LA TESTIMONIANZA DELLA CHIESA ALL’UNITÁ, ATTRAVERSO L’ANNUNCIO DELLA GRAZIA ECCLESIALE E "NON ECCLESIALE", DEGLI UOMINI FIGLI DI DIO PRIMA CHE DELLE CULTURE, DELLA CHIESA DEI CRISTIANI E DEI "NON CRISTIANI".

 

 

L’unità del popolo di Dio, se è unità di persone, non può non essere testimoniata. Non esiste unità di persone, se non quando è vissuta e testimoniata.

Questa testimonianza non può essere di singole persone, ma dev’essere della Chiesa. Dev’essere una testimonianza che la Chiesa dà di se stessa come unità. Dev’essere una testimonianza non tanto dell’unità, quanto all’unità, con l’unità, nell’unità: a Cristo, con Cristo, in Cristo.

E la diversità di dottrine tra le varie confessioni cristiane e tra le varie religioni non può essere un ostacolo a questa testimonianza. Abbiamo visto come la Chiesa cattolica sia già pervenuta a considerare il dialogo con gli appartenenti alle altre religioni come incontro non tanto con le dottrine e le credenze, ma con gli uomini figli di Dio, che hanno queste dottrine e credenze. Questo riconoscimento, che qualcuno potrebbe considerare scontato, non lo è affatto, e credo che sia di importanza centrale per il futuro della Chiesa. Esso, infatti, non è un punto di arrivo e non può esserlo. Se riconosco che ho incontrato mio fratello, che facciamo parte dello stesso popolo di Dio, che fra noi c’è unità di persone, non posso fermarmi a questo, altrimenti tale riconoscimento sarebbe fittizio e ipocrita. Devo testimoniare tale unità. Un’unità che non può essere lasciata al piano del ragionamento, ma dev’essere portata sul piano della vita, dell’agire concreto, dell’amore.

E questo occorre farlo per primi, senza aspettare che siano gli altri a fare il primo passo. Del resto, se siamo cattolici, non dimentichiamo che "non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi" (1 Gv 4, 10). E se così ha fatto Dio, così dobbiamo fare noi, amare per primi, perché "chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato" (1 Gv 2, 6). E perché abbiamo un altro invito esplicito, che non possiamo ignorare: "Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità" (1 Gv 3, 18).

La Chiesa cattolica non può limitarsi a riconoscere che l’incontro con le religioni è un incontro con altri figli di Dio, a riconoscere cioè che c’è un Popolo di Dio; ma deve, per essere cattolica fino in fondo, testimoniare questo incontro nell'unità. L’evangelizzazione deve passare dal dialogo alla testimonianza. Ecco perché le diversità dottrinali non devono costituire ostacoli: non si tratta di testimoniare l’unità di dottrine, ma l’unità di persone.

Questa testimonianza non può che essere della Chiesa stessa. Se è vero, come affermano Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi al n. 41 e Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio al n. 42, che l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, la Chiesa deve testimoniare l’unità. Paolo VI afferma anche che "la sorte dell’evangelizzazione è certamente legata alla testimonianza di unità della Chiesa" (EN n. 77). E Giovanni Paolo II afferma: "Alle soglie del terzo millennio, è chiaro che la capacità della Chiesa di evangelizzare richiede che essa si sforzi vigorosamente di servire la causa dell’unità in tutte le dimensioni". 1

Ma come può la Chiesa testimoniare l’unità, come può servire l’unità, se non vive in se stessa l’unità? E come può vivere in se stessa l’unità se non autocomprendendosi come Chiesa dei cristiani e dei "non cristiani" e annunciandolo?

In questo senso, l’affermazione che l’annuncio ha la priorità nell’evangeliz-zazione, che troviamo nella Redemptoris Missio al n. 41, assume il suo pieno significato.

Se il Vangelo che dev’essere annunciato è il Vangelo dell’unità, questo annuncio non può prescindere dalla testimonianza all’unità; e questa testimonianza non può prescindere dall’annuncio della Chiesa di essere la Chiesa di tutti.

