L’UNITÀ DI FIGLI PRIMA DELL’ UNITÀ DI DOTTRINE O DI ISTITUZIONI

 

 

L’unità del popolo di Dio appare come uno scopo centrale del Figlio di Dio incarnatosi nella storia. Il Vangelo di Giovanni ci dice che Gesù è morto "per riunire insieme i Figli di Dio che erano dispersi" (Gv 11, 52). E il Concilio Vaticano II afferma che Dio volle "radunare insieme i suoi figli, che si erano dispersi" (cfr. Gv 11, 52). A questo scopo mandò il Figlio suo" (LG n. 13); e ancora che Cristo "è stato mandato dal Padre nel mondo affinchè, fatto uomo, con la redenzione rigenerasse il genere umano e lo radunasse in unità" (UR n. 2); e che il piano di Dio è "che tutto il genere umano costituisca un solo popolo di Dio, si riunisca nell’unico corpo di Cristo, sia edificato in un solo tempio dello Spirito Santo" (AG n. 7).

Anche Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut Unum Sint, attesta che "l’unità di tutta l’umanità lacerata è volontà di Dio. Per questo motivo Egli ha inviato il suo Figlio" (UUS n. 6).

Il teologo protestante J. Jeremias giunge ad affermare che "l’unico senso di tutta l’attività di Gesù è di accogliere il popolo di Dio della fine dei tempi". 1

Sia che si parli dell’unità tra i cristiani, sia che si parli dell’unità tra gli uomini, l’unità di cui si parla non sembra essere unità di dottrine.

Vi sono, intanto, alcuni dati biblici che sembrano attestare, anche se indirettamente, che la richiesta centrale di Cristo non è di un’unità di dottrine.

Leggiamo nel Vangelo di Matteo che Gesù dice ai discepoli: "Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 5, 20). C’è dunque una "giustizia maggiore" di quella di chi osserva alla lettera una dottrina o un insegnamento.

Si può osservare che lo stesso Gesù ci chiede di osservare il suo insegnamento. Ma si deve ricordare che il primo e più importante insegnamento di Gesù non è quello di osservare una dottrina, ma di amare.

L’accettazione della dottrina e l’osservanza della legge non sono sufficienti. Quando il giovane ricco, dopo aver chiesto a Gesù cosa fare per ottenere la vita eterna, gli dice di aver osservato sempre la legge, Gesù risponde: "Ti manca ancora una cosa" (Lc 18, 22; cfr. Mc 10, 21).

Non solo non basta osservare i precetti della legge, ma non basterebbe neanche conoscere tutto, possedere cioè una dottrina inconfutabile. Ce lo dice san Paolo nella prima Lettera ai Corinzi: "Se conoscessi tutti i misteri e avessi ogni conoscenza, […] ma non avessi amore, non sarei nulla" (1 Cor 13, 2).

A questi dubbi biblici sull’unità come unità di dottrina, si deve aggiungere una domanda ricorrente del Magistero cattolico, riassunta da Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut Unum Sint: "Chi potrebbe ritenere legittima una riconciliazione attuata a prezzo della verità?" (UUS n. 18). È una domanda di fondo, che costituisce tuttora un nodo centrale del discorso cattolico sull’ecumenismo e sul dialogo interreligioso.

Qualcuno, come Rahner, ha proposto che possa essere sufficiente astenersi dal condannare la dottrina degli altri. Ma, come scrive Porro, "la semplice astensione da un giudizio di condanna delle posizioni dottrinali non costituisce una base ecumenica sufficiente. In realtà, un’unione che si reggesse su un simile presupposto sarebbe una specie di compromesso nel senso deteriore del termine". 2 E del resto, i contrasti esistenti tra Chiesa cattolica e Chiese separate riguardo per esempio al primato pontificio sono così seri, che sembra impossibile si possa superarli senza che una delle parti non si contraddica o non rinunci a qualcosa.

