COMUNIONE CRISTICA NELLA VITA ULTRATERRENA:

PURGATORIO E PARADISO

 

 

Non sono molti i luoghi biblici in cui si intravede una definizione della condizione del salvato. Tra questi vi sono quelli in cui si parla di beatitudine (Mt 5, 3-12; 25, 21-23; Lc 11, 28; Gv 10, 29), di visione di Dio (1 Cor 13, 12; 1 Gv 3, 2), di perfezione (Mt 5, 48; Gv 17, 22-23; Ef 4, 13; Col 1, 28; 3, 14; 1 Ts 5, 23). Sulla beatitudine e sulla visione di Dio è stato scritto molto. Un po’ meno sulla perfezione. Credo sia utile approfondire il discorso sulla perfezione.

In Mt 5, 48 occorre osservare tre cose. Intanto, vi si afferma che il Padre celeste è perfetto. Poi, che gli uomini saranno perfetti come Dio. E infine, che per raggiungere tale perfezione occorre l’amore per i nemici. Anche in Ef 4, 13 e in 1 Ts 5, 23 si afferma che la perfezione è qualcosa che verrà: arriveremo allo stato di "uomo perfetto" (Ef 4, 13); Dio ci santifica "fino alla perfezione" (1 Ts 5, 23). La perfezione arriverà nel tempo e sarà il culmine di un processo di santificazione. In Col 1, 28 la perfezione è relazionata a Cristo e si dice che ognuno deve diventare "perfetto in Cristo". In Col 3, 14 la perfezione viene legata alla carità, che ne è "il vincolo". Quella carità che nasce quando siamo "spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni" (Col 3, 9) e ci siamo rivestiti di misericordia, bontà, umiltà, capacità di perdono. È la carità di 1 Cor 13, 1-7, quella che supera ogni dono di profezia, di conoscenza, di fede, di generosità. Si tratta, anche in Col 3, 14, di una perfezione che vive di quel legame dell’uomo con l’altro uomo, che il peccato, ogni forma di peccato, tende a rompere e a distruggere. Ed è in fondo la stessa perfezione di cui parla Gv 17, 23, la perfezione nell’unità.

Tutti questi luoghi biblici che parlano della perfezione dicono in fondo la stessa cosa con parole diverse. La perfezione, cioè, è un dono che Dio ci farà in Cristo e che porterà all’unità degli uomini tra loro e degli uomini con Dio. La preghiera di Gesù raggiunge il suo culmine quando prega il Padre "perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità" (Gv 17, 22-23). Tutti questi riferimenti biblici ci rivelano la salvezza come comunione cristica universale.

La comunione cristica ultraterrena si può pensare come un processo che si svolge in due fasi. La prima fase (Purgatorio) rende perfetti attraverso il dono della capacità di amare senza desiderare. Chi va in Purgatorio ha questo dono da Dio al termine della prima fase del processo di comunione cristica. Chi va subito in Paradiso ha questo dono subito dopo la morte. Chi va all’Inferno non può averlo, essendo separato da Dio, e continua a desiderare. Chi va in Purgatorio è ancora incapace di amare senza desiderare, ma lo diventerà; e passerà in Paradiso.

Penso di poter formulare questa dottrina del Purgatorio anche sulla base della rivelazione che credo di aver avuto e di cui ho discusso nel secondo capitolo.

Il Purgatorio non è un luogo distinto, non è una condizione statica, non è un tempo che si compie e poi scompare. Il Purgatorio rientra nel processo di comunione cristica, processo che è già iniziato durante la vita, che dopo la morte prosegue (per alcuni) con una fase più o meno lunga di purificazione che termina col dono della capacità di amare senza desiderare; processo che poi (o subito, per alcuni) assume i caratteri di universalità e cosmicità, che raggiunge la sua pienezza con la seconda venuta di Cristo, che accompagna la vita dei salvati nel Regno di Dio e nella Gerusalemme celeste. Questo spiega perché Cristo parla di due destini possibili per l’uomo (Paradiso e Inferno), e non di tre.

