accorto; ; questa contraddizione  mi vinca sempre, che mi accompagni sempre se solo la fierezza ed il valore possono insieme perdere.

 

 

            Dal primo pianto all'ultimo sospiro,                       A

            al qual son già vicino,                                              b

            chi contrasse giammai sì fier destino                   B

            com'io da sì lucente e fera stella?              C

            Non dico iniqua e fella,                                           c

            ch'el me' saria di fore,                                             d

            s'aver disdegno ne troncasse amore;                   D

            ma più, se pur la miro,                                            e

            promette al mio martiro                                          e

            dolce pietà, con dispietato cuore.             D

            O desiato ardore!                                        d

            ogni uom vil sol potria vincer con teco,                 F

            ond'io, s'io non fui cieco,                            f

            ne ringrazio le prime e l'ultime ore             D

            ch'io la vidi; e l'errore                                              d

            vincami; e d'ogne tempo sia con meco,               F

            se sol forza e virtù perde con seco.                       F

 

            Dopo il primo verso senza rima, il madrigale si distende con coppie di rime baciate, di solito formate da un endecasillabo e da un settenario salvo una coppia di settenari, a dare il movimento  che, accresciuto  da quei rimbalzi, suggeriti dalla  punteggiatura nello scorrere dei versi, specie nel  terzultimo e nel  penultimo verso, (qui  due  punto e virgola), si placa  nel ritmo fluente dell'endecasillabo  finale.  Da notare poi che nello scandire  in due  sillabe quell' "ogni uom" del sestultimo verso  fa dopo scivolare l'accento su "sol" e poi rintoccare su "vìncer" e "téco" danno al verso un ritmo particolare, ritmo che rimbalza vivacemente nel settenario che segue “ ond’io, s’io non fui cieco”.

                                                                                                                    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            25)

                        Ben tempo saria omai (120)

 

            Anche se vecchio non può non essere malato d'amore; meno male, pare che dica, perché purtoppo chi resta malato, per ironia della sorte, non muore.

            Amore come tu sai, sebbene sarebbe tempo di smettere di soffire per amore giacché l'età avanzata si accorda male col desiderio amoroso,c’è peròl l’anima, cieca e sorda del tempo passato e del morire d’amore che mi ricorda di essere in faccia alla morte non bada  al tempo che  passa ed alla  morte vicina.  E se, per caso ,l'anima mia volesse farla finita con l'amore spezzando in mille pezzi l'arco e la corda,lui, Amore, non gli faccia  mai mancare uno dei suoi malanni; perché chi non guarisce mai non può morire.

            I mali d'amore pur facendo soffire tengono lontana la morte.

 

            Ben tempo saria omai                                            a

            ritrarsi dal martire,                                       b

            ché l'età col desir non ben s'accorda;                   C

            ma l'alma cieca e sorda,                            c

            Amor, come tu sai,                                      a

            del tempo e del morire                                            b

            che, contro a morte ancor, me la ricorda;             C

            e se l'arco e la corda                                               c

            avvien che tronchi o spezzi                         d

            in mille e mille pezzi,                                               d

            prega te sol non manchi un de' tuoi guai:            A

            che mai non muor chi non guarisce mai.            A

 

            La varia  articolazione delle rime ne fà un  madrigale singolare, la rima del primo verso è quella del  quinto  e dei due  finali, la rima del secondo è la stessa del sesto la terza  coln la rima del settimo verso; le altre rime son tutte baciate.  acome del resto,  fra i tanti settenari i due endecasillabi cenìtrali dalla stessa rima( “ accorda” e “ricorda”) rallentano il madrigale insieme ai due endecasillabi finali, quasi a rendere l’idea del ritardare della morte a causa della malattia d’amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            26)

                        Come non puoi non esser cosa bella  (121)

            Sembra di sentir cantare, nel contenuto, l’antifona “ ubi charitas et amor ibi Deus est”.

            Dato che tu  sei per forza  una cosa bella   non puoi essere  che caritatevole verso di me; essendo tutta per me (cosa? la donna? o è da intendere che nei suoi confronti l'interesse di lei sia tutta caritatevole e gli trasetta questa sua virtù?)per forza sono come distrutto  e senza  vigore.  Così pur non  cessando sempre la mia compassione  di essere pari alla tua bellezza che quì è molta, la fine del tuo bel volto sarà nello stesso tempo e con  quella mia compassione  sarà la fine dl mio  cuore ardente d’amore. Però quando lo spirito, dopo che sarà sciolto dal corpo, ritornerà al cielo a godere di  quel signore  che rende  eterni i corpi a chiunque muoia, o nella  pace (del paradiso) o nel dolore (dell'inferno), io fo voti che il signore  voglia che il mio corpo,  benché brutto,come è quì con te lo voglia in paradiso sempre con te; perché un cuore pieno di compassione ha lo stesso valore di un bel viso, sia di quà che di là.

           

 

            Come non puoi non esser cosa bella,                  A

            esser non puoi che pietosa non sia;                     B

            sendo po' tutta mia,                                     b

            non può poter non mi distrugga e stempre.        C

            Così durando sempre                                             c

            mie pietà pari a tua beltà qui molto,                      D

            la fin del tuo bel volto                                               d         

            in un tempo con ella                                     a

            fie del mie ardente core.                             e

            Ma  poi che 'l spirto sciolto                         d

            ritorna alla sua stella,                                              a

            a fruir quel signore                                       e

            ch' e' corpi a chiunche muore                                 e

            eterni rende o per quiete o per lutto;                     F

            priego 'l mie, benché brutto,                                   f

            com'è qui teco il voglia in paradiso;                      G

            c'un cor  pietoso val quanto un bel viso.                G

 

           

            Madrigale contorto  e di difficile interpretazione in ispecie per quel"sendo tutta mia" che non si sa a che cosa o a chi riferire cosiccome "mie pietà" del sesto verso non si comprende bene se la "pietà" sia della donna rivolta a lui o sia quella sua rivolta a lei; il periodo poi che si svolge per ben cinque versi, dal  decimo al  quattordicesimo, manca della frase principale, salvo che si tolga il punto e virgola  e la si trovi nei due versi seguenti.

             Neanche la prevalenza  dei settenari  rendono scorrevole il  madrigale, l'insistere delle rime baciate (dodici versi a rima baciata contro cinque) lo  appesantiscono e gli danno  un ritmo  monotono che i  settenari centrali, pur non a rima baciata, sia per il numero sia per l'eguale ritmo interno, non sanno, a mio parere, vivacizzare.

 

 

 

 

 

           

 

 

 

 

 

            27)

                        Se 'l foco al tutto nuoce (122)

                       

            Continua a vivere pur avviluppato dal fuoco dell'amore e né lui né la donna amata l'hanno di proposito condannato a quel patire, ma solo il Dio che sta nei cieli; per tale motivo lei lo deve perdonare.

            Se il fuoco che tutto distrugge mi fa bruciare ma non mi annienta non è perché lio sono più forte ed il fuoco meno potente è che, come una salamandra, (che la credenza popolare la faceva capace di potere resistere al fuoco), può vivere mentre un altro nella stessa situazione morirebbe. Non so chi, pur essendo in pace, m’ha  portato a quel martirio, non fu  lei a farsi quel suo  viso né da me  fu fatto il proprio  cuore né tanto meno  sarà disfatto da noi il suo amore; sta più in alto quel signore che pose la mia vita negli occhi tuoi,. Per tale motivo seio ti amo ed a lei non pesa , tu mi devi perdonare comei io perdono all'atroce dispiacere che mi vuole che io muoia  eccetto  chi  veramente  mi uccide.

            Si noti il citare la “salamandra” ,diceria comune agli orafi che vedevano correre una salamandra nel fremere dell’oro al momento che l’oro fuso fosse pronto,  e solo allora, per esser re colato nella forma. Il nonno del Cellini fece sì che il nipote ricordasse bene quel momento con un sonoro scapaccioone dato in quel preciso istante.

                                                                                 

            Se 'l foco al tutto nuoce,                                          a         

            e me arde e non cuoce,                                          a         

            non è mia molta né sua men virtute,                      B

            ch'io sol trovi salute                                                 b

            qual salamandra, là dov'altri muore.                      C

            Non so chi in pace a tal martir m'ha volto:            D

            da te medesma il volto,                                           d

            da me medesmo il core                                          c

            fatto non fu, né sciolto                                             d

            da noi fia mai il mio amore;                                    c

            più alto è quel signore                                             c

            che ne' tuoi occhi la mia vita ha posta.                 E

            S'io t'amo, e non ti costa,                                       e

            perdona a me com'io a tanta noia,                        F                    

            che fuor di chi m'uccide vuol ch' i' muoia.            F        

 

            Scorrevole ed agile questo breve madrigale  sia per l'inusualità  del collegarsi delle rime, sia per l'inserimento di qualche endecasillabo fra tanti settenari  (per ritrovare la terza rima "muore" c'è da aspettare che passino  quattro versi, due settenari a rima baciata,e poi un endecasillabo ed un  settenario  sempre a rima baciata  ma nuova; la quale terza rima ritorna ancora tre volte, “core”, “amore” e “signore” e le ultime due baciate; I due primi settenari  a rima baciata,  “amore” e “signore”, cantano con un  diverso ritmo interno dovuto alla diversa posizione  degli accenti da cui scaturisce un piglio vivace, fanno pendant con i due endecasillabi del quinto e sesto verso, anch'essi a rima baciata, anch'essi dalla diversa accentatura mentre i due finali hanno identico il ritmo salvo la parte finale. Da notare,  anche, che le due stesse parole che fanno rima al sesto ed al settimo verso, “volto,” e vòlto  sono due forme grammaticali distinte anche se hanno la stessa scrittura.

            C'è inoltre da notare che il ritmo si ribatte al settimo ed all'ottavo verso a rinforzare l'identità fra lei e lui,  di quei "medesma" e "medesmo", ma anche  che l'ottavo verso scivola nel nono, prima della virgola, a formare un perfetto  endecasillabo.

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            28)

                        Quante più par che'l mio mal maggior senta(123)

 

            Chi ama, pur non riamato, fa diventare bella la donna amata, la fa diventare più bella,  essa si può sentire  bella solo  perché è amata, una moderna intuizione estetica e filosofica, il reale è tale solo se avvertito da altri.  E chi ama e soffre stima fruttuoso e dolce il suo patire.

            Quanto più forte mi senta  il soffrire, ed il mio viso doloroso ve lo dimostra, tanto più mi sembra che al viso vostro si aggiunga bellezza, cosicché il dolore diventa dolce. Chi mi tormenta ,pur crudele, fa bene a tormentarmi se in parte vi fa bella con la mia pena pessima; se il mio malanno che è il mio crudele e mortale destino, cosa succederà con la mia morte? Ma se è pure vero che la vostra bellezza avvenga perr il mio martirio.ed a quel martirio manchi soltanto il morire, morendo io morirà anche la vostra leggiadria. Perciò fate in modo che io stia vivo con meno dolore per avere anche voi un minor danno e se siete più bella quanto più è maggioreil mio malanno, la mia anima ne ha più tranquillità: giacché un gran piacere sopporta un grande affanno

            Quante più par che 'l mio mal maggior senta,             A

            se col viso vel mostro,                                                         b

            più par s'aggiunga al vostro                                               b

            bellezza, tal che 'l duol dolce diventa.                                A

            Ben fa chi mi tormenta,                                                       a

            se parte vi fa bella                                                   c

            della mia pena ria;                                                   d

            se 'l mio mal vi contenta,                                         a

            mia cruda e fera stella,                                                       c

            che farie dunche con la morte mia?                                  D

            Ma s'è pur ver che sia                                                         d                                                         vostra beltà dall'aspro mio martire,                                   E

            e quel manchi al morire,                                         e

            morend'io, morrà vostra leggiadria.                                  D

            Però fate ch'i' stia                                                    d

            col mio duol vivo, per men vostro danno;              F

            e se più bella al mio mal maggior siete,                           G

            l'alma n'ha ben più quiete:                                      g                                            

            c'un gran piacer sopporta un grande affanno.                      F

 

            Splendido  madrigale; solo  se amata la donna è bella  e tanto è più  bella quanto più è amata. Inizia con una quartina, composta da due settenari  in rima baciata tra due endecasillabi, che ha l'aspetto di una dichiarazione solenne. Poi  si stempera al venire delle  due terzine  fatte  di cinque  settenari  e da un endecasillabo finale dal  tono discorsivo e l’ endecasillabo, in  rima  baciata col  settenario che lo segue, inizia le successive coppie di settenari e di endecasillabi a rima baciata dal ritmo di danza che si  raffrena  nella quartina finale il cui terzo verso si contrae  in settenario  per donare l'invito ritmico a trovare l'ambita serenità nell'ultimo verso in rima non baciata col precedente, come suole, ma col  quartultimo verso. Come in altri madrigali oltre al ritmo insito nei versi, talora rapido, talora rallentato, c'è un  metaritmo delle  varie rime che si succedono e nell'alternarsi dei settenari con gli endecasillabi.che lo rendonopiù vivace e piacevole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            29)

                        Questa mie donna è sì pronta e ardita (124)

 

            Al contrario del madrigale precedente quì è il dolore a soverchiare la gioia, male che dura viene a noia alle mura.

            Quella donna che amo è  così disposta esfacciata  che mentre mi toglie ogmi mio bene mi promette ogni vantaggio cogli occhi ma nello stesso tempo mi rigira  nella ferita il ferro crudele  del rifiuto. Così dentro all'anima prova nel  medesimo istante due sentimenti contrastanti, il sentimento di morte e quello  di vita; però la gioa mi  scaccia il tormento come per mettermi ad una prova più lunga; perché  il male nuoce più di quanto  giovi il bene.

           

            Questa mie donna  è sì pronta e ardita,                            A

            c'allor che la m'ancide ogni mio bene                               B

            cogli occhi mi promette,e parte tiene                                B

            il crudel ferro dentro la ferita.                                              a

            E così morte e vita,                                                  a

            contrarie, insieme in un picciol momento             C

            dentro all'anima sento;                                                        c

            ma la grazia il tormento                                                      c

            da me discaccia per più lunga pruova;                             D

            c'assai più nuoce il mal che 'l ben non giova.             D

           

            Una quartina di agili  endecasillabi per introdurre  seguita da un settenario in rima col quarto verso  e dopo  un endecasillabo  e due settenari, (questi  tre versi dalla rima identica, “momento”, “sento” e “tormento”“), a vivacizzare  lo svolgersi altalenante dello spigliato  madrigale che va a chiudedersi con due endecasillabi a rima baciata..

 

 

 

 

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

 

 

 

 

 

            30)

                                   Tanto di sé promette (125)

 

            Al vecchio il pensiero della morte impedisce ogni desiderio amoroso.

            Da una parte la donna "pietosa e bella" e  dall'altra la morte "invidiosa  e fella", da una parte il calore  ed il fuoco  dell'amore e dall'altra  la funerea freddezza della morte, da una parte i brevi, fugaci attimi di oblio dall'altra l'incessante ricordo che la morte è vicina, da una parte la speranzosa e incerta promessa d'amore dall'altra la certezza della morte; lui nel mezzo, oramai vecchio.

            Tanto mi  fa sognare amore la bella donna che mi offre la sua  benignità che quando la guardo ritorno come fui un tempo da giovane anche se ora sono vecchio ed è tardi  ormai per pensare all'amore.  Ma siccome fra gli sguardi miei dolenti ed i suoi  benevoli si intromette la morte, invidiosa di chi prova amore e traditrice  perché colpisce a tradimento,  può sentire il fuoco dell'amore soltanto quando dimentica il volto della  morte. Siccome però il  reo  pensare gliela riporta davanti allora quel dolce fuoco è spento

dal ghiaccio della morte.Uno fra i madrigali più toccanti e tragici specie se chi lo legge è vecchio.

                                                                                                                                                        

            Tanto di sé promette                                               a

            donna pietosa e bella,                                            b

            c'ancor mirando quella                                            b

            sarie qual fu' per tempo, or vecchio e tardi.   C

            Ma perc'ognor si mette                                           a

            morte invidiosa e fella                                             b

            fra ' mie dolenti e ' suo pietosi sguardi,                C

            solo convien c' i' ardi                                               c

            quel picciol tempo che 'l suo volto oblio.            D

            Ma poi che 'l pensier rio                              d

            pur la ritorna al consueto loco,                               E

            dal suo ghiaccio è spento il dolce foco.                E

 

            Una continua altalena

            Da una parte la donna "pietosa e bella" e  dall'altra la morte "invidiosa  e fella", da una parte il calore  ed il fuoco  dell'amore e dall'altra  la funerea freddezza della morte, da una parte i brevi, fugaci attimi di oblio dall'altra l'incessante ricordo che la morte è vicina, da una parte la speranzosa e incerta promessa d'amore dall'altra la certezza della morte; lui nel mezzo, oramai vecchio.

            Lo svolgersi del madrigale sia nel ritmo, sia nelle rime, sia nel dispiegarsi degli endecasillabi e dei settenari è originale, fuori  da ogni schema come anche i tre ripetuti settenari dell’inizio; rime che si cercano da lontano  ( "promette" e "mette", "bella" e "fella", "tardi"  e "sguardi"), rime che si baciano, due endecasillabi dalla stessa rima fra tanti settenari, al quarto ed al settimo verso (“tardi” e “sguardi).  Splendido  il paradossale  contrasto di  rime identiche per i diversissimi attributi, dei diversissimi attori, della donna e della morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            31)

                        Se l'alma è ver, dal suo corpo disciolta (126)

 

            La speranza di essere corrisposto in amore travalica la morte, addirittura come in questo madrigale si arriva a sognarla nel ritornare in un'altra vita terrena. La follia dell'amore è assoluta.

            Se è vero che l'anima,  separata che sia dal suo corpo, ritorni  ancora in un altro  corpo ai pochi  giorni che  passano così  alla svelta per vivere e morire un'altra volta, quella donna tanto bella agli occhi sumiei sarà  a quel tempo così crudele come è oggi? Se verrà tenuto conto del suo pensiero dovrei poterla attendere piena di amorevolezza e priva di asprezza di animo. Io credo, infatti che, se per caso chiuda i suoi  begli occhi , per l'aver provato cosa significhi morire, quando si rinnoverà la sua vita avrà compassione del mio morire attuale.

                                                          

            Se l'alma è ver, dal suo corpo disciolta,             A

            che 'n alcun altro torni                                              b

            a' corti e brevi giorni,                                               b

            per vivere e morire un'altra volta,               A

            la donna mie, di molta                                             a

            bellezza agli occhi miei,                              c

            fie allor com'or nel suo tornar sì cruda?                D

            Se mie ragion s'ascolta,                             a

            attender la dovrei                                         c

            di grazia piena e di durezza nuda.             D                                                                    Credo, s'avvien che chiuda                        d

            gli occhi suo begli, arà, come rinnuova,                E

            pietà del mie morir, se morte pruova.                   E

 

            Un madrigale tutto al condizionale con quei tre "se" all'inizio ed a un po' più della metà e quasi alla fine. Una quartina per iniziare, al centro della quale due settenari  in rima baciata, e poi due terzine il cui primo verso è legato per la rima al primo ed al quarto verso della quartina  mentre la rima del terzo verso è ribattuta dalla rima  del settenario  che precede i due endecasillabi finali che chiudono a rima baciata il madrigale.

       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            32)     

                        Non pur la morte, ma 'l timor di quella (127)

 

            Una variante del madrigale "Tanto di sé promette" (27);  se in quelllo sta ad impedire le gioie dell'amore qui  il timore della morte  lo difende e gli fa scampare  il pericolo ed il patire dell'amore,  due facce della stessa medaglia nella relatività della vita

             Non la morte ma il timore della morte mi difende e mi fa scampare dalla donna tanto malvagia quanto bella che ancora  mi fa morire; e se talvolta mi incendia  più del solito quel fuoco nel quale sono incappato non trova altro aiuto che avere ferma nel cuore l'immagine della morte:  perché dove  sta la morte  il cociore straziante dell'amore non può essere sentito.

             Una sconfortante "consolatio".

 

            Non pur la morte ma 'l timor di quella                    A

            da donna iniqua e bella,                              a

            c'ognor m'ancide, mi difende e scampa;  \            B

            e se talor m'avvampa                                              b

            più che l'usato il foco in cui son corso,                  C

            non trovo altro soccorso                             c

            che l'immagin sua ferma in mezzo il core:            D

            che dov'è morte non s'apprezza amore.               D

 

            Tre coppie di versi,  un endecasillabo ed un settenario a rima baciata con una quarta oppia di endecasillabi anch'essi a rima baciata compongono questo madrigale.

