Cammino piano, ogni mattina, in
quel tratto di strada che costeggia il Foro. Posso indugiare a
lungo sulla striscia d’asfalto che si affaccia sullo scenario
immobile della città eterna. Ogni attimo si dilata mentre mi perdo
in quella visione così familiare. Le rovine di marmo riflettono
silenziose la luce, e a me sembra di far parte di quel luogo che
vivo come fosse la mia pelle. Lo sguardo penetra il paesaggio e si
sofferma a lungo sulle due palme che spuntano in lontananza.
Passando di là, in qualsiasi stagione, s’impressiona nel fondo dei
miei occhi, l’immagine delle palme. Volgo la testa verso i due
alberi, un gesto fedele, affezionato, sempre uguale a se stesso.
Rimbalzano vicinissime nel controluce del giorno, emergono
evanescenti dalla pioggia e si confondono nei toni morbidi dei
tramonti e delle albe. Due comete con la coda piantata nelle
rovine dei Fori. Nelle notti più oscure le ho intraviste tremare
al taglio di luce silenzioso della luna. I tronchi spuntano esili
dalle rovine come steli di fiori esotici. Le cime delle palme si
trasformano di continuo e ritornano spesso nei momenti più
impensabili. Ho sempre creduto che un luogo possa aiutare a vivere
se concentra su di sé un affetto. Durante l’infanzia e lo scorrere
dell’età, le palme si sono trasformate, hanno assunto una forma
intima quasi umana, quasi un riferimento irrinunciabile per il mio
mondo interno. Solo oggi capisco che da bambina la mente
attribuiva alla loro esistenza, e più precisamente alla loro forma
permanente, la speranza di creare una relazione ininterrotta con
il bene della vita, oltre il dolore, la garanzia di una realtà più
nutriente da cui si snoda la costruzione del futuro; una sorta
d’adozione interiore a cui affidare il percorso della propria
esistenza. Le due palme, la loro immagine immobile nello scorrere
degli anni, stava piantata nella terra come un grumo di vita.
Forse incarnavano il simbolo dell’esilio dalle colonie
greco-albanesi della primissima infanzia alla città dei Fori,
esprimevano la nostalgia per quel mondo colorato delle origini,
divenendo metafora di un sostegno segreto, simile a una coppia di
antenati che ti segue ovunque con lo sguardo. L’immagine di un
luogo, la sua stessa fisicità e concretezza, può essere assimilata
ad una ‘guida’ se quella visione che guardiamo e che ci guarda
risuona nello spazio interiore, come un perimetro affettivo
all’interno del quale si è giocata gran parte della nostra storia.
La geografia delle origini protegge la crescita di un individuo e
la àncora costantemente allo spazio e al tempo del nostro
esistere.
La motivazione profonda a curare
questo numero della rivista nasce da questa sceneggiatura privata,
da un frammento personale che descrive un luogo dell’anima e dal
desiderio di condividere con i colleghi della redazione, gli
autori e il lettore, i molteplici significati sottesi alla
relazione che lega l’anima ai luoghi.
Il tema si sviluppa dall’idea che il mondo interno
ospita nel corso della vita molti luoghi, e che la nostra
esistenza psichica si fonda e sedimenta anche sulle esperienze
connesse ai luoghi. Il corpo e la mente hanno memoria dei luoghi e
ne riconoscono le caratteristiche, non solo attraverso il ricordo
per immagini, ma anche nell’istante in cui una situazione
ambientale riesce a riattualizzare nel soggetto la specifica
sensorialità e visibilità indelebilmente legata a forme dello
spazio conosciute in precedenza.
I luoghi vissuti, ritrovati, immaginati
incidono sull'identità individuale e collettiva, sia come spazio
fisico che come spazio all'interno del Sé. Per il lettore, in
forma di viaggio mi piacerebbe che si navigasse sulle acque
silenziose del fiume che lambisce tutti i paesaggi che ogni autore
ha aperto alla nostra visuale. Un fiume, dalle acque trasparenti e
a tratti torbide, che come uno specchio riflette l’interiorità dei
suoi abissi e la profondità del cielo. Un fiume che si chiama
anima.
Per noi junghiani, anima è l’atteggiamento generale della
coscienza verso l’inconscio e l’interiorità.
