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Storia cristiana: tragica catena di errori o via che conduce a Dio?

I duemila anni della Chiesa
Quella storia divisa dopo il «sì» di Pietro
di GIUSEPPE GALASSO

Morte di un inquisitore - Anche Le Goff sbaglia,  di Vittorio Messori

INQUISIZIONE La fine delle leggende

 

 

 
 Iduemila anni della Chiesa
Quella storia divisa dopo il «sì» di Pietro
di GIUSEPPE GALASSO


Duemila anni. 
L'orgogliosa rivendicazione della durata storica che la
Chiesa cattolica si attribuisce è, per essa, anche un punto di fede. La
Chiesa è nata, da questo punto di vista, a un parto stesso con la
predicazione dell'Evangelo; ne è stata, anzi, il presupposto, avendo a
propria base l'investitura divina conferita ad essa, attraverso gli
Apostoli, e in particolare Simone-Pietro, dal Redentore. Il rispetto dovuto
alle fedi religiose da chi non si muove nel loro ambito esige che i punti
di fede non siano discussi, in quanto tali, dagli esterni ad essi, se non
in via filosofica o nella contrapposizione di fede a fede. Riconosciuta la
natura fideistica di determinati assunti e il diritto di ogni religione
alla libertà di professarli e farli valere come tali, nessuna fede
religiosa può, però, sottrarsi al vaglio del libero pensiero storico e
critico. E da questo punto di vista i diritti della religione non possono
evitare che per l'affermazione della durata bimillenaria della Chiesa
cattolica sorgano molti dubbi e non piccoli problemi di natura, appunto,
critica e storica.
Durate anche superiori si sono storicamente registrate (si pensi agli
induisti e ai buddisti) per altre religioni. Grandi fedi religiose e il
loro rispettivo clero vantano durate non di molto inferiori (così l'Islam).
Nella religione entro il cui ambito il Cristianesimo è sorto (ossia il
Giudaismo) l'istituzione rabbinica è, a sua volta, di molto più antica; e
altre confessioni cristiane (come l'Ortodossia) rivendicano la stessa
durata per le loro Chiese. E lasciamo pure da parte il problema, non
trascurabile, della coincidenza cronologica affermata tra predicazione
apostolica e inizio della storia della Chiesa. Assumiamo, senz'altro, lo
spazio temporale dei 2000 anni come durata effettiva di questa storia. Ma la Chiesa bimillenaria - ecco il dubbio che qui vorremmo presentare come problema storico - è stata davvero un unico, permanente, identico soggetto storico? Una continuità ininterrotta di personalità e di ruolo storico caratterizza la storia della Chiesa dall'epoca del primo apostolato a oggi?
La Chiesa è stata sempre la stessa, in quanto soggetto storico, in questi
duemila anni? È stata sempre la medesima realtà, come persona istituzionale
e come protagonista storico? Si può solo concedere, e si deve accettare,
forse, che essa ha attraversato il tempo storico bimillenario del
Cristianesimo subendo, nell'identità della sua personalità storica,
unicamente le variazioni esteriori, determinate nelle sue manifestazioni e
nei suoi modi di essere, dal mutare delle contingenze storiche,
inessenziale per le sue ragioni e per la sua realtà di istituzione divina e, sostanzialmente, metastorica?
Non pretendiamo di poter rispondere a tutti questi interrogativi. Vogliamo soltanto avanzare l'idea, che ci sembra derivare dall'insieme degli studi e
della riflessione storica, di una lettura diversa di questi 2000 anni:
l'idea, cioè, che molte Chiese si siano succedute nel corso di questo,
certamente assai lungo, periodo. Molte Chiese non differenziate soltanto

 

Morte di un inquisitore

Anche Le Goff sbaglia.

