L’UNITÁ OLTRE L’ECUMENISMO E IL DIALOGO

 

 

Il movimento ecumenico, iniziato con la Conferenza missionaria di Edimburgo del 1910, ha il fine di promuovere l’unità fra tutti i cristiani, poiché la "divisione non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo" (Unitatis Redintegratio n. 1). La Chiesa cattolica spera che "tutti i cristiani, nell’unica celebrazione dell’eucaristia, si troveranno riuniti in quella unità dell’unica Chiesa che Cristo fin dall’inizio donò alla sua Chiesa, e che crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica" (UR n. 4).

Si tratta di un fine santo, ma che appare, purtroppo, ancora lontano, malgrado molti passi avanti siano stati compiuti, come recentemente la firma tra i cattolici e i luterani della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (31-10-1999).

Il fatto è che se l’unità viene legata al superamento dei problemi dottrinali e teologici, questi sono tali e tanti che una uniformità appare oggi improbabile.

Sui problemi dottrinali discussi in ambito ecumenico rimando ovviamente ai libri e agli articoli che ne trattano, numerosissimi.

Ricorderò solo che essi riguardano, in particolare con gli ortodossi, la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, il primato e l’infallibilità del papa, il dogma dell’immacolata concezione di Maria, la dottrina del Purgatorio; e in particolare con i protestanti, il modo di intendere la Chiesa e i ministeri, il primato e l’infallibilità del papa, la venerazione dei santi, la mariologia, la concezione dei sacramenti. La stessa enciclica Ut Unum Sint di Giovanni Paolo II contiene al n. 79 un elenco di argomenti su cui non c’è consenso (la relazione tra Scrittura e Tradizione, l’Eucaristia, l’Ordinazione, il Magistero della Chiesa, la Vergine Maria). E la stessa Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione tra cattolici e luterani firmata il 31-10-1999 afferma: "Permangono ancora questioni, di importanza diversa, che esigono ulteriori chiarificazioni. Esse riguardano, tra l’altro, la relazione esistente tra Parola di Dio e insegnamento della Chiesa, l’ecclesiologia, l’autorità nella Chiesa e la sua unità, il ministero e i sacramenti, ed infine la relazione tra giustificazione ed etica sociale". 1

E allora, la riflessione che qui vorrei aprire è un’altra. Ed è piuttosto semplice. Se la Chiesa cattolica è e diventa la Chiesa di Cristo, essa va oltre il fine dell’ecumenismo.

Se la Chiesa di Cristo è la Chiesa di tutti quelli che sono di Cristo e sono salvati, cristiani e non, il fine dell’ecumenismo trascende se stesso: nel momento in cui si arrivasse ad un’unica Chiesa cristiana, tale Chiesa dovrebbe comprendere tutti quelli che sono di Cristo, e cioè anche i "non cristiani" salvati da Cristo; e quindi andrebbe oltre i propri stessi confini. Il fine dell'ecumenismo, in altri termini, porta la Chiesa oltre se stessa, cioè ad una Chiesa unica di Cristo che va oltre le diverse Chiese che l'hanno realizzata.

Il vero risultato finale dell’ecumenismo è andare oltre l’ecumenismo, verso una Chiesa non solo dei "cristiani", ma di tutti, dei cristiani e dei "non cristiani".

L’ecumenismo si propone l’unità in un’unica Chiesa cristiana. Ma il fatto è che questa unità non potrà prescindere dal riconoscimento di questo limite intrinseco dell’ecumenismo. Ciò significa che vi è un’unità che è oltre l’ecumenismo, ed è l’unità di figli di Dio.

Noi non sappiamo se domani, fra dieci, cento o mille anni, ci sarà unità di dottrine o di istituzioni. Ciò che sappiamo è che oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, non c’è unità, né dottrinale, né istituzionale. Ma anche se la Chiesa non riesce oggi a dare testimonianza di una unità di dottrine e di istituzioni, tuttavia può dare testimonianza di una unità più profonda, l’unità tra persone, tra figli di Dio, ai quali la grazia è offerta per vie differenti.

Un altro limite che deve essere evidenziato è relativo al dialogo interreligioso, con i rappresentanti delle varie religioni del mondo. Il dialogo ha avuto una spinta decisiva dall’enciclica Ecclesiam Suam (1964) di Paolo VI e dal Concilio Vaticano II, in particolare dalla dichiarazione Nostra Aetate (n. 2) e dal decreto Ad Gentes (n. 11). Da allora il Magistero cattolico ha sempre insistito sulla necessità e sulla fecondità del dialogo interreligioso. L’enciclica Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II al n. 55 e il documento Dialogo e Annuncio del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso al n. 9 hanno affermato che il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. Nell’enciclica Ut Unum Sint Giovanni Paolo II afferma che il dialogo è diventato "una delle priorità della Chiesa" (n. 31). In altri luoghi viene sostenuto che il dialogo interreligioso favorisce i "rapporti amichevoli tra i popoli e gli uomini" (DA n. 40) e la "difesa della dignità dell’uomo e della pace" (UUS n. 74).

