LA MORTE COME TRASFORMAZIONE DELL’UNITÁ ANIMA-CORPO

 

 

In questo paragrafo sarà avanzata e discussa la proposta che con la morte si abbia la trasformazione di ogni uomo, prestabilita da Dio per ogni uomo, da unità anima-corpo materiale a unità anima-corpo immateriale.

La posizione tradizionale della Chiesa cattolica è quella di riferirsi ai defunti come ad anime separate dal corpo. Tuttavia, la Chiesa, pur asserendo l’esistenza di uno stato intermedio del singolo uomo (quello che va dalla morte alla parusia) e l’immortalità dell’anima nel Concilio Lateranense V (1513), non ne ha mai dato una specificazione definitoria. Il Catechismo della Chiesa cattolica (1992) afferma che "con la morte, separazione dell’anima e del corpo, il corpo dell’uomo cade nella corruzione" (n. 997). È evidente che si parla del corpo materiale. Lo stesso documento afferma che "l’anima non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte" (n. 366). Qualcosa di più sulla natura e le proprietà dell’anima dopo la morte viene detto nella Lettera su alcune questioni concernenti l’escatologia (1979), documento della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, nel quale si parla di "sopravvivenza e sussistenza dopo la morte di un elemento spirituale, il quale è dotato di coscienza e di volontà, in modo tale che l’io umano sussista, pur mancando nel frattempo del completamento del proprio corpo". Questa concezione è ripresa dalla lettera apostolica di Giovanni Paolo II Salvifici Doloris (1984) al n. 15 e dal documento della Commissione Teologica Internazionale dal titolo Alcune questioni riguardanti l’escatologia (1992).

L’ipotesi che ho avanzato all’inizio non è in contrasto con questi documenti, poiché essi escludono che nello stato intermedio l’anima sia unita a un corpo materiale, ma non escludono che sia unita a un corpo immateriale. Anzi, cercherò di mostrare che l’"elemento spirituale dotato di coscienza e volontà" non può non essere dotato di un corpo immateriale. È chiaro che una tale ipotesi dev’essere ampiamente giustificata. Nelle pagine che seguono proporrò dunque giustificazioni bibliche, antropologiche, relazionali e metafisiche.

Si può cominciare con l’asserire che l’ipotesi non contrasta con alcuni dati biblici, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, che mostrano la morte come un fatto naturale, come una conseguenza insita nella legge della vita. Nell’Antico Testamento si afferma che la morte "è un decreto di Dio per ogni vivente" (Sir 41, 3) e che "tutti dobbiamo morire, e siamo come acqua che, sparsa sulla terra , non si può più raccogliere, né Dio rianimerà un cadavere" (2 Sam 14, 14). Nel Nuovo Testamento Gesù dice che "se il chicco di grano caduto in terra non muo- re, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12, 24). E nella Lettera agli Ebrei leggiamo che "è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta" (Eb 9, 27).

Vi sono poi alcuni passi del Nuovo Testamento che lasciano intendere la presenza di anime con corpi alla venuta di Cristo. In Mt 24, 31 e Mc 13, 27 si legge che alla venuta di Cristo gli angeli raduneranno gli eletti nei cieli. E l’Apocalisse attesta che, prima della parusia, i martiri e "tutti quelli che non avevano adorato la be- stia, né la sua statua, né avevano ricevuto la sua impronta sulla loro fronte e sulle mani si sedettero sui troni" (Ap 20, 4). Ciò accade prima che i morti compaiano davanti al trono per l’ultimo giudizio (versetto 12).

Questi passi fanno supporre l’esistenza di una unità anima-corpo prima della parusia, o quanto meno non la escludono. Riesce infatti difficile pensare ad anime senza corpo che possano essere radunate o possano sedersi su troni. Il radunarsi e il sedersi sono azioni il cui compimento presuppone l’esistenza di soggetti come elementi definibili e individuabili, cioè come aventi un corpo.

Alcuni luoghi biblici attestano che il destino del corpo non è separato da quello dell’anima, dato che anima e corpo possono perire nella geenna (Mt 10, 28; 18, 8-9; Mc 9, 43-48; Lc 6, 25). La proposta che con la morte si abbia una trasformazione dell’unità anima-corpo si accorda con essi.