            Il ritmo scorrevole è dato dall'alternarsi degli endecasillabi e dei settenari e dalle  pause imposte dalla punteggiatura che lo rendono armonico e prezioso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            33)

                        Se il timor della morte (128)

 

            Continua la "consolatio" del madrigale precedente. Lo stesso binomio: l'amore che fa soffrire , la morte che salva e che apre all'anima la porta della gioia.

            Se chi fugge e scaccia sempre il timore della morte  lo potesse lasciare fin da quando inizia, il crudele ed invincibile Amore con ostinati tormenti  farebbe, su chi ha un animo gentile, prove spietate. Ma, siccome l'anima spera di gioire un giorno fuori da questo mondo per effetto della morte e della  grazia  divina, chi è destinato a morire tiene in considerazione quel timore di  fronte al quale ogni altro timore è di meno importanza. Non c'è altro riparo in difesa delle eccelse eparticolari bellezze di una donna superba  atto a schivare il suo  disprezzo o la sua ricompensa. Lui giura a chi non lo crede che  soltanto chi lo può far morire davvero lo lo può difendere e proteggere dalla donna che ride del suo piangere.

            Sembra volersi convincere per forza che soltanto la morte sia la sua salvezza facendo appello anche alla Fede in un mondo ultra terreno, la terra purtroppo è pregna di dolore e lui non può sopportare chi ride del suo dolore, meglio morire.

 

            Se 'l timor della morte                                             a

            chi 'l fugge e scaccia sempre                                b

            lasciar là lo potessi onde ei si muove,                  C

            Amor crudele e forte                                               a

            con più tenaci tempre                                             b

            d'un cor gentil faria spietate pruove.                     C

            Ma perché l'alma altrove                             c

            per morte e grazia al fin gioire spera,                   D                                                                                non può non morir gli è 'l timor caro                      E

            al qual ogni altro cede.                                            f

            Né contro all'alte e nuove                            c

            bellezze in donna altera                              d

            ha forza altro riparo                                     e

            che schivi suo disdegno o sua mercede.            F

            Io giuro a chi nol crede,                                           f

            che da costei, che del mio pianger ride,              G        

            sol mi difende e scampa chi m'uccide.                 G

 

            Sempre madrigali per la donna "bella e crudele". In questo si dilunga, non c'è in questo madrigale l'accurata sintesi insieme alla compiutezza del messaggio  con la sapienza compositiva del  precedente. Complicato, a mio parere con troppa ricercatezza e con affettazione  manierata, il procedere della rima .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            34)

                        Da maggior luce e da più chiara stella (129)

 

            Alquanto confuso nel contenuto ed il lapalissiano finale non in sintonia con quello che il madrigale dice fino allora; la bellezza della donna fa diventare bello  chi è brutto  ma, sembra poi anche dire,  se è  bella è più bella, per contrasto, stando insieme ai brutti e lì dovrebbe stare.Non c'è dubbio che, se chi è bello rendesse  un po'  della sua bellezza a chi è brutto, sarebbe meno bello il suo volto e più bello il volto del brutto.

            Il cielo di notte, da lontano, illumina le sue stelle con la stella che possiede una maggior luce ed è più chiara, dal sole, e così la  donna amata, sola fra tutte le donne, rende più bella ogni cosa meno  bella che stia presso di lei. Quale delle due fatti  (non capisco bene se  intenda il celeste ed il terreno) può muovere e spingere a pietà il suo cuore  affinché chi arde  di passione non si raffreddi?  quelli  che pur non essendo  belli fanno  diventare bella e gentile la persona di lei insieme  al volto e  gli occhi ed i suoi biondi e belli capelli. Dunque lei va contro il proprio interesse se li scansa, e lui con loro, se è vero che chi è bello diventa  più bello stando fra i brutti. Se rendesse ai brutti quella bellezza che fu loro tolta lei sarebbe meno bella  ed i brutti più belli.

 

 

            Da maggior luce e da più chiara stella                 A

            la notte il ciel le sue da lunge accende:                B

            te sol presso a te rende                                          b

            ognor più bella ogni cosa men bella.                    A

            Qual cor più questa o quella                                   A

            a pietà muove e sprona,                             c                                  

            c'ognor chi arde almen non s'agghiacc'egli?       D

            Chi, senza aver ti dona                                           c

            vaga e gentil persona                                             c

            e 'l volto e gli occhi e 'biondi e be' capegli.            D

            Dunche, contra te quegli                             d

            ben fuggi e me con essi,                             e

            se 'l bello infra ' non begli                            d

            beltà cresce a se stessi.                             e

            Donna , ma s' tu rendessi                           e

            quel che t'ha dato il ciel, c'a noi l'ha tolto,            F

            sarie più 'l nostro, e men bello il tuo volto            F

 

            La forma però è elegante e scorrevole sia per il ribattere ed il saltare della rima, sia per i settenari frapposti tra gli endecasillabi oppure ripetuti più volte e talora a rima baciata fra di loro talaltra con gli endecasillabi precedenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            35)

                        Non è senza periglio (130)

 

            Appare, come in altri madrigali scritti per il Cavalieri, il timore costante per lui già vecchio della condanna eterna a causa dell'amore peccaminoso.  Già nel madrigale "Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni" è stato incontrato tale tema che incontreremo anche nel madrigale seguente.

            Il volto dell'amato è pericoloso per l'anima di chi, come lui, è vicino alla morte che ogni momento sente  incombente: per tale motvo  egli si sforza e medita di difendersi da quel volto prima di morire. Però l'appagamento di vederlo, pur essendo vicina la fine,gli toglie la libertà di essere come vorrebbe; né alcuna

lo scioglie da quella tenerezza: Un giorno solo, tutto a un tratto non può yogliere l'andazzo inveterato di molti anni.

           

            Non è senza periglio                                               a

            il tuo volto divino                                           b

            dell'alma a chi è vicino                                            b

            com'io a morte, che la sento ognora;                    C

            ond'io m'armo e consiglio                           a

            per far da quel difesa anzi ch'i' mora.                   C

            Ma tuo mercede, ancora                            c

            che 'l fin sia  da presso,                                          d

            non mi rende a me stesso;                         d

            né danno alcun da tal pietà mi scioglie:                E

            ché l'uso di molt'anni un dì non toglie.                   E

 

            Un breve ma denso madrigale.   

            Un'insistenza quasi ossessiva di rime baciate mentre la prima rima trova la compagna al quinto verso dove  si inserisce fra due rime uguali, "ognora" e "mora", che chiudono due endecasillabi dal medesimo  contenuto di morte, ambedue solenni e ponderosi nel ritmo.           

            Quel "anzi ch' i' mora" è da intendersi nella francescana (e dantesca) prima e seconda morte ed i versi fra  dal settimo all’ottavo sembrno riandare alla” lettea ai Romani” di San Paolo .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            36)

                        Sotto duo belle ciglia (131)

 

            Ritornano i begli occhi e le belle ciglia del Cavalieri esaltate già nel madrigale "Ogni cosa ch' i' veggio mi consiglia" (il n° 7), ritorna  il tormento  e la paura della morte eterna, ritorna la giustificazione  dell'impossibilità di uscire dall'abusata abitudine.

            Amore riprende le forze all'ombra di due begli  occhi nel tempo che dovrebbe spezzargli l'arco e le ali. Ma, pur  vecchio, i propri occhi ancora ghiotti di ogni stupefacente meraviglia esperimentano la doglia  provocata da  più di un fiero strale che viene da quelle belle ciglia ed anche questa doglia somiglia a cosa

meravigliosa. Ed intanto lo assale, insieme al dolce pensare, anche un aspro pensiero insopprimibile e di vergogna e di morte; però  Amore non è sconfitto da un così  grande timore e da così grandi castighi:  perché un 'abitudine che dura da anni non può essere vinta in breve tempo.

 

            Sotto duo belle ciglia                                                          a

            le forze Amor ripiglia                                                           a

            nella stagion che spezza l'arco e l'ale.                              B

            Gli occhi mie ghiotti d'ogni maraviglia                              A

            c'a questa s'assomiglia,                                                     a

            di lor fan pruova a più d'un fero strale.                              B

            E parte pur m'assale,                                                          b

            appresso al dolce, un pensier aspro e forte                C

            di vergogna e di morte;                                                       c

            né perde Amor per maggior tema o danni:             D

            c'un or non vince l'uso di molt'anni.                                    D

 

            Se nel contenuto, pur diverso e variato, somiglia  al precedente madrigale, la forma è nuova e quanto mai originale; le rime, poche, quattro  su undici versi insistono, sembrerebbe a delineare  un incubo,  per quattro  volte ( "ciglia" e e "ripiglia" e "maraviglia" e "s'assomiglia"), per tre volte ("ale,"assale","strale")

e tutte le altre raddoppiate. Il ritmo si distende talvolta andantemente, talaltra con più moto ad esprimere

in questo madrigale una piacevole musicalità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            37)

                        Mentre che 'l mie passato m'è presente (132)

 

            Vecchio, rivede tutto il suo passato pieno di dolorosa ed  inquieta falsità, di inevitabili colpe e ne conclude che meglio sarebbe una vita breve.

            Quando gli è  presente il suo passato, come ogni giono gli  torna così tanto alla mente, allora si avvede  bene quanto questo  falso mondo sia causa di errori e di danni all'umana gente: il cuore, che magari dopo aver tergiversato alla fine cede alle lusinghe del  mondo  ed ai suoi vani piaceri,  procura  guai dolorosi

all'anima. Bene sa chi è cosciente come il mondo promette la pace ed il bene che non ha né deve mai avere. Per questo  chi più vive in questo mondo ottiene meno vere grazie: giacché chi meno vive torna al cielo meno carico di colpe.

            "Vanitas vanitatum, et omnia vanitas".

           

            Mentre che 'l mie passato m'è presente,              A

            sì come ognor mi viene,                                          b

            o mondo falso, allor conosco bene                                   B

            l'errore e 'l danno dell'umana gente:                                  A

            quel cor, c'alfin consente                                        a

            a' tuo lusinghi e a' tuo van diletti,                            C

            procaccia all'alma dolorosi guai.                           D

            Ben lo sa chi lo sente,                                                         a

            come spesso prometti                                                        c

            altrui la pace e 'l ben che tu non hai                                   D

            né debbi aver già mai.                                                        d                                                         Dunque ha men grazia chi più quà soggiorna:                 E

            ché chi men vive più lieve al ciel torna.                             E

 

            Madrigale dal ritmo piano e discorsivo, costruito  con usata maestria, come in tanti altri madrigali (vedi "Spargendo il senso il troppo amor cocente" (10), "Non sempre a tutti è sì  pregiato e caro"(12), "S'egli è, donna, se puoi"(13), "Esser non può gia ma' che gli occhi santi" (15), "Ancor che 'l cor  già molte volte sia" (20), "Se l'alma è ver, dal suo corpo disciiolta" (28),nel dispiegarsi analogo di quartine, di terzine, di rime baciate, con la chiusa  dei ultimi due endecasillabi.  Però quì l'effetto è più  gradevole  forse perché più si addice al contenuto,  forse perché  è diversa  la disposizione  degli endecasillabi e dei settenari che origina una diversa musicalità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            38)

                        Condotto da molt'anni all'ultim'ore (133)

 

            Ancora un madrigale tutto rivolto ai propri problemi sul rapporto personale fra la vita terrena e l'aldilà, fra il  peccato e la grazia, fra la  condanna e la sensualità incontinente nella certezza che chi vive più a lungo è destinato ad un maggior pericolo di dannazione.  E neanche al corpo giova il troppo

vivere.

            Portato dai molti anni alle ultime ore di vita conosce  tardivamente la vera natura dei piaceri del mondo; bene ha  capito come  il mondo promette la  pace che non possiede e come la requie promessa muore ancor prima di essere nata.  La vergogna ed il timore  consoni ai suoi troppi  anni, che la legge divina gli  suggerisce, non gli riportano  alla mente  altro che l'errore fatto in passato e che allora gli sembrò piacevole, che però uccide l'anima e niente giova al corpo di chi vive troppo in quell'errore.  Lo può ben dire e ne ha la prova per esperienza personale che solo chi ebbe la morte vicina alla sua nascita ha un destino migliore in cielo.

 

            Condotto da molt'anni all'ultim'ore             A

            tardi conosco, o mondo, i tuoi diletti:                    B

            la pace che non hai altrui prometti             B

            e quel riposo c'anzi al nascer muore.                    A

            La vergogna e 'l timore                                           a

            degli anni, c'or prescrive                             c

            il ciel, non mi rinnuova                                             d

            che 'l vecchio e dolce errore,                                 a

            nel qual chi troppo vive,                              c

            l'anima 'ncide e nulla al corpo giova.                     D

            Il dico e so per pruova                                             d

            di me, che 'n ciel quel sol ha miglior sorte            E

            ch'ebbe al suo parto più presso la morte.            E

 

            Ancora la stessa  rispondenza e la stessa  articolazione delle rime però ancora una diversa posizione degli endecasillabi rispetto ai settenari, la quartina iniziale è fatta di tutti  endecasillabi che la fanno somigliare ad  un inizio di sonetto. Una nuova  variazione sul medesimo tema, per ciò che riguarda sia il contenuto che la forma.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            39)

                        Beati voi che su nel ciel godete (134)

 

            Un madrigale a responsorio,  non è l'unico; questo con le anime beate del paradiso, un confronto fra il cielo e la terra, fra chi ama in cielo e chi ama in terra, una considerazione sul dolore cui è sottoposto per amore.

            Interroga i beati, che in cielo godono  il frutto  del dolore che il mondo non ricompensa, se pure lassù amore faccia loro violenza  oppure se a causa della morte ne siano liberi.- La loro eterna quiete, rispondono, che  sta al dilà di ogni tempo, non conosce invidia pur amando ed è senza dolore.- E allora con  cattivo profitto lui deve vivere,  come le anime  beate possono vedere, a causa del suo amare  e dell'obbedire all'amore  soffrendo. Se il cielo è amico a chi ama mentre il mondo  a chi ama  è ingrato, per  quale motivo è venuto al mondo? per vivere così tanto? questo lo spaventa: che il poco vivere è già troppo a chi attentamente  obbedisce  all'amore e vive malamente.

           

 

            ”Beati voi che su nel ciel godete                A

            le lacrime che 'l mondo non ristora,                       B

            favvi amor forza ancora,                              b

            o pur per morte liberi ne siete?                             A

            “La nostra etterna quiete,                            a

            fuor d'ogni tempo, è priva                           c

            d'invidia, amando, e d'angosciosi pianti.”            D

            “Dunche a mal pro' ch' i' viva                                  c

            convien, come vedete,                                            a

            per amare e servire in dolor tanti.              D

            Se il cielo è degli amanti                            d

            amico, e 'l mondo ingrato,                          e

            amando, a che son nato?                           e

            A viver molto? E questo mi spaventa:                   F

            ché 'l poco è troppo a chi ben serve e stenta.”           F

 

            Simile ma non uguale al precedente, quindici versi invece  di tredici, due terzine all’inizio, la rima non nella  stessa sequenza nelle due terzine, due versi a rima baciata dopo il  verso che ribatte  l'ultima rima delle  terzine;   ma l'inversione della rima fra l'ottavo ed il nono verso sembra rimarcare la differenza, si avverte nella musicalità ritmica una specie di salto, fra il cielo e la terra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

 

            40)

                        Mentre c'al tempo la mie vita fugge (135)

 

            Riecheggia la già citata lettera di Paolo ai  Romani  come nel madrigale 9 "Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni".

            Mentre dal suo inizio la sua vita si allontana rapidamente  è distrutto ancor più  da amore  che neanche lo lascia  per un'ora come  un tempo credette che  potesse  succedere  quando avesse  avuto molti anni.  La sua anima che trema per la paura della pena e si ribella come un  uomo che muoia a torto, si duole con lui per gli eterni danni che le farà subire. Fra il timore di un aldilà e gli inganni  dell'amore e della morte è  dubbioso sul valore della vita che conduce cosicché cerca per un istante il meglio ma  dopo prende il peggio del timore e degli inganni, talmente il buon proposito è vinto dalla cattiva consuetudine.

 

            Mentre c'al tempo la mie vita fugge                       A

            amor più mi distrugge,                                            a

            né mi perdona un'ora,                                             b         

            com'io credetti già dopo molt'anni.                       C

            L'alma, che trema e rugge,                         c

            com'uom c'a torto mora,                             b

            di me si duol, de' sua etterni danni.                       C

            Fra 'l timore e gl'inganni                              c

            d'amore e morte, allor tal dubbio sento,             D

            ch' i' cerco in un momento                          d

            del me' di loro e di poi il peggio piglio;                 E

            sì dal mal uso è vinto il buon consiglio.                 E

 

            Scorrevole per il ritmo interno dei versi e per il musicale svolgersi della rima e della metrica dei dodici versi, inconsuete. Inizia con una coppia di versi a rima baciata il secondo dei quali dà  inizio a due terzine,  sull'ultima rima di queste due terzine ribatte quella  di un settenario  cui seguono  due  coppie di versi a rima baciata.  Gli endecasillabi con il loro  distendersi invitano ad una pausa mentre scultoreamente  dantesco è il  "com'uom c'a torto mora" che ben si addice a "L'alma, che trema e rugge", davvero onomatopeica.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                       

 

 

 

 

 

 

            41)

                        L'alma che sparge e versa (136)

 

            Parla a sé stesso,  parla al fuoco dell'amore,  parla alla sua anima,  parla agli occhi dell'anima, ripensa alla situazione  dalla  quale non può uscire.  Ancora un  paradosso, le  lacrime che sgorgano dalla sua anima dolorante sono a far sì che  non si spenga  il fuoco dell'amore;pure se  di quel pianto e di quell'amore egli vive.E' il suo destino.

            L'anima sparge e versa fuori degli occhi le lacrime  che sgorgano dal di dentro e questo l'anima lo fa  affinché non sia spento  il fuoco dell'amore  nel quale è trasformata. Ogni altro aiuto sarebbe vano se è vero che il piangere sempre lo ravviva al quel fuoco,  pur essendo vecchio e vicino alla morte.  Il suo doloroso destino e la sua avversa fortuna non hanno la possibilità di sottometterlo a più dure prove  che l'affliggano  più di quanto  l'affligga  quel fuoco; in maniera tale che quegli sguardi degli occhi dell'anima che fuori versano  lacrime li chiude in se stesso e così gode e vive soltanto di ciò di cui un altro morirebbe.

 

 

            L'alma che sparge e versa                         a

            di fuor l'acqua di dentro,                              b

            il fa sol perché spento                                             c

            non sie da loro il foco in che' è conversa.            A        

            Ogni altra aita persa                                               a

            saria, se 'l pianger sempre                         d

            mi resurge al tuo foco, vecchio e tardi.                 E

            Mie dura sorte e mie fortuna avversa                    A

            non ha sì dure tempre,                                            d

            che non m'affligghin men, dove più m'ardi;            E

            tal ch' e' tuo accesi sguardi,                                   e

            di fuor piangendo, dentro circunscrivio                 F

            e di quel c'altri muor sol godo e vivo.                    F

 

            Continui sottintesi, continue abbreviazioni in un continuo cambiare dei diversi interlocutori, colpi di subbia che abbozzano ma fanno intendere. Anche l'andamento della rima è scomposto e sconvolto, le rime si affacciano, poi ritornano, non ci sono quartine, non ci sono coppie di terzine, soltanto tre coppie di versi a rima baciata, una al quarto ed al quinto, le altre due alla fine e la penultima costruita su di un endecasillabo ed un  settenario a muovere il ritmo mentre gli endecasillabi suggeriscono pause del pensiero..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            42)

                        Se per gioir pur brami  affanni  e pianti (137)

 

            La morte toglie ogni dolore. La morte è desiderata.

            Se Amore per gioire desidera gli affanni ed i pianti degli innamorati a lui gli è più ben voluta ogni freccia la più crudele che non framette né tempo né spazio fra il ferire e la  morte: cosicché  Amore, ad uccidere chi ama, perde i pianti che lo fanno gioire e gli amanti  soffrono  un minore strazio. Per ciò lo ringrazia se lo fa morire mentre non per i dolori che gli procura, chi toglie la vita sana ogni malattia.

            Il contenuto è all'opposto di quello del madrigale precedente.

