ASL LE/2 Maglie - PRESIDIO OSPEDALIERO "F.FERRARI" - CASARANO (LE)

DIVISIONE DI CARDIOLOGIA UNITA' CORONARICA

Primario Dott. Giacinto PETTINATI

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MALATTIE CORONARICHE: L'INFARTO DEL MIOCARDIO

Infarto

L'infarto del miocardio rappresenta la più drammatica manifestazione della cardiopatia ischemica. Esso può verificarsi quando una coronaria, parzialmente occlusa, va incontro a chiusura completa. Si ha così  un arresto dell'arrivo di sangue a una determinata area del muscolo cardiaco. Quando l'ischemia si prolunga, il tessuto muscolare subisce un danno irreversibile che si conclude con la necrosi, ossia la morte, di quella regione cardiaca. Ciò comporta gravissime conseguenze immediate e, superata la fase acuta, una serie di danni che si manifestano nel tempo. L'estensione dell'infarto (area di cuore necrotica) determina l'intensità e la gravità dei sintomi.  Nell'ultimo decennio, la gestione dell'infarto miocardico si è profondamente trasformata: mentre in precedenza si trattavano le complicanze a mano a mano che si presentavano, ora si cerca di risolvere più attivamente i processi patologici soggiacenti e di prevenirli. Il ricorso all'aspirina ed alla terapia trombolitica può ridurre il tasso di mortalità del 50%; esso scende ulteriormente mediante l'uso dei betabloccanti e degli inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina (ACE).  

 Sintomatologia

Il sintomo più tipico è un forte dolore al petto, per lo più nella regione sternale, che si può irradiare ai lati, alla mandibola, alle spalle, al collo,alle braccia oppure ad un braccio, specie sinistro: è descritto come una sensazione di pressione, peso, costrizione, a volte solo malessere. Quel che lo differenzia dall'angina è il fatto che dura in genere più di trenta minuti, non si aggrava con l'esercizio e non è alleviato dal riposo o dal ricorso al trinitrato di glicerina (vasodilatatori). Il dolore può accrescersi d'intensità per minuti od ore e poi restare costante sino a recedere; è raro che l'evento sia del tutto indolore.  

E' IMPORTANTE IL RICOVERO IN OSPEDALE IL PIU' PRESTO POSSIBILE. GLI AMERICANI  DICONO: Time is muscle (Il tempo è muscolo) quanto più tempo passa tante più fibre muscolari cardiache muoiono, quindi NON INDUGIARE.  Fra gli altri sintomi tipici avvertiti nella fase iniziale dell'attacco si annoverano: stordimento, svenimento, sudorazioni, nausea, dispnea; si possono anche avere dolori atipici nello stomaco o nell'addome, sudore freddo e pallore, polso lieve e rapido (specie negli attacchi con forme aritmiche), tosse insistente con secrezione rosea, stanchezza e sensazione d'ansia inspiegabile.  Talvolta il dolore può mancare: sono i cosiddetti infarti "silenti", che si verificano più spesso negli anziani e nei diabetici.

In genere, la pressione cala progressivamente sino a raggiungere il minimo nel corso della prima settimana: a volte, la brusca ipotensione può portare allo shock cardiogeno. La pressione della vena giugulare può essere normale o leggermente elevata; si possono avere alterazioni dei rumori cardiaci e crepitii polmonari. Spesso a questo quadro clinico si accompagna la febbre nelle prime 24 ore. Altri fenomeni (leucocitosi, incremento della VES) sono dovuti alla necrosi del miocardio.

Altre volte negli anziani i sintomi sono quelli dell'edema polmonare acuto. Il danno provocato dall'ischemia determina un cattivo funzionamento del muscolo cardiaco e, quando l'estensione della parte di miocardio danneggiata è elevata, si osserva un'alterazione della funzione di pompa del cuore, con una rapida caduta della pressione e comparsa di uno stato di shock.
La sofferenza del tessuto miocardico si può manifestare anche con un'interferenza con l'attività elettrica del cuore. È possibile la presenza di gravi aritmie, quali tachicardia e fibrillazione ventricolare, o la comparsa di blocchi atrioventricolari.