In realtà non si vede altra conclusione possibile su questo argomento che questa: l’unità è oggi impossibile, se viene legata all’adesione di tutti a una sola dottrina e a una sola concezione della realtà ultima.

Scrive Porro parlando delle differenze tra religioni "orientali" e "occidentali": "Si tratta di concezioni religiose antitetiche. In esse si contrappongono infatti un Dio personale a un Dio impersonale, una salvezza che viene da Dio a una che viene dall’uomo e – più in profondità – una visione della realtà che le riconosce una consistenza propria a una che in definitiva giunge a negarla.

Appare quindi evidente l’assoluta impossibilità che l’induismo e il buddismo possano essere assunti come tali dal cristianesimo; per esserlo essi dovrebbero venir modificati nei loro elementi essenziali". 3

Più avanti lo stesso Porro, parlando del confronto tra cristianesimo e islamismo, scrive che il Corano considera Gesù solo come un profeta e rifiuta la sua divinità perché "non ammette assolutamente la presenza di un altro Dio accanto a Dio. Di fronte all’obiezione, spontanea per un cristiano, che tale interpretazione fraintende interamente l’insegnamento cristiano sulla Trinità, l’islam non ha difficoltà a ribattere che solo il "Corano" ha valore normativo per la fede – è la Parola di Dio – e che l’immagine di un Dio "unitario" è l’unica rivelata. […] Come sarà possibile un avvicinamento tra religioni che si trovano su posizioni così diametralmente opposte?". 4

Ma anche se ogni religione concepisce la realtà ultima in un modo diverso, le differenze tra le religioni non sono contraddizioni, ma rimangono differenze. É questo l’unico risultato a cui quanti hanno a cuore la chiarezza e purezza dottrinale e al contempo l’unità voluta da Cristo possono oggi ragionevolmente aspirare. Questo libro vuol essere anche un contributo a questo risultato.

L’unità fra i cristiani e fra gli uomini non può essere neanche unità di istituzioni. Leggiamo nel quarto Vangelo che lo stesso Gesù afferma che con la sua venuta non c’è più un luogo per adorare Dio, ma Egli si deve adorare in Spirito e verità (Gv 4, 20-24). Ciò che conta per Dio, dunque, non è l’istituzione.

Nella Lettera ai Romani e nella prima Lettera ai Corinzi san Paolo afferma che dev’esservi una varietà di doni e di ministeri (Rm 12, 6-8; 1 Cor 12, 4-6). Ma alcune attestazioni della Chiesa cattolica sembrano affermare che l’unità debba essere unità di istituzioni.

Si legge nel Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo pubblicato nel 1993 dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani: l’unità "esige una piena comunione visibile di tutti i cristiani" (n. 20); "non è permesso concelebrare l’Eucaristia con ministri di altre Chiese o comunità ecclesiali" (n. 104). Ancora più recentemente, l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut Unum Sint (1995) afferma che l’unità è "costituita dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti e della comunione gerarchica" (n. 9).

Ma se torniamo alla Scrittura, non si può non notare che lo scopo vero della Chiesa non può che essere il Regno di Dio e la gloria di Dio; e il culto vero di un cristiano non può che essere la sua stessa vita offerta e vissuta nell’amore di Dio e degli uomini. È bene riascoltare e meditare le parole sante di Paolo: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conforma- tevi al mondo presente, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12, 1-2).

L’unità voluta da Cristo non può essere nemmeno unità di comportamenti. La Chiesa cattolica non ha mai asserito che qualche singolo uomo sia all’Inferno, fuori dalla salvezza, cioè non appartenga al popolo di Dio. La Chiesa non ha mai fatto nomi e cognomi di persone che sono all’Inferno. Questa constatazione fa nascere inevitabilmente una domanda: perché allora la Chiesa dovrebbe asserire che qualche singolo uomo, dato che ha peccato, non appartiene alla Chiesa? Se è Dio a stabilire chi si salva e fa dunque parte del suo popolo, come fa la Chiesa a stabilire chi fa parte o no di questo popolo sulla base delle sue azioni?