                                                                                 

            Se per gioir pur brami affanni e pianti,                 A

            più crudo, Amor, m'è più caro ogni strale,            B

            che fra la morte er 'l male                            b

            non dona tempo alcun, né breve spazio:            C

            tal c'a 'ncider gli amanti                                          a

            i pianti perdi, e 'l nostro è meno strazio.               C

            Ond'io sol ti ringrazio                                              c

            della mie morte e non delle mie doglie,                D

            c'ogni mal sana chi la vita toglie.               D

 

            Una coppia di endecasillabi, una  all'inizio ed una alla fine, a  fare lento il ritmo mentre nel resto del madrigale l'alternarsi  degli endecasillabi e dei settenari determinano un ritmo saltellante accresciuto dal fatto che nella seconda coppia composta  da un endecasillabo ed un settenario  la rima non è baciata però "amanti" trova subito all'inizio del verso seguente quel "pianti" che ribatte il suono. Breve il madrigale, poche le rime ma ben tre sono uguali ("spazio", strazio", "ringrazio")a farne un madrigale singolare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            43)

                        Porgo umilmente all'aspro giogo il collo (138)

 

            Ritorna il concetto più volte ripetuto che il patire scongiura la morte con l'altro che il patire per amore è desiderabile e dona felicità.

            Umilmente porgo il collo alla gogna  ed il volto lieto alla cattiva sorte ed alla mia donna dal cuore pien di fede e di fuoco che mi è nemica; né mi scrollo di dosso quel martirio  anzi temo che venga meno.  Poiché se il suo volto sereno mi trasforma il grande martirio in cibo e vita, quale può essere un dolore tanto crudele tale da farmi morire?

 

            Porgo umilmente all'aspro giogo il collo,            A

            il volto lieto alla fortuna ria,                          B

            e alla donna mia                                          b

            nemica il cor di fede e foco pieno;                        C

            né dal martir mi crollo,                                             a

            anz'ogni or temo non venga meno.                        C

            Ché se il volto sereno                                             c

            cibo e vita mi fa d'un gran martire,             D

            qual crudel doglia mi può far morire?                   D

 

            Madrigale breve e pacato per i tanti  endecasillabi che trattengono il ritmo; anche il susseguirsi della rima vi contribuisce per via di tante rime baciate mentre, può sembrare ad adeguarsi al dualismo del contenuto, le due rime non baciate, "collo" e "crollo" si pongono a contrasto  ed a rompere il ritmo nel mezzo del madrigale. Fa pensare  alla dimestichezza  con  tanti umanisti  negli anni  giovanili in casa di Lorenzo quell'ablativo assoluto de " nemica il cor di fede e foco pieno" ed il "timeo ne" del "non venga meno".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            44)     

                        In più leggiadra e men pietosa spoglia (139)

 

            Michelangelo amava ed aveva ben studiato Dante, quì sembra di sentire l'eco di Paolo e Francesca: pur di stare insieme all'amata  anche nell'inferno egli si sentirà beato.

            Non c’è nessun  corpo  più  leggiadro e meno  disponibile che  quello tuo o donna,che trattenga il moto ed il dolce desiderare;  però, a causa dela  volontà contraria al donare la propria bellezza, per te è più adatto l'inferno di quanto sia per me, a causa del mio soffrire,sia adatto il paradiso: né lo dico né lo celo se desideri o no allo stesso modo  il  mio ed il tuo  peccato affinché, se da vivo non sono stato con te,  da morto  io lo possa essere con   nell'inferno  oppure, per la mutata volontà da ingrata  in amorevole, la pace eterna sia anche per me là dove il  patire per causa tua su questa terra mi avrà fatto essere beato in eterno. Percui se dolce sarà per me l'inferno stando con te, come starà in paradiso?  Allora io soltanto, doppiamente beato sarei a godere, nel divino coro dei beati, tanto quel Dio che sta in cielo e l'altro che adoro su questa terra.

 

 

            In più leggiadra e men pietosa spoglia,                A

            all'anima non tiene                                       b

            che la tuo, donna, il moto e 'l dolce anelo;            C

            tal c'alla ingrata voglia                                             a

            al don di tuo beltà perpetue pene              B

            più si convien c'al mie soffrire il cielo:                   C

            I' nol dico e nol celo                                     c                       

            s' i' bramo o no come 'l tuo 'l mie peccato,            D

            ché se non vivo, morto ove te sia,              E

            o, te pietosa, che dove beato                                D

            mi fa 'l martir, si' etterna pace mia.                        E

            Se dolce mi saria                                        e

            l'inferno teco, in ciel dunche che fora?                  F

            Beato a doppio allora                                             f

            sare' a godere i' sol nel divin coro             G

            quel Dio che 'n cielo e quel che 'n terra adoro. G

 

            Due terzine all'inizio, varie nella metrica, poi un settenario dalla medesima rima  dell'ultimo verso  della seconda  terzina, poi una quartina  di endecasillabi  con dopo un settenario  in rima baciata col quarto  endecasillabo ed infine una coppia di versi a rima baciata, la prima formata  da un endecasillabo  e da un settenario, l'ultima parte formata da due endecasillabi.  I cinque settenari  posizionati con  maestria danno brio al madrigale mentre gli undici endecasillabi, ed in particolare i quattro della quartina centrale, danno un moto amabilmente andante al  madrigale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            45)

                        Se l'alma alfin ritorna (140)

 

            E' meglio stare con la donna amata nell'inferno per tutta  l'eternità oppure insieme a lei in paradiso? Forse il soffrire meno è più importante del godere meno se questo èdovuto al peccato di amarla più che Dio, tale da  far pensare al Paolo e Francesca dell’Inferno dantesco.

            Se come si crede alla fine  dei tempi l'anima tornerà nella sua veste corporea dolce e desiderata,sia che Dio la salvi  o la condanni , nell'inferno ci sarà meno  tormento se  tu sarai lì ad adornarlo per il fatto che ti si potrà contemplare e vedere.Mentre, se  salirà  e tornerà  in  paradiso,  come io  insieme all'anima desidero con tanta premura  ed  appassionato  desiderio, sarà godere meno di  Dio se  qualsiasi altro piacere lascia il passo al divino  e dolce sembiante  di te come mi succede in questo mondo. Per cui attendo di amarti sempre di più se è vantaggioso al dannato soffrire meno di quanto non nuoce in paradiso l'essere meno beato.

            Un amore davvero follemente immenso e terrestre.

 

 

            Se l'alma alfin ritorna                                                           a

            nella suo dolce e desiata spoglia,                         B

            o danni o salvi il ciel, come si crede,                                C

            ne l'inferno men doglia,                                                       b                    

            se tuo beltà l'adorna,                                                           a

            fie, parte c'altri ti contempla e vede.                                  C

            S'al cielo ascende e riede,                                     c         

            com'io seco desio                                                   d

            e con tal cura e con sì caldo affetto,                                  E                                           

            fie men fruire Dio,                                                    d

            s'ogni altro piacer cede,                                         c

            come di qua,al tuo divo e dolce aspetto.              E

            Che me' d'amarti aspetto,                                      e

            se più giova men doglia a chi è dannato,             F

            che 'n ciel non nuoce l'esser men beato.              F

 

 

            Tanto nelle prime due terzine quanto nelle seconde due la rima si  presenta non in sequenza perfetta, quasi un disordine formale che si adatta al paradosso amoroso  del contenuto, il godimento maggiore viene dalla donna amata piuttosto che da Dio           e rimanda all' "amor inordinatus" di Agostino,  inversione di valori nel prefererire un bene inferiore ad uno superiore (vedi "Confessioni", libro II, 5,10).

            Cosiccome è agostiniano quel "fruire" nel cui termine c'è pure il concetto di godere ed Agostino distingue bene l' "uti" dal "frui" ("De Trinitate" X, 10,13). Da notare altresì come le due prime terzine che parlano dell'inferno sono legate alle due seconde che parlano  del paradiso da una stessa rima che lega, a rima baciata, l'ultimo verso  delle prime  due al primo delle seconde, congiungendo dolore e gioia, premio  e condanna, desiderio  e volontà , terrestrità  e mondo dell'aldilà, terrestrità come amor profano che vince.

E la rima dei versi 12 e 13 “aspetto” non è una ripetizione  pure se possiede lo stesso suono ché l'una è nome e l'altra voce di verbo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            46)

                        Perc’all’’alta mie speme è breve e corta   (141)

 

            E’ meglio essere in dubbio di essere amato che la certezza di non esserlo.

            Perché la   fiducia che mi dai, o donna , è breve e corta rispetto alla mia speranza che vola alta, godrò,  per non stare peggio,  di quanto superficialmente prometti con gli occhi,; poiché dove è morta la compassione, non è che la bellezza non diletti. E se effetti contrari  dentro  di te sento effetti contrari di quanto i tuoi occhi  ostentino di  compensare,non tento di essere certo del tuo amore ma prego invece, anche se la gioia è meno che intera che il dubbio sia dolce a chi  può nuocere la verità.

            Madrigale di contenuto altamente psicologico, che mi fa venire in mente le lettere d’amore di un mio paziente, mai spedite alla persona amata, in una delle quali scriveva che mai avrebbe azzardato di dichiararle il suo svscerato amore per la paura di avenre il rifiuto.

 

 

            Perc’all’’alta mie speme è breve e corta,             A

            donna,tuo fe’, se con san occhio il veggio                        B

            goderò per non peggio                                                       b

            quante di fuor con gli occhi ne prometti;                           C

            chè dove è pietà morta,                                                      a

            non è che gran bellezza  non diletti.                                   C

            E se contrari effetti                                                  c

            agli occhi di mercé dentro a te sento                                D

            la certezza non tento,                                                          d

            ma prego, ove ‘l gioire è men che intero,             E

            sia dolce il dubbio a chi nuocer può ‘l vero.               E

 

            La forma si adatta bene al contenuto, agile anche se la maggioranza dei versi sono endecasillabi, seguiti solitamentedai rapidi settenari in rima baciata, che fa risaltare la vagosità tutta interiore del madrigale; sapientemente usate le cesoie delle abbreviazioni lessicali, vere scorciature e scorciatoie, anche il ritmo interiore all’endecasillabo, valga uno per tutti il “non è che gran bellezza non diletti”,  fa risaltare il ritmo da andante con brio  di tutto il madrigale.

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            47)

                        Credo, perc’ancor forse  (142)

 

 

            Ancora un bel viso lo fa innamorare.

            Credo che Amore,  perché ancora non sia  spenta forse la fiamma della  passione nel tempo senza calore dell’età non più verde,abbia teso l’arco all’improvviso ,  Amore che si rammenta che non sbaglia mai colpo se mira in un cuore gentile e sa fare ritornare verde un’età matura  a causa  di un  bel volto  e sa anche  che è peggiore la mia ricaduta all’ultima sua freccia  che il male del primo innamoramento.

 

 

 

            Credo, perc’ancor forse                                                     a

            non sia la fiamma spenta                                       b

            nel freddo tempo dell’età men verde,                              C

            l’arco subito torse                                                    a

            Amor,che si rammenta                                                       b

            che ‘n gentil cor ma’ suo colpo non perde;                        C

            e la stagion rinverde                                                            c

            per un bel volto; ;e peggio è al sezzo strale              D

            mie ricaduta  che ‘l mio primo male.                                 D

 

 

            Piccolo madrigale dalle poche rime,col riemergere di lontane parole dantesche ( il “sezzo strale” ricorda il dantesco “venimmo al pié d’una torre al da sezzo” ed il “che in gentil cor ma’ suo colpo non perde” ricorda troppo l’ “ al cor gentile ripara sempre amore”), semplice nella forma  e nel contenuto, piano nella comprensione, agile per le rime a b C, a b C  ripetute e ribattute dalla terza c  che rimbalza in arsi  e per i settenari in quantità maggiore rispetto agli endecasillabi.

 

           

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            48)

                        Quant’ognor fuggeil giorno che mi resta          (143)

 

 

            Tanto più rapidamente fugge il giorno che mi resta del mio vivwere corto e poco tanto più mi stringe il fuoco dell’amore nel breve tempo  che per me comporta più danno e stazio: giacché il cielo non presta aiuto  per andar contro  la vecchia usanza,  cosa che dovrei fare in così breve  spazio di tempo. Siccome poi, non sei sazio, o Amore, del fuoco che mi assedia, nel quale fuoco nemmeno una pietra  può conservare la sua natura nonché un ouore, ti ringrazio se il cuore ancora indomito non duri se per qualche tempo  resta chiuso in questo fuoco. Ma ciò  che per me è la  cosa  peggiore diventa la mia fortuna,perché il vivere ai tuoi voleri (vivendo sotto la tua insegna) non mi  è caro  purché almeno da morto tu non infieriscasu di me.

            Meglio la pace eterna che soffrire le sofferenze dell’amore.

 

 

            Quant’ognor fuggeil giorno che mi resta                           A

            del viver corto e poco,                                                         b

            tanto più serra il foco                                                           b

            in picciol tempo a mie più danno  e strazio:                       C

            c’aita il ciel non presta                                                        a

            contr’al vecchio uso in così breve spazio.                         C                    

            Pur poi che non se’ sazio                                       c

            del foco circumscritto,                                                         d

            in cui pietra non serva suo natura                          E

            non c’un cor, ti ringrazio,                                         c

            Amor, se ‘l manco invitto                                        d

            in chiuso foco alcun tempo non dura.                                E

            Mie peggio è mia ventura,                                      e

            purché la vita all’arme che tu porti                         F

            cara non m’è, s’almen perdoni a’ morti.                           F

 

 

            Madrigale che si svolge pianamente, si direbbe quasi consolatorio anche se doloroso ed impellente data la brevità del tempo a disposizione. Già il primo endecasillabo lo fa capire nel ritmo pacato salvo il “quant’ognor” iniziale che esprime bene l’ineluttabilità della rapidità del tempo che passaa; nche i due settenari seguenti, dallo stesso ritmo per la medesima accentazione e dalla stessa rima,  fanno sentire la rassegnazione ribadita dal ritmo e dalla rima; come del resto tutti gli endecasillabi  sono definizioni declamative ed esaustive.Senza invocazioni pleonastiche  sche rompano il ritmo il madrigale si svolge fino al “perdoni a’ morti” che lo chiude.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            49)

                        Passo innanzi a me stesso   (149)

 

 

             E’ vana idea pensare di avere ancora lunga vita.

            vado al eilà delle mie possibilità  coi  pensieri ambiziosi  e ponderati e prometto a me stesso il passare del tempo che non debbo avere. O pensiero vano e folle! perché ,avendo la morte  appresso io perdo il presente ed anche non posso avere l’avvenire,          rivolto ad un volto leggiadro sono infiammato e con quello spero risanarmi  e vivere , anche se invece sarò già morto  in qegli anni dove la mia vita non arriverà.

 

 

            Passo innanzi a me stesso                                    a

            con alto e buon concetto                                         b

            e ‘l tempo gli prometto                                                        b

            c’aver non deggio. O pensier vano e stolto!             C

            chè con la morte appresso                                     a

            perdo il presente, e l’avvenir m’è tolto,                             C

            a d’un leggiasdro volto                                                        c

            ardo e spero sanar, che morto viva                                   D

            negli anni ove la vita non arriva.                             D

 

 

            Agile e breve madrigale dal sentore analogo al precedente che inizia con una terzina di settenari si spiana nell’endecasillabo del quarto verso  poi  si spiega  da  lì in due coppie formate da un endecasillabo e da un settenario, la seconda in rima baciata fino ai due enddecasillabi finali in rima baciata. Rapida e scorciata la sintassi, abbreviata  pure la grammatica  a dare l’idea dell’insussistenza del pensare-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            50)

                        Se costei gode e tu solo, Amor, vivi   (145)     

 

            Pur di vivere sarebbe meglio non  essere amati .

            Se costei gode e tu soltasnto vivi, o Amore, dei nostri pianti  e se io debba nutrire la mia vita di lacrime e di mestizia dunque diverremo prvati della vita dalla benigità di una donnamisericordiosa.. Sarebbe meglio il contrario: cibi diversi hanno diversi,ché a lei procurerebbero la  gioia ed a noi torrebbero la vita, in quanto sei tale che allo stessotempo prometti  più dar la morte laddove porgi  aiuto. Per l’anima sbigottita  vale più vivere con un destino doloroso che avere benevolenza accanto alla morte

            Tenta di consolarsi.

 

 

            Se costei gode e tu solo, Amor, vivi                                  A

            de’ nostri pianti,e s’io, come te, soglio                             B

            di lacrime e cordoglio                                                         b

            e d’un ghiaccio nutrir la vita mia,                           C

            dunche, di vita privi                                                  a

            saremo da mercé di donna pia..                                       C

            Meglio il peggio saria:                                                        c

            contrari cibi han sì contrari effetti                           D

            c’a lei il godere,a noi torrien la vita;                                   E

            tal che insieme prometti                                         d

             più morte, là dove più porgi aita.                          E

            A  l’’alma  sbigottita                                                 e

            viver molto  più val con dura sorte                         F        

            che grazia c’abbiasé presso la morte                              F

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                             

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            51)

                        Gli sguardi che tu strazi    (146)

 

 

            Gli sguardi con i quali tu strazi tutti, a me tutti  gli togli  enemmeno è furto  che fai a me ciò che tu non mi doni, ma se sazi il volgo  e i brutti e me ne privi, non è omicidio , che sempre mi spingi a corire. O Amore, perché perdoni per tua somma cortesia, che sia  qui tolta la bellezza a chi la sa godere e la desidera e sia data a  gente che non la sa apprezzare?Deh, un’altra volta falla di dentro benevola e così di fuori brutta che a me non piaccia e di me si innamori.

 

 

            Gli sguardi che tu strazi                                                      a

            a me tutti gli togli;                                                     b

            né furto è già quel che del tuo non doni;               C

            ma se ‘l vulgo ne sazi                                                          a

            e ‘ brutti, e me ne spogli,                                        b

            omicidio non è,c’a morire ognor mi sproni.                        C

            Amor, perché perdoni                                                         c

            tuo somma  cortesia                                                           d

            sie di beltà qui tolta                                                 e

            a chi gusta e desia,                                                 d

            e data a gente stolta?                                                         e

            Deh, falla un’altra volta                                                        e

            pietosa dentro e sì brutta  di fuori                          F

            c’a me dispiaccia, e di me s’innamori.                             F

 

 

            La maggioranza dei settenari fanno spigliato, nella forma,  questo madrigale che si adatta al contenuto, alkquanto leggero  e forse superficiale ma scorrevole, (non ha il tono serio e sofferto di altri madrigali,) La grammatica talora è abbreviata,, cosiccome la sintassi,  senza togliere al madrigale una buona comprensione. Sembra quasi sentire il  “mi torrei donne giovani e leggiadre / e laide e grasse lasserei altrui” dell’antico Cecco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            52)

                        “Deh dimmi, A mor, se l’alma di costei   (147)

 

 

            Dialogo fra il porta ed Amore.

            Deh, dimmi , o Amore, se l’anima di costei fosse pietosa come ha bello il volto, se qualcuno sarebbe tanto stupido da non togliersi a sé stesso  e si desse a lei? Ed io che più potrei servirla ed amarla se mi fosse amica  e che essendomi nemica, l’amo invece di  più di quanto dovrei fare?”  “ Io dico che a voi,  pertutti i potenti dei,  conviene che ogni cosa dannosa sia sopportata. Dopo che sarete morti, delle mille ingiurie e torti che tu soffri te ne potrai fare giustamente vendetta,  perché ti amerà  come ora tu ardi di lei. Ahimé, infelice  pure chi aspetta troppo che io giunga tanto tardi a confortarlo !  Ancora, se guardi bene,  o Amore,un cuore generoso, altero e nobile perrdona e porta amore a chi l’offenda.