Diagnosi

Per lo più la diagnosi si ricava da carattere, ubicazione e durata del dolore al petto. Il persistere del dolore oltre i 15 minuti, l'invariabilità rispetto allo sforzo e la mancata reazione al trinitrato di glicerina lo differenziano dall'angina. L'apparire di aritmie, shock ed insufficienza supportano la diagnosi d'infarto, che viene confermata dalle alterazioni dell'ECG (onde Q patologiche a tempo indefinito; elevazione del segmento ST, che si normalizza con la riperfusione; inversione entro 24/48 ore dell'onda T) e dai livelli anormalmente alti di certi enzimi (CK, SGOT, LDH) che, presenti in elevata concentrazione nel tessuto cardiaco, sono rilasciati dalla necrosi del miocardio. E' difficile differenziare alcuni casi di infarto acuto dall'angina instabile, caratterizzata da attacchi di dolore ischemico; dall'embolia polmonare massiva, contraddistinta però da maggior dispnea e da dolore meno acuto; dall'infarto polmonare, caratterizzato dall'aspetto radiologico e dall'ubicazione e carattere pleurico del dolore; dalla pericardite acuta, in genere peggiorata dall'inspirazione e dalla posizione supina; dall'aneurisma disseccante, il cui dolore può essere più lacerante.   

 

Prognosi

Il tasso di mortalità naturale, esclusi i decessi immediati, si aggira sul 15-30%, ridotto al 10% in caso di ricovero ospedaliero. Esso aumenta bruscamente con l'età, è superiore per le donne ed in caso di recidiva; è più elevato nelle prime ore per poi decrescere rapidamente. Il 60% dei decessi entro le quattro settimane avviene nei primi due giorni, quando si possono manifestare aritmie improvvise. Lo shock cardiogeno ha un tasso di mortalità dell'80-90%; lo sviluppo di aritmie rende la prognosi infausta, così come eventi tardivi (recidiva, rottura di cuore ed embolia polmonare).

 

Trattamento farmacologico       

La gestione della prima fase è critica: molte volte bisogna far fronte ad un arresto cardiaco e si deve cercare di limitare al più presto l'entità dell'infarto. La prima tappa consiste nell'alleviare il dolore (farmaci come gli oppiacei possono però causare bradicardia ed ipotensione); dopodiché, il paziente deve essere ricoverato in terapia intensiva per far fronte al rischio di morte improvvisa (dovuta al sopraggiungere di gravi aritmie) con un rigoroso monitoraggio. Le limitazioni del movimento dipendono dalla gravità dell'infarto: in casi lievi, il paziente può lasciare il letto entro 1-2 giorni ed essere rapidamente mobilizzato; in casi più gravi o aggravati da complicanze, il tutto è necessariamente più lento.   

I farmaci in genere utilizzati sono i seguenti:

a) aspirina: riduce di circa il 20% il tasso di mortalità, con vantaggi che si sommano a quelli della terapia trombolitica; è adatta in caso sia di infarto del miocardio che di angina instabile;

b) terapia trombolitica: è la terapia elettiva, con una riduzione del tasso di mortalità del 20%. Tuttavia, bisogna soppesarne rischi e vantaggi: in genere, la sua utilità è direttamente proporzionale all'entità dell'infarto. Ne beneficiano in particolare i pazienti con elevazione del segmento ST e blocco di branca sinistro. I vantaggi dei trombolitici diminuiscono rapidamente col passare del tempo, sicché vanno somministrati al più presto, entro 6, al massimo 12 ore. La principale complicanza è il rischio d'emorragia (specie cerebrale), che può essere fatale: precedenti di questo tipo, così come di emorragia gastrointestinale, vanno ritenuti gravi controindicazioni. Tre sono i principali agenti trombolitici: streptochinasi; anistreplasi; attivatore pasminogeno del tessuto (tPA) e l'urochinasi; 

c) terapia anticoagulante: si ricorre all'eparina sottocutanea od endovenosa in alcuni casi specifici (per impedire la reocclusione, la trombosi venosa profonda in pazienti con complicanze o immobilizzati, la tromboembolia in pazienti con fibrillazione atriale o formazione di aneurisma);

d) betabloccanti: la somministrazione endovenosa può presentare vantaggi secondari in caso di infarto acuto ma esacerbare l'insufficienza e la bradicardia;

e) ACE-inibitori: il loro uso nella fase acuta è controverso. 