Vi sono poi alcune pericopi paoline che lasciano intendere che anche dopo la morte avremo un corpo. Nella prima Lettera ai Corinzi, Paolo afferma che "se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale" (1 Cor 15, 44). Nella seconda Lettera ai Corinzi, dice che quando sarà distrutta la nostra dimora terrestre, ci rivestiremo di una abitazione celeste (2 Cor 5, 1-2). E nella prima Lettera ai Tessalonicesi, rivolge loro queste parole: "Tutto quello che è vostro, spirito, ani- ma e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo" (1 Ts 5, 23). Paolo non potrebbe voler dire qui che Gesù Cristo verrà mentre loro saranno ancora in vita, poichè questa poteva essere al più una sua speranza, non una certezza.

Un altro sostegno all’ipotesi dell’esistenza di un corpo dopo la morte e prima della risurrezione è dato dall’episodio della trasfigurazione, riportato da tutti e tre i sinottici (Mt 17, 1-8; Mc 9, 2-8; Lc 9, 28-36). A Pietro, Giacomo e Giovanni, dopo che il corpo di Cristo si è trasfigurato, appaiono Mosè ed Elia che parlano con lui. Poiché "Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti" (1 Cor 15, 20), i corpi di Mosè ed Elia visti dagli apostoli prima della risurrezione di Cristo non erano già risuscitati; poiché non erano neanche i loro corpi materiali prima della loro morte, si deve dedurre che si trattasse di corpi immateriali; o meglio, di unità anime-corpi immateriali in attesa della riassunzione della materia con la risurrezione.

L’idea che il corpo materiale possa diventare immateriale è suffragata anche dal fatto che qualcosa di assai simile può avvenire anche durante la vita, sebbene solo in alcuni casi eccezionali. A parte l’episodio del corpo di Cristo trasfigurato, vi sono numerosi fenomeni "soprannaturali", sulla cui storicità e attendibilità non possono esservi dubbi, essendovi numerose testimonianze dirette, che riguardano alcuni mistici e santi: casi di sopravvivenza in anoressia totale (santa Caterina da Siena, Louise Lateau, Mollie Foncher, Marthe Robin, Teresa Neumann), di incombustibilità (san Francesco di Paola, santa Bernadette), di volo mistico o levitazione (san Francesco d’Assisi, san Domenico, san Francesco di Paola, sant’Ignazio di Loyola, san Francesco Saverio, santa Teresa d’Avila, san Pietro d’Alcantara, san Filippo Neri, santa Maria Maddalena de’ Pazzi, san Giuseppe da Copertino, sant’Andrè Hubert Fournet, san Cottolengo, santa Gemma Galgani, suor Maria di Gesù Crocifisso, suor Maria della Passione), di bilocazione (santa Lidvina, sant’Antonio da Padova, san Francesco Saverio, sant’Alfonso de’ Liguori, Marthe Robin, Caterina Emmerich, san Pio da Pietralcina). Come spiegare questi fenomeni, se non ammettendo che il corpo diventa immateriale, cioè non più soggetto alle leggi della materia?

Un’altra serie di dati biblici sembrano attestare che Cristo, dopo la morte e prima della risurrezione, aveva un corpo immateriale. Egli prima della risurrezione è disceso agli inferi, o nel soggiorno dei morti (Mt 12, 40; Rm 10, 7; Ef 4, 9; 1 Pt 3, 19; 1 Pt 4, 6). La Lettera agli Efesini afferma che "colui che discese è lo stesso di colui che ascese" (Ef 4, 10). Che questo passo si riferisce alla discesa agli inferi è confermato anche dal Catechismo della Chiesa cattolica, al n. 631. Ma se il Cristo disceso agli inferi è lo stesso del Cristo risorto e asceso al cielo, il Cristo disceso agli inferi aveva un corpo, come quello asceso al cielo. Poiché non poteva essere il corpo materiale, non essendo ancora avvenuta la risurrezione, si deve pensare a un corpo immateriale. Si deve cioè pensare che sia avvenuta una trasformazione del corpo di Cristo da materiale a immateriale subito dopo la sua morte e prima della sua risurrezione.

Vi è un altro dato biblico a sostegno di ciò, ed è che Cristo negli inferi ha predicato ai morti (1 Pt 3, 19; 4, 6); e appare problematico pensare a un’azione compiuta senza alcun corpo come strumento.