«Il
principale luogo dell’anima, non può che essere un luogo
interiore, le trame nascoste del vissuto del soggetto oppure
l’inconscio stesso. (…) In una specie così dipendente e ancorata
al mondo relazionale come è il caso della specie umana, verranno
subito ad aggiungersi quali condizioni ineludibili di quel luogo
interiore, le circostanze esterne, i luoghi esterni, il corpo e
l’altro».
Ricardo Carretero specifica come i luoghi esterni gravitino sui
luoghi interni e viceversa, facendo della funzione dell’anima
«una
funzione molto complessa, che necessita insieme di pace interna e
di pace esterna, una pace che sarà sempre precaria ed evanescente.
Perché se la funzione prima dell’anima è rivolgersi come se fosse
uno specchio verso il mondo interiore, la qualità del suo
atteggiamento si vedrà interferita di continuo dai richiami
esterni, diventando così uno specchio a due facce»
una che rispecchia il mondo interiore e l’altra il
mondo esterno.
E’ attraverso lo specchio a due facce dell’anima
che il nostro itinerario si snoda percorrendo luoghi della mente e
luoghi della vita.
Sfiorerà le vestigia del passato accanto agli spazi
contemporanei. Le architetture urbane intrise di storia,
spiritualità, tragedia, assenza, come Gerusalemme o Napoli, i
confini tra Palestina e Israele, sino a toccare gli spazi intimi,
interiorizzati, dei luoghi dell'infanzia o del setting analitico o
di un set cinematografico…
Anche i linguaggi della letteratura e della poesia
sono riflessi del luogo nella lingua viva, nelle parole che
toccano, portatrici di sensorialità e della storia di
un’etnia, di una esistenza.
Volutamente un numero ampio, culturale e non solo
psicoanalitico, per questo ci saranno anche autori non
psicoanalisti, persone autorevoli che hanno dedicato la loro
ricerca alla costruzione sensibile di spazi, alla definizione dei
confini, alle geografie della memoria effetto del mutare e
trasfigurarsi degli spazi.
I diversi contributi sono mescolati tra loro come a
comporre lo sky-line ininterrotto di una città visionaria che non
ha centro o periferie, ma dove all’interno dei propri confini
ciascun edificio o albero ne rivela con eguale intensità l’intima
essenza. Frammenti strutturali di questa costruzione collettiva:
- La memoria e l’esperienza di siti archeologici e
il riflesso della loro mitologia nei sentimenti d’appartenenza
ed origine.
- I percorsi psicologici e le vicissitudini
dell’esilio mentale e sociale, non solo per gli aspetti
riguardanti la perdita, ma anche come spinta progettuale e di
rifondazione verso nuove terre.
- Il riflesso del luogo nella lingua viva.
- Il declinarsi dell’esperienza psico-fisica del
luogo nello spazio del Sé.
- Il rispecchiarsi dell’uomo negli spazi urbani, in
termini di solitudine o d’utopia.
- Le città-simbolo e i luoghi desimbolizzati.
- Il rispetto dei diritti dell’uomo di avere una
terra d’appartenenza.
- Gli spazi privati dell’anima come la stanza della
meditazione.
- I luoghi nelle opere letterarie e nell’arte
contemporanea.
- Il setting, luogo dell’analisi e i luoghi
istituzionali nei quali si cura il disagio mentale.
- Il luogo simbolico/concreto della sabbiera e il
controtransfert dell’analista.
- Il linguaggio iconico che narra i luoghi del
cinema.
-
Il set cinematografico come luogo di un sogno collettivo,
come spazio dove prende forma l’inatteso, il
«galleggiare
sulla superficie di una realtà».
L’esperienza di un regista sul come si declina la realtà nel set.
L’effetto di questa complessa operazione,
rispecchiare più luoghi attraverso più anime, deriva sempre
dall’esperienza personale diretta o dall’eco significativo di un
evento nella vita dell’autore, entrambe condizioni filtrate dal
proprio background culturale. Un taglio coinvolgente che fa
cogliere senza veli l’anima dell’autore e i suoi luoghi
dell’anima.
Ripercorrendo le tracce di questo viaggio sul fiume dell’anima
risalta il luogo tra i luoghi: la Casa,
«raccordo
simbolico privilegiato fra spazio, tempo, emozione - là dove i
ricordi, già alla nascita, naturalmente abitano»
(1). Le case «scavate
in profondità dagli anni, risultano un composto in cui il tempo si
mescola allo spazio, e a entrambi si presta una nuova qualità.