 

 

             “Deh dimmi,  A mor, se l’alma di costei                           A

            fusse pietosa com’ha bell’il volto,                          B

            s’alcun saria sì stolto                                                           b

            ch’a sé non si  togliessi e dessi a lei?                              C

            E io, che più potrei                                                  c

            servirla, amarla, se mi fuss’amica,                                    D

            che, sendomi nemica                                                          d

            l’amo più c’allor far non doverei?”                         C

             “Io  dico che voi, potenti dei,                                             C

            convien  c’ogni riverso si sopporti.                                    D                               

            Poi che sarete morti,                                                           d

            di mille ‘giurie e torti                                                d

            amando te com’or di lei tu ardi,                                         E

            far ne potrai  giustamente vendetta.                                  F

            A himè, lasso chi  pur tropp’aspetta                                  F

            ch’i’ gionga a’ suoi conforti tanto tardi!                             E

            Ancor, se ben riguardi,                                                       e

            un generoso, alter e nobil core                                          G

            perdon’e porta  a chi l’offend’amore”.                               G

 

 

            Uno dei madrigali lunghi di Michelangelo; si trascina fiaccamente e contraddittoriamente.   E’ un poco  artificioso il suo discorrere  tra lui ed Amore, non aiutano la stentata dialettica i i settenari a rima  baciata,  anche insistita tre volte di seguito, ( “ sopporti”, “morti”, ”torti”)  otto su diciassette versi,che vorrebbero ravvivare il madrigale. Solo formalmente vi riescono, c’è una antinomia tra forma e contenuto . e Forse eccessive le tante elisioni ad inizio di parola  o alla fine di un verbo  o  di un avverbio   o  di  un ‘aggettivo, di un pronome, dì una  congiunzione (“  ‘ngiurie”, ”com’ha”, “bell’il”,“ ch’a”, “fuss’amica”, “tropp’aspetta”, “ch’i’, ”perdon’e”,  “offend’amore”, “alter” e “nobil” ), frequenti nel madrigale, utili  soprattutto a trovare il giusto numero  di battute sillabiche del verso; specie il finale “offend’amore” che ingarbuglia la comprensione elidendo anche la congiunzione “ e” che sta nel “perdon’e” precedente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            53)

                       

 

                        Con più certa salute   (148)

 

            Rispondere all’amore di lei,  per lui è troppo pericoloso.

            Una minor benevolenza, o donna, mi terrebbe ancora vivo con una  salvazione più certa;il petto sarebbe meno bagnato a causa degli occhi che piangono. La  vostra  troppa benevolenza di tanto vince e mette in ombra  e mi toglie la mia poca forza; ma neanche  un saggio,  se non si incalzasse da  sé stesso  e non si spronasse, mai volle  gioire di ciò  di cui non può essere capace. Volere il troppo  è vanità  e follia; perché una modesta persona di unili destini raggiunge una pace più tranquilla. Quello che a voi è lecito  fare a me, o donna, a  me reca  dispiacere;  chi si dona ad altri che non si può lusingsre, quel tale aspetta la morte per un eccessivo piacere.

 

            Con più certa salute                                    a

            men grazia, donna, mi terrie ancor vivo;            B

            dall’uno e l’altro rivo                                     b

            degli occhi il petto sarie manco molle.                  C

            Doppia mercé mie piccola virtute              A

            di tanto vince che l’adombra e tolle;                      C

            nè saggio alcun ma’ volle,                          c

            se non sè incalza e sprona,                                    d

            di quel  gioir ch’esser non può capace.                E

            Il troppo è vano e folle;                                            c

            chè modesta persona                                             d

            d’umil  fortuna ha più tranquilla pace.                    E.

            Quel c’a vo’ lice, a me, donna, dispiace:            E

            chi si dà altrui, c’altrui non si  prometta,                F

            d’un superrchio piacer morte n’aspetta.               F

 

 

            Fra  l’adulazione e la ressegnazione questo madrigale facile ed agile nell’aternanza delle rime che talora son baciate, altre volte alternate anche di più di un verso; si svolge, con parità di settenari ed endecasillabi salvo i due endecasillabi della chiusa finale, ed inizia con un settenario. Anche il metaritmo  delle rime è  contenuto ed abbastanza sereno, incline alla rassegnazione. La chiusa seppur didascalica non ostenta, come altre volle, durezza né sintatticamente né grammaticalmente, sia pure triste ma non crudele.        

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           54)

                         Non posso non mancar d’ingegno d’arte   (149

 

            Di fronte alla sua donna si sente indegno.

            Non posso non mancare d’ingegno e d’arte di fronte a chi mi toglie la vita conl

venirmi tpoppo in aiuto, tanto  che ottengo  assaai minore ricompensa  divina  quanto più ne prendo da lei. Da quando l’anima mia si  discosta da lei, come un occhio  offeso  da una fonte troppo luminosa ,e va oltre toppo  più in alto della mie impotenza;  per farmi pari  al più piccolo dono di una donna alta e serena  essa non mi innalza a ciò che lei è, ed allora conviene che io impari che quello che io posso fare mi porta da lei come se fossi un ingrato . Questa donna,, piena di grazia, è cos’ abbondante e infiamma gli altri di un tale fuoco, che,quando brucia con troppo calore come fa, arde con minor calore di quando brucia meno..

 

 

            Non posso non mancar d’ingegno d’arte                         A

             a chi mi to’ la  vita                                                               b

            con tal superchia aita,                                                                    b

            che d’assai men mercè più se ne prende.                                   c

            D’allor l’alma mie parte                                                                  a

            com’occhio offeso da chi troppo splende,                                   C

            e sopra  me trascende                                                                   c

             a l’impossibil mie; per farmi pari                                      D

            al minor don di donna alta e serena,                                            E

            seco non m’alza; e qui convien ch’impari                         D

            che quel ch’i ‘  posso ingrato a lei mi  mena.                         E

            Questa, di  grazie piena,                                                    e

            n’abonda e ‘nfiamma altrui d’un certo foco,                           F

            che ‘l troppo con men  caldo arde che ‘l  poco.                          F

 

            Armonioso e pacato questo madrigale, a parte quel “don di  donna” al nono verso ,un din-don-dan che stona col resto del madrigale.Danno brio i due settenari del secondo e terzo verso in rima baciate fra due endecasillabi con rima diversa, cosiccome il settenario con rima nuova al quinto verso fra due endecasillabi dalla stessa rima, ribattuta dal successivo  settenario, come anche l’avere omesso gli articoli davanti ad “ingegno” ed “arte” danno spigliatezza al madrigale.  Il metaritmo delle rime è brioso, ben adattato al garbo affettuoso  del madrigale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                   

            55)

                        Sì come per levar, donna, si pone(152)

 

            Ancora  l'intersecarsi  di amore e scultura  come  nel madrigale “S ‘egli è, donna, se  il n°16. Alla  donna impresta la sua prassi  scultoria, splendido il "levar" che  rimanda  alla maieutica socratica, per fare apparire la bontà e la bellezza della propria anima cosicché la donna diventa una "levatrice" ed al modo suo di “levare” il sasso fino a scoprire la figura racchiusa.

            Come dentro un pezzo di marmo sta una figura pronta ad essere  fatta nascere e che  si mostra man  mano viene tolto  il più che la  nasconde, così  il  di più della carne, che fa da corteccia crudele e dura per l'anima vibrante, nasconde le opere  buone  E tu, donna amata, tu sola, hai il  potere di  togliere la  parte carnale e far venire fuori il buono ed il bello  dell'anima  mia, io non avrei né il volere né la forza. 

 

            Sì come per levar, donna, si pone                         A

            in pietra alpestra e dura                                          b                                            

            una viva figura,                                                                     b

            che là  più cresce u' più la pietra scema;              C

            tal alcun'opre buone,                                                           a

            per l'alma che pur trema,                                        c

            cela il superchio della propria carne                                 D

            con l'inculta sua cruda e dura scorza.                               E

            Tu pur dalle mie streme                                                      f

            parti puo' sol levarne,                                                          d

            ch'in me non è di me voler né forza.                                  E

 

            Madrigale variatissimo per l'alternarsi fra endecasillabi e settenari al di fuori di schemi consueti e di rime  (una sola rima  baciata), per il verbo "pone" del primo  verso privo di rima insieme all'aggettivo "streme" pure  privo di  rima, tutt'al  più in assonanza con "scema" e "trema",(pare  proprio che la rima di "streme" sia  davvero  voluta, avrebbe ben  potuto  scrivere "dalla  mia  strema  -  parte"  e niente  sarebbe cambiato nella metrica e nel senso) e che sembrano denotare la ricerca travagliata  di ciò che è celato e ad arruffare, a tenere il madrigale in trepida aspettativa. Il madrigale è privp del finale consueto dei due endecasillbi a rima baciata che l’avrebbero però appesantito togliendogli qualla grazia che lo rende paticolarmente aggraziato.Sembrerebbe non finito ma  èfinito perfettamente. Fino al sesto verso ha lo stesso varire della rima del madrigale ”Non posso non mancar d’ingegno ed arte”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            56)

                        Non pur d'argento o d'oro (153)

 

            Come una  forma aspetta di essere riempita d'oro o d'argento fuso e poi essere rotta  per fare uscire la preziosa fusione così io, acceso dentro da  fuoco d'amore,aspetto di compensare il suo desiderio, vuoto però della bellezza infinita della donna adorata che è l'anima ed  il cuore  della  propria  vita mortale.  E la donna,  così  magnifica e desiderata , entra dentro di me attraverso gli occhi (i "sì brevi spazi") e diventa la smia preziosa opera d'arte. Ma per renderla manifesta deve essere disfatto e straziato e rotto come il guscio dello stampo per la  fusione.

            Tutto il madrigale si svolge nel contrasto fra il pieno di lei ed il vuoto di lui, che la vorrebbe contenere, fra il di lei prezioso ed il vilio di lui..

 

            Non più d'argento o d'oro                           a

            vinto dal foco esser po' piena aspetta,                 B

            vota opra prefetta,                                       b

            la forma, che sol fratta il tragge fora;                     C

            tal io, col foco ancora                                              c

            d'amor dentro ristoro                                               a

            il desir vòto di beltà infinita,                                    D

            di coste' ch'i' adoro,                                     a

            anima e cor della mia fragil vita.                D                    

            Alta donna e gradita                                                d

            in me discende per sì brevi spazi,             E

            c'a trarla fuor convien mi rompa e strazi.            E

 

 

            "Oro" e "argento" evocano la  preziosa bellezza  ed  il fulgore della donna amata la  cui immagine  riempie il vuoto  ardente  del suo  desiderio,  la rima  congiunge la di lei bellezza e la di lui  fragilità e piacere  ("infinita","vita" e "gradita") e l' "oro"  viene a richiamare  il "ristoro" e l' "adoro". La forma  ed  il contenuto si adeguano in modo perfetto anche per via del ricercato intarsio delle rime e di settenari e endecasillabi.

            I due endecasillabi finali a rima baciata  concludono il madrigale in una sofferta  ed accettata necessità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            57)

                           Tanto sopra me stesso   (154)

 

 

            La donna ed il Paradiso sono un tutt’uno.           

            Tu, o donna, mi fai tanto salire al disopra di me stesso, che non soltanto  io non  posso dirlo con parole e neanche pensarealle mie nuove oqssibilità che tu mi hai fatto avere,perché non sono lo stesso di prima.Dunque perché, avendo in prestito le ali che mi hai fornite non mi alzo e volo fino al tuo bel viso e così possa restare con te e  se il cielo me lo permette di poter ascendere in quello che sarebbe il mio paradiso col mio corpo mortale ? E’ una mia fortuna se il mio corpo non sia diviso dalla mia anima  (come succede normalmente all’anima quando giunge in Paradiso a causa del distacco dal corpo, per grazia tua, e che questa mia anima possa fuggire insieme a te, per merito tuo, la sua morte, la sua dannazione.

 

 

                        Tanto sopra me stesso                                           a

                        mi fai, donna, salire,                                    b

                        che non ch’i’  ‘l possa dire,                         b

                        nol so pensar, perch’io non son più desso.            A

                        Dunche, perché più spesso,                                   a

                        se l’alie tuo mi presti                                               c

                        non m’alzo e volo al tuo leggiadro viso                 D

                        e che con teco resti,                                    c

                        se dal ciel n’è  concesso                            a

                        ascender col mortale in paradiso?                        D

                        Se non ch’i’ sia diviso                                             d

                        dall’alma per tuo grazia, e che quest’una       E

                        fugga teco sua morte, è mie fortuna.                       E

 

            Sogna il paradiso,ché sarebbe il suo paradiso poter vivere con la donna amata, ancora vivo e tramite lei potrebbe trovare il permesso celeste, forse un umano, terrestre sogno pari a quello che ebbe in sorte Dante, riecco forse Dante, con Beatrice,nel trentesimo canto del Purgatorio, forse la Commedia  di Dante è stato di suggerimento a Michelangelo per il madigale. Un madrigale agile, pochi endecasillabi molti settenari, e gli endecasillabi nello scorrere del madrigale sono ampi colpi d’ala, ed i settenari, che con poche rime, coll ritmo del metaritmo  danzano e ridanzano con richiami lontani e prossimi fino ad arrivare al finale magari sentenzioso per i due endecasillabi con la nova  rima baciata ma che è sogno nel sogno. Il madrigale è pieno di dolci sottintesi ed anche la sintassi pare che voli da un sottinteso all’altro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            58)

                         Le  grazie tua e la fortuna mia (153)

 

 

            Un alternarsi fra le grazie della donna amata e la sua sorte dolorosa.

            Le tue grazie e la mia sorte ,o donna, producono cosi vari  effetti perché così possa imparare a vivere framezzo a dolore ed amarezza. Mentre ti mostri nella tua interiorità benigna e devota e nel tuo aspetto esteriore appari quanto sei bella al mio ardente desiderio. la mia sorte aspra e malvagia,  facendosi nemica ai nostri piaceri con tanti oltraggi,  offende la mia possibilità di gioire; se al contrario poi la mia sorte si piega alle mie voglie allora mi viene meno,mi scompare la tua benevolenza. Fra il riso ed il pianto in così contrastati estremi non c’è una via di mezzo che faccia diminuire questo mio grande dolore .

 

            Le grazie tua e la fortuna mia                                 A

            hanno,donna, sì vari                                     b

            gli effetti, perch’io impari                            b

            in fra il dolce e l’amar qual mezzo sia                   A

            Mentre benigna e pia                                              a

            dentro, e di fuor ti mostri                             c

            quante se’ bella al mie ‘rdente desire,                  D

            La fortun’aspra e ria,                                               a

            nemica a’ piacer nostri,                                          c

            con mille oltraggi offende ‘l mie gioire;                 D

            se per avverso po’ di tal martire                            D

            si piega alle mie voglie,                                          e

            tuo pietà mi si toglie.                                               e

            fra ‘l riso e il pianto, en sì contrasti stremi            F

            mezzo non è c’una gran doglia scemi.                  F                                

 

            Contrasto fra la donna e lui, fra le diverse nature e destini, fra la gioia ed il dolore, fra il desiderio e la realtà, fra l’offesa che viene  dalla realtà ed il sognato desiderio del paradiso, in un madrigale  dalla leggera prevalenza dei settenari, otto su sette endecasillabi, che suscita il brio in un madrigale serioso e che negli endecasillabi sembra soffermarsi a  meditare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                       

 

 

 

 

 

 

 

 

                        59)

                                      A l’alta tuo lucente diadema (156)

 

            La bellezza dell’amata  sta così in alto che è una gran fatica arrivarvi e spera che gli perdoni quel peccato dellaver sperato di poter godere della sua bellezza quando lei si abbassa fino a lui.

            Non c’è chi possa arrivare al tuo così brillante diadema della tua bellezza perché per arrivarci la strada è ripida e lunga se costui non porta con sé anche umiltà e cortesia, per me poi la difficoltè della salita cresce mentre diminuisce la forza e mi manca il respiro a mezza strada. Che la tua bellezza sia superiore a tutte le altre bellezze sembra che dia piacere al mio cuore che è ghiotto e desideroso di ogni rara cosa straordinaria; poi inoltre desidero ,per potere goderla, che la tua bellezza scenda al punto della salita che ho potuto raggiungere e mi appago nel pensare che forse il tuo sdegno, che prevede il mio desiderio, ti perdona a te stessa il peccato che io ho commesso, di godere del tuo amore che si è abbassato a me ed odiare te quando stai tanto più in alto.

 

            A  l’alta tuo lucente diadema                                  A

            per strada erta e lunga,                                           b

            non è, donna, chi giunga,                            b

            s’umiltà non si aggiugni e cortesia:                       C

            il montar cresce, e ‘l mie valore scema,               A

            e la lena mi manca a mezza via.                C        

            Che tuo beltà pur sia                                               c

            superna, al cor par che diletto renda,                    D

            che d’ogni rara bellezza è ghiotto e vago;            E

            po’ per gioir della tuo leggiadria                            C

            bramo pur che discenda                             d

            là dov’aggiungo.e ‘n tal pensierm’appago            E

            se ‘l tuo sdegno presago,                           e

            per basso amare e alto odiar tuo stato,                F

            a te stessa perdona il mie peccato.                      F

 

            Un madrigale piuttosto convoluto, pieno di contrasti e di difficoltà, e di rimorso imprestato alla donna amata che son possibili in un’anima meditativa (può accadere che uno si senta colpevole anche se senza colpa pensando alla colpa dell’altro e addossandosene la responsabilità).Le rime baciate che si ribattono nei due settenari a fila o fra un endecasillabo ed un settenario  invitano al movimento che è chiuso e fermato dalla rima baciata fra i due endecasillabi finali ; la seconda parte dà l’impressione di essere  più varia nella rima.

 

 

 

 

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            60)

                        Pietosa e dolce aita  (157)

 

                                                                                                                                                        

            Effetti dello stargli accanto la donna amata e del suo andare via.

            O donna, se io sono con te, gli spiriti della vita spargono dal cuore per le parti estreme il pietoso ed il dolce sollievo che vengono da te per cui l’anima mia, impedita del suo corso naturale, per l’immediato gioire, si allontani da me. Dopo, quando sei partita dolorosamente per me, per un mio umano aiuto tornano al cuore più che copiosi gli spiriti già sparsi. Ma se ti vedo ritornare li sento partire di nuovo dal cuore perciò sento un’eguale tormento sia l’aiuto sia l’offesa mortale: la via di mezzo,la mancanza assoluta, a chi ama troppo, è sempre la peggiore.

 

 

            Pietosa e dolce aita                                                a

            tuo, donna, teco insieme,                                       b

            per le mie parti  streme                                                       b

            spargon dal cor gli spirti della vita,                                    A

            onde l’alma, impedita                                                         a

            del suo natural corso                                                           c

            pel subito gioir, da me disparti.                                         D

            Po’ l’aspra tuo partita,                                                         a

            per mie mortal soccorso,                                        c

            tornan superchi al cor gli spirti sparti.                               D

            S’a me veggio tornarti,                                                       d

            dal cor di nuovo dipartir gli sento;                          E

            onde d’egual tormento                                                        e

            e l’aita e l’offesa  mortal veggio:                            F

            al mezzo,a chi troppo ama, è sempre il peggio.                      F

 

 

            Ancora un latino ablativo assoluto, il ”teco insieme” inziale che abbrevia il discorso in questo madrigale che indica il suo stato d’animo sia alla venuta sia all’andar via  della donna amata , lui si sente sempre morire. Ma è meglio però sentirsi morire vedendola apparire od andare via che vivere senza vederla mai, meglio l’agitazione del cuore che toglie i sensi, il contrrio sarebbe una vita piatta e senza scopo. Un tormentoso sentire accompagnato dal tormentato metaritmo della rima, irregolare e molteplice tenuto conto della non eccessiva lunghezza del madrigale. Ardita la sintesi di quel “al mezzo” che sta per “chi resta al mezzo” fra il venire e l’andare via della donna amata, cioè per chi resta sempre senza vederla mai.    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            61)

                        Amor, la morte a  forza    (158)

 

            Sempre il tormento della passione amorosa che lo distrugge e lo fa morire.