 

Complicanze

a) Turbe della frequenza, del ritmo e della conduzione: si sviluppano nel 95% dei casi. Vi si annoverano le più gravi, le aritmie ventricolari (battiti ectopici ventricolari; tachicardia ventricolare, che può compromettere l'equilibro emodinamico e tramutarsi in fibrillazione ventricolare; fibrillazione ventricolare, la principale causa di morte improvvisa nell'8-10% dei pazienti ricoverati, trattata col defibrillatore e le manovre di rianimazione cardiopolmonare); le aritmie atriali (fibrillazione atriale e flutter atriale), che indicano in genere una significativa disfunzione ventricolare ed una prognosi infausta; le bradiaritmie (bradicardia sinusale, comune nella prima fase di infarti inferiori e posteriori, specie per la risposta vagale al dolore; bradicardia nodale, spesso legata alla riperfusione; blocco cardiaco, specie nell'infarto inferiore, dovuto al fatto che la coronaria destra rifornisce il nodo atrioventricolare, in tutte le sue forme, spesso con progressione graduale: il blocco completo è legato all'infarto massivo ed ha prognosi infausta); i blocchi di branca (bi o trifascicolare), anch'essi con prognosi infausta.

b) Insufficienza cardiaca: può essere insufficienza sinistra (si sviluppa entro 48 ore in un terzo dei pazienti) o destra, specie in infarti inferiori e posteriori. I pazienti tendono ad avere una gittata cardiaca depressa o uno shock cardiogenico ed un polso giugulare elevato, mentre gli altri sintomi tipici (edema delle caviglie ed epatomegalia) si sviluppano successivamente.

c) Shock cardiogeno: nella fase iniziale, il paziente è pallido, affaticato ed ipoteso: questo quadro è dovuto spesso al dolore e non va confuso con quello dello shock cardiogenico, che presenta le caratteristiche dell'ipotensione, con estremità fredde e cianotiche, sudore e torpore mentale; esso dura almeno mezzora o si deteriora rapidamente sino a che la pressione non può più essere rilevata, con un calo della gittata cardiaca, oliguria, ipossia ed acidosi. L'insufficienza cardiaca e l'aritmia si associano spesso a questo quadro, con un tasso di mortalità dell'80-90%: è una situazione legata ad infarti massivi, ove è colpita oltre il 40% della parete ventricolare. Le cause scatenanti possono essere anche:

- aritmie e disordini della conduzione,

- ipovolemia (in seguito a terapia con diuretici ed antipertensivi),

- infarto del ventricolo destro (con bassa pressione arteriosa sistemica e polmonare),

- lesioni eventuali.

I pazienti sono classificati in tre gruppi:

- normotesi con edema polmonare,

- ipotesi,

- ipotesi con edema polmonare, il gruppo più a rischio, ove si cerca di migliorare la funzione ventricolare sinistra riducendo l'afterload con i vasodilatatori ed aumentando la contrattilità con farmaci inotropi. E' importante non sovraccaricare la circolazione né abbassare troppo la pressione di riempimento del ventricolo sinistro, mantenendo la pressione arteriosa polmonare fra i 15 e i 20 mm/HG. 

d) Complicanze meccaniche: possono dar luogo a shock cardiogenico od insufficienza cardiaca. Vi si annoverano il difetto del setto ventricolare (il paziente accusa un mormorio pansistolico), che complica in genere gli infarti estesi e richiede un intervento d'urgenza; la rottura del muscolo papillare, che complica gli infarti di dimensioni ridotte e richiede a sua volta la chirurgia d'urgenza (l'ecografia rivela un rigurgito mitrale); la rottura di cuore, lungo la parete del ventricolo sinistro, che presenta le caratteristiche cliniche della dissociazione elettromeccanica e causa il 10% dei decessi, specie fra anziani ed ipertesi, e porta a morte immediata se acuta, mentre può essere riparata chirurgicamente se sub-acuta.

e) Recidiva d'ischemia e d'infarto: I pazienti sono vulnerabili ad un'estensione dell'infarto originario o ad un nuovo infarto, per cui si parla di "infarto ricorrente". Vi è anche il rischio di reocclusione dopo una riperfusione efficace. L'angina post-infarto è indicazione di angiografia coronarica in vista di un'angioplastica o di bypass.

f) Complicanze varie: possono essere l'embolia o l'infarto polmonare (spesso a causa di una lunga immobilizzazione), l'embolia arteriosa sistemica (spesso l'esito è l'emiplegia o l'occlusione di un'arteria), gli eventi cerebrovascolari.

g) Pericardite: il dolore avvertito si aggrava inspirando ed in posizione supina. Il trattamento con antinfiammatori è sconsigliato in quanto potrebbe contribuire all'espansione dell'infarto e ad un avverso rimodellamento ventricolare; sono controindicati gli anticoagulanti per il rischio di indurre una pericardite emorragica.