Se Cristo dopo la sua morte e prima della risurrezione aveva un corpo immateriale, poiché noi siamo "completamente uniti a lui con una morte simile alla sua" (Rm 6, 5) e siamo predestinati da Dio "ad essere conformi all’immagine del Figlio suo" (Rm 8, 29), il quale trasformerà il nostro corpo "rendendolo simile al suo corpo glorioso" (Fil 3, 21), si deve concludere che prima della risurrezione anche noi avremo un corpo immateriale.

Del resto, anche i morti che Cristo va a incontrare nella sua discesa agli inferi, stando a diversi passi neotestamentari, sembrano essere dotati di un corpo, dato che hanno la capacità di ascoltare (Gv 5, 28; 1 Pt 3, 19; 4, 6).

E vi è ancora un dato biblico a sostegno dell’ipotesi proposta. Nel racconto di Lc 16, 19-31, come farebbe il ricco morto a riconoscere il mendicante Lazzaro in paradiso (v. 23), se questi non avesse un corpo? E come potrebbe alzare gli occhi (v. 23), vedere Abramo e Lazzaro (v. 23), parlare ad Abramo (vv. 25-26; 29; 31), se non avesse lui stesso un corpo?

Fin qui abbiamo visto le giustificazioni bibliche dell’esistenza dell’uomo dopo la morte come unità di anima e corpo immateriale. Ma vi sono da fare altre considerazioni a sostegno dell’ipotesi proposta. Una è di tipo antropologico: se anche dopo la morte l’uomo rimane uomo e agisce umanamente, come potrebbe farlo uno spirito puro? Come potrebbe un’anima senza corpo agire umanamente?

Un’altra riflessione chiama in causa la capacità relazionale dell’uomo. L’uomo entra in relazione con gli altri e col mondo attraverso il suo corpo. Se diventasse un’anima senza corpo non potrebbe più farlo. Solo con un corpo è possibile relazionarsi ad altro da sé. Se dopo la morte gli uomini rimanessero anime senza corpi, non sarebbe loro possibile sviluppare e portare a pienezza la relazione e la comunione con gli altri e col cosmo. Non solo, ma senza ammettere una distinzione tra corpi e una loro distinguibilità, sarebbe molto problematico concepire anche la comunione dei santi, l’essere "presso" Dio (2 Cor 5, 8; Ap 3, 21) e la visione di Dio (Mt 5, 8; 1 Cor 13, 12; Eb 12, 14; 1 Gv 3, 2).

Qualche teologo cattolico ha sostenuto che così come l’anima è nel corpo, il corpo è nell’anima. Secondo Guardini, l’anima "si è attuata nel corpo, per cui ciò che vi si compì essa lo assunse nella sua propria realtà". 1 Secondo Baget-Bozzo, "l’anima "separata" è un’anima che è stata corpo ed è segnata per sempre dalla storia del suo corpo. Tutti gli atti storici dell’anima permangono in essa, e permangono in quanto atti spirituali e corporei insieme. L’anima è anche e soprattutto ciò che è divenuta mediante il corpo, cioè la storia di tutti i suoi atti". 2 Ma la domanda che io pongo è questa: Guardini dice che l’anima assunse ciò che si compì nel corpo. E ciò che non si compì? Baget-Bozzo dice che l’anima è segnata per sempre dalla storia del suo corpo. E ciò che non è potuto entrare in questa storia? Si pensi ai bambini morti subito dopo la nascita, che non hanno usato il loro corpo, né l’hanno esperito. Si pensi ai ciechi nati, ai sordi, ai muti, ai minorati fisici e psichici. Non riesco a credere che Dio Amore non darà mai a quei bambini che non hanno mai visto né fatto nulla la possibilità di vedere e di fare. Non posso credere che Dio Amore non darà mai ai ciechi la possibilità di vedere, ai sordi la possibilità di sentire, ai muti la possibilità di parlare, ai minorati fisici la possibilità di camminare, ai minorati psichici la possibilità di capire. Ma con che cosa agiranno, vedranno, ascolteranno, parleranno, cammineranno, se non con un corpo? Anche ammettendo che l’anima da sola ne sarebbe capace, non potrebbe farlo, secondo i teologi citati, perché il suo corpo non ne era capace ed essa è diventata ciò che il suo corpo l’ha fatta diventare. E chi per una gravissima malattia organica del cervello non ha potuto mai capire e ragionare, come potrà più farlo? Se il suo corpo non ne è stato capace, neanche la sua anima da sola ne sarà capace, se essa ha assunto solo ciò che si compì nel corpo, se essa è "ciò che è divenuta mediante il corpo". Chi ritiene di risolvere il problema della pensabilità di un’anima umana separata dal corpo, affermando che il corpo è "entrato" nell’anima, è stato "assunto" nell’anima, non può evitare di rispondere a queste domande. L’unica possibile risposta (che i ciechi resteranno per sempre ciechi, i sordi per sempre sordi, ecc.) mi sembra inaccettabile. E non solo perché non si concilia con l’attestazione biblica che Dio è amore; ma anche perché è in contrasto con i dati biblici attestanti che i morti vedono, ascoltano, parlano, agiscono. Si dovrebbe, tra l’altro, ammettere che Cristo disceso negli inferi non è stato ascoltato da quei morti che in vita erano sordi. Cioè che Dio, non donando a loro la possibilità di ascoltare, non ha donato neanche la possibilità di salvarsi.

