E'
IMPORTANTE IL RICOVERO IN OSPEDALE IL PIU' PRESTO POSSIBILE.
GLI AMERICANI DICONO: Time is muscle (Il tempo è muscolo)
quanto più tempo passa tante più fibre muscolari cardiache
muoiono, quindi NON INDUGIARE. Fra
gli altri sintomi tipici avvertiti nella fase iniziale
dell'attacco si annoverano: stordimento, svenimento, sudorazioni,
nausea, dispnea; si possono anche avere dolori atipici nello
stomaco o nell'addome, sudore freddo e pallore, polso lieve e
rapido (specie negli attacchi con forme aritmiche), tosse
insistente con secrezione rosea, stanchezza e sensazione d'ansia
inspiegabile. Talvolta
il dolore può mancare: sono i cosiddetti infarti
"silenti", che si verificano più spesso negli anziani e
nei diabetici.
In
genere, la pressione cala progressivamente sino a raggiungere il
minimo nel corso della prima settimana: a volte, la brusca
ipotensione può portare allo shock cardiogeno. La pressione della
vena giugulare può essere normale o leggermente elevata; si
possono avere alterazioni dei rumori cardiaci e crepitii
polmonari. Spesso a questo quadro clinico si accompagna la febbre
nelle prime 24 ore. Altri fenomeni (leucocitosi, incremento della
VES) sono dovuti alla necrosi del miocardio.
Altre
volte negli anziani i sintomi sono quelli dell'edema polmonare
acuto. Il danno provocato dall'ischemia determina un cattivo
funzionamento del muscolo cardiaco e, quando l'estensione della
parte di miocardio danneggiata è elevata, si osserva
un'alterazione della funzione di pompa del cuore, con una rapida
caduta della pressione e comparsa di uno stato di shock.
La sofferenza del tessuto miocardico si può manifestare anche con
un'interferenza con l'attività elettrica del cuore. È possibile
la presenza di gravi aritmie, quali tachicardia e fibrillazione
ventricolare, o la comparsa di blocchi atrioventricolari.
Diagnosi
Per
lo più la diagnosi si ricava da carattere, ubicazione e durata
del dolore al petto. Il persistere del dolore oltre i 15 minuti,
l'invariabilità rispetto allo sforzo e la mancata reazione al
trinitrato di glicerina lo differenziano dall'angina.
L'apparire di aritmie, shock ed insufficienza supportano la
diagnosi d'infarto, che viene confermata dalle alterazioni
dell'ECG (onde Q patologiche a tempo indefinito; elevazione del
segmento ST, che si normalizza con la riperfusione; inversione
entro 24/48 ore dell'onda T) e dai livelli anormalmente alti di
certi enzimi (CK, SGOT, LDH) che, presenti in elevata
concentrazione nel tessuto cardiaco, sono rilasciati dalla necrosi
del miocardio. E' difficile differenziare alcuni casi di infarto
acuto dall'angina instabile, caratterizzata da attacchi di
dolore ischemico; dall'embolia polmonare massiva,
contraddistinta però da maggior dispnea e da dolore meno acuto;
dall'infarto polmonare, caratterizzato dall'aspetto radiologico e
dall'ubicazione e carattere pleurico del dolore; dalla pericardite
acuta, in genere peggiorata dall'inspirazione e dalla posizione
supina; dall'aneurisma disseccante, il cui dolore può
essere più lacerante.
Prognosi
Il
tasso di mortalità naturale, esclusi i decessi immediati, si
aggira sul 15-30%, ridotto al 10% in caso di ricovero ospedaliero.
Esso aumenta bruscamente con l'età, è superiore per le donne ed
in caso di recidiva; è più elevato nelle prime ore per poi
decrescere rapidamente. Il 60% dei decessi entro le quattro
settimane avviene nei primi due giorni, quando si possono
manifestare aritmie improvvise. Lo shock cardiogeno
ha un tasso di mortalità dell'80-90%; lo sviluppo di aritmie
rende la prognosi infausta, così come eventi tardivi (recidiva,
rottura di cuore ed embolia polmonare).