Dio ci ha dato i comandamenti per amore, per salvarci e riunirci, non per dividerci. La Chiesa è santa perché è stata fondata da Cristo ed è di Dio, non perché vi fanno parte solo i santi e i buoni. É comprensibile che questo concetto sia di difficile recepimento, dopo secoli di demonizzazione dei peccati, specie di quelli della sfera sessuale, ma è la Lumen Gentium, la costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla Chiesa, ad affermare in modo netto che la Chiesa "comprende nel suo seno i peccatori" (n. 8). E il Catechismo della Chiesa cattolica (1992) va ancora altre, affermando che "tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi ministri, devono riconoscersi peccatori" (n. 827).

Con ciò ovviamente non si nega la santità di alcuni: qui si parla della Chiesa, non dei singoli santi che ne fanno parte.

Nell’enciclica Ut Unum Sint (1995) Giovanni Paolo II, rivolgendosi alle altre Chiese, parla di "comune e reciproco riconoscimento della nostra condizione di uomini e donne che hanno peccato" (n. 35). E dice di fatto che la santità della Chiesa non è situata e circoscritta nella Chiesa cattolica, quando afferma, al n. 84 della stessa enciclica, che "i santi vengono da tutte le Chiese e Comunità ecclesiali" e "questa realtà della santità" è "un patrimonio comune".

Tali affermazioni del Magistero, lungi dal costituire una debolezza della Chiesa cattolica, la manifestano invece come Chiesa di Cristo guidata dallo Spirito.

Del resto, l’ingresso nel processo di comunione cristica non è visibile, non è sperimentabile dall’esterno, per il semplice motivo che esso avviene quando una persona ha accolto lo Spirito donatole da Dio. Né del rifiuto del dono dello Spirito vi sono segni visibili certi. Perciò nessuno, tranne Dio, può giudicare, come ripete diverse volte la Sacra Scrittura (Gn 18, 25; Gb 34, 11; Sal 7, 9; 62, 13; 73, 5; 94, 2; 96, 13; Pr 16, 11; 21, 2; Qo 12, 14; Sir 35, 22-23; Is 11, 3; Ger 17, 10; Dn 2, 22; Mt 16, 27; 25, 31-33; At 17, 31; Rm 2, 5-6; 1 Cor 4, 4; Ef 6, 8; 2 Tm 4, 8; Eb 4, 12-13; 9, 27; Gc 5, 9; Gd 14-15; Ap 20, 12). E la Chiesa non è stata istituita da Cristo per sostituirsi a lui; ma anzi, al contrario, proprio per annunciare a tutto il mondo che è Dio il giudice e che sarà Cristo a giudicare tutti gli uomini, e nessun altro; nessun altro uomo e nessun’altra istituzione.

Nell’episodio dell’adultera che gli scribi e i farisei volevano lapidare (Gv 8, 3-11), le parole che Gesù rivolge a loro ("Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra") sono rivolte anche a tutti coloro che continuano a giudicare sulla base della loro fede e della loro istituzione religiosa; e le parole che Gesù rivolge all’adultera ("Nemmeno io ti condanno") sono rivolte anche a tutti quelli che continuano a condannare appellandosi a Cristo.

Riguardo alla mancanza di fede in Cristo, è lo stesso Magistero ad affermare, nell’enciclica Dominum et Vivificantem di Giovanni Paolo II, che il peccato di coloro che non credono in Cristo è redento dalla croce di Cristo (n. 29).

La conclusione di tutto ciò mi sembra chiara e semplice. La Chiesa cattolica, se vuol essere la Chiesa di Cristo, può, anzi deve, indicare agli uomini quali sono i comportamenti graditi a Dio e quali quelli non graditi, quelli espressamente vietati da Dio; ma non può dire e indicare "chi" è fuori dalla salvezza a causa dei suoi comportamenti; e quindi chi è fuori dal popolo di Dio.

Se l’unità voluta da Cristo non è primariamente un’unità di dottrine, di istituzioni e di comportamenti, essa è unità di persone: "Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola" (Gv 17, 21); "Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità" (Gv 17, 23).

