LA NOVITÁ DELL'AUTOCOMPRENSIONE NELLA FEDELTÁ ALLA

TRADIZIONE E NELLA CONTINUITÁ DELL'ISTITUZIONE

 

 

Si è cercato fin qui di mostrare che la proposta di una nuova autocomprensione della Chiesa cattolica come Chiesa anche dei "non cristiani" è motivabile e giustificabile alla luce dei dati biblici e delle attestazioni magisteriali. E in effetti, fedeltà alla tradizione apostolica ed ecclesiastica non può significare né fissità né immodificabilità di quanto a un dato momento è compreso della rivelazione.

Alcuni sembrano giustificare la loro contrarietà a ogni rinnovamento invocando la tradizione. Ma la novità dell’autocomprensione proposta in questo libro non significa infedeltà alla tradizione. Soffermiamoci, infatti, brevemente sul concetto di tradizione.

Quanto gli apostoli hanno ricevuto da Cristo durante la sua vita terrena, poi da Cristo risorto e dallo Spirito Santo e hanno trasmesso costituisce la tradizione apostolica ed è il riferimento essenziale della fede e della pratica cristiana. Tra gli apostoli vanno considerati non solo i Dodici dei Sinottici e degli Atti, ma anche Giacomo, "fratello del Signore" e capo della comunità di Gerusalemme, e Paolo, per il loro incontro col Signore risorto (1 Cor 15, 7-9).

Poiché gli unici scritti del Nuovo Testamento attribuiti da tutti gli esegeti con certezza a un apostolo sono sette Lettere di Paolo (1 Ts, Gal, 1 Cor, 2 Cor, Rm, Fil, Fm) e poiché non si può affermare che questi sette scritti esauriscano ciò che gli apostoli hanno ricevuto e trasmesso, ciò che è stato loro rivelato da Cristo durante la sua vita terrena e/o da Cristo risorto e/o dallo Spirito Santo, allora si deve ritenere che una parte, anzi la maggior parte, della tradizione apostolica è stata trasmessa o oralmente, o attraverso scritti che non vengono in modo unanime e certo attribuiti a un singolo apostolo.

In sostanza, il fatto che un testo non sia stato di fatto scritto dall’apostolo cui viene attribuito non significa che non rifletta ciò che tale apostolo ha trasmesso. Si deve pensare alla possibilità di una tradizione apostolica non scritta che a un certo punto, anche dopo la morte dell’apostolo, viene messa per iscritto e diventa poi parte del canone. La circolazione di tradizioni orali nel primo secolo e nel secondo è confermata dal fatto che alcune citazioni del Vangelo da parte dei Padri apostolici non corrispondono letteralmente al testo canonico ed è possibile che si basassero su tradizioni trasmesse oralmente.

Il problema che si può porre a questo punto è quello di capire se quanto viene trasmesso in uno scritto attribuito a un apostolo è effettivamente quanto l’apostolo ha trasmesso, oppure è stato modificato. Poiché la trasmissione avviene all’interno di una comunità, ciò che l’apostolo ha trasmesso può essere stato applicato alla mutata situazione in cui viveva e operava la comunità; anche se, perché ciò sia riconosciuto, occorrono due condizioni: che tale mutata situazione ci sia realmente e che la concezione nuova possa essere derivata chiaramente da quella dell’apostolo. Quest’ultima condizione è molto importante, perché, se non si ponesse, si potrebbe anche concludere che la tradizione apostolica dipende solo dalle culture e può cambiare con esse, cosicché ogni gruppo avrebbe la propria.

La tradizione apostolica messa per iscritto si trova nei testi canonici. Ma parte della tradizione apostolica non fissata nei testi canonici è confluita nella tradizione ecclesiastica. L’esistenza di una tradizione apostolica trasmessa oralmente e non fissata nei testi è attestata in modo chiarissimo nello stesso Nuovo Testamento (Mt 28, 19-20; Gv 17, 20; 20, 30; 21, 25; Rm 10, 17; 16, 17; 1 Cor 11, 23; 15, 3; 1 Ts 4, 2; 2 Ts 2, 15).