 

Complicanze tardive

La compromissione ventricolare può essere aggravata dal rimodellamento ventricolare, che avviene nelle settimane e nei mesi post-infarto, con l'espansione e l'assottigliamento della zona colpita. Ciò porta ad un incremento del volume ventricolare, che a sua volta accresce la tensione della parete instaurando un circolo vizioso. Gli ACE-inibitori contribuiscono ad evitare un rimodellamento sfavorevole.

La forma più estrema di rimodellamento è la formazione di un aneurisma ventricolare, dimostrabile tramite ecocardiografia, studi ai radionuclidi e ventricolografia sinistra. La parte di miocardio non contrattile porta ad un sovraccarico di lavoro per il muscolo restante, il che può contribuire all'insufficienza con rischio di formazione di trombi e gravi aritmie.   

L'instabilità elettrica può poi portare ad una suscettibilità a lungo termine a gravi aritmie ventricolari, con ritardi della conduzione e circuiti rientranti.

Classificazione del rischio

La prognosi è migliore nei pazienti esenti da ipertensione, angina ed insufficienza cardiaca; i rischi di ulteriore infarto e morte improvvisa persistono ma diminuiscono col passare del tempo. La prognosi a lungo termine è determinata da tre fattori:

- valutazione della funzione ventricolare sinistra: è il dato cruciale, indicato dalla frazione di eiezione (per valori di quest'ultima inferiori al 30% la mortalità si accresce considerevolmente), rilevabile con ecocardiografia o "Imaging ai radionuclidi";

- entità della malattia coronarica residua: l'angiografia coronarica è d'aiuto ma non fornisce informazioni sulla gravità funzionale delle lesioni. Un ruolo importante è altresì rivestito dai test sotto sforzo;

- valutazione dell'instabilità elettrica e suscettibilità alle aritmie gravi: fra gli strumenti di ricerca, il monitoraggio Holter, l'elettrocardiografia ad alta risoluzione, la valutazione della variabilità della frequenza cardiaca e la misurazione della disfunzione.  

 

Terapia alle dimissioni

Per migliorare la prognosi a lungo termine, le terapie sono le seguenti:

- betabloccanti (riducono la mortalità del 25%, e sono più vantaggiosi nei casi maggiormente a rischio);

- ACE-inibitori (riducono la mortalità a lungo termine, ma si discute sul momento di inizio della terapia più opportuno);

- statine (contribuiscono riducendo il tasso di colesterolo);

- aspirina (di provata efficacia nella fase acuta e sub-acuta post-infarto, è consigliata come terapia a lungo termine a meno che vi siano controindicazioni).

 

Riabilitazione

L'esito a lungo termine quanto al ritorno alle normali attività è spesso deludente, spesso per fattori fisici ma anche in seguito all'ansia o ad un riabilitazione inadeguata. Nei casi più lievi potrebbe essere utile svolgere un test di tolleranza allo sforzo 1-2 settimane dopo l'infarto, volto a raggiungere una frequenza cardiaca sui 120-130. Qualora tale frequenza venga raggiunta senza sintomi cardiaci od una depressione del segmento ST sull'ECG, le prospettive di un rapido ritorno alla normalità sono buone; i pazienti con un esito del test meno favorevole richiedono invece una convalescenza più lenta ed un monitoraggio più rigoroso. Qualora vi siano angina o dispnea, bisogna prestare particolare attenzione alla terapia farmacologica e prendere in considerazione i trattamenti interventistici. Bisogna inoltre tenere sotto controllo tutti gli altri fattori di rischio (fumo, ipercolesterolemia, ipertensione e diabete). Il programma di riabilitazione va sempre adeguato alle esigenze del singolo paziente.  

 
estratto da
Pronto Cuore.
 http://www.prontocuore.org/infarto_del_miocardio.htm 

 

 
cardiologiacasarano@tiscali.it