di Vittorio Messori


L'estate è propizia alle riletture, soprattutto dei testi classici. E tale è ormai considerato 
quel La civiltà
dell'Occidente medievale di Jacques Le Goff, che lessi quando uscì in francese e che ora Einaudi, 
dopo
molte edizioni in varie collane, ripresenta in tascabile. Approfitto di questa giornata estiva 
per
riguardarmelo. Le Goff è tra i "santoni" della medievistica laica, ma non è nuovo alle gaffes: la 
più
clamorosa è quella della consulenza storica per la trascrizione cinematografica de il nome della 
rosa dì
Umberto Eco. Il quale, imbarazzato, ha dovuto ammettere che il "suo" Medio Evo, quello del libro, 
era
storicamente più accurato di quello ricostruito in immagini con il consiglio "scientifico" di 
questo
ossequiatissimo professore francese. Ma Le Goff è pure l'autore di quel La nascita del Purgatorio 
che,
malgrado l'apparenza severamente accademica, è da prendere con le molle ed è pervaso da un 
desiderio
iconoclastico (pur abilmente mascherato) verso la pastorale e, soprattutto, la dogmatica 
cattolica.
Per tornare a La civiltà dell'Occidente medievale: non mancano nemmeno qui prospettive faziose. 
Anzi,
veri e propri falsi. Ad esempio, leggendo le pagine 102 e 103 dell'ultima edizione italiana, ecco 
qui:
"Domenicani e francescani diventano per molti simbolo di ipocrisia e i primi destano ancor più 
odio per il
modo con cui si sono messi a capo delle repressioni dell'eresia, per la parte che assumono
nell'inquisizione. Una sommossa popolare trucida a Verona il primo martire" domenicano: san 
Pietro
detto, appunto, Martire; e la propaganda dell'Ordine diffonde la sua immagine con un coltello 
piantato nel
cranio". Quanto ai francescani, l'affermazione è difficilmente sostenibile, visti anche i limiti 
che Le Goff
stesso ha posto al suo lavoro: il cuore del Medio Evo, i secoli tra il X e il XIII. Ora: 
Francesco d'Assisi
muore nel 1226 e, per quanto resta del secolo, tra il movimento da lui creato e gli strati 
popolari si
dipana una sorta di idillio. Che durerà ben a lungo, peraltro, superando il Medio Evo stesso e 
giungendo
in qualche modo sino a noi. Non è casuale che la pubblicità stessa ricorra non di rado 
all'immagine di un
frate di san Francesco per qualche spot dove occorra un'immagine accattivante e degna di fiducia. 
E non
era un francescano padre Pio da Pietrelcina, protagonista di quello che è probabilmente uno dei 
più vasti,
intensi, duraturi movimenti devozionali "interclassisti", coinvolgendo ricchi e poveri, colti ed 
ignoranti?
Ma ciò che, nella frase di Le Goff, è non solo fazioso, ma falso, è l'accenno a un "odio" che
accompagnerebbe i domenicani per essersi "messi a capo delle repressioni dell'eresia" e "per la 
parte che
assumono nell'inquisizione". C'è poi da sbalordire che un medievista tanto considerato a livello
internazionale sconvolga letteralmente la verità a proposito di san Pietro da Verona. Ma vediamo 
con
ordine. Innanzitutto: l'inquisizione nasce non contro il popolo ma, al contrario, anche per 
rispondere a
una sua richiesta. In una società preoccupata soprattutto della salvezza eterna, l'eretico è 
visto dalla
gente (a cominciare da quella " comune" e "illetterata") così come in culture come la nostra, che 
non
pensano che alla salute corporale, sarebbe considerato chi propagasse malattie infettive mortali 
o
avvelenasse l'ambiente. Per l'uomo medievale l'eretico è il Grande Inquinatore, è il nemico della 
salvezza
dell'anima, è colui che attira la punizione divina sulla comunità. Dunque (come confermano tutte 
le fonti)
il domenicano che arriva per isolano e renderlo inoffensivo, ben lungi dall'essere circondato 
dall'"odio", è
accolto con sollievo e accompagnato dalla solidarietà popolare.
Tra le deformazioni più vistose di certa storiografia c'è l'immagine di un "popolo" che geme 
sotto
l'oppressione dell'inquisizione e che spia ogni occasione per liberarsene. È giusto il contrario: 
se talvolta la
gente appare insofferente verso quel tribunale, non è certo perché "oppressivo" ma, al contrario, 
perché
troppo "tollerante" verso gente come gli eretici che, stando alla vox populi, non meritano quel 
garantismo
e quella clemenza di cui proprio i domenicani danno prova. Si vorrebbe andare per le spicce, 
togliersi di
torno senza troppi complimenti coloro per i quali i giudici in saio moltiplicano invece le 
garanzie legali.
Prima dell'incendio protestantico del XVI secolo, nel pullulare di movimenti ereticali medievali, 
uno solo
sembra davvero coinvolgere vasti strati popolari, almeno in alcune zone: è quello dei càtari 
albigesi, per
stroncare i quali occorse una apposita "crociata", nella Provenza. Ma (come ricorda lo stesso Le 
Goff) la
leadership "albigese" fu assunta non dalla gente, ma dalla nobiltà della Francia meridionale che 
- con la
propaganda o con la coercizione - favorì l'estendersi nel popolo di quella eresia. E ciò per un 
motivo assai
poco religioso, conferma lo storico: "La nobiltà mirava in tal modo a ribellarsi a una Chiesa che 
-aumentando
i casi di impossibilità di matrimonio per consanguineità - provocava l'eccessivo
spezzettamento dei domini fondiari dell'aristocrazia". Volevano, insomma, sposarsi in famiglia 
per tenersi
ben stretta la roba.
Ma torniamo alla frase tratta da La civiltà dell'Occidente medievale: "Una sommossa popolare 
trucida a
Verona il primo "martire" domenicano: san Pietro detto, appunto, Martire; e la propaganda 
dell'Ordine
diffonde la sua immagine con un coltello piantato nel cranio". Così, testualmente, Le Goff. C'è 
da
sbalordire: il futuro santo nasce infatti a Verona, ma e ucciso il 6 aprile del 1252 nella 
Brianza, presso
Meda, esattamente in un luogo boscoso detto Farga, mentre si reca con un confratello - anch'egli
assassinato - da Como a Milano. Non c'entrava nulla Verona, dunque, come luogo della morte. Né 
c'entra