La tradizione apostolica scritta finisce con la redazione dell’ultimo scritto del Nuovo Testamento (la seconda Lettera di Pietro o la terza Lettera di Giovanni). A questo punto inizia la tradizione ecclesiastica, la quale comprende tradizioni apostoliche che non sono state messe per iscritto nei libri canonici. Così si pone il problema di capire fino a che punto la tradizione ecclesiastica contiene la tradizione apostolica. Anche perché la tradizione apostolica si riflette anche nell’aspetto istituzionale della Chiesa, perché non si può dire, secondo gli stessi testi del Nuovo Testamento, che gli apostoli non hanno avuto nulla a che fare nell’istituzione dei ministeri, o che sono esistite comunità primitive o "Chiese domestiche" senza alcun ministero.

Anche se si ritiene improbabile che le tradizioni apostoliche non scritte e non fissate nel canone perdurino oltre un certo tempo senza diventare tradizione ecclesiastica, si può estendere questo tempo fino alla fissazione del credo niceno-costantinopolitano (381). E il "credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica" non viene contraddetto, come ho cercato di mostrare in tutto il libro, dal fatto che la Chiesa si comprenda come Chiesa dei cristiani e dei "non cristiani".

La tradizione apostolica scritta, inoltre, comprende delle riflessioni teologiche, cioè un’interpretazione di quanto è stato rivelato. Le parole dell’Antico Testamento e le parole e gli atti di Gesù dovevano essere interpretati alla luce della sua morte di croce e della sua risurrezione. Tali riflessioni si sono via via aggiunte al kerigma originario come sue esplicitazioni, giungendo a una progressiva comprensione dell’evento Cristo, che costituisce l’essenza del Nuovo Testamento. Quando questa comprensione e interpretazione era propria degli apostoli, essa entrava a far parte della tradizione apostolica. Quando non era quella degli apostoli, questo veniva segnalato, e da ciò la nascita delle eresie.

Il messaggio evangelico è stato e sarà sempre interpretato dagli uomini. Anche la posizione protestante secondo cui non ci deve essere interpretazione è un’interpretazione. E rimane sempre un certo margine per interpretazioni non coincidenti o differenti. Tutta la storia del cristianesimo lo conferma ampiamente. Ognuno potrebbe dunque trasmettere la "sua" interpretazione del messaggio evangelico. Ma se si trasmettessero come accettabili tutte le interpretazioni possibili, si rischierebbe di non trasmettere più il messaggio originario, o di smarrirne il senso, o di farne tutto e il contrario di tutto. D’altronde, se si negasse qualunque interpretazione, si rischierebbe una comprensione astorica, che porterebbe al fariseismo e all’immobilismo. Occorre, dunque, che alcune persone siano abilitate a dare l’interpretazione più fedele. Chi sono queste persone?

Il perdurare del ministero apostolico fino alla fine dei tempi è volontà di Cristo, il quale dice: "Tutte le volte che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, celebrate la morte del Signore, finché egli venga" (1 Cor 11, 26); "Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28, 20). Ma dopo la morte degli apostoli, il loro ministero non può perdurare che in altre persone, e cioè nei vescovi.

Nelle comunità paoline la successione apostolica viene legata anche alla trasmissione della Parola, cioè alla trasmissione del messaggio cristiano (1 Tm 4, 6.11.13; 6, 20; 2 Tm 4, 2; Tt 1, 9; 2, 1). Ma il collegamento alla predicazione e all’insegnamento può farsi risalire allo stesso Cristo (Mt 28, 19-20; Mc 16, 15; Lc 9, 2; 10, 16; Gv 17, 20). E anche Paolo, come gli altri apostoli, è invitato da Cristo ad insegnare e annunciare la Parola di Dio (At 18, 9-11).

Tutto ciò costituisce un fondamento per la struttura ministeriale della Chiesa e per la necessità del Magistero.

