MASSIMO CARTA

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CAPITOLO 6

DAL RELITTO RINASCE LA VITA

<< Lo sfruttamento degli ecosistemi si è fatto, negli ultimi decenni, via via più intenso. Il mare riflette
simbolicamente questa situazione: la quantità e la qualità dei prodotti che vi vengono trasportati costituiscono un
rischio elevato, solo in parte ovviato dal ricorso a sofisticati strumenti tecnologici, non privi di fragilità.
Il naviglio impiegato è spesso vetusto: il 45 % della flotta petrolifera mondiale ha più di 15 anni e il 75 più
di 10 anni. I segni di allarme nel passato non sono mancati, dall’ “Atlantic Express nel 1979” alla “Exxon Valdez
nel 1989”. 
In questo tragico Aprile 1991 il tributo di vite e il danno per il mare sono stati altissimi. Poco sappiamo
delle cause prossime degli incidenti di Livorno e Genova, ma, gli effetti ci dicono che il pericolo è troppo alto.
La legislazione deve imporre subito una diversa qualificazione degli equipaggi, perché gli strumenti che essi
manovrano sono complessi e ne va della loro vita e della nostra; le dimensioni e le caratteristiche tecniche del
naviglio devono mutare; E’ appena accaduto che l’Oil Pollution Act ha indotto alcune compagnie a
commissionare petroliere a doppio scafo: perché l’Italia che vive protesa nel Mediterraneo e circondata dal
traffico del petrolio, non si muove?
E’ vero, tutto ha un costo. Lo si deve pagare senza tentennamenti: in denaro pubblico e privato, in piccole e
grandi rinunce, in rigore di scelte. Il rogo della “Haven” e i suoi serbatoi sommersi nel mare di una Liguria già
ferita nelle coste e nei boschi sono un richiamo urgentissimo ai compiti del decennio che si è aperto.>>[1]
La giustizia comunque deve fare il suo corso e così, a distanza di tre anni da quel tragico Aprile, si apre il
processo penale contro i presunti responsabili del disastro, sembra che oramai la vicenda si avvii verso una
definitiva conclusione ed invece compare un altro finale, forse più intrigante:
<< Riguarda il mare e, in particolare, quel relitto dimenticato a 50 metri di profondità. Uno se lo aspetta
nero, sinistro, deformato. Invece, colpo di scena: il cadavere sembra un giardino fiorito. Ci sono centinaia di
crinoidi gialli e rossi aggrappati alle ringhiere che ustionarono le mani dei 35 membri dell’equipaggio.
Ci sono branchi di castagnole rosse, orate e saraghi che si rincorrono tra oblò e boccaporti, ascidie sui
condotti, spugne incrostanti arancioni sui portelli, cerianti in coperta. La plancia da cui dava gli ordini il
comandante greco Pedros Gregorakakis, che perse la vita tra le fiamme, è piena di aragoste.
Questo scenario fantastico lascia attoniti anche gli scienziati che, spiegano il fenomeno attribuendo alle
fiamme che assalirono l’imbarcazione un ruolo provvidenziale: “da un lato hanno bruciato gran parte del petrolio
che altrimenti sarebbe finito in acqua, dall’altro hanno fatto piazza pulita delle vernici antivegetative dello scafo
che altrimenti non avrebbero consentito una rapida colonizzazione da parte degli organismi marini”; a giocare a
favore della natura e della Liguria c’è inoltre una altro importantissimo fattore ambientale, la nave infatti si è
andata ad adagiare in un tratto di mare ricco di correnti e di plancton. Ecco perché dove c’era solo sabbia, si è
venuta a formare una sorta di scogliera naturale, un ottimo supporto in cui soprattutto gli animali filtratori
(come i crinoidi) potessero sistemarsi per catturare zooplancton “al volo”. 
Ultimo ruolo importantissimo lo ricopre la componente morfologico-strutturale del relitto, molti animali
infatti vi hanno trovato un habitat ideale: ogni buco, ogni oblò ogni squarcio della lamiera è potenzialmente una
tana per pesci piccoli e grandi.
Allora perché non pensare al relitto come un miniparco sottomarino? 
E’ semplice, i pescatori non vogliono sentir parlare di crinoidi e ascidie e presentano il conto; loro che il
mare lo vivono quotidianamente e dal mare traggono cibo e soldi per le loro famiglie, senza statistiche e senza
essersi consultati con grandi luminari della scienza del mare denunciano una diminuzione del pescato
dell’ordine del 50% ( da 120 a 60 chili giornalieri) e reti con grandi quantità di grumi neri.
Forse il Professor Relini ha ragione nel dire che anche se la fauna betonica (quella legata al fondo) è stata
distrutta per molte miglia quadrate e quindi ci vorranno decenni prima che i batteri riescano a metabolizzare gli
idrocarburi tutto tornerà come prima ma a proposito di questo mi balza alla mente un articolo pubblicato alla
fine degli anni ottanta sulle pagine della rivista “Nature” che ebbe come protagonista il Professor Jaques
Benveniste dell’Università di Parigi, il quale assieme ad altri dodici studiosi, tra cui due italiani, firmò un
articolo scientifico in cui sosteneva che l’acqua avesse una inspiegabile capacità di memorizzazione, una sorta
cioè di memoria che permetteva alle sue molecole di mantenere la traccia ed il segno di particolari
trasformazioni chimiche in modo che questa potessero essere innescate nuovamente anche quando le dosi e le
proporzioni in gioco risultavano infinitesimali.
Attribuire la memoria all’acqua per Benveniste e il suo gruppo significò far entrare in maniera
preponderante e ufficiale la omeopatia nell’ortodossia delle terapie mediche, ma per quanto mi riguarda se il
professor Benveniste aveva ragione, (Les mistères de la mémoire de l’eau, non ha ancora avuto oggi un verdetto
definitivo), mi risulta terribile immaginare milioni di metri cubi di acqua modificati chimicamente dagli
idrocarburi umani o meglio dagli errori umani e se “l’acqua avrà buona memoria” state certi che prima o poi si
vendicherà.