Sono residui di un tempo denso di valore proprio perché
sedimentato in controtendenza, ‘resistente’ si potrebbe dire al
suo puro fluire. E, insieme, custodi come sono di esistenze che
precedono o seguono la vita del singolo, le case divengono
testimoni dei duplici movimenti, in avanti e all’indietro, del
tempo».
Ma le case hanno anche una consistenza meno volatile del tempo e
restano sospese tra gli interni protetti dei loro spazi e
il loro affacciarsi sul mondo. Il grembo materno è il primo spazio
dell’essere umano, come la casa è il primo mondo, replicando
all’infinito «stimoli
di protezione, fornendo alla memoria uno spazio consolatorio,
fisicamente posseduto. Lo spazio felice circoscritto dal
perimetro domestico è il solo, infatti, in cui si ha la certezza
di esistere, al contrario dello spazio indifferente o
ostile dell’esterno, scavato progressivamente dai varchi
dell’incertezza e della perdita».
(2)
Il valore protettivo della casa ce lo rammentano di
continuo i nostri pazienti per le resistenze che manifestano nel
distaccarsene ed affrontare la realtà esterna, come se la casa
rappresentasse quel brandello di identità che se annullato,
lasciato, dimenticato, metterebbe totalmente a rischio la loro
stessa sopravvivenza. Un paziente, proveniente da un luogo diverso
dalla città in cui vive, affetto da fobie che gli impediscono di
viaggiare, timore delle malattie ed angosce legate alla
separazione, nel corso dell’analisi mi porta a distanza di pochi
mesi due sogni:
«Nel
mio paese d’origine gli edifici esplodevano. Mi nascondevo assieme
ad altri. Cerco di rifugiarmi con i miei parenti. Come se fossimo
ai tempi della seconda guerra mondiale».
«La
casa del mio paese d’origine la stavo sollevando come per portarla
via dal luogo in cui è sempre stata, la stavo spostando verso un
altrove. Avevo un’estrema tensione che si potesse rompere. Erano
presenti i miei familiari ed io ero preoccupato ma mi sentivo
attivo. La casa si sradica da terra…
».
In riferimento alle paure provate di non poter mai
vivere da solo e distante dalla famiglia, il rischio d’implosione
viene affrontato con la possibilità di uno sradicamento, che lo
vede attivo nel compiere la delicata operazione di migrare
in un’altra realtà, gesto simbolico che apre una porta al trasfert
e al legame verso una nuova terra.
Un altro sogno, si tratta di un paziente
dolorosamente ma inconsapevolmente chiuso per anni in un guscio
autistico. La percezione della propria fragilità muta nel momento
in cui porta in analisi questo frammento onirico che coglie nel
simbolo della casa instabile il senso costante della precarietà di
vita, del vuoto che minaccia la sua esistenza, verso cui è urgente
opporre una costruzione…
«La
casa del sogno ricorda una struttura arcaica, quella formata da
tre grandi pietre, credo del megalitico, l’involucro esterno è
privo di tetto e di finestre, e la presenza del cemento armato la
rende simile ad una gabbia; all’interno di questa struttura ve ne
è un’altra più esile nella quale manca sempre il collegamento tra
interno ed esterno. Questa parte centrale dell’edificio si muove,
è fluttuante, non c’è equilibrio. Mancano i corridoi, mentre
percorro le scale interne devo fare molta attenzione per non far
oscillare tutto. Se nella realtà vedessi un palazzo simile
penserei che deve essere completato, e che sarebbe utile che
qualcuno portasse i materiali per costruire le parti mancanti».
Le case dei sogni dei pazienti sono simboli
dell’identità. Se pensiamo al nostro mondo personale non esiste
forse una casa che ha rappresentato in modo forte la nostra
identità? Ricordo la mia prima casa dopo la laurea, ristrutturata
con cura e grande piacere, sempre in ordine e arredata con oggetti
amati, da sola tra quelle pareti mi sembrava che la mia dimora
divenisse nella fantasia l’estensione della mia stessa pelle.