Ma il fondamento ultimo dell’autorità nella Chiesa è costituito dallo Spirito Santo, che viene dato a tutti (At 2, 17; 10, 44-45; 1 Cor 12, 3; 2 Cor 13, 13). E proprio secondo il Magistero, l’intelligenza delle realtà e del deposito della fede può progredire anche "con la riflessione e lo studio dei credenti" (DV n. 8). Ancora il Vaticano II afferma che "la ricerca teologica […] prosegue nella conoscenza profonda della verità rivelata" (GS n. 62). E le stesse cose dice il Catechismo della Chiesa cattolica al n. 94. Anche Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte (2001) al n. 56 afferma che "la Chiesa non finirà mai di indagare, contando sull’aiuto del Paraclito". E J. Ratzinger si esprime in questi termini: "La Chiesa cattolica sa, tramite la fede, cosa Dio ci ha detto nel corso della storia della Rivelazione. Naturalmente la comprensione che gli uomini ne hanno – anche quella che la Chiesa ne ha è inadeguata rispetto a ciò che Dio ha effettivamente detto. Perciò la fede si evolve. […] Questo significa che c’è sempre un’eccedenza della Rivelazione, un qualcosa di "ulteriore" non solo rispetto alla comprensione che ne ha il singolo, ma anche rispetto alla conoscenza che ne ha la Chiesa". 1

Tutto ciò ha dei richiami biblici: in Mt 13, 52, secondo cui dal tesoro del Regno, e della rivelazione, si possono trarre fuori cose antiche e cose nuove; in Gv 16, 13, secondo cui lo Spirito Santo porterà i discepoli alla pienezza della verità; e in Gv 14, 6, in cui Cristo si rivela come la via, e dunque incontrare Cristo significa per noi essere sempre in cammino e non ritenerci già arrivati.

Ed è proprio nel Nuovo Testamento, che racchiude la tradizione apostolica messa per iscritto, che veniamo invitati a rendere sempre ragione della nostra speranza (1 Pt 3, 15). La Chiesa cattolica mi dà speranza perché è sempre aperta allo Spirito. Perché, per ricordare due esempi, oggi è impegnata fortemente nell’ecumenismo, mentre ancora nel 1949 una Istruzione del Sant’Uffizio lo ostacolava; e Giovanni Paolo II ha fatto cardinali due esponenti della "théologie nouvelle" (Jean Daniélou ed Henri de Lubac), mentre ancora nel 1950, nell’enciclica Humani Generis, Pio XII era molto critico nei confronti della stessa "théologie nouvelle", che propugnava un ritorno alle fonti e iscriveva anche le religioni non cristiane nella storia della salvezza. Nutro e coltivo la speranza perché amo la Chiesa più di me stesso. Perché la speranza riguarda ciò che è ultimo ed eterno, la comunione cristica con tutti i salvati, col cosmo e con Dio. E perché mi sento in comunione con i fratelli apostoli ai quali Gesù ha detto: "Volete forse andarvene anche voi?" (Gv 6, 67); e che per bocca di Pietro hanno risposto: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Gv 6, 68).

Un altro dei timori o dei dubbi che potrebbe suscitare la nuova autocomprensione della Chiesa proposta in questo libro riguarda l’aspetto istituzionale. Cercherò di mostrare che comprendersi come Chiesa anche dei "non cristiani" non significa non essere più Chiesa come istituzione.

In primo luogo, questa nuova autocomprensione non significa, ovviamente, richiedere ai "non cristiani" di diventare cristiani. Né è pensabile che gli altri accettino una verità che noi crediamo di possedere, o che si convincano di essere "cristiani anonimi", secondo l’espressione di Rahner.

Ma la cosa fondamentale che vorrei evidenziare è che questa nuova autocomprensione non tocca gli elementi centrali della Chiesa cattolica come istituzione: il battesimo, l’eucaristia, la trasmissione del messaggio evangelico attraverso i ministeri. Quest’ultimo punto relativo alla trasmissione del messaggio mi pare chiaro da quanto ho già detto sopra sulla tradizione apostolica. Rimane da approfondire il discorso sul battesimo e sull’eucaristia.

La funzione del battesimo non sembra essere quella di un atto visibile necessario alla salvezza.

Abbiamo visto che c'è un passo della Scrittura che sembra affermare il contrario: "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo" (Mc 16, 16). In questo passo, intanto, non si afferma che si devono battezzare solo quelli che hanno creduto, cioè adulti e non minorati. Ma abbiamo anche visto che, secondo il Catechismo della Chiesa cattolica, il collegamento tra fede, battesimo e salvezza posto in questo passo significa che in esso si parla della salvezza di quelli che "hanno avuto la possibilità di chiedere questo sacramento" (CCC n. 1257). Cioè, che il battesimo è necessario per i credenti in Cristo. E che lo stesso documento subito dopo afferma che Dio "non è legato ai suoi sacramenti" (CCC n. 1257), ponendosi in linea con quanto attestato dal Concilio Vaticano II, secondo cui "dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale" (GS n. 22).