Se la Chiesa cattolica annuncerà al mondo con forza e senza remore che la grazia che Dio dona agli uomini è ecclesiale e "non ecclesiale", se annuncerà con forza e senza remore che gli uomini sono figli di Dio prima che delle culture e se annuncerà con umile e limpida convinzione di essere la Chiesa non solo dei cattolici, ma anche dei non cattolici e dei "non cristiani", allora essa darà questa testimonianza all’unità voluta da Cristo, testimonianza al Corpo di Cristo e all’Amore di Dio. E sarà pienamente fedele sia alle parole rivolte da san Paolo alla Chiesa nascente: "Noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù" (2 Cor 4, 5); sia all’attestazione del Concilio Vaticano II: "Il dovere della Chiesa […] è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia" (NA n. 4).

Se la Chiesa è il popolo dei salvati da Dio e se non può annunciare "chi" non è salvato, essa non può annunciare di essere la Chiesa alla quale appartengono alcuni, cioè quelli che si comportano in un certo modo, ma deve annunciare di essere la Chiesa di tutti, sia cattolici che non cattolici, sia cristiani che non cristiani.

La Chiesa cattolica, del resto, come si è visto, non afferma che il popolo di Dio e corpo di Cristo sarà la Chiesa escatologica, ma che il popolo di Dio e corpo di Cristo è la Chiesa, o sussiste nella Chiesa visibile; e "sussiste" è un verbo al presente indicativo, non al futuro. Delle due l’una: o la Chiesa cattolica afferma di non essere il popolo di Dio e il corpo di Cristo, oppure afferma di essere la Chiesa dei cristiani e dei "non cristiani", di tutti gli uomini salvati da Dio.

Affermando contemporaneamente, come fa attualmente, di essere e di voler essere il popolo di Dio e il corpo di Cristo, ma di non essere la Chiesa dei non cattolici e dei "non cristiani", la Chiesa cattolica appare in una situazione assai problematica.

Come abbiamo visto, la Chiesa non può essere "segno" dell’unità del genere umano, se non diventa strumento di tale unità. Questa unità è quella che tutto il genere umano "ha da Dio e in Dio" (Dominum et Vivificantem n. 64). Diventare strumento di tale unità significa dunque diventare strumento di Dio.

E poiché Dio dona la sua grazia agli uomini sia attraverso la Chiesa che non, poiché la grazia di Dio è sia "ecclesiale" che "non ecclesiale", perché la Chiesa diventi pienamente strumento di Dio, occorre che annunci non solo la grazia "ecclesiale", ma anche quella "non ecclesiale", e porti questo annuncio a tutti gli uomini.

Che la Chiesa debba essere strumento di Dio per annunciare la grazia "non ecclesiale" risulta chiaramente dalle parole che il signore Gesù rivolge in visione ad Anania dopo che questi, invitato a cercare Saulo di Tarso, ricorda tutto il male che Saulo aveva fatto ai cristiani: "Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli" (At 9, 15). E poiché Pietro, ripieno di Spirito Santo, aveva detto davanti al sinedrio che "non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At 4, 12), appare chiaro che la Chiesa è lo strumento per portare ai popoli il nome che salva tutti; il nome che salva, non la salvezza. La Chiesa non è lo strumento per portare ai credenti in Cristo, e solo a loro, la salvezza, ma è lo strumento per annunciare a tutti che la salvezza è in Cristo.

Il compito centrale della Chiesa è dunque quello di essere strumento per annunciare Cristo e la grazia salvifica di Dio, che è "ecclesiale" e "non ecclesiale". Essendo questa grazia donata a tutti gli uomini che hanno accolto lo Spirito di Cristo, nella Chiesa e fuori dalla Chiesa, consapevolmente e inconsapevolmente, la Chiesa, strumento dell’annuncio di questa grazia, diventa veramente "strumento dell’unità di tutto il genere umano" (LG n. 1).