Tutto ciò fa convergere, a mio avviso, verso una conclusione: non è il corpo materiale, con i suoi limiti, i suoi difetti, le sue malattie e la sua degenerazione, che viene "assunto" nell’anima; ma è il corpo immateriale, che è per così dire "stampato" nell’anima. Non esiste anima che non sia unità con un corpo immateriale. Ciò è in accordo anche con un altro dato biblico, quello che anche gli angeli hanno un corpo, poiché sono apparsi a molti (Tb 5, 4s; Ez 9, 2-4; Dn 9, 21-27; 10, 4s; Zc 1-6; Mt 2, 13; 28, 2-7; Mc 16, 5-7; Lc 1, 11-20.26-38; 2, 9-15; 24, 4-7). L’uomo terreno, unità di anima e corpo materiale, è il risultato della creazione da parte di Cristo. Con la morte l’anima si separa dal suo corpo materiale, dalla materia con le sue leggi, ma non dal suo corpo immateriale. Non c’è propriamente separazione dal corpo, bensì dalla materia.

La morte allora non è morte, ma trasformazione dell’unità anima-corpo materiale in unità anima-corpo immateriale. L’uomo, unità anima-corpo, rimane, non muore; ma si trasforma. Questa trasformazione avviene subito dopo la morte, è istantanea, "intrinseca" e "naturale". Il corpo immateriale non viene cioè creato, poiché è già unito all’anima. Fino alla risurrezione della carne, l’uomo vive come unità anima-corpo immateriale.

È dunque possibile pensare alla morte in termini di trasformazione e continuità, e non di separazione e rottura. E ciò sembra molto più aderente a quanto pare dirci Paolo quando afferma che "Cristo trasformerà il nostro corpo mortale" (Fil 3, 21). O quando dice che ciò che è mortale sarà "assorbito dalla vita" (2 Cor 5, 4). Del resto, quando egli parla di peccati contro il corpo (1 Cor 6, 18), è chiaro che intende sottolineare il valore e la dignità del corpo. E intende affermare che non è il corpo che pecca, ma l’uomo. Non vi è, cioè, una natura peccaminosa del corpo, ma una condizione esistenziale, materiale, terrena e storica in cui il corpo si trova, schiavo del peccato. Il corpo è dunque da liberare e da salvare, e non è una sostanza inferiore di cui la morte ci libera. La morte non è liberazione dal corpo, ma inizio del processo di liberazione del corpo, che va dalla trasformazione dell’uomo alla risurrezione parusiaca. Questo processo fa parte del processo di comunione cristica.

Ho detto all’inizio del paragrafo che avrei proposto anche giustificazioni di tipo metafisico all’ipotesi avanzata. Mi propongo di farlo adesso, premettendo che sarà necessario riprendere brevemente i concetti basilari della metafisica di Aristotele.

Egli parte dalla considerazione che non è possibile che qualcosa cambi se non c’è qualcosa che non cambia, se il soggetto del cambiamento non resta. Nel passaggio da uno stato a un altro, che i nostri sensi percepiscono continuamente, qualcosa persiste: è la sostanza. Se non vi fosse la sostanza, non si potrebbe dire niente di alcunchè. La sostanza è unità di materia e forma (sinolo). La forma può esistere senza materia, mentre la materia non può esistere senza forma, perché sarebbe priva di qualunque determinazione, e quindi non potrebbe avere esistenza propria e non sarebbe neppure pensabile.