Poiché leggiamo nella Lettera ai Colossesi che siamo stati "sepolti con lui nel battesimo" (Col 2, 12) e ancora nella Lettera ai Romani che siamo stati "sepolti con lui nel battesimo per unirci alla sua morte" (Rm 6, 4), e poiché i sacramenti sono segni (CCC n. 1131), il battesimo è segno che la nostra vita si è immersa (baptizein = immergere) in una realtà nuova, quella della morte e della risurrezione, la realtà del corpo di Cristo, nella quale siamo resi conformi a lui: "Siamo stati battezzati tutti in un solo Spirito per formare un solo corpo" (1 Cor 12, 13). Il battesimo cristiano avviene nello Spirito Santo (Mt 3, 11; Mc 1, 8; Lc 3, 16; Gv 1, 33; At 1, 5; 2, 38; 11, 16; Tt 3, 5). Ma Cristo si è unito ad ogni uomo (GS n. 22; RH n. 13) e opera anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa (RM n. 18), e dunque tale immersione avviene in realtà invisibilmente per tutti gli uomini. Il sacramento cristiano del battesimo ne costituisce il segno. Ed ecco perché ha un senso battezzare i bambini piccoli (questa tradizione della Chiesa risale al II secolo): perché appena si viene alla luce si entra in questo corpo mistico di Cristo. Perché Dio "ci ha strappati al potere delle tenebre e ci ha trasportati nel Regno del Figlio suo" (Col 1, 13). E "chi non nasce dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel Regno di Dio" (Gv 3, 5). Quest’ultimo passo, a mio avviso, non attesta la necessità del battesimo rituale per la salvezza degli uomini, ma attesta splendidamente l’immersione degli uomini creati in quella realtà nuova necessaria per entrare nel Regno. Anche i "non cristiani", dunque, Dio ha immerso in questa nuova, meravigliosa realtà dello Spirito e dell’Amore, la stessa realtà nella quale ha immerso i cristiani, e che questi significano attraverso il battesimo. E pertanto, autocomprendersi come Chiesa dei cristiani e dei "non cristiani" non solo non toglie valore al battesimo, ma anzi ne mostra il senso profondo e universale.

Inoltre, concependo la Chiesa visibile come comunità chiusa dei battezzati, nasce la difficoltà di capire se sono o no dentro la Chiesa i battezzati divenuti agnostici, o i battezzati che hanno aderito al buddismo o all’induismo. Se lo sono, non è chiara la differenza tra loro e gli agnostici, i buddisti e gli induisti non battezzati: se i primi sono dentro, perché i secondi sono fuori? Se non lo sono, diventa problematico concepire la Chiesa come comunità dei battezzati, perché alcuni di questi ultimi non ne fanno più parte. Queste difficoltà si superano solo concependo il battesimo come immersione nella morte di Cristo e inizio del cammino nella vita nuova. Come segno dell’ingresso in un cammino al quale tutti, e non solo un gruppo delimitato e definito, sono chiamati.

Lo stesso Concilio Vaticano II, peraltro, afferma che alcuni cattolici, non perseverando nella carità, sono ancora nella Chiesa col corpo, ma non sono più nella Chiesa col cuore (LG n. 14). Sembrerebbe di poter aggiungere che i non cattolici e i non cristiani che permangono nella carità sono nella Chiesa col cuore, anche se non vi sono col corpo.

Riguardo all’altro sacramento centrale per la Chiesa come istituzione, l’eucaristia, bisogna anche qui partire da un’indagine biblica.

Leggiamo in Mc 10, 45 che Cristo dà la sua vita "in riscatto per molti" e in Mc 14, 24 e Mt 26, 28 che il sangue di Cristo è "versato per molti". In Lc 22, 19-20 Gesù usa la locuzione "per voi", la stessa che troviamo in 1 Cor 11, 24 (il più antico testo del Nuovo Testamento che riferisce l’istituzione dell’eucaristia). Perché "per molti" e "per voi" e non "per tutti"?