La Chiesa, cioè, diventa questo strumento, che sia la Sacra Scrittura che il Magistero vogliono che diventi, solo quando non si limita ad annunciare la grazia "ecclesiale", ma annuncia anche la grazia "non ecclesiale".

Questo annuncio non è estraneo alla Chiesa. Al contrario, esso fa parte interamente della missione evangelizzatrice che Cristo ha affidato alla Chiesa.

Collegato a questo dev’essere l’annuncio che gli uomini sono figli di Dio prima che delle culture. Questo annuncio la Chiesa lo ha fatto, ma non ne ha tratto tutte le conseguenze. Se non c’è diversità culturale o dottrinale o religiosa che possa precedere o intaccare l’unità di figli di Dio e se l’amore di Dio per gli uomini prescinde dalle loro appartenenze culturali o religiose, la Chiesa deve fare come Dio, cioè andare oltre le appartenenze culturali e religiose. Solo così sarà veramente strumento di Dio e ridarà al cristianesimo il suo carattere originario di alterità e di scandalo rispetto alle culture e ai modelli degli uomini.

Lo sbocco di quanto fin qui detto è che la Chiesa cattolica riconosca di essere la Chiesa anche dei non cattolici e dei "non cristiani" e lo annunci al mondo.

Tale annuncio non significa che i non cattolici e i non cristiani debbano riconoscere di appartenere alla Chiesa cattolica.

Accade, invece, ciò che accadrebbe se un padre e una madre rivelassero al loro figlio, Pietro, che egli ha un fratello, Mohamed, che è stato dato in adozione subito dopo la nascita. Ora Pietro riconosce e dichiara che Mohamed è suo fratello e fa parte della sua famiglia, senza che anche Mohamed riconosca e dichiari di far parte della famiglia di Pietro. Il fatto che Mohamed sia stato "adottato" da un’altra famiglia (da un’altra religione) non significa che cessi di essere fratello di Pietro, di essere nato nella famiglia di Pietro dagli stessi genitori e di esserne componente.

Mettiamo, inoltre, che i genitori adottivi di Mohamed non gli abbiano mai rivelato di essere un figlio adottivo e non abbiano alcuna intenzione di farlo. Se Pietro, dopo aver cominciato a voler bene a Mohamed come a suo fratello, scopre dove egli vive e gli rivela la verità, ciò non significa che Mohamed gli crederà e lo amerà anche lui come suo fratello. Accadrà, cioè, che Pietro avrà cominciato ad amare Mohamed, ma questi non avrà cominciato ad amare Pietro. E tuttavia, qualcuno ha cominciato ad amare. Ed è questa la cosa importante, la cosa che Dio ci chiede: amare per primi, amare gratuitamente, non perché chi è amato ci ama, o ha dei meriti.

Amare per primi significa andare oltre le dottrine, le culture, le istituzioni, i riti e i comportamenti, verso un mondo più semplice e bello, in cui tutto funziona gratuitamente, come avviene per la vita, l’intelligenza, la natura, l’aria, la bellezza, lo Spirito, che ci sono offerti nella più assoluta gratuità.

Se ci pensiamo bene, tra le cose che non ci siamo guadagnati, ma ci siamo ritrovati, c’è anche la nostra religione. Non abbiamo fatto nulla per nascere in famiglie cristiane, anziché musulmane o buddiste. Così come non abbiamo fatto nulla per nascere in un paese industrializzato, anziché nel Terzo Mondo.

Una Chiesa che ama per prima non può che essere una Chiesa che riconosca e dichiari con gioia di abbracciare tutti quelli che visibilmente e storicamente sono fuori da essa. Una Chiesa che ama per prima non può essere la Chiesa dell’orgoglio di sé, del rifiuto degli altri, ma deve essere la Chiesa dell’umiltà e dell’accoglienza. Solo così la religione cristiana sarà, come dice Giovanni Paolo II, "la religione del "rimanere nella vita intima di Dio", alla quale l’incarnazione del Figlio di Dio dà inizio" (Tertio Millennio Adveniente n. 8). Perché la "vita intima di Dio" è amore, dato che "chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui" (1 Gv 4, 16).