Quando Aristotele parla di forma, intende non la configurazione esterna di un corpo, ma l’attualizzazione della sua finalità, che ne garantisce l’unità nella molteplicità e la permanenza nel divenire. La forma, secondo Aristotele, è atto, mentre la materia è potenza e non può passare da sé alla forma in atto di un ente individuale. Questo passaggio presuppone una forma già in atto, che in ultima istanza è Dio come forma e atto "puro", cioè senza materia.

La forma dei corpi viventi è l’anima, che perciò dà la vita a un corpo che ha la vita in potenza. La Chiesa cattolica ha accettato nel Concilio di Vienna (1312), dopo la valorizzazione del pensiero aristotelico operata da san Tommaso d’Aquino, che l’anima è la forma del corpo.

La domanda che a questo punto occorre porsi è questa: è possibile che dopo la morte l’anima non rimanga anima, cioè non sia più forma del corpo e non abbia più la stessa funzione, di attualizzazione della finalità del corpo, per la quale Dio l’ha creata? San Tommaso d’Aquino, divergendo in questo da Aristotele, distingue, come al-Farabi, tra essenza ed esistenza, separabili nelle creature ma non in Dio, e sostiene che l’essenza, in cui rientra l’anima, è potenza, mentre l’esistenza è atto. Secondo Aristotele, invece, la forma non si può separare dall’esistenza, non può non esistere, perché è atto. La forma in quanto principio di determinazione non può esistere senza ciò che determina (cfr. Metafisica, VIII, 1). E Duns Scoto è fedele interprete di Aristotele quando afferma, divergendo da Avicenna e da san Tommaso, che l’essenza non può essere separata dall’esistenza; tale separazione non può esistere di fatto, ma solo di ragione. La concezione di Aristotele e Duns Scoto evita in realtà la difficoltà in cui incorre la metafisica di san Tommaso ammettendo la separazione della forma dall’atto: considerare l’anima o come potenza pura, quindi priva di qualunque determinazione, o come atto puro, cioè come Dio, identificando così di fatto la creatura con il Creatore.

La riflessione filosofica su forma e materia, atto e potenza sembra dunque condurre a negare la possibilità di esistenza di anime senza corpo. L’anima è tale in quanto ha un corpo; il corpo è tale in quanto ha un’anima.

L’idea dell’esistenza dopo la morte di un corpo immateriale è supportata da un’altra considerazione metafisica. Se ogni ente, secondo la metafisica di Aristotele, è insieme atto e potenza, perché la forma è l’attualizzazione di una potenzialità, e se solo Dio è semplice e non composto (forma pura, atto puro), l’uomo dopo la morte, essendo ancora un ente, individuale e determinato, non essendo Dio, pura forma, e non essendo forma di un corpo materiale, che con la morte non ha più vita, non può essere altro che forma di un corpo immateriale, e cioè unità anima (atto)-corpo immateriale (potenza).

Ciò non significa che vi sia nell’uomo un dualismo di tipo platonico tra due sostanze separate, una sostanza materiale, unità di forma e materia, e una sostanza spirituale, unità di forma e materia "metafisica". Questa è la posizione della scuola francescana (Alessandro di Hales e san Bonaventura), alla quale si oppose la scuola domenicana, con sant’Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino. È più pertinente parlare non di dualismo ontologico trascendente di tipo platonico, bensì di dualità immanente di tipo aristotelico. L’uomo è sempre un sinolo, una unità, una "sostanza", e non due. Durante la vita è unità di anima e corpo materiale; dopo la morte e prima della risurrezione è unità di anima e corpo immateriale; dopo la risurrezione sarà unità di anima e corpo materiale, ma "incorruttibile" e "spirituale" (1 Cor 15, 42-44), cioè non più soggetto alla morte e guidato dallo Spirito.

Al dualismo ontologico trascendente, infatti, che ha una lunga tradizione nella storia della filosofia (Pitagora, Platone, Origene, Plotino, sant’Agostino, Scoto Eriugena, Alessandro di Hales, san Bonaventura, Cartesio, Geulincx, Malebranche), si possono opporre numerose obiezioni filosofiche, che si possono riassumere in quelle fatte a Cartesio, che ne è il maggiore rappresentante in età moderna. La prima obiezione è quella di Hobbes: il passaggio, operato da Cartesio, dalla proposizione "io sono una cosa che pensa" (indubitabile) alla proposizione "io sono una sostanza pensante" è illegittimo, perché la cosa che pensa può essere lo stesso corpo e non è dimostrato che sia una sostanza spirituale.