La seconda fase del processo di comunione cristica ultraterrena (Paradiso) – prima per chi va subito in Paradiso – è il processo attraverso il quale i salvati, già capaci di amare senza desiderare, entrano in una comunione sempre più piena e perfetta con gli altri, col cosmo e con Dio.

La comunione con gli altri è sintetizzata efficacemente in un passo della Lettera ai Galati: siamo una sola persona in Cristo (Gal 3, 28).

La comunione con gli altri non potrebbe esserci senza l’esistenza reale degli altri. A tal proposito vi è da fare un’osservazione relativa al buddismo e al rapporto tra Vangelo e Zen, partendo da questa illuminante considerazione di padre Luciano Mazzocchi: "Un altro aspetto che mi interpella come missionario cristiano nel dialogo con il buddismo è il Vangelo dell’esistenza reale dell’altro. Nel buddismo "l’altro" è compreso come una estensione dell’io. Non è un altro sussistente. Quindi nel buddismo la carità non è il fondamento delle virtù religiose, posto invece occupato dalla consapevolezza. Senza la consistenza reale dell’altro, non c’è la comunione; ma soltanto il sentire l’altro come parte di me". 1 In effetti, se l’altro fa già parte di me, non posso entrare in comunione con lui, non posso cercare una comunione che già c’è. Solo se l’altro è veramente "altro", cioè ha una sua consistenza e sussistenza reale e individuale, distinta dalla mia, ci può essere la ricerca di comunione tra me e lui.

Questa comunione, però, non potrà raggiungersi senza l’estinzione del desiderio. La capacità di amare senza desiderare, capacità che genera la gioia, è la condizione necessaria, sia per coloro ai quali è donata subito nel Paradiso, sia per coloro ai quali è donata dopo la fase di perfezionamento e purificazione che chiamiamo Purgatorio, per poter entrare in comunione con gli altri. Infatti, solo se non desidero una persona posso veramente unirmi a lei. Ecco perché, rispondendo ai sadducei che gli avevano chiesto di chi sarà moglie dopo la risurrezione una donna che in vita era stata moglie di sette fratelli, Gesù dice che "coloro che verranno giudicati degni di prendere parte al secolo futuro e alla risurrezione dei morti, non prenderanno né moglie né marito" (Lc 20, 35) e "saranno come angeli nei cieli" (Mc 12, 25; Mt 22, 30). Ed ecco perché le Scritture ci invitano al contempo ad amare il nostro prossimo (Lv 19, 18; Mt 19, 19; 22, 39; Mc 12, 31; Lc 10, 27) e a non desiderare la donna d’altri (Es 20, 17; Dt 5, 21; Mt 5, 28). Se l’altro continua a suscitare in me un qualche desiderio, egli continua ad essere distinto e lontano da me.

Quanto fin qui detto porta a una riflessione sulla non consistenza degli altri e delle cose, o vacuità, o samkara, di cui parla il buddismo: essa sarebbe difficilmente conciliabile con la ricerca dell’estinzione del desiderio, o nirvana, di cui parla lo stesso buddismo, se non si riferisse a un legame originario ed eterno tra persone, viventi e cose, che rende tutto relativo a tutto. Questa relazione io-altri-cosmo-Dio è stata posta in principio dal Verbo, dal Logos, da Cristo, perché Egli è per natura Amore.

Ogni cosa esiste perché è legata ad altre cose, agli esseri viventi e a Dio; ogni essere vivente esiste perché è legato ad altri esseri viventi, alle cose e a Dio. Questa comunione del tutto è cristica perché è stata voluta e posta da Cristo. E quando vivremo pienamente questa comunione, al termine del processo ultraterreno di cui stiamo parlando, allora si manifesterà pienamente e definitivamente Cristo. Il motivo per cui Cristo, già venuto, deve venire ancora è che noi ancora dobbiamo raggiungere la pienezza della comunione cristica.