            O Amore, pare  che la morte mi faccia scappare dal  pensiero della passione ma con i tuoi favori voglia ostacolare la mia anima  che senza quei favori sarebbe più contenta., E’ caduto il frutto maturo e secca  è digià la scorza dell’albero ( è passata la stagione dell’amore e già sono vecchio), e ciò che per me fu dolce sembra che io lo senta ora amaro; anzi soltanto mi tormenta in queste mie ultime ore che passano così alla svelta,quell’infinito piacere in così  breve spazio di tempo. Così tale beneficio mi spaventa. la tua pietà che mi giunge già tardi e cosi dura, che è morte per il mio corpo e strazio al compiacimento intellettuale; per la qual cosa io ti ringrazio pure essendo io in questa  età: perché se muoio in tale destino, tu lo fai più col compiacermi che con l’uccidermi,

 

 

            Amor, la morte a  forza                                                       a

            del pensier par mi scacci,                                      b

            e con tal grazia impacci                                                      b

            l’alma che, senza, sarie più contenta.                               C

            Caduto è ‘l frutto  e secca è già la scorza.                        A

            e quel, già dolce, amaro or par ch’i senta;                        C

            anzi, sol mi tormenta                                                           c

            nell’ultim’ore e corte,                                                           d

            infinito piacere in breve spazio.                                         E

            Sì, tal mercè, spaventa                                                       c

            tuo pietà tardi e forte,                                                          d

            c’al corpo è morte. e al diletto strazio;                              E

            ond’io pur ti ringrazio                                                          e

            in questa  età : ché s’i ‘ muoio in tal sorte,                        F

            tu ‘l fai più con mercé che con la  morte.               F

 

 

            Un madrigale pieno di rimpianto  ed anche di atrcce presentimento nel finale pur ringraziando Amore per i suoi benefici che gli fa avere più per benignità che per  odio. S entimenti in parte contraddittori e la vena è piuttosto arida, così è stanco l’incedere, tre settenari di fila seguiti da tre endecasillabi ponderosi e sentenziosi che rallentano il madrigale ;bellissimo comunque il quinto verso  ”Caduto è il frutto e secca è già la scorza” chètrasferisce all’aspetto di un albero autunnale se non invernale la sua tarda  età. seguono due terzine dallo stesso ritmo  e dalla identica segueza della rima, poi un settenario in rima baciata col precedente endecasillabo   prima del finale dei due endecasillabi a rima baciata. Semmai  al penultimo verso i due punti dopo “età” ravvivano il verso spezzandolo, per la necessaria pausa, in due parti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                        62)

 

 

 

                                     Per qual mordace lima  (161)

                                                                                 

            Un modo di dire a Dio :”Fiat voluntas Tua”.

            Quale sarà la lima che conduce a morte  e fa diminuire e rendere manchevole la tua stanca veste del corpo, o anima inferma? Ora quando sarà che ti sciolga da quella veste il tempo, la mordace lima, e tu torni dove stavi in cielo, candida e lieta prima di venire al mondo ed avrai deposto il velo che per te è pericoloso ed in sé mortale? Anche se io cambi il pelo in questi ultimi anni che passano in fretta io non posso cambiare il mio vecchio vizio che man mano che passano i giorni mi tormenta e mi incalza. O Amore, a te  non nascondo che porto invidia ai morti, sbigottito e confuso,tanto che la mia anima insieme a me trema e teme. O Signore  del Cielo, nelle ultime ore stendi verso di me le tue pietose braccia e togliendomi ai miei voleri fammi secondo i tuoi voleri, fai di me uno che  piaccia solo a Te.  

 

                                                                                             

           

            Per qual mordace lima                                                       A

            dicresce e manca ognor tuo stanca spoglia,                      B

            anima inferma?or quando fie ti sciolga                            B

            da quella il tempo, e torni ov’eri,in cielo,               C

            candida e lieta prima,                                                         a

            deposto il periglioso e mortal velo?                                  C

            C’ancor ch’ i’  cangi ‘l pelo                                     c

            per gli ultim’anni e corti,                                          d

            cangiar non posso il vecchio mie antico uso,                E

            che con più giorni più mi sforza e preme.             F                    

            Amore,a te nol celo,                                                c

            ch’i’ porto invidia a’ morti,                                      d

            sbigottito e confuso,                                                e

            sì di sé meco l’alma trema e teme.                                   F

            Signor, nell’ore streme,                                                       F

            stendi ver’ me le tue pietose braccia,                               G

            tomm’a me stesso e fammi un che ti piaccia.                      G

 

            Un madrigale che si comprende bene senza tante spiegazioni. Solenne al principio per i tre endecasillabi in fila,il secondo ed il terzo verso a rima baciataper conferirgli ancora più solennità e la prima rima che si congiunge col quinto verso.  E, dopo un’altro endecasillabo con nuova rima, una terzina di rime in  versi vari  nella lunghezza ,  (il terzo verso della  terzina di rime è un dodecasillabo  che  pare prolungare 

l’ “antico uso”) terzina che si ripete in una altra terzina di settenari dopo essere stata alternata da un endecasillabo con una nuova rima che  ritorna nela  rima baciata dopo la terzina di settenari. Il madrigale si conclude nei due ultimi due  endecasillabi a rima baciata. Un complicato ma razionale metaritmo delle rime che contribuisce alla  bellezza del madrigale per me fra i più ben fatti. Bellissime le similitudini,(la “mordace lima”,  la “stanca spoglia“ il periglioso e mortal velo”, il “cangi ’l pelo” ) splendido il finale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                       

            63)

                        Ora in sul destro, ora in sul manco piede   (162)

 

           

            Prega la donna amata che gli dica il vero, confortandolo.

            Ora un po’ a destra ora un poì a sinistra, barcollando, vado alla ricerca della mia salute.Fra il vizio e la virtù il cuore in confusione mi affatica e mi stanca, come chi             cammina e non vede il cielo e che si sperde per ogni sentiero  e non sa dove andare. Porgo una carta bianca affinchè, nero su bianco, sacralmente, amore mi tolga dagli inganni e pietà scriva il vero; che poi l’anima, diventata più sicura di sé, non si rivolga ai soliti  nostri errori nel breve tempo che mi rimane di vivere e che io viva meno cieco. Io vi chiedo, donnna eminente e divina, di poter sapere se in cielo ha importanza minore il peccatore che umilmente si pente oppure chi ha ben vissuto sempre in modo eccessivo alle sue forze. (Sembra chiedere conferma all’evangelico “sarà più festa in cielo per un peccatore pentito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza”.)

 

 

            Ora in sul destro,ora in sul manco piede                          A

            variando cerco della mia salute.                                        B

            Fra ‘l vizio e la virtute                                                                      b         

            il cor confuso mi travaglia e stanca,                                             C

            come chi ’l ciel non vede,                                                   a

            che per ogni sentier si perde e manca.                                       C

            Porgo la carta bianca                                                                    c

            a’ vostri sacri inchiostri,                                                                 d

            c’amor mi sganni e pietà il ver ne scriva:                         E

            che l’alma, da sé franca,                                                     c

            non pieghi agli error nostri                                                  d

            mie breve resto, e che men cieco viva.                                       E

            Chieggo a voi,alta e diva                                                    e

            donna, saper se ‘’n ciel men grado tiene                                    F

            l’umil peccato che ‘l superchio bene.                                           F

 

            Madrigale che si svolge pacato per i tanti endecasillabi seppure con andamento saltellante per la rima ed i susseguenti settenari mai fra di loro in rima baciata, quasi “a pio zoppo”. Preziosa la sintesi, vedi il “mie breve resto” e la contrazione sintattica nell’aver parlato del peccato al posto del peccatore e del vivere giustamente ( ‘l superchio bene) in vece del giusto. Interessanti, che danno l’andatura al madrigale, le rime alternate dei settenari dei versi 7-8 e 10 -11intercalati coll’endecasillabo del verso 9 che ritrova la rima con l’endecasillabo ed il settenario rispettivamente ai versi 12 e 13.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                        64)

                                   Quante più fuggo e odio ognor me stesso  /163)

                                                                                             

            Gli occhi della sua donna sono una vera beatitudine.

            Quanto io fuggo ed odio sempre me stesso quanto ricorro a te, o donna, con speranza vera, e l’anima neanche ha paura di me stesso , quanto più sono vicino a te. Io aspiro guardando nel tuo volto e nei tuoi begli occhi pieni di ogni salvezza a ciò che il cielo mi ha promesso: e bene mi accorgo spesso in ciò che miro in altra persona, che gli occhi senza  amore non hanno virtù. O luce mai vista! né mi può sminuire il desiderio lo stare a guardarli perché il vederli di rado è quasi dimenticarli.    

                                                                                                                                

                                                                                                                                            

            Quante più fuggo e odio ognor  me stesso            A

            tanto, a te donna, con verace speme                    B

            ricorro; e manco teme                                             b

            l’alma di me, quant’a te son più presso.             A

            A quel  che ‘l ciel promesso                                   a         

            m’ha nel tuo volto aspiro                             c

            e ne’ begli occhi, pien d’ogni salute:                     D

            e ben m’accorgo spesso,                           a

            in quel c’ogni altro miro,                              c

            che gli occhi senza il cor non han virtute.            D

            Luci già mai vedute!                                                d         

            né dal vederle è men che’l gran desio;                 F

            ché ‘l veder raro è prossimo a l’oblio.                   F

 

 

            E’ fresco il madrigale per via del venire gli endecasillabi seguiti dai settenari a rima baciata, eppure   discorsivo per la varietà delle rime e della loro alternanza tra la sesto ed il decimo verso. Strutturato talvolta con grammatica e sintassi personalissima l’esclamazione all’undicesimo verso preclude il finale distensivo  che va dal “desio” all’ “oblio finale come se il non vedere gli occhi ed il viso dell’amata fosse come morire. Un madrigale d’amore bellissimo e suggestivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            65)

                        Per fido esemplo alla mia vocazione  (164)

 

 

Il rivolgersi alla bellezza è la vocazione fin dalla nascita per questo è stato impressionato dalla bellezza della donna amata che fa ascendere al cielo.

             Come fedele esempio alla mia vocazione fin dalla nascita mi fu dato la bellezza.che di tutte e due le mie arti, la scultura e la pittura, mi è lume e specchio. Se si pensa in altro modo si sbaglia.. Soltanto la bellezza porta l’occhio a quel livello al quale mi appresto qui dipingendo e scolpendo. Se quei giudizi temerari e sciocchi portano la bellezza ala sensualità, la quale bellezza, invece,  porta verso il cielo ogni intelletto integro, perché gli occhi infermi non vanno dal mortale al divino ma restano fermi proprio là da dove senza la grazia è vano sperare salire in alto  .

 

                                                                      

            Per fido esemplo alla mia vocazione                    A

            nel parto mi fu dato la bellezza,                              B

            che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio.            C

            S’altro si pensa, è falsa opinione.             A

            Questo sol l’occhio porta a quella altezza            B

            c’a pingere e scolpir quì m’apparecchio.            C        

               S’e’ giudizi temerari e sciocchi               D

            al senso tiran la beltà, che muove              E

            e porta al cielo ogni intelletto sano,                       F

            dal mortale al divin non vanno gli occhi                 G

            infermi, e fermi  sempre pur là d’ove                     H

            ascender senza grazia è pensier vano.                H

 

 

            Un madrigale particolare fatto con due sestine di tutti endecasillabi che gli danno un tono egualmente particolare e sentenzioso pur nella lepidezza dei concetti,  alla cui sentenzionziosità contribuisce la forzata dieresi alla fine del quarto verso. Le rime dela prima sestina sono quanto mai ripetute e speculari eadeguate al madrigale. Il verso   finale poi ricorda quel “ che qual vuol grazia e a te non ricorre / sua disianza vuol volar senz’ali” di dantesca memoria.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                        66)

                                   Se ‘l commodo degli occhi alcun costringe (165)

 

            Non vede a sufficienza gli occhi della donna amata , per questo non perde l’obbiettività, è rimato abbagliato la prima volta che li vide.

            Se qualcuno obbliga alla comoda usualità  gli occhi perde nello stesso momento una parte di ciò che vede, insieme alla ragione e teme di ingannarsi perché più si inganna quello che crede dipiù a sé stesso,  percui dipinge per bello quello che è inferiore alla bellezza. Però io vi dico in verità , o donna, che la comoda usualità non mi ha preso perché raramente vedo i vostri occhi che stanno circoscritti laggiù dove soltanto il desiderio vola. In un punto solo, un volta sola  ne fui abbagliato né più li vidi che soltnto una volta..          

                                                                                                                                                        

 

 

            Se il commodo degli occhi alcun costringe                   A

            con l’uso, parte insieme                                                      b

            la ragion perde, e teme                                                      b

            ché più s’inganna quel c’a sé più crede:              C

            onde nel cor dipinge                                                           d

            per bello quel c’a picciol beltà cede.                                 C

            Ben vi fo, donna, fede                                                         c

            che’l commodo né l’uso non m’ha preso,             E

            sì di raro e’ mie veggion gli occhi vostri                F

            circoscritti ov’a pena il desir vola.                         G

            Un punto sol m’ha acceso,                                     H

            né più vidi c’una volta sola                                      H

 

            Affine al precedente solo un poco, per la sentenziosità, seppure abbia altro ritmo ed altro contenuto: un ritmo più vario ed il contenuto parla di cose più psicologiche, l’abitudine che trae in inganno ed appiattisce la visione distanziandola dalla passione amorosa sempre importante per amare , l’essere abbagliato, acceso d’amore, il colpo di fulmine, la fiamma che incendia..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                        67)

                                   La morte, A mor,del mie medesmo loco, (167)         

 

 

            La morte viene per tutti, anche per la donna amata, “vanitas vanitatum et omnia vanitas”:                     La morte, o Amore, dal luogo mio medesimo   ti scaccia e ti disprezza non soltanto col suo arco e con le sue pungenti frecce e col suo feroce ghiaccio smorza il tuo fuoco amoroso poiché porta i giorni sempre più corti e brevi. Tu vali in ogni cuore virile meno della morte (o donna amata), anche se tu porti con te le ali con le quali giungesti fino a me, ora anche tu fuggi ed hai paura perché ciò che si fa nell’età giovanile fa schifo negli ultimi giorni.                                      

 

 

                                                                                                                    

            La morte, Amor, del mie medesmo loco                                     A                                           

            non che con l’arco e co’ pungenti strali,                                       B

            ti scaccia e sprezza, e col fier ghiaccio il foco                            A

            tuo dolce ammorza, c’ha dì corti e brevi.                          C

            In ogni cor veril men di le’ vali                                                       B

            e se ben porti l’ali,                                                               b

            con esse mi giugnesti, or fuggi e temi                                         D

            c’ogni età verde è schifa a’ giorni stremi.                                     D

 

 

            Madrigale melanconico anche se scritto per la donna amata, breve composizione senza sfarzo nella rima, e perciò serioso, sono poche le rime non solo per la brevità del madigale, che  sembra però mostrare un rispettoso pudore, non rivolgendosi né nominando come è uso negli altri madrigali la parola “donna” che però sottintende al verso quinto. il settenario del verso sesto, l’unico settenario del madrigale dà la sensazione di un vero volare sia per la brevità rispetto agli altri versi sia per il suo ritmo interno sia per la parola finale del verso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                        68)

                                   Perchè’l mezzo di me che dal ciel viene (168)

                                                          

            Vorrei e non vorrei, ma spero. Per stare con la donna amata venderebbe l’anima al diavolo, de resto  la paragona al Paradiso.

            Perché quel mezzo di me che viene dall’alto del cielo ritorna in cielo con grande desiderio e vola e lì arrivo  restando insieme ad una donna piena di bellezza  che,  pur essendo di ghiaccio in lei ardo, lei che spezzato in due parti mi tiene, contrarie fra di loro, che l’una ruba all’altra il bene che non dovrei dividere con lei. Ma, se per caso lei cambia il suo modo di essere verso di me, cosicché  una mia metà non sia più del cielo, e se tale metà fosse da lei accettata, i miei sparsi e stanchi pensieri saranno tutti rivolti in quella mia donna, e se allora il cielo disacciasse la mia anima che da me è adorata, almeno spero  in quel tempo, quando sarò suo tutto intero, non più soltanto mezzo. 

 

 

            Perché ‘l mezzo di me che dal ciel viene              A

            a quel con gran desir ritorna e vola                                   B

            restando in una sola                                                b

            di beltà donna, e ghiaccio ardendo in lei,             C

            in duo parte mi tiene                                                           a

            contrarie sì, che l’una all’altra invola                                  B

            il ben che non diviso aver devrei.                          C

            Ma se già ma ‘ costei                                                         c

            cangia ‘l suo stile, e c’a a l’un mezzo manchi                       D

            il ciel,quel mentre c’a le’ grato sia,                                    E

            e’ mie sì sparsi e stanchi                                        d

            pensier fien tutti in quella donna mia,                                E

            e se ‘lor che m’è pia,                                                           e

            l’alma il ciel caccia, almen quel tempo spero              F        

            non più mezz’esser, ma suo tutto intero.               F

 

            Vola la sua anima,  volano i suoi pensieri col continuo rimbalzare dei versi,i settenari che si intermettono fra gli endecasillabi i quali da parte loro danno autorevolezza al madrigale. La sintassi talora è abbreviatissima, le sincopi si susseguono ardite,un continuo spezzare, formale oltre che contenutistico. “quel mentre” al decimo verso che sta “mentre quel” nella sua inversione contribuisce ad esprimere formalmente la contraddittorietà psicologica dell’autore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            69)

                        Nel mie ‘rdente desio ( 169)

 

            Delusioni in amore, colpa di chi  si è fidato troppo.

            A causa del mio ardente desiderio lei mi prende in giro, apparentemente si mostra pietosa mentre in cuor suo è aspra e feroce. O Amore non te lo dissi io, che sarei diventato una nullità e che chi spera in ciò che un altro posiede perde anche ciò che è suo? Orbene, se lei vuole che io muoia, è colpa mia e mio danno  se c’è qualcuno, ossia io , che le ha prestato fede come ad una che non è colpevole verso chi ha creduto più di quanto dovesse credere.

 

            Nel mie ‘rdente desio,                                             a

            coste’ pur mi trastulla,                                             b

            di fuor pietosa e nel cor aspra e fera.                   C

            Amor, non tel diss’io,                                              a

            ch’e’ no’ ne sare’ nulla                                            b

            e che’l suo perde chi ‘n quel d’altri spera?            C

            Or s’ella vuol ch’i’ pera                                            c

            mie colpa, e danno s’ha prestarle fede                D        

            com’a chi poco manca a chi più crede                 D

                
            Piccolo madrigale, agiie nella e forma a causa della prevalenza dei settenari prima  dei sentenziosi

endecasillabi finali e dell’articolazione delle rime, con due endecasillabi nel corso del madrigale che a distanza di due versi hanno la stessa rima. Nel discorso si notano abbreviazioni logiche e a quanto mi pare,

cambiamenti di soggetto che un poco possono ostacolarne la comprensione. Il “trastulla” del secondo verso irride alla sua condizione e ne rende l’idea, accrescendo il sapido sapore del madrigale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                        70)

                                   Spargendo gran bellezza ardente foco  (170

 

            Se il sasso duro diventa calce e poi può essere sciolto è meglio ce le sue lacrime eterne lo disciolgano anzuché rimanere come un duro sasso nella fornace senza morire.E’ il foco che calcina il sasso. è il fuoco dell’amore che lo brucia

            Una grande bellezza spargendo un ardente fuoco che accende mille cuori, è come una cosa pesante che può uccidere un uomo se pesa su lui solo  ma che se molti la reggono diventa leggera e di poco conto. Ma se il duro sasso, chiuso in un piccolo locale, si calcina col fuoco, e poi l’acqua lo scioglie in un momento così di una divina donna  io ho dentro il fuoco, che potrebbe annientare mille persone,che mi ha bruciato l’interno del  mio cuore, ma se  le mie lacrime eterne mi estinguessero anche se fosse il mio cuore duro e forte, sarebbe meglio che io mi discioglessi che bruciare sempre, senza mai morire.                                                                      

 

 

            Spargendo gran bellezza ardente foco                 A

            per mille cori accesi,                                               b

            come cosa è che pesi,                                           b

            c’un solo ancide, a molti è lieve e poco.               A

            Ma, chiuso in picciol loco,                           a

            s’il sasso dur calcina,                                              c

            che l’acque poi il dissolvon ’n un momento,      D

            così d’una divina                                          c

            de mille il foco ho dentro                             e

            c’arso m’ha il cor nelle mie parte interne;            F

            ma le lacrime etterne                                              f

            se  quel dissolvon già sì duro e forte,                    G

            fie me’ null’esser c’arder senza morte.                 G

 

            Le lacrime etterne ricordano il dantesco ” che va piangendo i suoi etterni danni,”che Dante mette in bocca a Brunetto Latini, un vero infernale supplizio, il piangere etterno come l’etterno fuoco, uno struggersi d’amore come la calcina tante volte adoprata, i mille fuochi li avverte tutti lui, il dentro del suo cuore è la sua fornace in cui vorrebbe struggersi lui vivente e piangente che si versa lacrime addosso per disciogliersi nel nulla: Onda dopo onda, endecasillabi seguiti da due settenari, ma onde sempre diseguali, i settenari o a rima baciata fra di loro o in rima con l’endecasillabo precedente o con nessun’altro verso; con due versi in rima, al settimo ed al nono verso, rime che invece sono un’assonanza (“ momento” e “dentro”) ma che il solo ultimo settenario, dopo il quarto endecasillabo e prima dei due endecasillabi finali, dà un moto diverso e rende più spigliata la finale. Le manchevolezze che un pignolo potrebbe trovare diventano il “non finito” che esalta il dinamismo e la bellezza del lavoro poetico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                                                                                  

 

 

 

                        71)

                                   Nella memoria delle cose belle (171)

 

 

            Si mette in questa raccolta anche questo madrigale  anche se sembra scritto per Cechhino Bracci.