Una seconda critica è quella di Spinoza: se la sostanza è ciò che è in sé, come dice lo stesso Cartesio, solo Dio è sostanza; non lo sono né il pensiero, né l’estensione. Il pensiero non è ciò che è in sé, perché non è causa di se stesso; l’estensione non lo è perché è divisibile all’infinito.

Kant ha obiettato a Cartesio che il fatto che ho coscienza di esistere non significa che conosco questa coscienza come sostanza: il passaggio dalla coscienza alla sostanza è illegittimo.

Infine, Ryle ha evidenziato che Cartesio compie l’errore categoriale di considerare i fatti mentali come appartenenti a una categoria diversa da quella alla quale appartengono, per cui l’anima sostanziale diventa come uno "spettro nella macchina".

Questi problemi del dualismo trascendente di tipo platonico non sono invece riferibili o trasferibili alla dualità immanente di tipo aristotelico, che ha rappresentato un’altra importante linea di pensiero della filosofia occidentale (Aristotele, Temistio, sant’Alberto Magno, san Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Caetano, neotomismo).

Vi è un’ultima giustificazione, di tipo metafisico e biblico insieme, all’ipotesi dell’esistenza di un corpo immateriale dopo la morte: l’individualità di un ente non può prescindere da un corpo, comporta che l’ente abbia un "corpo", una "materia". Infatti, uno spirito "puro", senza "corpo" non sarebbe percepibile come ente individuale dall’uomo terreno. Ora, la Bibbia narra di due episodi in cui persone viventi hanno percepito defunti: la donna che su richiesta di Saul vede Samuele che era morto (1 Sam 28, 11-20) e gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni che vedono Mosè ed Elia nell’episodio della trasfigurazione (Mt 17, 1-8; Mc 9, 2-8; Lc 9, 28-36). La conclusione non può essere che una: quei morti sono stati percepiti come enti individuali e riconoscibili, quindi avevano un corpo. Non potevano essere anime senza corpo, spiriti "puri"; erano unità di anima e corpo. E poiché il corpo non poteva essere materiale, erano unità di anima e corpo immateriale.

La metafisica aristotelica può condurci, dunque, a mio avviso, a dare un sostegno filosofico e razionale all’ipotesi della trasformazione con la morte dell’unità anima-corpo materiale in unità anima-corpo immateriale. Tale sostegno di tipo metafisico si aggiunge a quello fornito dai dati biblici. Come afferma Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio (1998) al n. 67, la conoscenza per fede fa emergere "alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di ricerca".

Dopo avere scritto questo paragrafo fino a questo punto, ho fatto un sogno, la notte tra il 24 e il 25 agosto 2002, che potrebbe essere una conferma di quanto fin qui sostenuto. Nel sogno, ero coricato nel mio letto e accanto a me vedevo coricato me stesso, immobile, e avevo la netta sensazione di avere due corpi. Non avevo dubbi né sul fatto che quello accanto a me fosse il mio corpo, né sul fatto che io che lo guardavo avessi il mio corpo. Mia moglie era distesa accanto all'"altro" corpo e a un certo punto ho sentito che ripeteva: è morto, è morto. E allora mi sono svegliato.

Escludendo che si tratti del sogno di un fenomeno di bilocazione, perché manca la percezione del mio corpo agente da parte di qualcuno, rimangono, io credo, due possibili spiegazioni: o ho sognato ciò che in realtà accade subito dopo la morte, cioè la separazione dell'unità anima-corpo immateriale dal corpo materiale; oppure ho sognato qualcosa che credo o desidero accada. Ma in quest'ultimo caso, poiché durante il sogno, prima di ascoltare le parole di mia moglie, ero convinto non di essere morto, ma di avere due corpi, dovrei pensare a un desiderio cosciente di avere due corpi, desiderio che non ho avuto, mentre trovo difficile giustificare un mio eventuale desiderio inconscio di avere due corpi. Considerando anche che molte persone uscite da un coma hanno raccontato di avere osservato il loro corpo mentre giaceva inerte, ritengo possibile e più probabile la prima spiegazione; cioè, che ho avuto, a distanza di undici anni dal primo, un altro sogno relativo a qualcosa che mi accadrà dopo la morte.

 

 

NOTE

  1. Guardini R., I novissimi, Vita e Pensiero, Milano, 1951, pag. 52.

  2. Baget-Bozzo G., La teologia dell’anima, in Renovatio, 9, 1974, pag. 498.