All’inizio c’è Cristo, principio di comunione, che dà inizio alla storia cosmica. Alla fine c’è la pienezza della comunione cristica. È questo il senso delle parole dette da Cristo nell’Apocalisse: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap 22, 3). E la stessa cosa ci dice un passo della prima Lettera ai Corinzi: "C’è […] un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui" (1 Cor 8, 6). Si possono citare anche Ef 1, 8-10 e Col 1, 15-17. Tutti questi luoghi biblici attestano che Cristo è l’inizio, il centro e il fine della storia.

Ciò deve portare anche a una riflessione sul rapporto tra le culture e tra le religioni. La cultura occidentale è stata fondata sulla separazione del trascendente dall’immanente, della perfezione dall’imperfezione; cioè, sulla negazione proprio della relazione originaria io-altri-cosmo-Dio. Se causa e fondamento di tale relazione è Cristo, egli non può essersi incarnato per sostenere o rafforzare la cultura occidentale, proprio perché il fondamento di questa cultura è in ultima analisi la negazione del principio di comunione, del Cristo "stoltezza per i pagani" (1 Cor 1, 23).

I cattolici, allora, non possono non chiedersi se la via indicata da Cristo non sia percorsa anche, in qualche modo, attraverso le culture e le religioni orientali. Se kata olos significa presso tutto e tutti, i cattolici non possono non chiedersi se Cristo è anche presso i non cristiani e se Cristo non li chiami ad essere essi stessi, come suoi testimoni, presso i non cristiani.

È vero che oggi il cristianesimo è parte integrante della cultura occidentale, per motivi storici che non possono essere analizzati in questa sede. Ma è anche vero che Cristo può considerarsi la negazione del fondamento di questa cultura. Negazione che, a partire dallo scandalo della croce, ha trovato voce in tanti altri scandali della storia di questi duemila anni, quelli del martirio, della santità, della povertà, della gratuità. Io credo che essere cattolici fino in fondo significa oggi dare ancora voce e testimonianza a Cristo, lo scandalo eterno dell’Amore, la negazione eterna della separazione, dell’egoismo, della morte.

La relazione io-altri-cosmo-Dio è stata posta da Cristo per essere da noi non solo conosciuta, ma vissuta. Ma per giungere a viverla, per viverla come Dio la vive, è necessario un cammino di comunione cristica, che iniziando nella vita terrena, proseguirà nella vita ultraterrena, quando avremo, per la grazia di Dio, il dono di amare senza desiderare. Alla pienezza di questo cammino, Dio sarà "tutto in tutti" (1 Cor 15, 28).

Riguardo alla comunione col cosmo, sappiamo da Rm 8, 19-21 che la creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, essendo stata sottoposta alla caducità a causa del peccato di Adamo. E ciò avverrà con "la manifestazione dei figli di Dio" (v. 19). Cioè quando i salvati, ormai capaci di amare senza desiderare, si uniranno al creato, riscattandolo. Sappiamo, inoltre, che saranno rinnovate tutte le cose (Ap 21, 5), che Cristo "dev’essere accolto in cielo fino ai tempi in cui saranno rinnovate tutte le cose" (At 4, 21) e che egli ascese al cielo per riempire tutte le cose (Ef 4, 10). E leggiamo nel Catechismo della Chiesa cattolica (1992) che "quanto al cosmo, la Rivelazione afferma la profonda comunione di destino fra il mondo materiale e l’uomo" (n. 1046). Tutto ciò fa pensare a una comunione futura degli uomini con un cosmo, un mondo, un reale non più desiderato (o odiato), ma amato.

La comunione perfetta con Dio è il fine ultimo. Alla fine, dopo la seconda venuta di Cristo e dopo che egli avrà "distrutto ogni Principato, Dominazione e Potenza" (1 Cor 15, 24), Dio sarà "tutto in tutti" (1 Cor 15, 28), noi saremo in Cristo e Cristo sarà in noi (cfr. Gv 14, 20). Il Catechismo della Chiesa cattolica dice che "il fine ultimo dell’intera economia divina è che tutte le creature entrino nell’unità perfetta della beata Trinità" (n. 260). E anche J. Ratzinger afferma che "il vero e più profondo fine della creazione e a sua volta dell’essere umano voluto dal creatore è proprio questo divenire una cosa sola, "Dio tutto in tutti"". 2

Tale comunione con Dio inizia, cresce e si perfeziona già durante la comunione cristica ultraterrena del Paradiso. Ciò sembra confermato dal passo in cui san Paolo afferma che, essendo nel corpo, siamo in esilio dal Signore, mentre è preferibile "andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore" (2 Cor 5, 8).