Il primo problema del dialogo interreligioso sono, ovviamente le divergenze dottrinali fra le varie religioni, con posizioni che in qualche caso appaiono difficilmente compatibili.

Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut Unum Sint, ha riconosciuto che "il dialogo pone gli interlocutori di fronte a vere e proprie divergenze che toccano la fede" (n. 39), che vi sono argomenti di dissenso di fede (n. 79) e che tali divergenze dottrinali limitano la collaborazione (n. 75).

É di fatto impensabile oggi che gli altri si convincano che solo la Chiesa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza, o che accettino che solo ai discepoli di Cristo Dio rivela la verità tutta intera. Né il dialogo di per sé credo possa condurre a far accettare agli altri una verità ultima che noi crediamo di possedere. D’altronde, occorre far sì che i frutti del dialogo non siano puramente sociologici o politici (pur nella loro importanza).

Il secondo limite del dialogo sta nella sua subordinazione all’annuncio. Afferma il documento Dialogo e Annuncio: il dialogo "resta orientato verso l’annuncio" (n. 82); e l’enciclica Redemptoris Missio: "la Chiesa non vede un contrasto tra l’annuncio del Cristo e il dialogo interreligioso; sente però la necessità di comporli nell’ambito della sua missione ad gentes" (n. 55).

Ma il dialogo può diventare strumento dell’annuncio solo se la Chiesa parte dalla consapevolezza e dall’affermazione che vi è un’unità di figli che viene prima dell’unità di dottrine. Più avanti sarà approfondita questa proposta.

Un altro limite del dialogo nasce dal fatto che c’è già un dialogo di Dio con tutte le persone e tutte le religioni. Ciò è attestato dallo stesso Magistero cattolico quando afferma che il dialogo "affonda le proprie origini nell’amorevole dialogo di salvezza che il Padre intrattiene con l’umanità nel Figlio con la potenza dello Spirito Santo". 2 La Chiesa non può pretendere né di sostituirsi ad esso, né di "aggiungere" la sua voce a quella di Dio, se non al fine di pervenire a un dono reciproco e a una conversione reciproca al mistero divino sempre più profonda e più vera.

In verità anche il documento Dialogo e Annuncio si pone il problema e afferma che il dialogo dovrebbe avere come scopo un "reciproco arricchimento", anche se aggiunge subito "nell’obbedienza alla verità" (n. 9); e altrove afferma che lo scopo del dialogo è "una conversione più profonda di tutti verso Dio" (n. 40), anche se poi aggiunge che in questo processo di conversione "può nascere la decisione di lasciare una situazione spirituale o religiosa anteriore per dirigersi verso un’altra" (n. 40).

Vorrei concludere questo paragrafo da un lato ricordando l’insegnamento di san Paolo (che forse si dimentica nei fatti, anche se si ricorda nella dottrina), secondo cui la Chiesa dovrebbe farsi tutta a tutti, vivere la molteplicità per l’unità (1 Cor 9, 19-23); dall’altro riportando i due passi centrali del Concilio Vaticano II sul dialogo interreligioso, contenuti nella dichiarazione Nostra Aetate e nel decreto Ad Gentes: la Chiesa cattolica "esorta i suoi figli affinchè, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi" (NA n. 2); i discepoli di Cristo, "animati intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, affinchè questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli" (AG n. 11).

Ritengo queste due affermazioni conciliari di enorme importanza e credo che si debba ritornare oggi su di esse e riflettervi con attenzione. A cosa ha chiamato i cattolici, in fondo, il Concilio? Li ha chiamati a far progredire i valori spirituali, morali, socio-culturali dei seguaci delle altre religioni (valori dunque delle loro religioni), e a dialogare con essi perché capiscano quali ricchezze Dio ha donato a tutti i popoli (non a questo o a quello e non con lo scopo primario della conversione al cristianesimo).

Ma queste cose che il Concilio ha già detto ai cattolici tanti anni fa non sono ancora entrate nella cultura, nella mentalità e nella prassi di buona parte dei cattolici.

Mi auguro che questo libro possa essere un piccolo aiuto anche per arrivare a questo.

 

 

NOTE

  1. Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani – Federazione luterana mondiale, Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, Augsburg, 31-10-99, n. 43.

  2. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Asia, n. 29.