Trattamento
farmacologico
La
gestione della prima fase è critica: molte volte bisogna far
fronte ad un arresto cardiaco e si deve cercare di limitare
al più presto l'entità dell'infarto. La prima tappa consiste
nell'alleviare il dolore (farmaci come gli oppiacei possono però
causare bradicardia ed ipotensione); dopodiché, il
paziente deve essere ricoverato in terapia intensiva per far
fronte al rischio di morte improvvisa (dovuta al sopraggiungere di
gravi aritmie) con un rigoroso monitoraggio. Le limitazioni
del movimento dipendono dalla gravità dell'infarto: in casi
lievi, il paziente può lasciare il letto entro 1-2 giorni ed
essere rapidamente mobilizzato; in casi più gravi o aggravati da
complicanze, il tutto è necessariamente più lento.
I
farmaci in genere utilizzati sono i seguenti:
a)
aspirina:
riduce di circa il 20% il tasso di mortalità, con vantaggi che si
sommano a quelli della terapia trombolitica; è adatta in caso sia
di infarto del miocardio che di angina instabile;
b)
terapia
trombolitica: è la terapia elettiva, con una riduzione
del tasso di mortalità del 20%. Tuttavia, bisogna soppesarne
rischi e vantaggi: in genere, la sua utilità è direttamente
proporzionale all'entità dell'infarto. Ne beneficiano in
particolare i pazienti con elevazione del segmento ST e blocco di
branca sinistro. I vantaggi dei trombolitici diminuiscono
rapidamente col passare del tempo, sicché vanno somministrati al
più presto, entro 6, al massimo 12 ore. La principale complicanza
è il rischio d'emorragia (specie cerebrale), che può essere
fatale: precedenti di questo tipo, così come di emorragia
gastrointestinale, vanno ritenuti gravi controindicazioni. Tre
sono i principali agenti trombolitici: streptochinasi;
anistreplasi; attivatore pasminogeno del tessuto (tPA) e l'urochinasi;
c)
terapia
anticoagulante: si ricorre all'eparina sottocutanea od
endovenosa in alcuni casi specifici (per impedire la reocclusione,
la trombosi venosa profonda in pazienti con complicanze o
immobilizzati, la tromboembolia in pazienti con fibrillazione
atriale o formazione di aneurisma);
d)
betabloccanti:
la somministrazione endovenosa può presentare vantaggi secondari
in caso di infarto acuto ma esacerbare l'insufficienza e la
bradicardia;
e)
ACE-inibitori:
il loro uso nella fase acuta è controverso.
Complicanze
a)
Turbe
della frequenza, del ritmo e della conduzione: si
sviluppano nel 95% dei casi. Vi si annoverano le più gravi, le aritmie
ventricolari (battiti ectopici ventricolari; tachicardia
ventricolare, che può compromettere l'equilibro emodinamico e
tramutarsi in fibrillazione ventricolare; fibrillazione
ventricolare, la principale causa di morte improvvisa
nell'8-10% dei pazienti ricoverati, trattata col defibrillatore e
le manovre di rianimazione cardiopolmonare); le aritmie atriali
(fibrillazione atriale e flutter atriale), che
indicano in genere una significativa disfunzione ventricolare ed
una prognosi infausta; le bradiaritmie (bradicardia
sinusale, comune nella prima fase di infarti inferiori e
posteriori, specie per la risposta vagale al dolore; bradicardia
nodale, spesso legata alla riperfusione; blocco cardiaco,
specie nell'infarto inferiore, dovuto al fatto che la coronaria
destra rifornisce il nodo atrioventricolare, in tutte le sue
forme, spesso con progressione graduale: il blocco completo è
legato all'infarto massivo ed ha prognosi infausta); i blocchi
di branca (bi o trifascicolare), anch'essi con prognosi
infausta.