Si può pensare anche che nel Paradiso Dio ci farà un altro dono: ci donerà la capacità di passare dalla conoscenza logica e razionale alla quale ci ha abituato la vita terrena, alla conoscenza relazionale, mistica e trinitaria. Sarà il passaggio dalla conoscenza dell’altro in quanto diverso da me e della cosa in quanto distinta da me alla "percezione" che l’altro esiste in quanto in relazione con me e che la cosa esiste in quanto in relazione con me; e che io esisto in quanto in relazione con gli altri e con le cose. Tale "percezione" sarà accompagnata dalla verità che è Cristo, principio di comunione, ad aver posto sin dall’eternità e a porre questa relazione, essendo egli per natura Amore. A questa "conoscenza" può giungere solo chi non ha più il desiderio delle cose e degli altri, e si trova quindi in Paradiso, perché desiderare qualcosa significa porla comunque fuori da sé, e quindi essere ancora dentro la conoscenza logica e razionale.

A questo punto, credo si possa fare qualche ulteriore osservazione sulle religioni orientali e sull’Islam.

La percezione del tutto come esistente in quanto tutto e non in quanto insieme di elementi individuali separati è l’intuizione e la ricchezza delle religioni orientali. Tuttavia, il processo di comunione cristica ultraterrena, che ho cercato fin qui di capire ed esporre, ci mostra che alla base di quest’intuizione c’è il Cristo dei cristiani. Non solo, ma tale processo consente di superare quella distanza tra cristianesimo e buddismo, da taluni ritenuta insuperabile, dovuta a una diversa idea del creato. Infatti, la considerazione negativa del mondo e della creazione propria del buddismo può ritenersi legata al fatto di essere schiavi dei desideri. Ma quando smetteremo di desiderare, entreremo in comunione col cosmo, e quindi guarderemo con altri occhi la creazione di Dio. La distanza tra valutazione positiva del creato (perché opera di Dio) da parte dei cristiani e valutazione negativa dello stesso creato da parte dei buddisti, poiché è destinata a scomparire nell'aldilà, non può essere adesso un ostacolo al dialogo e all'incontro o un solco incolmabile.

La sottomissione profonda e autentica alla volontà di Dio è la grandezza e la ricchezza della religione islamica. Poiché Dio-Verbo, essendo per natura Amore e principio di comunione, ha posto fin dall’eternità la relazione io-altri-cosmo-Dio, è questa la sua volontà primaria: far entrare le sue creature in questa relazione, far vivere agli esseri dotati di coscienza questa relazione. E questa relazione non può essere vissuta pienamente se si vuole intervenire su di essa, se si giudica un aspetto di essa, se ci si continua a chiedere perché è così. Non può essere vissuta pienamente, cioè, senza la sottomissione vera a Dio. Questa relazione, pertanto, non può viversi pienamente né senza l’estinzione del desiderio (nirvana) nella gioia, né senza la sottomissione profonda e autentica (islam) alla volontà di Dio che ci ama. E allora, gli aspetti centrali dell’islamismo e del buddismo appaiono legati a quello che è il fondamento e il fine della comunione cristica, la relazione io-altri-cosmo-Dio, cioè a Cristo principio di comunione. Sembrerebbe, dunque, che le barriere tra le religioni non possano non cominciare a cadere e non possa non divenire sempre più chiaro che esse sono strumenti, storicamente e culturalmente diversi, dello stesso Dio che si dona e si rivela agli uomini.

La comunione cristica, in tutti e tre i suoi aspetti (con gli altri, con il cosmo, con Dio), è un processo che cresce e che va verso la pienezza. È questo il senso della preghiera di Cristo perché diventiamo perfetti nell’unità (Gv 17, 23). In Ef 4, 13 si attesta che arriveremo alla pienezza di Cristo, e cioè che vi è un processo di crescita, maturazione e santificazione. Si può ritenere che attesti la stessa cosa Ef 4, 16, affermando che il corpo di Cristo cresce per la forza di Cristo e per la collaborazione di ogni membro.