            E’ necessario che la morte vada nella memoria delle cose belle per toglierle il volto di lui a lei  come a voi ugualmente di lui, se il calore si muta in freddo e la gioia si tramuta in dolore, con un tale odio di quelle cose belle tanto che esse non si possano più vantare di risiedere in un cuore ormai vuoto. Ma se lui riporta i suoi begli occhi nei vostri cuori sarà come mettere legne secche in un fuoco ardente.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

            Nella memoria delle cose belle                             A

            morte bisogna,per tor di costui                              B

            il volto a lei, com’a voi di costui                             B

            se il foco in ghiaccio e ’l riso volge in pianto,            C

            con tale odio di quelle,                                            a

            che del cor voto più non si dien vanto.                  C

            Ma se rimbotta alquanto                             c

            i suoi begli occhi nell’usato loco,               D

            fien legne secche in un ardente foco                     D

 

                                                                                             

            Madrigale dalle poche, insistenti rime. soprattutto costruito con endecasillabi che gli danno un tono più austero come si conviene al tema, ravvivato dai due settenari. L’uso del verbo “rimbotta” da l’idea di un giovane discolo che faccia una marachella.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                        72)

                                   Costei pur si delibra (172)

 

            Viene preso in giro dall’amata, ma riesce a sopravvivere con l’essere scultoreaffermato.

            Essa decide ,indomita e selvaggia, anche se io arda e muoia e cada per quel che mi fa, che ha un peso minore di un’oncia. Lei gioisce di sé e si riacconcia davanti al suo fidato specchio dove si vede uguale al paradiso poi si rivolge a me e mi tratta male con parole sudice così che non solo mi sento vecchio ma vedendomi nello specchio nel confronto col mio viso rendo più bello il suo viso  per la qual cosa sono ancora più deriso col sentirmi brutto e per me è una buona sorte se io riesco col mio lavoro di far bella la natura.

 

 

            Costei pur si delibra,                                               a

            indomita e selvaggia,                                              b

            ch’i arda , mora e caggia                            b

            a quel c’a peso non sie pure un’oncia;                 C

            La si gode e racconcia                                           c

            nel suo fidato specchio,                                          d

            ove si vede equale al paradiso;                 E

            poi volta a me, mi concia                            c

            sì,c’oll’altr’esser vecchio,                            d

            in quel col mie fo più bello il suo viso,                   E

            ond’io vie più deriso                                                e

            son d’esser brutto; e pur m’è gran ventura            F        

            s’i’ vinco, a farla bella, la natura

 

 

            Madrigale leggero se non scherzoso, una risposta ironica alla di lei altezzosità e superbia. Prima dei due endecasillabi finali della definitiva sentenza,abbondano i settenari che danno un piglio leggero,  peso “meno di un’oncia”. Mette la donna “indomita e selvaggia” di fronte alla vanità dello specchio “ove si vede equale al paradiso”, vanità delle vanità. La rima ed il metaritmo della rima ben si adattano al contenuto del madrigale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            73)

                        Se dal cor lieto viene bello il volto (173)

 

            Il bello scaturisce dal bello e viceversa.

            Se da un cuore lieto viene un bel volto e da un tristo cuore uno  brutto e se di ciò ne  lo ha colpa una donna cattiva ma bella, chi sarà mai quella che di me non arda come io ardo di lei? poiché  i miei occhi furono fatti dal mio destino tali da distnguere bene il bello dal bello, essa è non meno crudele a sé stessa (se fa quel che fa) tanto che spesso io le dica:” Tutto ciò viene dal mio cuore smorto” Che se un qualcuno  dipingesse sé stesso  ( però potrebbe tradursi anche: “se qualcuno facesse ciò che sa fare e così sarebbe sé stesso, cioè un pittore“, oppure se dipingesse la donna cui vorrebbe tanto somigliare da poterne fare un autoritratto, però mi sembrerebbe più giusta la traduzione precedente) dipingendo una donna, in quella donna cosa potrà mai fare se ha il cuore sconsolato? Dunque ambedue ne avrebbero vantaggio se la ritraesse avendo il cuore lieto lui perché amato da quella donna bella ed il viso senza pianto, lei farebbe bella se stessa se allietasse il cuore  del pittore e me non farebbe brutto.                                                                                                                                                                     

            Se dal cor lieto viene bello il volto                         A

            dal tristo il brutto, e se donna aspra e bella               B

            il fa, chi fie ma’ quella                                                          b

            che non arda di me com’io di lei?                         C

            Po’ c’a destinguer molto                                         D

            dalla mie chiara stella                                                         b

            dal bello al bel fur fatti gli occhi mei,                                  C

            contr’a sè fa costei                                                  c

            non men crudel che spesso                                               e         

            dichi.”Dal cor mie smorto il volto viene.”                           F

            Che s’altri fa se stesso,                                                      f

            pingendo donna, in quella                                      b

            che farà poi, se sconsolato il tiene?                                  F

            Dunc’ambo n’arien bene                                        f

            ritrarla col cor lieto e’l viso asciutto                                   G

            sé farie bella e me non farie brutto.                                   G

 

 

            Un madrigale un po’ burrascoso nel discorso, con cambiamenti di soggetto e di complemento oggetto che lo rendono alquanto difficile a capire.Sembra quasi che la donna cui sia stato fatto il ritratto si sia rammaricata del ritratto fatto male e che lui pittore dia la colpa a lei. Comunque a mio giudizio è uno dei madrigali meno riusciti, anche la rima, la sua cadenza, il suo metaritmo contribuisce a farlo tale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            74)     

                        Per quel che di vo’, donna, di fuor veggio  (174)

 

            Aspetta sempe una manifesazione d’amore ma se la donna contina nella sua crudelfà lui continua a godere dei di lei inganni.

            A causa di ciò che vedo esternamente a voi,o donna spero di dare riposo per un po’ di tempo al  triste pensare che mi stanca e mi sfianca,  quantunque l’occhio non possa trapassare in verità dentro di voi, ma saperne il peggio della vostra interiorità  forse  per il mio patire sarebbe un male (sarebbe perdere la speranza di avere il vostro beneplacido). Se la crudeltà dimora in un cuore che vorrebbe promettere una compassione vera  coi vostri begli occhi al nostro piangere, adesso sarebbe ora che voi vi mostrassi amorosa con  me che altro da me non si spera  fuori che di un amore onesto, ma se, o donna , l’anima, il vostro intimo, è in contrasto con i  vostri occhi, con la vostra esreriorità., io pur contrario a quella vostra decisione sono appagato degli inganni. della bella donna che siete.

            L’illusione ,spese volte, può molcere la realtà.

           

 

            Per quel che di vo’, donna, di fuor veggio                        A

            quantunche dentro al ver l’occhio non passi,             B

            spero a’ mie stanchi e lassi                                               b

            pensier riposo a qualche tempo ancora;              C

            e ‘l più saperne il peggio,                                       a

            del vostro interno, forse al mie mal fora.               C

            Se crudeltà dimora                                                  c

            ‘n un cor che pietà vera                                                       d

            co’ begli occhi prometta a’ pianti nostrii                           E

            ben sareb’ora l’ora                                                  c

            c’altro gia non si spera                                                       d

            d’onesto amor, che quel ch’è  di fuor mostri.                        E                                

            Donna, s’agli occhi vostri                                       e

            contrario è l’alma, e io, pur contro a quella,            F

            godo gl’inganni d’una donna bella..                                   F

 

 

            Le rime vanno di pari passo al variare dei pensieri. dapprima la speranza di un cambiamento poi ritornano alla cruda realtà ad infine trvovano godimento nello stato di fatto consolandosi di poter vedere gli occhi belli dell’amata anche se non è amato. Talora le abbreviature ed i sottintesi fanno sintesi sintattica e grammaticale che il “a senso” supplisce godendo il ritmo dei versi e del concatenarsi delle rime.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

 

 

            75)

                        No’ salda, Amor, de’ tuo dorati strali  (175)

                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

            Nelle guerre d’amore è meglio  fuggire.                                                                        

            Amore, ancora non è saldata la piaga più piccola dei tuoi dorati strali, fra le antiche piaghe rimaste, che la mia mente, che si ricorda dell’antiche ferite, è anche presaga che tu mi porti ad una peggiore situazione Se nei vecchi colpi, in passato, sei stato meno valente nel colpirmi,  dovrei ancora vivere, se tu non vuoi veramente uccidere, adesso, in guerra.Se oltre l’arco porti l’ali contro me che sono zoppo e nudo, (ed io non ho scampo),e porti per insegna quei due occhi di donna che uccidono più che le tue feroci frecce, chi sarà a confortarmi? Io non ho né elmo né scudo ma solo ciò che mi connota onorato, se perdo, e te ti connota di biasimo se in quelle condizioni mi dai fuoco.Essendo un debole vecchio, per la fuga è tardi e la fuga è lenta  per poter andare nel luogo dove è il mio scampo; e chi fuggendo vince (salvandosi  la vita) non deve restare nel campo di battaglia.                                                                                                                                                                                 

            No’ salda, Amor, de’ tuo dorati strali                     A

            fra le mie vecchie ancor la minor piaga,               B

            che la mente, presaga                                            b

            del mal passato, a peggio mi trasporti.                C

            Se ne’ vecchi men vali,                                           a

            campar dovria,se non fa’ guerra ai morti.               C

            S’ a l’arco l’alie porti                                               c

            contra me zoppo e nudo                             d

            con gli occhi per insegna,                           e

            c’ancidon più ch’e’ tuo più feri dardi,                    f

            chi fia che mi conforti?                                            C

            Elmo non già ne’ scudo,                             d

            ma sol quel che mi segna                           c

            d’onor, perdendo, e biasmo a te, se m’ardi,            F

.           Debile e vecchio, è tardi                             f

            la fuga è lenta, ov’è posto ’l mie scampo;            E        

            e chi vince a fuggir,non resti in campo.                 E

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  

            Lo scorrere della rima, per l’abbondanza delle rime, somigliia ai colpi di fioretto in un duello. Fantasioso il mettere l’ insegna di due occhi bellissimi di una donna sulla bandiera di guerra. I sovrastanti, per numero,  settenari rispettto agli endecasillabi escludendo i due finali, ed in quest’ultimi due endecasillabi, lo spezzarsi del verso per le pause segnate dalla punteggiatura, danno al madrigale un ritmo garoso e baldanzoso.  

                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            76)

                        Mestier non era all’alma tuo beltede  (176)

 

            L’amore bene si adatta ai giovani , da vecchi non è pssibile ritornare giovani.

            Non era importante   che l’anima tua piena di bellezza si industriasse nel legare me con qualsiasi corda in quanto ero già vinto perché, se bene mi rammento, soltanto con un tuo sguardo fui tuo prigioniero e preda; che a seguito degli sforzi  usati, è gioco-forza, che uno uno, debole di coraggio, ceda immediatamente. Ma chi sarà mai che ci creda che, preso dai tuoi begli occhi, in pochi giorni, io che sono come un legno secco e bruciato diventi  giovane come un legno verde ?

 

            Mestier non era all’alma tuo beltade                     A

            legar me vinto con alcuna corda;               B

            ché, se ben mi ricorda                                            b

            sol d’uno sguardo fui prigione e preda:                C:       

            c’alle gran doglie usate                                           d

            forz’è c’un debilcor subito ceda.                C

            Ma chi fie ma’ che ‘l creda                         c

            preso da’tuo begli occhi in brevi giorni,                E

            un legno secco e arso verde torni?                       E

 

            Breve madrigale, sintetico. Quasi una breve sentenza, un lento procedere con pochi salti dei settenari che sono sempre in rima baciata col precedente endecasillabo ed un verso, un settenario, il quinto,  senza rima o se si vuole con un’assonanza col primo verso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            77)

                        S’è ver, com’è, che dopo il corpo viva,    (77)

 

 

            Un madrigale insieme ai quarantotto epitaffi scritti per la morte di Cecchino Bacci, insieme ad un sonetto.

            Se è vero, come è vero, che dopo che il corpo muore, l’anima, viva,disciolta dal corpo,  al quale mal grado dura soltanto per legge divina, l’anima soltanto allora è beata, non prima; dopo di che diventa divina per la morte del corpo  cosiccome per natura  era  destinata a morire. Dunque, essendo senza peccati,  chi sia parente del defunto deve stabilire che ogni suo dolore sia da cambiare in gioia se chi è morto è uscito da una  fragile scorza  ed è giunto  fuori di ogni miseria in una vera pace al momento dell’ultima ora di vita o che punto l’abbia vissuta.. Tanto deve essese apprezzato il desiderio dell’amico morto quanto valga meno il fruire di questa terra che di  Dio.

,                        

 

            S’è ver, com’è, che dopo il corpo viva,                 A

            da quel disciolta, c’a mal  grado regge                B

            sol per divina legge,                                                b

            l’alma e non prima,allor sol è beata;                     C

            po’ che per morrte diva                                           a

            è fatta sì, com’a morte era nata..               C

            Dunche,sine peccata,                                             c

            in riso ogni suo doglia                                             d

            prescriver debbe alcun del suo defunto,             E

            se da fragile spoglia                                               d

            fuor di miseria in vera  pace è giunto                    E

            de l’ultim’ora  o  punto.                                            e

            Tant’esser de’ dell’amico il desio,             F

            qunte men val fruir terra di Dio.                              F

 

            Un madrigale consolatorio  anche nella forma discorsiva. Interessante l’inserimento del latino nel testo, il  “sine peccata” che ricorda certe usanze della Divina Commedia dantesca, che dà al madrigale un tono religioso oltre al contenuto sostanzialmente pio.

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            78)

                        Occhi mie, siate certi  (229)

 

            La morte è ineluttabile ma quando l’amata morirà niente di bello ci sarà da vedere quaggiù

            Occhi miei state certi  che il tempo passa e l’ora della morte si avvicina.,quell’ora  fatale che serra il passo.alle lacrme , che impedisce loro di sgorgare. Voi occhi  La divozione vi tenga aperti lmentre la mia divina donna si degna di restare sulla  terra ma se il cielo,  come suole fare con le anime dei beati,apre la sua grazia, se le fa la grazia di chiamarla e se questo mio sole vivente morendo l’anima sua torna lassù e si parte da noi che cosa avrete da vedere poi?

 

            Occhi mie, state certi                                              a

            che ‘l tempo passa  e l’ora s’avvicina                   B

            c’a le lacrime triste il passo serra              c.

            Pietà vi tenga aperti,                                               a

            mentre la mie divina                                     b

            donna si degna d’abitare in terra.              C

            Se grazia il ciel disserra,                            c

            com’a’ beati suole,                                      d

            questo mie vivo sole                                               d

,           se lassù torna e partesi da noi,                              E

            che cosa arete qui da veder poi?              E

 

            Subito un’allusione, gli “occhi mie” solo atti a piangere, lo fa capire senza dirlo. Il ritmo delle rime scorre piano per via delle rime baciate due a due salvo le prime tre e il ritmo del terzo verso aiutato dal punto in fondo al verso e dal nuovo finale fa fermare le lacrime ed il rimo generale. Un’altalena fra vita e morte, fra pianto e devozione, fra cielo e terra  fino alla desolazione finale.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            79)

                        Non è piu tempo,Amor,che ’l cor m’ifiammi   (231)

 

 

            Alla  fine della vita è tempo di pentirsi e pianger.e,

.           Non è piu tempo, o Amore, che il cuore si infiammi né che il cuore più goda di una bellezza mortale, è giunta l’ultima ora che il tempo  male impiegato nel peccato  più duole a chi ha meno tempo. La morte con i sioi grandi colpi diminuisce la forza del tuo braccio (si rivolge a sé stesso) mentre accresce la forza dei suoi bracci più che non è solita fare. I sogni e le parole passati e che furono a mio danno e da te infiammati (si rivolge sempre ad Amore) si tramutano in lacrime  e Dio voglia che io le versi insieme a tutti i miei peccati.

 

 

            Non è più tempo, Amor, che ‘l cor  m’infiammi                A

            né che beltà mortal più goda o tema                                 B

            giunta è già l’ora strema                                         b

            che ‘l tempo perso, a chi men n’ha, pià duole.             C

            Quante ‘l tuo braccio dammi,                                             d

            morte i gran colpi scema                                        b

            e ‘  sua accresce più che far non suole.                            C        

            Gl’ingegni e le parole                                                          c

            da te di foco a mio mal pro passat,i                                  E

            in acqua son conversi;                                                        f

            e Dio voglia c’or versi                                                         f

            con essa insieme tutti e’ mie peccati.                               E

 

            Un personale “miserere”, fra il sacro ed il profano, si rivolge prima ad Amore, terreno, ed infine nomina il volere e la misericordia di Dio.  Col verbo usato per chiudere il primo verso sembra proprio vedere l’improvviso ed imprevisto prender fuoco e le rime alternate fanno saltare dall’ieri all’oggi e dall’oggi all’ieri, fra la bellezza terrena e la  sperata gioia celeste, fra il peccato e la salvazione, fra il piacere dell’ieri ed il rimorso dell’oggi. La chiusa non è, come al solito, fatta con una rima baciata. va a ripescare la rima a’l quart’ultimo verso ,imponendo al madrigale un salto  insolito  dello spirito verso mete celest, in una chiusa piana e serena.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            80)

                        Non altrimenti contro a sé cammina  (232)

            Anche da vecchio Amore lo perseguita

            Non altrimenti contro la sua volontà cammina come sto io facendo contro la morte chi  è tratto con forza  perché  condannato  da  una  corte  severa  ma giusta  al patibolo dove l’anima lascia la vita, il cuore,    

tanto mi è la morte vicina salvo il fatto che il mio restante tempo trapassa più lento. Non per questo Amore mi lascia viver un’ora senza due pericoli per i quali sono sempre nel  dormire e nel vegliare: la speranza che si mostra umile e di poco conto nel primo pericolo mi dà preoccupazione per l’anima mia e nell’altro pericolo mi dà fiducia infiammandomi d’amore  purché sia stanco e vecchio:.Neanche so quale sia il minore od il maggior danno ma temo ancora di più che con i tuoi sguardi  più alla svelta mi uccidi, quanto più tardi vieni, cioé se vieni quando sia io più vecchio, che tu Amore mi uccida e non mi dia il tempo di pentirmi.

 

 

            Non altrimenti contro a sé cammina                                  A

            ch’ i mi facci alla morte,                                                      b

            chi è da giusta corte                                                            b

            tirato là dove l’alma il cor lassa;                                         C

            tal m’è morte vicina,                                                a

            salvo più lento el mie resto trapassa.                                C

            Né per questo mi lassa                                                       c

            Amor viver un’ora                                                    d

            fra duo perigli, ond’io mi dormo e veglio:             E

            la speme umile e bassa                                                     c

            nell’un forte m’accora,                                                         d

            e l’aqltro parte m’arde, stanco e veglio.                            E

            Né so ‘l men danno o ‘l meglio                                           e

            ma pur più temo, A mor, che co’ tuo sguardi                      F

            più presto ancide quando vien più tardi.                           F

 

            Aleggia, non detta, la paura della “morte secunda” di francescana memoria. E’ un trascinarsi zoppicando fino all’utimo verso, il rtmo l’accompagna, severo. La tentazione incombe. ma ancor più il timore di morire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

                                                                                 

                                                                                 

           

                                                                                 

            81)

                        Tanto non è, quante da te non viene, (234)

 

             Non vede altro che lei la quale da parte sua con  la sua grazia può sottomettere cielo e terra.

            Non c’è nient’altro che non venga da te  che,  come riflessa da uno specchioai miei occhivenga una

 visione alla qual cosa il mio cuore ormai stanco cede; che se vede un’altra bellezza. gli pare vedere la morte, o donna mia, se non ti somiglia è come un vetro non bene riprende il suo oggetto senza un’altra scorza (se non è trattato nel dietro come si deve per farne uno specchio). Esempio di una vera meraviglia ben sarà  a chi  non spera più di sver il tuo aiuto  al suo infelice stato se i begli occi tuoi e le tue ciglia insieme alla tua pietà tu ri volgi a me per farmi così tardi, essendo io già vecchio, ma anche adesso puoi farmi beato;. nato per essere in miseria,se al feroce destino prevale grazia e fortuna, facendo tu questo,  sarai vittoriosa  sul cielo e la terra.  