b)
Insufficienza
cardiaca: può essere insufficienza sinistra (si
sviluppa entro 48 ore in un terzo dei pazienti) o destra,
specie in infarti inferiori e posteriori. I pazienti tendono ad
avere una gittata cardiaca depressa o uno shock cardiogenico
ed un polso giugulare elevato, mentre gli altri sintomi tipici
(edema delle caviglie ed epatomegalia) si sviluppano
successivamente.
c)
Shock
cardiogeno: nella fase iniziale, il paziente è
pallido, affaticato ed ipoteso: questo quadro è dovuto spesso al
dolore e non va confuso con quello dello shock cardiogenico, che
presenta le caratteristiche dell'ipotensione, con estremità
fredde e cianotiche, sudore e torpore mentale; esso dura almeno
mezzora o si deteriora rapidamente sino a che la pressione non può
più essere rilevata, con un calo della gittata cardiaca,
oliguria, ipossia ed acidosi. L'insufficienza cardiaca e l'aritmia
si associano spesso a questo quadro, con un tasso di mortalità
dell'80-90%: è una situazione legata ad infarti massivi, ove è
colpita oltre il 40% della parete ventricolare. Le cause
scatenanti possono essere anche:
-
aritmie e disordini della conduzione,
-
ipovolemia (in seguito a terapia con diuretici ed antipertensivi),
-
infarto del ventricolo destro (con bassa pressione arteriosa
sistemica e polmonare),
-
lesioni eventuali.
I
pazienti sono classificati in tre gruppi:
-
normotesi con edema polmonare,
-
ipotesi,
-
ipotesi con edema polmonare, il gruppo più a rischio, ove si
cerca di migliorare la funzione ventricolare sinistra riducendo l'afterload
con i vasodilatatori ed aumentando la contrattilità con farmaci
inotropi. E' importante non sovraccaricare la circolazione né
abbassare troppo la pressione di riempimento del ventricolo
sinistro, mantenendo la pressione arteriosa polmonare fra i 15 e i
20 mm/HG.
d)
Complicanze
meccaniche: possono dar luogo a shock cardiogenico
od insufficienza cardiaca. Vi si annoverano il difetto del
setto ventricolare (il paziente accusa un mormorio pansistolico),
che complica in genere gli infarti estesi e richiede un intervento
d'urgenza; la rottura del muscolo papillare, che complica gli
infarti di dimensioni ridotte e richiede a sua volta la chirurgia
d'urgenza (l'ecografia rivela un rigurgito mitrale); la rottura di
cuore, lungo la parete del ventricolo sinistro, che presenta le
caratteristiche cliniche della dissociazione elettromeccanica
e causa il 10% dei decessi, specie fra anziani ed ipertesi, e
porta a morte immediata se acuta, mentre può essere riparata
chirurgicamente se sub-acuta.
e)
Recidiva
d'ischemia e d'infarto: I pazienti sono vulnerabili ad
un'estensione dell'infarto originario o ad un nuovo infarto, per
cui si parla di "infarto ricorrente". Vi è anche il
rischio di reocclusione dopo una riperfusione efficace. L'angina
post-infarto è indicazione di angiografia coronarica in
vista di un'angioplastica o di bypass.
f)
Complicanze
varie: possono essere l'embolia o l'infarto
polmonare (spesso a causa di una lunga immobilizzazione),
l'embolia arteriosa sistemica (spesso l'esito è l'emiplegia o
l'occlusione di un'arteria), gli eventi cerebrovascolari.
g)
Pericardite:
il dolore avvertito si aggrava inspirando ed in posizione supina.
Il trattamento con antinfiammatori è sconsigliato in quanto
potrebbe contribuire all'espansione dell'infarto e ad un avverso
rimodellamento ventricolare; sono controindicati gli
anticoagulanti per il rischio di indurre una pericardite
emorragica.