Credo che nella sua preghiera al Padre prima della sua passione, Gesù preghi anche per questa testimonianza della Chiesa all’unità: "Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi" (Gv 17, 11); "Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola" (Gv 17, 21); "Siano come noi una cosa sola, io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità" (Gv 17, 22-23).

E credo che anche alcuni passi della Lettera agli Efesini chiamino la Chiesa a questa testimonianza all’unità: Gesù Cristo fa di ebrei e pagani "una cosa sola, un solo uomo" (Ef 2, 14-15) e riconcilia ebrei e pagani con Dio "in un solo corpo" (Ef 2, 16). Se Cristo vuole che tutti siano una cosa sola e se fa di tutti una cosa sola e un solo corpo, allora la Chiesa, se è la Chiesa di Cristo, non può non essere la Chiesa di tutti: se Cristo l’ha fondata per essere il "solo corpo" di tutti, il Corpo di Cristo, non c’è un "altro corpo" dove sono "ebrei e pagani", ma tutti sono nel solo Corpo di Cristo. E se la Chiesa è questo Corpo di Cristo, essa deve annunciare e testimoniare ciò che è, cioè la Chiesa non solo dei cristiani, ma anche dei "non cristiani". Solo così sarà pienamente strumento di Dio.

Alla stessa conclusione ci porta l’esame di quei passi del Magistero che affermano che Cristo con l’incarnazione "si è unito in certo modo ad ogni uomo" (GS n. 22), che "con ognuno […] si è unito, per sempre" (RH n. 13), e che "la Chiesa ravvisa il suo compito fondamentale nel far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e rinnovarsi" (RH n. 13). Se il compito fondamentale della Chiesa è quello di attuare continuamente l’unione di Cristo ad ogni uomo, come può la Chiesa realizzarlo se non testimonia in se stessa questa unione, cioè che nella Chiesa Cristo è unito non solo ai cristiani, ma a tutti gli uomini?

Se poi pensiamo all’invito del Cristo risorto ad ammaestrare tutte le nazioni (Mt 28, 19), esso appare come un comando non a fare adepti e proseliti, ma ad evangelizzare, ad adoperarsi perché sia da tutti accolto e vissuto il Vangelo. Ma il Vangelo è il Vangelo della carità e dell’unità. E non si può trasmettere agli altri il Vangelo dell’unità, se questo Vangelo non è prima vissuto. L’unità tra aderenti alla Chiesa e aderenti alle altre religioni non può essere trasmessa se si annuncia che la grazia divina è ecclesiale, ma solo se si annuncia che la grazia è ecclesiale e "non ecclesiale" e che gli uomini sono figli di Dio prima che delle culture. L’unità tra cristiani e non cristiani non può essere trasmessa se si annuncia la Chiesa dei cristiani, ma solo se si annuncia la Chiesa dei cristiani e dei "non cristiani". Solo la testimonianza della Chiesa stessa all’unità può portare pienamente nel mondo il Vangelo dell’unità.

I cattolici del terzo millennio possono e devono assumere su di sé questo compito, che in fondo è un gioioso compito. Assumerlo su di sé "con i fatti" (1 Gv 3, 18) e non solo con le parole, con la forza di chi non si limita a dire, ma di chi "fa la volontà del Padre" (Mt 7, 21).

Se questo compito è conforme alla missione che hanno ricevuto da Cristo, fino a quando non lo adempiranno, non saranno fino in fondo di Cristo e con Cristo, non saranno cattolici fino in fondo.

 

 

NOTE

  1. Giovanni Paolo II, esort. apost. postsinodale Ecclesia in Asia, n. 24.