Come potrebbero due dottrine, o due istituzioni, o due comportamenti essere una cosa sola? Come potrebbero due dottrine, o due istituzioni, o due comportamenti essere perfetti nell’unità? Due o più persone, invece, possono essere una cosa sola. Una comunione di persone può essere perfetta nell’unità.

Dal passo di Gv 17, 23 si deduce che la perfezione nell’unità si raggiunge quando Cristo, il Figlio, è negli uomini, come il Padre è nel Figlio. E poiché, come abbiamo visto, il Verbo e lo Spirito, che è lo Spirito di Cristo, sono donati a tutti gli uomini, è questo dono che rende possibile l’unità di tutti gli uomini. Gli uomini, di ogni tempo, luogo, cultura e religione non sono uniti perché seguono la stessa dottrina, o fanno parte della stessa istituzione, o hanno gli stessi comportamenti, ma perché, essendo Figli dello stesso Padre, hanno avuto in dono lo stesso Spirito e la stessa eredità.

Del resto, se il disegno di Dio fosse stato quello di un’unità di dottrine, o di istituzioni, o di comportamenti, perché avrebbe fatto nascere e crescere così tante religioni e tante culture? E perché avrebbe consentito una pluralità di dottrine, istituzioni e comportamenti nella stessa Chiesa da Lui fondata?

Si deve dunque concludere che l’unità voluta da Cristo è essenzialmente unità di persone; e pertanto, la Chiesa fondata da Cristo deve perseguire, prima che un’unità di dottrine, di istituzioni o di comportamenti, un’unità di persone, di fratelli, di figli dello stesso Padre.

In realtà, nel Magistero cattolico vi sono già alcuni momenti che indicano come la Chiesa cattolica abbia già percepito la necessità di considerare l’unità oggi perseguibile non come unità di dottrine, di istituzioni o di comportamenti, ma come unità di figli di Dio. Paolo VI, nel suo incontro con i non cristiani a Bombay, affermò: "Noi non dobbiamo incontrarci come semplici turisti, ma come pellegrini che vanno a cercare Dio non in edifici di pietra, ma nel cuore degli uomini". 5 Il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, nell’istruzione Dialogo e Annuncio (1991), sostiene che il dialogo presuppone "l’accoglienza dello Spirito che agisce nel cuore di ogni uomo" (n. 18). Recentemente, l’Episcopato francese, in un documento del 1998 sui rapporti tra cattolici e musulmani, ha affermato: "Per il cristiano, questa relazione con Dio proprio all’interno dell’incontro tra gli uomini è il fondamento di un dialogo di salvezza". 6

Queste attestazioni mostrano come la Chiesa cattolica sia già pervenuta ad affermare che, incontrando ed accogliendo gli appartenenti alle altre religioni, si incontra e si accoglie lo Spirito che il Dio Padre di tutti ha posto nei loro cuori come nei nostri.

Il passo successivo e conseguente da parte del Magistero non può che essere l’affermazione più chiara che l’unità voluta da Cristo non può che fondarsi su questo; cioè, non può fondarsi su un’unità di dottrine, di istituzioni o di comportamenti, ma deve fondarsi su un’unità di figli dello stesso Padre, di persone create e amate dallo stesso Padre.

 

 

NOTE

  1. Jeremias J., Teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, 1976, pag. 176 (originale tedesco, 1971).

  2. Porro C., Chiesa, mondo e religioni, Elle Di Ci, Leumann (TO), 1995, pag. 190.

  3. Ibidem, pag. 101.

  4. Ibidem, pag.103-104.

  5. Paolo VI, Discorso ai rappresentanti delle religioni non cristiane dell’India, Bombay, 3-12-64.

  6. Assemblea dei vescovi francesi (Lourdes, 4-10 novembre 1998), Cattolici e musulmani: un cammino di incontro e di dialogo, in Il Regno – doc., 5, 1999, pag. 151.