Una possibile risposta ci può essere suggerita dalla lettura della profezia di Isaia: "Il giusto mio servo giustificherà molti, prenderà su di sé le loro iniquità" (Is 53, 11). Poiché Gesù leggeva e citava spesso Isaia (Mt 8, 17; 12, 17-21; 13, 14-15; 15, 7-8; Mc 7, 6-7; Lc 4, 17-19), è possibile che abbia compreso la sua morte come espiazione per l’incredulità e i peccati di Israele. Che Cristo è morto per i nostri peccati è ripetuto numerose volte nel Nuovo Testamento (Mt 26, 28; Gv 1, 29; At 5, 31; Rm 4, 25; 6, 10; 1 Cor 15, 3.17; Gal 1, 4; Ef 1, 7; Eb 1, 3; 2, 17; 7, 27; 9, 28; 10, 12; 1 Pt 2, 24; 3, 18; Ap 1, 5). E anche che Cristo è morto per tutti (Gv 17, 2; Rm 5, 18-19; 8, 32; 1 Cor 15, 22; 2 Cor 5, 15; 1 Tm 2, 6; Eb 2, 9; Ap 5, 9). Ma che egli abbia concepito la propria morte come morte anche per l’incredulità di Israele sembra confermato da due dati biblici. Il primo è relativo alla "nuova alleanza" di cui Gesù parla istituendo l’eucaristia (1 Cor 11, 25; Lc 22, 20; cfr. Mt 26, 28): essa si riferisce proprio a Israele ed è stipulata attraverso il suo sangue. L’incredulità di Israele, il popolo che Dio si è scelto, sarebbe stata riscattata dal sacrificio di Cristo. Se egli è morto anche per quelli che non hanno creduto e non crederanno in lui, Dio rende la morte del suo Figlio una prova della sua fedeltà e del suo amore per il suo popolo; con un atto d’amore assolutamente gratuito, trasforma il sangue di Cristo in una nuova e definitiva alleanza. Il secondo dato è relativo ai dodici apostoli con i quali Gesù ha consumato l’ultima cena. Perché Gesù costituì proprio dodici apostoli? Il numero dodici non può che riferirsi alle dodici tribù di Israele. Ma al tempo di Gesù in Israele il sistema delle dodici tribù era scomparso da tempo e vi erano solo le tribù di Giuda, di Beniamino e parte della tribù di Levi. E dunque i Dodici vogliono indicare la convocazione escatologica di Israele, la ricostruzione e riunificazione del popolo di Dio alla fine dei tempi operata da Gesù (cfr. Lc 13, 34 e Gv 11, 52). La costituzione dei Dodici, dunque, è il segno dell’inizio della salvezza per tutto Israele (cfr. Rm 11, 26).

E ancora, nell’Apocalisse è posta chiaramente una relazione tra i Dodici e le tribù d’Israele: la Gerusalemme celeste, dove tutti i salvati dimoreranno nei secoli dei secoli con Dio, è munita di dodici porte con scritti i nomi delle dodici tribù di Israele e poggia su dodici fondamenta con scritti i nomi dei dodici apostoli (Ap 21, 1-14). In essa non c’è alcun Tempio e le nazioni cammineranno alla sua luce (Ap 21, 22-24).

Il fatto che Gesù abbia consumato l’ultima cena solo con i Dodici è il segno che egli dona la sua vita, distribuisce il pane e il vino che diventano il suo corpo e il suo sangue, a tutto Israele, che doveva essere rappresentato da dodici uomini (i figli di Giacobbe di cui le dodici tribù portano il nome) e non da un numero casuale o da donne. Questo mi sembra essere il senso della locuzione "per voi" (Lc 22, 19-20; 1 Cor 11, 24). Quando chi crede mangia il corpo e beve il sangue di Cristo, Cristo continua a donarsi anche per chi non crede in lui, e tuttavia fa parte del popolo di Dio escatologico (l’Israele di Dio). È questo, io credo, il senso profondo dell’eucaristia e della liturgia cristiana. È questa una delle grandezze del cristianesimo e del cattolicesimo che dovremmo riscoprire e far riscoprire.