INQUISIZIONE La fine delle leggende

 
Quale immagine suscita oggi nella mente di un lettore la parola «Sant’Uffizio»? Ieri era il rogo che il 17 febbraio 1600 uccise Giordano Bruno e ne distrusse il corpo; erano la corda e gli strumenti di tortura che straziavano le donne accusate di stregoneria e che furono usati per piegare le resistenze di Galileo nel 1633. Tanto bastava per un rifiuto e una condanna senza appello. Ma ogni tempo deve fare i conti col passato; e le convinzioni correnti, anche le più radicate, debbono essere messe alla prova di nuove domande e nuove conoscenze. Le ricerche di John Tedeschi hanno sostituito all’immagine di un tribunale crudele e sanguinario quella di una istituzione che prestava molta attenzione alle forme giuridiche, prevedeva il diritto degli imputati alla difesa e poneva particolare attenzione nel valutare le prove a carico delle presunte streghe. Intanto, le autorità centrali della Chiesa cattolica, accogliendo l’invito di uno storico non sospetto di simpatia per l’Inquisizione - Carlo Ginzburg - hanno aperto l’archivio centrale del Sant’Uffizio. Il problema della storia del Sant’Uffizio è stato posto così all’ordine del giorno. E da allora si è aperta per la storiografia italiana una stagione simile a quella che fu vissuta in Spagna dopo la morte di Franco. Fino ad allora, il fantasma ossessivo dell’Inquisizione spagnola sembrava legato per sempre all’identità storica di un Paese che aveva voltato le spalle all’Europa moderna. E invece, dopo quella data la crescita democratica del Paese corrispose a un processo di liberazione dall’alone funesto di quell’immagine che passò attraverso libri di storia documentati, freddamente analitici, mossi dalla volontà non di schierarsi pro e contro una istituzione defunta ma di conoscerne la storia. Qualcosa del genere sta avvenendo da anni anche in Italia. L’obiettivo che ci sta davanti è una storia dell’Inquisizione Romana e del Sant’Uffizio adeguata alle nostre domande e all’importanza dell’argomento. Una storia, non un’opinione pro o contro. Di queste, ne abbiamo fin troppe.
Da oggi, chi vuol conoscere questa storia ha a disposizione i risultati di lunghe ricerche di una studiosa seria e competente, Elena Brambilla: Alle origini del Sant’Uffizio . Si tenga conto del sottotitolo: «Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal Medioevo al XVI secolo». Esso ci avverte che l’autrice, pur considerando pericolosamente revisionistici gli studi di Tedeschi (e quelli dello scrivente), fa suo il nuovo indirizzo degli studi: anche per lei, l’immagine evocata dal Sant’Uffizio non è più quella dell’eretico bruciato o della strega atrocemente torturata perché confessi i suoi rapporti notturni col diavolo. È una scena anonima, di grigia quotidianità, priva di violenza - di quella fisica, si deve precisare -: una persona - uomo, donna, fanciullo - che si reca in Quaresima davanti a un sacerdote per fare la confessione annuale (obbligatoria). Il confessore gli chiede prima di tutto se ha fatto o detto, oppure conosce altri che abbiano fatto o detto cose che interessano il Sant’Uffizio: qualcuno che legge libri proibiti, un padre che bestemmia la Vergine e i Santi, una madre che mormora scongiuri superstiziosi.
Se la risposta è affermativa, allora il tribunale di foro interno si trasforma in tribunale di foro esterno; la confessione si interrompe e il penitente è invitato a trasferirsi davanti all’inquisitore per abiurare le sue colpe o denunziare quelle degli altri. È una scena per lo più segreta, un momento senza testimoni, una storia che si conclude nella maggior parte dei casi con una rapida abiura o con una mite penitenza: ma è pur sempre una scena che si ripete infinite volte, che tocca tutti i «fedeli» di una religione unica e obbligatoria. Questo avveniva per ordine di una suprema autorità romana, presieduta dal Papa: il Sant’Uffizio. Che cos’era?
