IL PRIMATO DEL PAPA MOSTRATO AL MONDO

 

 

La Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto un primato al Vescovo di Roma, successore di Pietro, fondandolo su alcuni passi della Scrittura (Mt 10, 2; 16, 18-19; Lc 22, 32; Gv 21, 15-17; 1 Cor 15, 5).

La costituzione Pastor Aeternus (1870) del Vaticano I ha dogmaticamente enunciato il primato in termini di potestà e governo della Chiesa e anche, nel capitolo 4, di infallibilità "ex cathedra". Tuttavia, lo stesso documento conciliare, nel proemio, sostiene che la sua motivazione del primato petrino è la conservazione della fede e dell’unità dei fedeli.

La Mystici Corporis (1943) di Pio XII ribadisce la concezione del primato come "governo visibile" della Chiesa (n. 38) e giunge ad affermare che, dato che Cristo e il suo Vicario costituiscono un solo Capo, non si può aderire a Cristo "non aderendo fedelmente al suo Vicario in terra" (n. 39).

Il concetto di governo del successore di Pietro è ribadito dalla Lumen Gentium (n. 8), che ribadisce anche quello del suo infallibile Magistero (n. 18). Il n. 22 dello stesso documento parla di "potestà piena, suprema e universale". Ma il n. 23 afferma che "il Romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi sia della massa dei fedeli".

L’enciclica di Giovanni Paolo II Ut Unum Sint (1995), riferendosi al ministero del Vescovo di Roma, sostiene che "l’autorità propria di questo ministero è tutta per il servizio del disegno misericordioso di Dio e va sempre vista in questa prospettiva. Il suo potere si spiega con essa" (n. 92). E che "è convinzione della Chiesa cattolica di aver conservato, in fedeltà alla tradizione cattolica e alla fede dei Padri, nel ministero del Vescovo di Roma, il segno visibile e il garante dell’unità" (n. 88).

La UUS afferma ancora che il Vescovo di Roma "è il primo tra i servitori dell’unità" (n. 94). Ma poiché questo ministero "costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi" (n. 88), Giovanni Paolo II dichiara di voler ascoltare "la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova" (n. 95).

Non posso non notare alcune cose.

La Pastor Aeternus (1870) è ritenuta per alcune sue osservazioni un documento conservatore, un atto di chiusura della Chiesa cattolica. Eppure, il suo proemio ha dato origine a una lunga riflessione del Magistero e delle gerarchie della Chiesa che ha portato, tra alti e bassi, alle significative aperture dell’Ut Unum Sint.

È certo di fondamentale importanza per la storia del cristianesimo il passaggio dalla concezione del ministero petrino come ministero prevalentemente al servizio del governo della Chiesa alla concezione dello stesso come ministero prevalentemente al servizio dell’unità della Chiesa.

Sul primo tipo di concezione hanno influito motivi anche storici. Come scrive Congar, "nel medioevo il vescovo di Roma, a causa delle lotte con la monarchia imperiale, ha finito per far prevalere il momento giurisdizionale e giuridico del primato, mentre gli aspetti propriamente ecclesiologici di comunione, collegialità, sacramentalità e pastorato missionario sono stati poco sviluppati". 1

Ma vi è anche una motivazione biblica, tratta dai passi di Mt 16, 19 e di Gv 21, 15-17.

E tuttavia entrambi questi passi lasciano intendere un ministero al servizio dell’unità. Nella frase che Gesù dice a Pietro, "tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli" (Mt 16, 19), è implicito un invito a legare, ad unire. Così nel comando "pasci le mie pecore" (Gv 21, 16-17) vi è un invito a riunire i credenti, come le pecore nell’ovile. Non solo, ma Cristo non dice "le tue pecore", ma "le mie pecore": la Chiesa così non è di Pietro, né degli uomini, ma è di Cristo. Ed è Cristo che edifica la Chiesa: "Su questa pietra edificherò la mia Chiesa" (Mt 16, 18). Tale edificazione può ritenersi conclusa? La risposta non può che essere no, se la Chiesa, come abbiamo visto, si compirà nel Regno e se siamo edificati insieme in Cristo per diventare "dimora di Dio" (Ef 2, 22).

Se la Chiesa è di Cristo, diventa quanto meno problematico che gli uomini la delimitino, stabilendo loro chi ne fa parte e chi no.

Si potrebbe obiettare che Cristo ha dato a Pietro il potere di legare e sciogliere (Mt 16, 19). Ma le parole di Cristo non indicano un potere di delimitare la Chiesa o di stabilire appartenenze, ma solo un potere di legare o sciogliere, che la stessa Chiesa cattolica interpreta come potere di riconciliare o no i peccatori con la Chiesa, nell’ambito del sacramento della Penitenza e della Riconciliazione, potere che, tra l’altro, non è stato dato solo a Pietro, ma anche agli apostoli (vedi Mt 18, 18, la Lumen Gentium al n. 22 e il Catechismo della Chiesa cattolica ai nn. 1444 e 1445).

Del resto, se l’interpretazione del passo di Mt 16, 19 è che "la riconciliazione con la Chiesa è inseparabile dalla riconciliazione con Dio" (CCC n. 1445), diventa ancora più pressante il compito e la responsabilità del Vescovo di Roma di porsi al sevizio dell’unità nella Chiesa. Se chi non è riconciliato con la Chiesa non è riconciliato con Dio, la funzione primaria del papa e dei vescovi non può essere quella di allontanare e dividere, ma dev’essere quella di avvicinare e unire. Se gli uomini di fatto non si avvicinano e non si uniscono, ciò non significa che loro debbono di fatto non avvicinarli e non unirli. Se gli uomini spesso non si danno questo compito (e la maggioranza degli uomini sulla terra non se lo dà), ciò non esonera il papa e i vescovi dal darselo, perché è stato loro dato da Cristo.