Cristo non può essere morto per un’élite, per un gruppo, per pochi fortunati. E tutti gli altri? Tutti i poveri sfortunati che non hanno mai conosciuto la Bibbia, o che non sono mai stati battezzati, che fine fanno? Sono due persone su tre nel mondo. E quelli che sono morti prima di diventare adulti, cristiani e "non cristiani", e i minorati di mente che non capiscono, cristiani e "non cristiani", starebbero anche loro fuori dal corpo di Cristo? Non riesco a credere che Cristo possa lasciarli fuori, proprio loro, gli ultimi, i più piccoli. Non riesco a credere che Dio possa fare questa discriminazione tra i suoi figli. Perché è scritto che Dio non fa preferenze di persone (At 10, 34-35; Rm 2, 11; Ef 6, 9) e che la sua grazia è portatrice di salvezza per tutti gli uomini (Lc 2, 30-31; Rm 3, 30; 1 Tm 2, 4; 4, 10; Tt 2, 11).

Un Cristo morto per i peccatori di ogni tempo e per quelli che non credevano e non crederanno (nei secoli successivi) in lui, e non solo per i credenti e i santi, non solo mi sembra molto più aderente al Cristo storico, ma è il Cristo in cui credo e in cui confido, e che amo con tutto il cuore e con tutta l’anima.

Se Cristo è morto anche per gli increduli, per quella parte del popolo che non ha creduto e non crederà, alla cui salvezza egli ha voluto anche riferirsi istituendo i Dodici, che indicano l’Israele escatologico, cioè tutti gli uomini che egli ama e salva, anche se non credono in lui, la Chiesa di Cristo può abbracciare anche i non credenti in Cristo e autocomprendersi come Chiesa anche dei "non cristiani".

Se durante l’ultima cena Cristo si è offerto a tutto Israele e ha detto di fare questo in sua memoria, quando egli, durante la liturgia eucaristica, si rende presente e si offre a noi cattolici, continua in realtà ad offrirsi a tutti. Gli appartenenti alla Chiesa cattolica che ricevono il corpo e il sangue di Cristo, cioè, sono come i Dodici: rappresentano anche i non credenti; e dunque, la liturgia cattolica contiene in sé una relazione intrinseca tra credenti e non credenti, tra cristiani e "non cristiani".

Vi sono due momenti della liturgia eucaristica cattolica che mi sembrano particolarmente collegati a quanto fin qui detto. Il primo è quando il sacerdote afferma: "Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo" (cfr. Gv 1, 29). Il secondo è contenuto in una delle preghiere eucaristiche: "Per la comunione al corpo e al sangue di Cristo, lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo" (cfr. 1 Cor 10, 16-17).

La celebrazione e la continuità dell’eucaristia, dunque, non sarebbero messi in discussione dall’autocomprensione della Chiesa cattolica come Chiesa anche dei "non cristiani", che anzi ne mostrerebbe pienamente il senso profondo e il valore universale. Ed è chiaro che l'eucaristia rimane legata alla confessione di fede in Cristo: è proprio perché perderebbe questo senso e questo valore che non possono riceverla quelli che non hanno fede in Cristo. Ma ciò non significa affatto che la Chiesa non possa essere anche dei "non cristiani", perché, come tutto il libro ha cercato di mostrare, le motivazioni per cui la Chiesa può autocomprendersi come Chiesa anche dei "non cristiani" prescindono dal fatto che questi ultimi facciano una professione di fede cristiana e possano dunque ricevere l'eucaristia.

Temere che questa nuova autocomprensione possa in qualche modo danneggiare la Chiesa cattolica come istituzione significa, inoltre, porre la Chiesa troppo dentro a questo mondo, alle sue strutture, ai suoi rapporti, alle sue divisioni. E invece, come attesta ancora il Concilio Vaticano II, la Chiesa è un mistero (LG n. 1); e invece, come attestano numerosi passi del Nuovo Testamento, c’è una diversità della Chiesa rispetto al "mondo": gli appartenenti alla Chiesa non sono più nelle tenebre, ma agiscono come "figli della luce" (Ef 5, 8) e sono strappati "da questo mondo perverso" (Gal 1, 4); non sono più uomini vecchi, ma nuovi (2 Cor 5, 17; Ef 2, 15; 4, 24; Col 3, 7-11); in loro non c’è più ira, malizia, maldicenza, ma misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine, pazienza (Col 3, 8.12); non c’è più greco o giudeo, schiavo o libero (Gal 3, 28; Col 3, 11); non ci sono più strutture di dominio (Mt 20, 25-28; 23, 8-11; Mc 10, 42-45; Lc 22, 24-27; Gv 13, 14; 1 Cor 12, 25; Gal 5, 13; Ef 4, 25; 1 Ts 5, 14). Da Costantino in poi, però, con l’inizio del legame tra Chiesa e società politica, per lunghi secoli l’immagine della Chiesa come società di Dio si è appannata. Non bisogna temere, oggi, di guardare ancora pienamente alla Chiesa come comunità di Dio.