Per Freud la casa nel linguaggio onirico rappresenta la proiezione
del corpo umano, una figurazione del corpo (3). La casa vive
nell’ombra del corpo e contiene la vita nella sua essenzialità,
penetra «in
noi come noi siamo in essa»
(4), e non ci lascia mai anche quando dovesse non esistere più
perché una parte di noi resta indelebilmente legata al suo
ricordo.
Esistono alcune condizioni di vita in cui non si può più possedere
uno spazio privato e la propria esistenza si aggira nelle strade,
senza-tetto per l’anima. La situazione psicologica dei
senza-tetto, per Maria Teresa Colonna, va osservata non solo come
«conseguenza
delle privazioni, ma soprattutto in termini di perdita di capacità
d’elaborazione psicologica».
Certamente la permanenza prolungata per la strada è una minaccia
per l’integrità psicologica e la propria identità. Malgrado i
tentativi di riorganizzazione del Sé e di una casa interiore, lo
smarrimento di coordinate fisiche rassicuranti, alimenta le
sensazioni di essere invischiati in labirinti senza via
d’uscita. Una dimora per l’anima può diventare una realtà
concreta quando un gesto di solidarietà crea un luogo di ascolto e
sostegno per i senza-tetto.
Altre situazioni appartenenti alla sfera del collettivo in cui la
casa delle origini è perduta per sempre - o è continuamente
minacciata nella sua identità come descrive bene il film
«il
Giardino di limoni»
-
riguardano tutte le condizioni di forzato esilio o di guerra o
genocidi che affliggono il pianeta.
Nel film del regista Eran Riklis, la donna
israeliana e quella palestinese si guardano attraverso il muro che
divide le rispettive case in Cisgiordania, e si intuisce che se
solo loro due potessero risolvere il conflitto avrebbero scelto
altre soluzioni e non quella di erigere un muro ancora più alto
tra le loro abitazioni, un’umiliazione per le piante sacre
secolari di limoni simbolo del passato e di una terra che ha
diritto di fruttare ed esistere.
Il viaggio di Alessandro Petti è una cronaca
privata fatta dal vivo di un attraversamento di confine tra
Giordania e Palestina-Israele e ritorno, dopo quattro anni. Un
matrimonio e la nascita di una bambina scandiscono le tappe di
questo turbolento andare in una striscia di terra incandescente,
tra soldati, checkpoint e stratagemmi per sfuggire alla
logica del controllo e della sicurezza, evidente nei Territori
occupati palestinesi, e presente per motivi diversi in tante altre
parti del mondo.
Se non guardiamo nell’oscurità di questi confini
sfocati, separati, isolati, la ricaduta della nostra cecità
graverà sulla nostra coscienza collettiva per aver colluso a
generare enclave, realtà irrimediabilmente separate tra di
loro, congelando la nostra coscienza sulla soglia di una surrealtà
disumanizzante.
Una conseguenza altrettanto grave dell’indifferenza collettiva
sono i genocidi orrore dei popoli che si consumano in ogni angolo
del mondo. Tutto ciò che trascuriamo, non filtrato dalla sfera
della consapevolezza ricade nell’Ombra, il lato oscuro, non
vissuto e rimosso del complesso dell’Io. L’invito di Andrea
Arrighi nel confronto con l’Ombra è di riconoscerla
«come
una risorsa proprio nel suo essere costante stimolo a considerare
l’evolversi di una situazione, a tenere presente che qualcosa di
non ancora pienamente conscio sussiste sempre, sia che ci
si confronti con un percorso psicoterapeutico, ma anche con le
condizioni di una nazione nei suoi aspetti sociopolitici».
Le vicissitudini dell’Ombra nel doppio statuto di limite e
risorsa, vengono analizzate attraverso il genocidio compiuto in
Rwanda rappresentato nella proiezione cinematografica del film
«Hotel
Rwanda»
di T. George.
Proseguendo il nostro itinerario, le note auto ironiche nel testo
letterario di Giorgio Corrente hanno per sfondo Buenos Aires,
scenario di altre tragedie come quella dei desaparecidos,
gli scomparsi, vittime delle polizie dei regimi. Da esuli
il ritorno nella propria terra d’origine è importante ma un
processo, si direbbe irreversibile, non può ormai cancellare
l’esistenza di più luoghi nella propria identità. La scelta più
forte potrebbe virare verso il nuovo mondo piuttosto che favorire
il ritorno, riallacciarsi alle proprie radici. Un modo per epurare
le ferite del passato e preservare solo quanto di nostalgicamente
bello vogliamo custodire nella mente?