L’«ufficio» fra tutti santo, nella Chiesa cristiana, era in origine quello affidato a Pietro: custodire il gregge, guidarlo per i pascoli della fede lontano dagli sterpi e dalle insidie dell’errore. Nella storia millenaria del papato, c’è stato un preciso momento in cui questo termine si è fissato in una istituzione. Nel 1542, nel pieno della lotta contro la Riforma protestante, una commissione di cardinali presieduta dal Papa fu costituita come supremo organo giudiziario e poliziesco contro gli eretici. Nata sotto il segno della provvisorietà e dell’emergenza, è rimasta viva per secoli. Dalla sua sede romana ha operato in forme diverse sul mondo cattolico ma prevalentemente sul territorio della penisola italiana. Disarmata, cioè privata del «braccio secolare» dai sovrani del ’700 statalista e illuminato, dopo alterne vicende fu definitivamente ridotta alle dimensioni di un organo interno della Chiesa cattolica dalla breccia di Porta Pia. Poi, sono venuti i tempi del Concordato del 1929, ma anche quelli del Concilio Vaticano II e dell’apertura della Chiesa romana al dialogo col mondo: e il Sant’Uffizio è morto.
Su questo reticolo minimo di informazioni, probabilmente tutti sono d’accordo. Da qui in poi, comincia il terreno delle cose che non sappiamo, un terreno dove cresce facilmente l’erbaccia dei preconcetti e delle false certezze. Forse, lo sforzo del Sant’Uffizio di apparire immobile come un monolito, specchio e strumento di una Chiesa che possiede da sempre una verità immutabile, ha ingannato anche chi, nell’avversarlo, ha pensato che fosse sufficiente una condanna una volta per tutte.
E invece l’istituzione, mutando nel tempo come ogni realtà storica, è stata di volta in volta cose diverse: tribunale di uomini e di dottrine, supremo organo di definizione dell’errore ma anche strumento di lotta politica e di carriera ecclesiastica, luogo di accurate diplomazie e di governo delle anime e dei corpi. Ha lottato contro eretici ed ebraizzanti, massoneria e filosofia illuministica, rivoluzionari giacobini e movimenti liberali, ha scomunicato i fautori del risorgimento italiano e quelli del comunismo ateo. È mutata col mutare del nemico, l’eresia.
Elena Brambilla ricostruisce, in pagine non sempre scorrevoli, i molti e complicati fili dell’amministrazione della giustizia ecclesiastica durante il tardo Medioevo che preannunziano quell’intreccio fra confessione e inquisizione usato poi, a partire dalla metà del ’500, per snidare e combattere il dissenso religioso. Uscito a poca distanza dall’opera di Paolo Prodi ( Una storia della giustizia , Il Mulino), il suo libro si sovrappone in parte a quel disegno ma con esiti profondamente diversi. Se Prodi aveva rivendicato a merito del cristianesimo medievale una raffinata elaborazione di istituti giuridici per rispondere a tutti i problemi della giustizia, in primo luogo quelli della coscienza, Elena Brambilla vede da quelle stesse radici crescere progressivamente un sistema che incoraggia la delazione e che trasferisce con la costrizione i segreti della coscienza in sede giudiziaria e poliziesca. Il confronto e la discussione sono salutari nella ricerca storica, dove - a differenza che nelle Chiese - né il principio d’autorità né la scomunica (o il suo equivalente laico, cioè la condanna ideologica preconcetta) hanno diritto di esistere. Ma, intanto, resta nella nostra mente quella immagine: il penitente in confessionale, le «dolci» torture delle coscienze.
Un’immagine che, restando apparentemente uguale tra Medioevo ed età moderna, cambia profondamente significato. La ragione è semplice: la Riforma di Lutero e di Calvino rappresentò una minaccia mortale per l’esistenza stessa della Chiesa di Roma, che fu spinta a rendere sistematico e capillare l’uso poliziesco della confessione, nel momento stesso in cui l’inviolabilità della coscienza individuale si avviava a diventare fondamento e norma di convivenza civile in altri Paesi europei.


Il libro: «Alle origini del Sant’Uffizio», di Elena Brambilla, Il Mulino, pp. 600, L. 65.000.