Complicanze
tardive
La
compromissione ventricolare può essere aggravata dal rimodellamento
ventricolare, che avviene nelle settimane e nei mesi
post-infarto, con l'espansione e l'assottigliamento della zona
colpita. Ciò porta ad un incremento del volume ventricolare, che a
sua volta accresce la tensione della parete instaurando un circolo
vizioso. Gli ACE-inibitori contribuiscono ad evitare un
rimodellamento sfavorevole.
La
forma più estrema di rimodellamento è la formazione di un aneurisma
ventricolare, dimostrabile tramite ecocardiografia, studi ai
radionuclidi e ventricolografia sinistra. La parte di miocardio
non contrattile porta ad un sovraccarico di lavoro per il muscolo
restante, il che può contribuire all'insufficienza con
rischio di formazione di trombi e gravi aritmie.
L'instabilità
elettrica può poi portare ad una suscettibilità a lungo termine
a gravi aritmie
ventricolari, con ritardi della conduzione e circuiti
rientranti.
Classificazione
del rischio
La
prognosi è migliore nei pazienti esenti da ipertensione, angina
ed insufficienza cardiaca; i rischi di ulteriore infarto e
morte improvvisa persistono ma diminuiscono col passare del tempo.
La prognosi a lungo termine è determinata da tre fattori:
-
valutazione
della funzione ventricolare sinistra: è il dato
cruciale, indicato dalla frazione di eiezione (per
valori di quest'ultima inferiori al 30% la mortalità si accresce
considerevolmente), rilevabile con ecocardiografia o "Imaging
ai radionuclidi";
-
entità
della malattia coronarica residua: l'angiografia
coronarica è d'aiuto ma non fornisce informazioni sulla gravità
funzionale delle lesioni. Un ruolo importante è altresì
rivestito dai test sotto sforzo;
-
valutazione
dell'instabilità elettrica e suscettibilità alle aritmie gravi:
fra gli strumenti di ricerca, il monitoraggio Holter,
l'elettrocardiografia ad alta risoluzione, la valutazione della
variabilità della frequenza cardiaca e la misurazione della
disfunzione.
Terapia
alle dimissioni
Per
migliorare la prognosi a lungo termine, le terapie sono le
seguenti:
-
betabloccanti
(riducono la mortalità del 25%, e sono più vantaggiosi nei casi
maggiormente a rischio);
-
ACE-inibitori
(riducono la mortalità a lungo termine, ma si discute sul momento
di inizio della terapia più opportuno);
-
statine
(contribuiscono riducendo il tasso di colesterolo);
-
aspirina
(di provata efficacia nella fase acuta e sub-acuta
post-infarto, è consigliata come terapia a lungo termine a meno
che vi siano controindicazioni).
Riabilitazione
L'esito
a lungo termine quanto al ritorno alle normali attività è spesso
deludente, spesso per fattori fisici ma anche in seguito all'ansia
o ad un riabilitazione inadeguata. Nei casi più lievi potrebbe
essere utile svolgere un test di tolleranza allo sforzo 1-2
settimane dopo l'infarto, volto a raggiungere una frequenza
cardiaca sui 120-130. Qualora tale frequenza venga raggiunta senza
sintomi cardiaci od una depressione del segmento ST sull'ECG, le
prospettive di un rapido ritorno alla normalità sono buone; i
pazienti con un esito del test meno favorevole richiedono invece
una convalescenza più lenta ed un monitoraggio più rigoroso.
Qualora vi siano angina o dispnea, bisogna prestare
particolare attenzione alla terapia farmacologica e prendere in
considerazione i trattamenti interventistici. Bisogna inoltre
tenere sotto controllo tutti gli altri fattori di rischio (fumo,
ipercolesterolemia, ipertensione e diabete). Il programma di
riabilitazione va sempre adeguato alle esigenze del singolo
paziente.