La parusia e la risurrezione costituiscono il culmine del processo di comunione cristica in tutti e tre i suoi aspetti. Essendo la materia parte del cosmo creato da Dio, chi è pervenuto a un’adesione totale a questa creazione e a questa volontà riacquisterà un corpo materiale, ma "incorruttibile" (1 Cor 15, 42). "Cristo darà la vita ai nostri corpi mortali" (Rm 8, 11): così come ha creato l’uomo legando l'anima alla materia, lo farà risorgere riunendo l'anima alla materia al termine del processo di comunione cristica. È per questo, in ultima analisi, che Cristo salva ogni uomo.

Con la parusia, ci sarà comunione piena col cosmo, anche perché davanti a Cristo compariranno "tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute" (Ap 5, 13). Ci sarà comunione piena con gli altri, anche perché "saranno radunate davanti a lui tutte le genti" (Mt 25, 32) e apparirà davanti a lui "una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Ap 7, 9). La comunione con Dio sarà piena e perfetta anche perché "egli dimorerà con loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte, né lutto, né lamento, né dolore, perché le cose di prima sono passate" (Ap 21, 3-4).

Ritengo che quanto sin qui detto sulla comunione cristica sia sintetizzato in due frasi della Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II: gli uomini entrano in comunione con Dio per mezzo di Cristo (n. 5); "la natura del Regno è la comunione di tutti gli esseri umani tra di loro e con Dio" (n. 15).

Tentando di riassumere quanto fin qui detto, si può dire che l’eliminazione del desiderio e la capacità di amare senza desiderare, che ci viene donata da Dio al termine della prima fase ultraterrena del processo di comunione cristica (Purgatorio), o subito dopo la morte per chi va subito in Paradiso, significa adesione totale alla volontà di Dio. Questa adesione significa a sua volta adesione totale a una realtà creata che non abbiamo fatto noi e non modelliamo noi, ma con cui ci troviamo in relazione continua. Poiché di questa realtà ha fatto parte anche il nostro corpo materiale, l’adesione piena ad essa significa anche adesione piena ad esso, e ciò costituisce il presupposto per la risurrezione. L’adesione totale alla realtà costituisce anche il presupposto per la comunione piena e perfetta con gli altri e col cosmo. Questa comunione rende poi possibile la comunione con Dio, meta ultima. Dio ci ha dato i comandamenti, e ha scritto la sua legge nel cuore di tutti gli uomini, di ogni tempo, luogo, cultura e religione (cfr. Rm 2, 14-15), perché l’eliminazione del desiderio e l’adesione piena e totale alla sua volontà è il primo passo per poter giungere alla comunione con Lui e alla pienezza di Cristo (cfr. Ef 4, 13). Giungere alla pienezza di Cristo significa vivere pienamente il legame io-altri-cosmo-Dio, che Cristo ha posto; lasciarsi penetrare totalmente da quell’amore eterno che ha creato tutto ed è Dio (cfr. 1 Gv 4, 8 e 1 Cor 15, 28); entrare con tutto l’essere ed eternamente nella giustizia, nella pace e nella gioia (cfr. Rm 14, 17).

La comunione cristica così come qui descritta può dare contenuto esplicativo alle tradizionali nozioni di Chiesa come corpo di Cristo e popolo di Dio, di cui parleremo più avanti. E pone dunque le basi e le fondamenta di tutto il discorso che verrà sviluppato nei capitoli successivi sul rapporto tra Chiesa visibile e Chiesa escatologica e sulla proposta di annuncio di una Chiesa dei cristiani e dei "non cristiani".