 

           

            Tanto non è, quante da te non viene,

            agli occhi specchio, a che ‘l cor lasso cede;

            che s’altra beltà vede,

            gli è morte, donna, se te non somiglia,

            qual vetro che non bene                                                                

            senz’altrascorzaognisu’obbiettopiglia .   .
            Esemplo e maraviglia

            ben fie a chi si dispera

            della tuo grazia al suo ‘nfelice stato,

            s’ e’ begli occhi e le ciglia

            con tuo pietà vera

            vulgi a far me sì tardi ancor beato:

            a la miseria nato,

            s’al fier destin preval grazia eventura,

            da te vinto il cielo e la natura

           

            Un insieme di abbreviazioni e di voli pindarici in questo madrigale, ne è esempio mirabile quel “agli occhi specchio”. Bellissimo poi il paragone del vetro  che non essendo specchio, non riflette l’immagine ed è un  mettere insieme e ciò di cui parla, lo specchio, e la donna specchiata e la donna amata. la finale del madrigale sembra voler dire che l’amore fa perdonare il peccato se dato da una donna virtuosa.quasi parafrasando il Dantedella ”Vita nova”.Il metaritmo fa da corona al canto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            82)

                        Un uomo in una donna,anzi uno dio

 

            Niente è pari a lei da quando l’ha vista è morto a sé stesso ed anche le altre donne sono per lui morte. Ma è meglio così.

            Un uomo in una donna anzi un dio parla per sua bocca onde, per ascoltarla, divento tale che mai più sarò io. Credo bene  dopo che io fui rubato a me stesso da lei, di avere pietà di me  fuorché di me stesso così tanto il suo bel volto  mi  spinge al disopra il mio vano desiderio che io vedo morte in ogni altra bella donna. O donna che nei giorni che sono tuttavia lieti  purgate le anime facendole piangere e le infiammate d’amore, fate però che io non torni più in me stesso.

 

 

            Un uomo in una donna,anzi uno dio                      A

            per la sua bocca parla,                                           b

            ond’io per ascoltarla,                                              b

            son fatto tal, che ma’ più sarò mio             A

            I’ credo ben, po’ ch’io                                              a

            a me da lei fu’ tolto,                                     c

            fuor di me stesso aver di me pietate;                    D

            sì sopra ‘l van desio                                     a

            mi sprona il suo bel volto,                           c

            ch’ i’ veggio morte in ogni altra beltate.                D

            O donna che passate                                              d

            per acqua e foco l’alme a’ lieti giorni,                   E

            deh, fate c’a me stesso più non torni                    E

 

 

Simbolo, queso madrigale, di tante altre rime di Michelangelo specie nel primo verso.sconvolgente che la donna amata contenga anche un  maschio, anzi un dio, il suo amore va al dilà della comune sessualità, è come l’amore per un dio che contenga le due forme insieme e di fronte a lei-lui tutto scompare, niente ha più valore nell’amore che tutto sconvolge. Splendido il verso finale , meglio essere non più sé stessi  che non essere innamorati. Bella la concatenazione delle poche rime e la musicalità insieme al danzare dei ritmo dei due settenari che seguono l’endecasillabo, per ben tre volte a fila,  ritmo che si accresce con il solo settenario prima dei due endecasillabi finali; un ardito balzare di ruscello che si placa, dopo il balzo finale, nella quiete di un lago,

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            83)     

                        Sol d’una pietra viva (240)

                                              

            La natura dovrebbe far vendetta dell’operato di sé stessa.

            Scolpita in una pietra in maniera tale che sembra  viva l’arte mia umana vuole che il suo volto qui rappresentato viva lo stesso tempo degli anni di lei..Cosa dovrebbe fare il cielo di lei  essendo mie queste brutte fattezze, ed io sono mortale,  mentre lei non è un essere mortale ma è un essere fatto da Dio non soltanto ai miei occhi? Eppure il tempo passa via ed in breve termine. Da un lato il suo destino è manchevole, se un sasso scolpito resta e la morte gli affretta il tempo a lei che pure è divina. chi ne farà vendetta? Soltanto la natura, se dei due nati insieme soltantola mia opera dura mentre la morte ruba il suo tempo.

                                  

 

            Sol d’una pietra viva                                                a                    

            l’arte vuol che qui viva                                             b

            al par degli anni il volto di costei.               C.                   

            Che dovria il ciel di lei,                                            c

            sendo mie, e quesa suo fattura,                            D

            non già mortal, ma diva,,                             a

            non solo agli occhi miei?                            c

            E pur si parte e picciol tempo dura.                      D

            Dal lato destroè zoppa sua ventura,                      D

            s’un sasso resta e pur lei morte affretta.            E

            Chi ne farà vendetta?                                              e

            natura sol, se dei due nati sola                              G

            l’opra qui dura, ela suo l tempo invola.                  G

 

           

            L’iperboe amorosa della “Vita nova” è niente nei confronti di quella di queste “Rime”, lui scultore  affermato scolpisce l’immgine di lei che dura dipiù dell’immgire carnale di lei che la morte può ben distruggere, Il metartmodelle rime scorre scorre piano ma sembra inciampare al settenario dell’undicesimo verso che così fa risaltare la parola inaspettabile“vendetta” come anche la vocalità dell’ultima parola “invola esprime magistralmente la apidità del tempo che fugge.. Per ciò che riguarda l’uso della stessa parola”viva” nella rima dei primi due versi si deve notare che l’una e un aggettivo e l’altra un verbo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            84)

                        Negli anni molti e nelle molte pruove  (241)

 

 

            Provando e riprovando, sembra dire.ed anche: andare avanti per tentativi ed errori.

            Per molti anni e con molti tentativi chi sa fare arriva ad una buona esecuzione  di un bun ritratto che sembri vivo soltanto quando è vicino alla morte, lavorando in una pietra che viene da un alto monte ed è dura a scolpire , ed a queste ultime cose di alto livello arriva tardi, e dopo poco viene a morte. Allo stesso modo la natura nel tempo, da un volto all’altro se errando tantissime volte è arrvata a fare la tia bellezza divina che  già la natura è vecchia e già deve perire per la qual cosa io temo,anche per la tua bellezza, il mio desiderio si nutre di un delirante cibo,né so pensare né dire quale nuoccia o mi giovi dipiù visto come mi appare se io tema di più la fine dell’universo oppure la fine del mio piacere per aver compiuto la mia opera.

 

 

            Negli anni molti e nelle molte pruove,                                A

            cercando, il saggio a buon concetto arriva                        B

            d’un’immagine viva,                                                b

            vicino a morte, in pietra alpesre e dura;                           C

            c’all’alte cose nuove                                                a

            tardi si viene, e poco poi  si dura.                         C

            Similmente natura,                                                  c

            di tempo in tempo, d’uno in alì¥ÁI


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8L<ortuna ria                                                        c

            contr’a chi basso vola,                                                        d

            girando, trionfar d’alta ruina;                                              E

            ché mie benigna e pia                                                        c

            povertà nuda e sola,                                                            d

            m’è nuova verza e dolce disciplina:                                  E

            c’a l’alma pellegrina                                                e

            è più salute, o per guerra o per gioco,                              F        

            ognor perdere assai che vincer poco.                              F

 

 

            l contrasto interiore, fra ciò che vorrebbe fare e non fa, si risolve nel pacato finale di questo madrigale seppur la lotta interna si mostra nel suo ritmo contrastato. La sintassi stessa talora denunzia un’arrovellarsi dell’autore,  utile a far comprendere il senso delle parole, il paradosso che accetta. Anche le durezze grammaticali danno il loro contributo.

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            87)

                                   -Se’l volto di ch’i’ parlo, di costei,  (245)

 

            Un dialogo intentato con A more.

            -Se il volto di chi parlo , di costei , non avessi visto negarmi gli occhi suoi, o Amore, quale prova   di più ardente fuoco di passione mi potresti far sostenere se pur non vedendo meglio lei cn i suoi occhi tu ancora , e non poco mi infiammi?  La parte minore del giocp ce l’ha chi non perde nulla, se nel desiderare rende vano ogni deaiderio, in uno che è sazio la seranza non rinverdisce se non spera nella dolcezza falsa che risiede in ogni  sofferenza amorosa. -Anzi voglio ancora parlare sulla speranza: se a quello che spero  mi offre una grande abbondanza di beni, la tua mercede non smorza il mio  desiderio delle cose del cielo.

            Il madrigale in esame ricalca i temi del precedente.

 

            “Se’l volto di ch’i’ parlo, di costei,              A                                

            no’ avessi  negati gli occhi suoi,                B

            Amor, di me qual poi                                               b

            pruova faresti di più ardente foco,             C

            s’a non veder me’ di lei                                           a

            co’ suo begli occhi tu m’ardi e non poco?”            C

            “La men parte del gioco                             c

            ha chi nulla perde,                                        d

            se nel desir vaneggia ogni desire             E:                   

            nel sazio non ha loco                                               c

            la speme e non rinverde                             d

            nel dolce che preschive ogni martire.”                  E

            “A nzi di lei vo’ dire:                                     e

            s’a quel c’aspiro suo gran copia cede,                 F

            l’alto desir non quieta tuo mercede.”                     F

 

            Parla con se stesso e si risponde facendo finta di parlare con Amore, l’amore interiore che ancora lo tenta,sembra che tornino alla mente le antiche parole del Savonarola. Lo stesso contenuto del precedente ma drigale portano all stessa metrica ed allo stesso ordinarsi della rima.bello e sintetico nella forma grammaticale e sintattica quel “s’a veder me’ dilei-co’ suo begli occhi che esprimono la resa dolente dell’artisra e la causa; cosiccome il verbo “preshive”al dodicesimo verso dà la sensazione di un neologismo :lo “ schivare prima che avvenga il fatto” ed una vera sintesi lessicale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

            88)

                        Te sola del mie mal contenta veggio,  (246)

 

 

            Quali pene d’amore gli fa soffrire la sua donna bella e crudele!

            Vedo soltanto te contenta dei miei malanni eppure ti chiedo  soltanto di poterti amare;non c’è pace in se senza che io pianga  per causa tua, e la mia morte per te non è il mio male peggiore. Che se io metto in pari il mio dolore alla tua volontà altera di farmi del male, per fuggire da questa vita quale spietato aiuto mi viene   se non un aiuto che mi uccide e mi strazia e che poi non vuole che io muoia?( che mi vuol fare vivere continuando a soffrire) Perché tanto si fa presto a morire quanto è lento il durare della tua feroce crudeltà. Ma chi patisce a torto spera sempre non meno nella pietà che nella giustizia.

 

 

            Te sola del mie mal contenta veggio,

            né d’altro ti richieggio amarti tanto;

            non è la pace tua senza il mio pianto,

            e la mia morte a te non è ‘l mie peggio.

            Che s’io colmo e pareggio

            il cor di doglia alla tua voglia altera,

            per fuggir questa vita

            qual dispietate aita

            m’ancide e straziae non vuol poi ch’io pera?

            Poiché il morire è corto

            a lungo andar di tua crudeltà fera.

            Ma chi patisce a torto

            non men pietà che gran giustizia spera.

 

 

 

            “veggio” e “richieggio” due parole in forzata rima che si vogliono somogliare per le lacrime versate in ambedue le circostanze,  la seconda a mezzo verso a preludere il “amarti tanto”  sempre doloroso e pregno di pianto ed il pianto, la morte, il dolore la fanno da padroni nei solenni quattro endecasillabi dell’inizio del madrigale che poi si svolge più cortese anche se sempre drammatico per giungere alla quiete finale in cui spera pietà e giustizia per chi patisce, sembra con altre parole echeggiare il”beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno sfamati” non c’è più una speranza terrena ma la speranza nella grande misericordia divina nell’abbandonare l’amore terreno, ché or non è più tempo di seguire.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            89)

                        Te sola del mio mal contenta veggio,   (246)

 

            La sua donna crudele sta bene solo se lui sta male

            Vedo te soltanto contenta del mimale, né di altro ti chiedo  che  solamente volerti bene; non sei in pace senza vedermi piangere e la mia morte secondo te non è la cosa peggiore per me. Che se riempio il mio cuore e faccio   pari alla tua voglia orgogliosa, per fuggire questo modo di vivere, qule crudele aiuto  mi uccide straziandomi e nello stesso trmpo non vuole ce io perisca? Perché il morire dura poco rispetto  alla lunghezzdella tua feroce crudeltàa. Ma chi patisce a torto non spera meno nell’indulgenxa di quanto  di più nella  giustizia.

 

            Te sola del mio mal contenta veggio,                               A

            nè d’altro ti richieggio amarti tanto;                                   B

            non è la  pace  tua sanza il mio  pianto                             B

            e la mia morte a te non e ‘l mie peggio.                           C

            Che s’io colmo e pareggio                                     c

            il cor di doglia alla tua voglia altera,                                  D

            per fuggir questa vita,                                                         e

            qual dispietata aita                                                  e

            m’ancide e strazia  e non vuol poi  ch’io pera?             D

            Perché il morire è corto                                                      f

            al lungo andar di tua crudeltà  fera.                                   D

            Ma chi patisce a torto                                                         f

            non men pietà che gran iustizia spera.                             D

 

            Sembra che anche a questo madrigale manchi del consueto finale a rima  baciata, che però lo chiude con maggior fermezza; la rima dell’ultimo verso  è ripetuta in precedenza ben tre volte  su dodici versi( “spera” e “fera”, “pera”, “altera”). Il madrigale si stende con solennità  di ritmo, otto endecasillabi  contro  soli cinque settenari., versi lunghi per un lungo soffrire e morire la rima dell’ultimo verso  è ripetuta in precedenza ben tre volte  su dodici versi( “spera” e “fera”, “pera”, “altera”), la rima  poi dell’ultimo verso  è ripetuta in precedenza altre tre volte  su dodici versi( “spera” e “fera”, “pera”, “altera”).. Il ripetere della prima rima a metà del secondo verso fa quasi  soffermare su “amarti tanto” seguente che obbligatoriamente viene scandito  e sottolineato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

             90)

                        “Per molti, donna, anzi per mille amanti    (249)

 

            Sembrano,nella prima parte, riecheggiare ancora  le parole contro i Medici del Savonarola.

            “Fosti fatta per molti, anzi per mille persone innamorate di te, ed anche fatta in una forma angelica, ora sembra che  tu dormendo   in cielo non pensi  più, se uno solo , uno dei Medici, si è appropriato di te che fosti fatto per essere data a tanti. Ritorna da noi che siamo in lacrime e riportaci il sole degli occhi tuoi che sembra non volere illuminare e riscaldare chi caduto in questa mancanza misera del tuo sole.” 

“Deh, non turbate i vostri santi desideri perché colui che sembra che vi spogli e vi privi di me non gode di questa gran ruberia, che ha commesso, per via della grande paura che lo prende e perché fra chi ama vive  meglio chi frena gran parte del suo desiderio che quelli quelli che stando in una grande miseria sono pieni di speranza.”

             Parole che vogliono indurre alla rassegnazione.

 

            “Per molti, donna, anzi per mille amanti                            A

            creata fusti, e d’angelica forma;                                        B

            or par che ’n ciel si dorma,                                                 b

            s’un sol s’appropria quel ch’è dato a tanti.                        A

            Ritorna a’ nostri pianti                                                         a

             il sol degli occhi tuo, che par che schivi               C

            chi del suo dono in tal miseria è nato.”                             D

            ”Deh, non turbate i vostri desir santi,                                 A

            ché chi di me par che vi spogli e privi,                              C

            col gran timor non gode il gran peccato;              D

            ché degli amanti è men felice stato                                   D

            quello, ove il gran desir gran copia affrena,                      E

            c’una miseria di speranza piena.                          E

             

            I molti endecasillabi di questo madrigale gli danno un tono predicatorio e sussiegosamente declamatorio, non spontaneo. Neanche il metaritmo della rima è spigliato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            91)

                        Perch’è troppo molesta,   (252)

 

 

            Madrigale cortese, ma non troppo secondo la mia suscettibilità, sembra dire all’inizio, a causa di una erta superbia, il contrario di quello che ci sarebbe da dire con riconoscenza, a seguito di una grande cortesia ricevuta da un amico in conseguenza di una malattia di Michelangelo.

            Anche se l’amore sia dolce, quella ricompensa che è solita legare i nostri sentimenti mi è troppo molesta e il mio spirito libero più che per un furto si lamenta e si duole di questa vostra alta cortesia. E come un occhio che, costretto a guardare, si fissi nel sole annulla la capacità di vedere che all’occhio dovrebbe essergli  veramente a causa di una maggiore luce così la mia natura datami dal destino non vuole imperfetta dentro  la riconoscenza mia interiore che crebbe  per merito vostro. Poiché spesso il poco  necessario spesso si allarga nel troppo e questo troppo non perdona questo allargarsi, giacché l’amore accetta soltanto gli amici simili e pari per fortuna e virtù, per la quale ragione sono tanto rari. E’ così che riconosce l’amico superiore a lui stesso.

 

 

            Perch’è troppo molesta,                                         a

            amor che dolce sia,                                                 b         

            mie libertà di questa                                                           A

            vostr’alta cortesia                                                    b

            più che d’un furto si lamenta e duole.                                C

            E com’occhio nel sole                                                         c

            disgrega suo virtù ch’esser dovrebbe                               D

            di maggior luce, s’a vederne sprona,                                E

            cos’ì ‘l destin ,non vuole                                          c

            zoppa la grazia in me, che da vo’ crebbe.                        D

            Ché ‘l poco al troppo spesso s’abbandona,                       E

            né questo a quel perdona:                                      e

             c’amor sol gli amici. onde son rari,                                  F

            di fortuna e virtù simili e pari.                                             F

 

            La cortesia del madrigale è precisata dai settenari ripetuti all’inizio che danno piacevolezza, anche se ostentata, già nei primi quattro versi, ed il successivo susseguirsi delle rime gli dà il suo  contributo.

                                                          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            92)

                        S’i’ fussi stato ne’prim’anni accorto   (253)

            Se ci avessi pensato prima!

            Se fossi stato avveduto negli anni giovanili  del fuoco, cheora mi arde nel più profondo dell’animo ora nel più profondo dell’animo, allora mi ardeva superficialmente, con un male minore non che avrei spento quel fuoco ma almeno avrei privato dell’anima  il mio debole cuore  o del colpo ricevuto, ora che è morto; ma soltanto ne ha colpa il mio errore primo  O anima infelice se nelle prime ore, in gioventù  nessuno si è mall difeso, da utimo, quando sono già vecchio sento il bruciore intenso e muoio a causa del fuoco acceso prima : ma se accade che non può non essere bruciato e colpito chi è in età giovanile, ora, che c’e il lume della ragione e lo specchio della verità, basta un fuoco meno forte a distruggerlo del tutto lui che è stanco e vecchio.

 

            S’i’ fussi stato ne’prim’anni accorto                                  A

            del fuoco, allor di fuor, che m’arde or dentro             B

            per men mal , non che spento                                            c

            ma privo are’ dell’alma il debil core                                  D

            o del colpo, or ch’è morto;                                      a

            ma sol n’ha colpa il nostro prim’errore.                             D

            Alma infelice, se nelle prim’ore                                          D

            alcun s’e mal difeso,                                                           e

            nell’utim’arde e muore                                                        d

            del primo foco acceso:                                                       e

            ché chi non può non esser arso e preso               F

            nell’età verde,c’or c’è lume e specchio,                            G        

            men foco assai ‘l distrugge stanco e vecchio.                     G

 

           

            Un ripensamento intimo notturno mentre non può dormire, come scrive sotto il madrigale, ripensamenti  nella vecchiaia , avrebbe potuto sì morire perché privato dell’anima per il dolore mentre ora è morto solo spiritualmente il che è peggio, sembra affacciarsi come in tante altre volte la”morte secunda”. L’andare poetico sembra, come un vecchio, zoppicare e ripensare specie al terzo verso il cui finale non in rima ma è in assonanza col verso precedente (“spento” e “dentro”) insieme all’insistere della stessa rima in due versi successivi  cambiandola  in altra magari pescandone una lontana, senza cambiarla in una non esistente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

           

                                                          

            93)

                        Donn’a me vecchio e grave   (254)

 

 

            L’ultimo ripensamento rivolto a chi lo turbò in gioventù e l’ultima, suo malgrado, decisione; se non fosse vecchio forse potrebbe ricascarci.