Egli ha detto ai discepoli: "Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti" (Mc 10, 44; cfr. Mc 9, 35; Mt 20, 27). E quale servizio più grande può essere reso a tutti gli uomini di quello di riconciliarli con Dio? Quale servizio può essere più grande di quello di accogliere tutti gli uomini nel popolo di Dio?

Se gli uomini di loro iniziativa non si riconciliano con la Chiesa, devono allora essere il papa e i vescovi, se vogliono essere veramente "primi", a riconciliare la Chiesa con gli uomini.

Se si va ad esaminare, inoltre, il cristianesimo delle origini, si vede che anche Pietro ha vissuto e operato in un periodo di divisioni all'interno della Chiesa tra varie comunità e tendenze, come quelle giudeo-cristiane, paoline e giovannee. Se egli era già considerato il capo della Chiesa, allora occorre ripensare al valore del papato e del primato, io credo, in termini molto più spirituali e riscoprire un'unità che non esclude le diversità. E al ministero petrino non come fonte di divisioni, ma anzi come luce e segno per tutti che la Chiesa è oltre le divisioni, è veramente universale e una, perché è di Cristo.

Leggiamo nell’enciclica Ut Unum Sint di Giovanni Paolo II che il Vescovo di Roma "è il primo tra i servitori dell’unità" (n. 94). Poiché non c’è servizio più grande di quello reso all’unità voluta da Cristo, in effetti il Vescovo di Roma è il più grande servitore dell’unità, perché egli guida una Chiesa nella quale l’unità può essere veramente "visibile", una Chiesa che può dare pienamente testimonianza all’unità.

Occorre, però, che il papa e i vescovi siano sempre più consapevoli e convinti di questo dono che Cristo ha fatto loro.

Cristo ha abbattuto il muro che, a partire dall'alleanza sinaitica, separava Israele dalle nazioni (Ef 2, 14). E allora, non credo che lo abbia fatto per crearne un altro, quello che separa i cristiani dai "non cristiani", o che non voglia l'abbattimento di quest'altro muro. Se è stata alla fine la comunione tra Pietro e Paolo, e il loro comune destino, il segno della riconciliazione dei giudei e dei non giudei nel popolo di Dio e nel corpo di Cristo, dovrà essere il Vescovo di Roma, il cui primato è fondato e ha un senso profondo nel comune martirio a Roma di Pietro e Paolo, a dare il segno della riconciliazione degli uomini in un solo corpo (Ef 2, 16; Col 3, 15) e dell'unità tra i cristiani e i "non cristiani".

Pietro e Paolo erano in comunione non solo tra loro, ma anche con Giacomo, il capo della Chiesa di Gerusalemme dopo la partenza di Pietro (At 15, 1-29; Gal 2, 3.9). E una comunione di Pietro con Giacomo si può dedurre anche dalla sua premura di far conoscere sue notizie a Giacomo (At 12, 17) e dalla sua adesione agli inviati di Giacomo ad Antiochia (Gal 2, 12). Così come una comunione tra Paolo e Giacomo si può dedurre dall'adesione di Paolo al decreto ispirato da Giacomo sulle prescrizioni alimentari ai cristiani di origine pagana (1 Cor 8, 1-13; 10, 28-33; Rm 14, 1-23) e dal fatto che nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme segue la richiesta di Giacomo (At 21, 17-26). Proprio in questa occasione, Paolo viene accusato, ingiustamente (cfr. Rm 3, 31; 7, 12), di spingere i giudei della diaspora a non circoncidere più i loro figli e a non seguire più gli usi tradizionali (At 21, 21). Poiché Giacomo è ancora il capo della comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme, ciò significa che egli non aveva mai preso in considerazione la possibilità che i cristiani di origine giudaica, né tantomeno i giudei non cristiani, potessero smettere di osservare la legge mosaica. Se Pietro e Paolo erano in comunione anche con Giacomo, la funzione del Vescovo di Roma è anche quella di essere al servizio della comunione con quelli che continuano a osservare la legge mosaica, cioè, oggi, con gli ebrei, quindi con i "non cristiani".

Secondo Gal 2, 9, Pietro, Paolo e Giacomo erano in comunione anche con Giovanni. E una comunione tra Pietro e Giovanni si può dedurre anche da Gv 21, 7, da Gv 21, 15-17, da At 3, 1-11 e da At 4, 19-20. Nella prima Lettera di Giovanni leggiamo che "chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio" (1 Gv 4, 7). E allora, la funzione del Vescovo di Roma è anche quella di essere al servizio della comunione con tutti quelli che amano, anche se "non cristiani".

Il primato del papa al servizio dell’unità sarà veramente tale quando sarà non solo affermato e proclamato, ma mostrato al mondo. E sarà mostrato al mondo quando la Chiesa cattolica si autocomprenderà, si definirà e si comporterà come la Chiesa di tutti, dei cristiani e dei "non cristiani", la Chiesa con gli uomini e con le religioni.

Solo allora appariranno nel loro profondo significato le parole di Cristo: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa" (Mt 16, 18).

Solo allora l’enorme e incomparabile valore del ministero petrino, che Cristo ha dato agli uomini e che essi con i loro peccati hanno offuscato, apparirà nella sua fulgida luce.

Io credo e spero che l’alba di questo giorno luminoso, per il quale, uniti al papa, renderemo tutti grazie a Dio, possa sorgere nel corso del XXI secolo.

 

 

NOTE

  1. Congar Y., Primato ed episcopato, in Mysterium Salutis VII, pag. 698.