A questo punto, ritengo utile un’ulteriore riflessione sul Paradiso. Il legame tra Paradiso e comunione cristica è posto da numerosissimi passi del Nuovo Testamento, che indicano la comunione universale e cosmica in Cristo come elemento assolutamente centrale del Paradiso e del Regno di Dio. Pensare che il Paradiso non c’entri con la comunione cristica andrebbe decisamente contro i tre luoghi sinottici in cui Cristo afferma che non berrà più del frutto della vite, fino a che non lo berrà di nuovo nel Regno di Dio (Mt 26, 29; Mc 14, 25; Lc 22, 18). Questi passi, forse un po’ trascurati dalla Chiesa, ci rivelano una verità sorprendente e al tempo stesso meravigliosa: lo stesso Cristo, già asceso al cielo, non sarà nella pienezza della gioia fino a quando tutti non saranno con lui e in lui, nel banchetto escatologico. Ci rivelano il Cristo dell’Amore; ci rivelano che Dio è Amore. Un Cristo che banchetti con alcuni nella gioia mentre gli altri soffrono e lo cercano non sarebbe il Cristo che ci è stato rivelato, il Cristo che il Padre ha dato per noi. Dunque, la comunione cristica è componente essenziale del Paradiso. Ma si potrebbe anche pensare che il Paradiso consista in una comunione cristica piena e perfetta. In tal caso, sarebbe già realizzata la venuta definitiva di Cristo per alcuni. Ma se la venuta di Cristo dovesse ancora accadere per il resto dell’umanità, la comunione cristica non sarebbe né piena né perfetta. Dovrebbe ammettersi una sorta di luogo o stato degli eletti e privilegiati, e che Cristo viene prima per loro e poi per tutti gli altri. Ciò non solo va contro ogni dato biblico, ma appare razionalmente insostenibile. Vi sarebbe, infatti, una sorta di autocontraddittorio universo nell’universo, una comunione allo stesso tempo piena e non piena, quindi autocontraddittoria, perché essa, se è piena, è universale e cosmica. Del resto, se, come abbiamo visto, lo stesso Cristo non è nella pienezza della comunione cristica, a maggior ragione lo potrebbero essere altri, per quanto santi siano. Il Paradiso non può dunque identificarsi con una comunione cristica piena e perfetta.

L’ipotesi più verosimile e aderente al dato rivelato è che il Paradiso sia il processo di comunione cristica crescente con gli altri, col cosmo e con Dio. Nel tempo intermedio i salvati entrano tutti nel processo di comunione cristica e sono tutti "con Cristo" (Lc 23, 42; Rm 8, 17; Ef 2, 6; Fil 1, 23; Col 2, 12; 3, 1; 1 Ts 5, 10) e "in Cristo" (Gv 14, 20; 1 Ts 4, 16). Alcuni, i beati, sono nel Paradiso, in quanto godono della "visione" di Dio (Mt 5, 8; 1 Cor 13, 12; Eb 12, 14; 1 Gv 3, 2) e sono "presso Dio" (2 Cor 5, 8; Ap 3, 21). Del resto, il termine "Paradiso" richiama la familiarità con Dio goduta da Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden, descritta dall’autore jahvista (Gn 2, 8-25).

Questa concezione del Purgatorio e del Paradiso come comunione cristica evita di ridurre l’evento Cristo all’assenzo di fede già presente (escatologia realizzata di C. H. Dodd), di detemporalizzare l’eschaton (escatologia sovratemporale di K. Barth, E. Brunner, D. Bonhoefer, F. Gogarten, P. Althaus), di accentrare l’evento Cristo in un punto della storia della salvezza svalutando gli altri (escatologia anticipata di O. Cullmann). L’evento Cristo è qui concepito, invece, non semplicemente come un momento della storia, ma come un processo che attraversa la storia e la metastoria e le permea di sé, conducendole al compimento. Non solo è ciò che è accaduto o che accade; è ciò che si fa, che diviene, che si costruisce, che si estende e si accresce. Si dovrebbe indicare non tanto come "evento Cristo", quanto come "divenire cristico".