            Donna, a me che sono pesantemente triste il cielo mi porge le chiavi percui io ritorno e rientro dentro nel tempo passato come al peso si permette di trovare il centro fuori del quale il peso non ha riposo. .Amore le infila e gira e apre ai fortunati il petto di lei, a me vieta le voglie inique e perverse ma mi spinge, anche se sono stanco e pauroso,  fra i i rari semidei. Piacevolezze vengono da lei strane ma nello stesso tempo dolci tali che chiunque per lei e per le sue dolcezze è morto vive  lui stesso, chi rifiuta le sue dolcezze trova la sua vita eterna.

            L’amore si addice ai giovani.

 

 

            Donn’a me vecchio e grave,                                  a

            ov’io torno e rientro                                      b

            e come a peso il centro                                          c

            che fuor di quel riposoalcun non have,                  A

            il ciel porge le chiave,                                             a

            Amor le volge e gira                                    d

            e apre a’iusti il petto di costei;                               E

            le voglie inique e prave                                           a

            mi vieta e là mi tira,                                     d

            già stanco e vil, fra ‘ rari e semidei.                      E

            Grazie vengon da lei                                               e

            strane e dolce  e d’un certo valore,                       F        

            che per sé vive chiunche per le’ more.                  F

 

            Un ripetuto ricordare e ripescare la prima rima come ricorda e ritorna all’antico amore , è come il fermarsi al centro del suo roteare del filo a piombo consueto  allìoperare di Michelangelo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            94)

                        Mentre i begli occhi giri  (255)

 

 

            Gli occhi sono la finestra dell’anima.

            Mentre giri i tuoi occhi intorno a me e sei vicina, o donna,in loro  specchiandomi vedo me stesso, quanto tu vedi te stessa tanto quando ti specchi nei miei.  Come io sono, imbruttito dagli anni e dai martirii dell’amore, quei tuoi occhi mi rispecchiano totalmente mentre i miei guardandoli ti trasforma in più che lucente stella. Ben sembra che si adiri il cielo che io specchiandomi in così begli occhi mi veda così brutto ed i nei miei occhi brutti, guardandoti  ti veda così bella; né è meno crudele e traditrce dentro di me c’è la ragione per cui attraverso loro mi trapassi fino al cuore e l’altra che il tuo cuore  mi serri fuori. Perché la tua grande facoltà è tale che, attraverso uno che è minore a te ,aumenta la tua durezza  in quanto l’amore vuole un pari stato e una pari giovinezza.

 

 

            Mentre i begli occhi giri,                              a

            donna,ver’ me da presso,                           b

            tanto veggio me stesso                                          b

            in lor, quante ne’ mie te stessa miri.                      A

            Dagli anni e da’ martiri                                           a

            qual io son,quegli a me rendono in tutto,            C

            e’ mie lor te più che lucente stella.             D

            Ben par che ‘l ciel s’adiri                            a

            che ‘n sì begli occhi i’ mi veggia sì brutto,            C

            e ne’ mie brutti ti veggia sì bella;                D

            ne’ men crudele e fella                                            d

            dentro è ragion,c’al core                             e

            per lor mi passi, e quella                             d

            de’ tuo mi serri fore.                                    e

            Perché ’l tuo gran valore                             e

            d’ogni men grado accresce suo durezza,            F

            c’amor vuol pari stato e giovanezza.                     F

           

 

Le allusioni ed i sottintesi fanno una sintassi ed una grammatica personale. L’articolazione della rima è

scorrevole nei primi quattro versi adeguandosi al siignificato piano e semplice del contenuto mentre si fa più complicata nel resto, articolato in diseguali terzine fino alle due rime baciate finali che, con questi quattro versi chiudono il madrigale quasi frenandonelo srotolarsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            95)

                        S’alcuna parte in donna è che sia bella,    (256)

 

 

            L’amante non può vedere la eventuale bruttezza dell’amata, è bello ciò che piace.

            Se qualche parte in una donna che sia bella mentre le altre parti siano brutte debbo amarle tutte le parti per il grande piacere che prendo di quella parte sola?La parte brutta che si appella alla ragione, mentre ne attrista il mio gioire,vuole anche che la non volontaria mancanza sia scusata ed amata. Amore, che mi parla del dispiacere del vedere quella parte brutta, tutto irato suole dire che dove comanda non è possibile che  si attenda o si invochi la ragione. Ed il cielo vuole che io desideri quello che desidero e che non c’è posto per un’inutile pietà perché l’uso della vista da parte di chi ama risana ogi malefatto della natura.

 

 

            S’alcuna parte in donna è che sia bella,               A,

            benché l’altre sien brutte,                            b

            debb’io amarle tutte                                    b

            pel gran piacer ch’i’ prendo sol di quella?            A

            La parte che s’appella,                                           a

            mentre il gioir n’attrista,                                          c

            a la ragion,pur vuole                                    d

            che l’innocente error di scusi e ami.                      E

            Amor, che mi favella                                                a

            della noiosa vista,                                        c

            com’irato dir suole                                       d

            che nel suo regno non s’attenda o chiami.             E

            E ‘l ciel vuol ch’i’ brami                                           e

            a quel che spiace non sie pietà vana:                   F

            che l’uso agli occhi ogni malfatto sana.                F

           

           

            Madrigale un po’ fiacco,un po’ stiracchiato sia per il non travolgente contenuto sia anche per la forma, tutto diventa lezioso e non originale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                       

 

 

 

 

            96)

                        Quantunque sia che la beltà divina  (258)

 

 

            La lontananza attutisce l’amore, l’ha cantato anche Modugno.

            Quantunque sia la divina bellezza a manifestarsi col mostrare il tuo bel volto umano, o donna, il piacere che mi viene dal tuo viso che sempre mi è  lontano non mi basta, tanto che non mi parto dal tuo volto,  perché alla mia anima pellegrina su questa terra è duro ogni altro sentiero che è sempre, per me, in salita e difficoltoso. Per questo scompartisco il tempo del giorno e della notte, di giorno uso gli occhi e la notte ti sogno col sentimento del cuore, senza alcun intervallo in cui io aspiri al cielo, senza mai rivolgermi alle cose divine. Se il destino che mi fece nascere mi fa fermare al tuo splendore che non lascia che i miei ardenti desideri di andare in alto, che non c’e altro che mi tiri la mia mente al cielo o per gazia o per merito, tardivamente, lentamente il cuore ama ciò che il cuore non vede.                                                                                   

           

            Quantunque sia che la beltà divina                        A

            quì manifesti il tuo bel volto umano,                       B

            donna, il piacer lontano                                           b

            mi è corto sì, che del tuo non mi parto,                 C

            c’a l’alma pellegrina                                    a

            gli è duro ogni altro sentiero erto o arto.            C

            Ond’il tempo comparto                                           c                                                                                 per gli occhi il giorno e per la notte il core,            D

            senza intervallo alcun c’al cielo aspiri.                  E

            Sì il destinato parto                                     c

            mi ferm’al tuo splendore,                            d

            c’alzar non lassa i mie ardenti desiri,                    E

            s’altro non è che tiri                                     e         

            la mente al ciel per grazia o per mercede:            F

            tardi ama il cor quel che l’occhio non vede.  F

                                                                                 

 

            Mentre le rime dei ripensamenti intimi della vecchiaia sono arrovellate ma spendide quelle amorose sono flebili e stanche come questa. E’ un arrampicarsi sugli specchi,le rime escono piene sì di gentilezza ma gentilezza troppo leziosa e studiata, non di getto, quell’ erto o arto” del sesto verso ne è la prova. anche se non mancano, qua e là, versi scintillanti, vedi, ad esempio, quel “per gli occhi il giorno e per la notte il core”.  Sempre il metaritmo delle rime è saltellante,e l’effetto è dato dalla diversità di ritmo e di lunghezza dei versi. Alquanto abborracciato e frettoloso il finale che nello scorrere del discorso sembra troppo non finito ed il quartultimo verso che pare strascinarsi con una sillaba in più, come zoppo sembra il sesto verso che con tutte le sue elisioni manca una battuta..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            97)

                        Amor se tu se’ dio  (262)

 

            Chiede ad  Amore,  che è sempre giovane, di pensare allo stesso modo suo, lui che è già vecchio.

            Amore se tu sei un dio non puoi fare ciò che vuoi? Deh fa’ per me, se tu puoi, ciò che io farei per te se io  fossi un dio. Non si confà. a chi desideri troppo, lo sperare in una grande bellezza, ed ancor di più il buon risultato di tale speranza è sconveniente per chi è vicino alla morte. Metti in ciò che ti piace ciò che piace a me, pensa come me, ad uno gli sarà dolce ciò che lo strizza? dacché un favore che dura poco raddoppia lo star male. Ed anche ti voglio dire come sarebbe la morte a chi muore giunto alla sua più  alta sorte  segià ai miseri  è dura?

 

            Amor se tu se’ dio,                                      a

            non puo’ ciò che tu vuoi?                            b

            Deh fa per me, se puoi,                                          b

            quel ch’i’ fare’per te,s’Amor, fuss’io.                     A

            Sconviensi al gran desio                            a

            d’alta  beltà la speme,                                             c

            vie più l’effetto a chi press’al morire.                     D

            Pon nel tuo grado il mio:                             a

            dolce gli fie ch’il preme?                             c

            Chè grazia per  poc’or doppia ’l martire.              D
            Ben ti voglio ancor dire:                                          d

            che sarie morte, s’a miseri è dura,                        E

            a chi muor giunto all’alta suo ventura?                  E

 

            i molti settenari danno brio al ritmo generale di questo componimento sia nei primi quattoversi sia nei successivi sei ,due terzine con la stessa rima, fomate da due settenari seguiti da un endecasillaboil terzultimo verso, un settenario a rima baciata con l’endecasillabo precedente, prepara la chiusa finale. Il discorso si svolge piano e chiaro pur nei  ricercati contrasti, anche se non eroici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            98)

                        La nuova beltà d’una   (263)

 

 

La  bellezza di una nuova  donna mi sprona mi toglie i freni del ritegno, mi flagella però  non solo  è passato terza  ma anche nona e vespro ed è prossima  la sera. Il  mio parto (la mia nascita) ed la mia sorte, l’uno scherza con la morte e l’altra non mi può dare qui una pace piena. Io che avevo messo d’accordo la testa canuta insieme con i molti anni ,già tengo in mano il pegno dell’altra vita, ciò che per quella  promette un ben contrito cuore. Nell’ultima partita più perde chi ha meno timore di Dio, fidandosi del  proprio ardimento contro l’usato ardore amoroso : se alla memoria non resta l’esperienza non giova l’essere vecchio , se non ha la grazia di Diio.

 

                                              

            La nuova beltà d’una                                               a

            mi sprona,sfrena e sferza                           b                                

            né sol  passato  è terza                                           b

            ma nona e vespro, e prossim’è la sera.               C

            Mie parto  e mie fortuna                              a

            l’un co’ la morte scherza,                            b

            nè l’altra dar mi può  qui  pace intera.                   C

            I’ c’accordato m’era                                    c

            col capo bianco e co’ molt’anni insieme,            D

            già l’arra in man tene’ dell’altra vita,                      E

            qual ne promette un ben contrito core.                  F

            Più perde chi men teme                                         d

            nell’ultima partita,                                         e

            fidando sé nel suo propio valore                F

            contr’a l’usato ardore:                                             f

            s’a la memoria sol resta l’orecchio,                      G

            non giova,senza grazia, l’essere vecchio.            G

 

            Le molte rime che si svolgono in questo madrigale manifestano il susseguirsi dei pensieri di Michelangelo già vecchio e stanco di combattere con le passioni, e si alternano con studiata maestria accompagnate dal ritmo veloce dei settenari che si placa nel ritmo più blando degli endecasillabi. frasi scultoree si susseguono, vedi “ma nona e vespro, e prossim’è la sera” il ristingimento grammaticale ”prossim’è” dà l’idea del rapido incombere della morte o “col capo bianco e co’ molt’anni insieme”  o “qual ne promette un ben contrito core” ed altre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            99)

                        Come portato ho già più tempo in seno  (264)

 

 

            Dopo la morte della donna amata, la natura dovrà fare  una  nuova donna a lei somigliante affinchè la terra non rimanga priva della immagine di lei.

Come  ho  portato  per  tanto  e  più  tempo la  tua immagine nel seno, o donna, ora  che la morte si avicina, Amore mi stampi, come un privilegio, la sua anima, la quale  sia  felice  di  deporre  la  sua salma  pesante che fu il suo carcere terreno,  sicura, sia che  il tempo faccia tempesta o che sia bello, col segno della croce  che  diventi il  segno contro i suoi nemici, e ritorni, lei modella per fare gli angeli che  nell’alto del cielo brillano, in quel cielo dove ti  rubò  la natura,  la quale  dovrà imparare a rifare nel  mondo  un’anima  rinvoltata dalla  carne, e  così, dopo te resti qui in terra il tuo bel volto ancora..                                                                                                                                                                    

            Come portato ho già più tempo in seno                           A

            l’immagin, donna del tuo volto impressa,                         B

            or che morte s’appressa,                                       b

            con previlegio Amor ne stampi l’alma,                              C

            che del carcer terreno                                                         a

            felice sia ‘l dipor suo grieve salma.                                   C

            per procella o per calma                                         c

            con tal segno sicura,                                                           d

            sie come croce contro a’ suo avversari;                           E

            e donde in ciel ti rubò la natura,                             D

            ritorni, norma agli angeli alti e chiari,                                E                                                       

            c’a rinnovar s’impari                                                            e

            là sù pel mondo un spirto in carne involto,                        F

            che dopo te gli resti il tuo bel volto.                                   F

 

            Una splendida poesia amorosa, un ultimo desiderio, un’ultima speranza con parole serene anche se piangenti, ed i singhiozzi son dati dal variare della lunghezza del verso e dal variare della rima che sembra inconsueta, ed il simbolo della croce rimanda alla battaglia di Costantino contro Massenzio di Piero della Francesca vista ad Arezzo; il suo rimpianto va tanto alle di lei fattezze umane quanto, e vieppiù all’immagine della di lei anima, le fattezze umane restino alla terra. Dall’immagine dell’anima che Amore gli dona con un salto passa alla vera anima di lei e quel salto si avverte .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            100)

                        Per non s’averea ripigliarda tanti    (265)

 

            L a bellezza della donna amata sarebbe stata bastevole per fare belli tutti i mortali.

            Per non avere da riprendere da tanti quella quantità di bellezza che non c’era sulla faccia della terra da tanti fu prestata e Dio ne fece una donna alta e sincera sotto il candido velo del suo corpo, che se avesse dovuto riscuotere quella bellezza da quanti sono al mondo il cielo sarebbe stato ricompensato male.Ora in un breve ultimo respiro, anzi in un momento, Dio, dal mondo poco sagace,se l’è ripresa e l’ha tolta ai nostri occhi. Però non può mettere nel dimenticatoio, benché il corpo di lei sia morto, i suoi scritti soavi leggiadri e mistici. Una crudele misericordia qui mostri  che se quella bellezza il cielo la prestava a chi è brutto , se ora  con la di lei la rivuole, adesso morremo tutti.

 

            Per non s’avere a ripigliar da tanti                        A

            quell’insieme beltà che più non era,                                  B

            in donna alta e sincera                                                        b

            prestata fu sott’un candido velo,                            C

            c’a riscuoter da quanti                                                        a

            al mondo son,mal si rimborsa il cielo.                               C

            Ora in un breve anelo,                                                         c

            anzi in un punto,Iddio                                                           d

            dal mondo poco accorto                                         e

            se l’ha ripresa, e tolta agli occhi nostri.                             F

            Né metter può in oblio,                                                        d

            benché’l corpo sie morto,                                       e

            i suoi dolci, leggiadri e sacri inchiostri.                             F

            Crudel pietà, qui mostri                                                      f

            se quanto a questa il ciel prestava a’ brutti                        G

            s’or per morte il rivuol, morremo or tutti.                           G

 

            Un’altra gentilissima e castissima poesia d’amore per la bellezza della donna amata,mescola Dio e bellezza, morte e vita,l’anima che Dio si riprende e  torna al cielo e le cose, i suoi scritti, le rime, che lascia quaggiù imperiture, per esaltarne la persona che ha perduto, pochi poeti hanno scritto in onore della donna amata in così bella maniera fra i pochi Dante nel Paradiso e certamente ancor dipiù. I versi sembrano scorrere più pacati che nel precedente, simile l’incatenarsi della rima nella prima parte ma con un ritmo dei versi più calmo, se ne discosta nella seconda parte, anche per la durata del verso che cambia la forma insieme al contenuto che ben si adattano, senza più martiri, in piena pace e misericordia, nel sereno periodare.

Quel “brutti” al penultimo verso indica anche foneticamente la mortalità terrena che per misericrdia rimane in confronto alla bellezza di lei che Dio si riprende.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            101)

                        Perché l’età ve ‘nvola    (278)

 

            L’ultimo affanno amoroso

            Perché la mia età porta via il desiderio cieco alla visione del danno che òi apporterà e sordo ai richiami della ragione mi metto d’accordo con la morte, ora che sono già stanco e vicino allultimo respiro. L?anima mie che teme e onora  ciò che l’occhio mio non vede, dal tuo bel volto o donna si allontana, come se fosse casa pericolosa ed inutile. Amore, che non cede al vero di nuovo mi appaga il cuore col fuoco dell’amore e con la speranza di essere amato, mi pare che dica,amare....

 

 

            Perché l’età ve ‘nvola                                              a

            il desir cieco e sordo,                                             b

            con la morte m’accordo,                             b

            stanco e vicino all’ultima parola.,               A

            L’alma che teme e cola                                          a

            quel che l’occhio non vede,                        c

            comedacosaperigliosaevaga,                               D
            dal tuo bel volto, donna. m’allontana.                    E

            Amor, c’al ver non cede,                             e

            di nuovo il cor m’appaga                            d

            di foco e speme, e non già cosa umana             E

            mi par mi dice ,amar....                                           x

 

 

            La mancanza della chiusa finale anzi quel finale sospeso accresce la preziosità ed il fascino di questo piccolo madrigale,leggero e scorrevole a causa della maggioranza dei settenari sugli endecasillabi che spezzano il ritmo che sarebbe troppo vivace rispetto al contenuto ma anche si deve apprezzare come quel ritmo vivace induca a pensare alla ineluttabile, rapida vanuta della morte ed il subitaneo, seppur venir tardo, dell’amore. Slendida la movenza del settimo verso che ricorda la medesima cadenza dell’ “uscito fuor del pelago alla riva” ed anche si avvicina al successivo verso dantesco “si volge all’acqua perigliosa e guata” addirittura mrttendoci la stessa parola “perigliosa”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            102)

                        Or d’un fiero ghiaccio, or d’un ardente foco,  (269)

 

 

            Il suo testamento spirituale.

            Sono preso ora da un feroce ghiaccio di morte,  ora da un ardente fuoco d’amore, ora dai miei anni e dai miei guai passati, ora sono difeso dalla vergogna che provo, fo specchiare nel passato il mio futuro carico di triste ed addolorante speranza e sento il bene col suo breve durare non meno del male  che mi affligge e mi incalza. Chiedo sempre perdono alla buona ed alla cativa mia sorte, ambedue stanche di me,e riconosco che la fortuna e la benevolenza hanno le ore brevi e corte se la morte cura la miseria         

 

 

            Or d’un fiero ghiaccio, or d’un ardente foco,               A

            or d’anni  o guai, or di vergogna armato,              B

            l’avvenir nel passato                                                            b

            specchio con trista e dolorosa speme                              C

            e ‘l ben, per durar poco,                                          a

            sento non men ch’el mal m’affigge e preme.                       C

            Alla buona, alla rie fortuna insieme,                                  C

            di me già stanche, ognor chieggio perdono:                    D

            e veggio ben che della vita sono                           D

            ventura e grazia l’ore brieve e corte,                                 E

            se la miseria medica la morte.                                          E

                       

            Più severo e sofferente questo ultimo madrigale sia per la preponderanza degli endecasillabi, ed i settenari hanno parvenza di singhiozzi, sia per il ritmo delle rime, quelle ripetute rime baciate finali, il tutto che fa un’unità di forma e contenuto in questo mirabile madrigale. La sorpresa della mancata rima baciata del quinto verso offre il respiro come di una pausa, un arsi in levare che rimanda alla rimaq del primo verso.