Un ultimo dubbio potrebbe nascere dal chiedersi come potrebbe la Chiesa cattolica, che si concepisce in qualche modo come tramite tra Dio e l’uomo, abbracciare anche chi fonda la sua fede e la sua religiosità unicamente sulla relazione tra se stesso e Dio. La risposta a questo dubbio non può prescindere, credo, da un’altra domanda: può la Chiesa negare un dialogo di Dio con tutti gli uomini? E se esclude alcuni perchè dialogano in modo personale con Dio, essa non rischia di porsi quasi prima di Dio? D’altra parte, non escludere chi dialoga in modo personale con Dio, o chi dialoga secondo certi riti della sua religione, non significa affatto accettare come normativo tale dialogo. Ma soprattutto non significa affatto mettere in dubbio ciò che la storia della rivelazione ci mostra ripetutamente, e che costituisce la ragione che in ultima analisi fonda la Chiesa: il fatto che Dio si serve di uomini per raggiungere altri uomini: "Vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5, 16). Questa ragione profonda della Chiesa non verrà meno se la Chiesa si aprirà a tutti e si autocomprenderà come Chiesa dei cristiani e dei "non cristiani", con gli uomini e le religioni. Anzi, è proprio perché la Chiesa è strumento di Dio che essa deve abbracciare tutti, come Dio è di tutti, con tutti e per tutti.

L'ultima considerazione che vorrei proporre è relativa a come verrebbe percepita l'istituzione Chiesa. Una Chiesa che si autocomprenda, annunci e operi come Chiesa di tutti non solo darebbe di sé un'immagine nuova e si porrebbe come luogo in cui si respira una nuova spiritualità, ma creerebbe molte occasioni di contatto, incontro e dialogo tra convertiti e non convertiti al cristianesimo; e molte di queste occasioni avrebbero luogo, tra l'altro, nell'ambito di strutture ecclesiali o di iniziative ecclesiali. L'istituzione, così, verrebbe sempre più percepita come istituzione aperta. Viviamo in un mondo in cui il fenomeno della deecclesializzazione e dell'abbandono della Chiesa rilevato dalle indagini sociologiche sembra destinato a crescere. Quelli che dentro la Chiesa più si oppongono alle innovazioni forse sono giustamente preoccupati della continuità istituzionale a motivo della continuità del messaggio evangelico. Ma essi non possono restare insensibili alle prospettive di una Chiesa sempre più minoritaria quantitativamente e culturalmente, né possono illudersi che la Chiesa possa tornare a essere di tutti, o comunque maggioritaria, nel senso in cui lo è stata da Costantino all'illuminismo. Alla continuità e alla credibilità della Chiesa cattolica oggi renderebbe invece un grande servizio, io credo, la percezione di una Chiesa aperta, che accolga le diversità, le culture e le religioni, e consideri gli altri non tanto in errore, quanto in cammino verso la comunione cristica.

Né, come abbiamo visto, concepire e annunciare la Chiesa come Chiesa di tutti significa non essere fedeli alla tradizione apostolica, perché è proprio nella Scrittura che la riflette che si trovano le idee, che fondano tale autocomprensione, di popolo di Dio, di corpo di Cristo, di dono universale dello Spirito e di universale volontà salvifica di Dio.

 

 

NOTE

    1. Ratzinger J., Gott und die Welt. Glauben un Leben in unserer Zeit, Deutsche Verlags – Austalt GmbH, Stuttgart München, 2000; trad. it., Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, pagg. 31-32.