Un’ultima riflessione riguarda il concetto di salvezza. Nel Nuovo Testamento la salvezza viene spesso collegata alla vita eterna (Mt 25, 46; Mc 10, 30; Gv 3, 36; 6, 47.54; Rm 2, 7; Gal 6, 8; Tt 1, 2; 1 Gv 5, 11.13). Noi cristiani sappiamo che "è lo Spirito che dà la vita" (Gv 6, 63; cfr. Rm 8, 2) e che la vita è quell’impulso che collega e struttura il caos (creazione). La vita eterna, allora, non può non essere una nuova vittoria della creazione sul caos, cioè il permanere dell’organizzazione delle parti sul ritorno alla disorganizzazione primordiale. Non si può entrare nella vita eterna se non si diventa parte del tutto cosmico. La vita eterna è vittoria sulla morte in quanto è vittoria del cosmo organizzato da Dio sul caos. Non si può avere in dono la vita eterna se non si accoglie il tutto; non è un dono al singolo individuo, ma un dono all’universo. Entrare nella vita eterna non può essere un ingresso in uno stato di separazione della propria persona dal resto, cioè non può essere un destino individuale dell’uomo. Dev’essere un ingresso in uno stato di unificazione di sé con gli altri, col mondo e con Dio. Ecco perché, tra l’altro, in alcuni luoghi si parla di un’attesa della creazione di "avere parte alla libertà della gloria dei figli di Dio" (Rm 8, 21) e di riunione di tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra (Ef 1, 10).

Se la vita è emergenza dell’organizzazione e strutturazione del caos, il culmine della vita è la coscienza personale, perché con essa si raggiunge il massimo distacco dall’indistinto. Pertanto, nella vita eterna questa coscienza personale non può andare persa, altrimenti non sarebbe più vita, o comunque sarebbe un passo indietro, una vita di livello inferiore. La vita eterna, dunque, da un lato significa unità con Dio, con gli altri e col cosmo, dall’altro mantenimento dell’identità personale. Concepirla come comunione cristica salvaguarda, a mio avviso, entrambe le esigenze. La comunione, infatti, proprio perché comunione tra persone, non è indistinzione. Se così fosse, l’escatologia sarebbe contraddittoria: partirebbe dall’indistinto e condurrebbe a un ritorno all’indistinto; anzicchè immettere in un tempo futuro e lineare, immetterebbe in una circolarità senza fine né scopo. La concezione della salvezza come comunione cristica universale nella quale intervengono persone individuali evita questa contraddittorietà.

Né sembra possibile parlare di uno stato di indistinzione, di uno stato impersonale a proposito di altri nomi che il Nuovo Testamento dà alla salvezza, come pace (che esiste tra due o più in relazione tra loro e non è una condizione indistinta), gioia (che non sarebbe tale se fosse indistinta e non avesse certe caratteristiche e qualità), amore (che non può che essere rivolto a qualcuno distinto da sé).

Ciò consente di superare, a mio avviso, il rischio che l’escatologia contraddica se stessa. Scrive Sergio Rostagno: "L’escatologia promette di far ritornare proprio là dove si era cominciato. Occorre quindi vigilare e forse cominciare con una critica dell’escatologia. Soltanto in questo modo si può arrivare a togliere all’escatologia il carattere contraddittorio che essa pare avere e quindi far sì che essa possa effettivamente rispondere al timore di ricadere in una specie di risucchio." 3

Ritengo, per quanto fin qui detto, che questa "critica dell’escatologia" non debba consistere né in una sua messa da parte, né nel passaggio da un’escatologia individuale a un’escatologia cosmica, o viceversa; bensì nel mostrare che l’escatologia non è né individuale né universale, perché non può non essere contemporaneamente personale e cosmica, dato che l’individuo che entra nella vita eterna diventa parte del tutto.

 

 

NOTE

  1. Mazzocchi L., A mons. Bertone – Congregazione per la dottrina della fede, in La stella del mattino, n. 1, 2000, pag. 39.

  2. Ratzinger J., Eucaristia come genesi della missione, conferenza magistrale al XXIII CEN, Bologna, 1997, in Il Regno – documenti, n. 802, 19, 1997, pag. 590.

  3. Rostagno S., L’identità cristiana nell’escatologia protestante del XX secolo, in AA.VV., Escatologia contemporanea, EMP, Padova, 1995, pag. 152.