Forse è questione di quanto il trauma si è
avvicinato alle nostre vite.
In alcuni casi quando il trauma ci ha colpito in
pieno ed ha fatto vacillare la nostra famiglia, percepiamo il
dovere etico della memoria. In queste circostanze non possiamo e
non vogliamo dimenticare. Da bambina quasi per gioco Sonya
Orfalian registra la voce di nonno Ohannes che le racconta quando
ad otto anni camminava a piedi nudi sul grasso che usciva dalla
cattedrale di Urfa. Erano umori umani derivanti dai corpi bruciati
vivi. Fu il sultano Abdul Hamid nel 1895 che comandò la folle
mattanza degli armeni. Uno dei tanti episodi che culmineranno tra
il 1915 e il 1920 a cancellare gli armeni dalle loro terre. Il
semplice e innocente gesto di una bambina, per rammentare il
valore della trasmissione della memoria storica, perché nulla tra
secoli sia dimenticato. Da anni il regista Steven Spielberg si è
fatto portatore della missione di non far dimenticare l’Olocausto
con le migliaia di testimonianze raccolte tra i superstiti.
Sonya Orfalian, esule e figlia della diaspora armena affronta lo
scorrere del tempo seguendo un’immagine precisa:
«volando
con lo sguardo rivolto all’indietro come l’Angelo della Storia di
Benjamin. Ovunque io sia cerco segni e tracce che rivelino un
legame sia pur labile con qualcosa di nostro, qualcosa che
fondi un noi».
Anche una tovaglia ornata di melograni, frutto in relazione con la
cultura armena più profonda, può ricostruire un legame interiore
con la terra perduta e confortare nello sperdimento.
Perché non considerare Ospiti di una nuova
terra persone così ferite dalla storia? Invece di definirli:
apolidi, rifugiati, profughi, stranieri, apatridi… forse
dimentichiamo che riguardo all’esistenza siamo tutti ospiti,
nessuno escluso, di questa grande madre terra? Forse il
superamento del nostro narcisismo locale potrebbe essere
quello di stringere un pugno della nostra terra d’origine e
portarla camminando per il mondo nella nostra mano come nel cuore.
I paesaggi delle origini possono non lasciarci mai se diventano
interiori.
Nell’arco della storia di ogni singolo uomo anche la tomba non è
altro che la casa,
«seppellire
significa restituire il defunto alle viscere della Grande Madre.
Il morto è ospitato in un grembo in cui conserva la sua
compromessa integrità materiale e, pertanto, la sua individualità
senza intaccarla»
(5). Dai tempi del neolitico il grembo della madre terra era
inteso come l’utero in cui era in gestazione la vita definitiva e
tale ipotesi la confermerebbe la posizione fetale in cui venivano
trovati i cadaveri.
L’ingresso solenne nel mondo sotterraneo viene
descritto in Memorie di Adriano. Il fanciullo
di Claudiopoli scendeva nella tomba come un Faraone, entrando in
quella «durata
senz’aria, senza luce, senza stagioni e senza fine, al cui
confronto ogni vita appare breve (…) I secoli ancora celati nel
seno opaco del tempo sarebbero passati a migliaia su quella tomba,
senza rendergli l’esistenza, è vero, ma anche senza contribuire a
quella morte, senza poter impedire che egli sia esistito…»
(6).
Ai
giorni nostri una situazione ben diversa è destinata a chi
sognando un Nuovomondo, a un passo dalle rive italiane,
precipita cadavere lentamente
«lungo
una verticale di ottomila metri, fino all’oscurità fredda di
quella distesa sterminata di fango vivente e di scheletri
microscopici che forma il fondo del mare»,
oltre la perdita nessuna sepoltura, per noi occidentali che
abitiamo la terra promessa non resta che il marchio della
vergogna.
Il
lutto ha bisogno di domesticazione, di casa, di un luogo dove
s’imprima il segno di una vita (Lella Ravasi), nel caso contrario,
di fare casa almeno dentro di noi, e alimentare una luce accesa
nell’ombra di quegli abissi nei quali uomini, donne, bambini con
le loro speranze sono stati
«spolpati
in sussurri».
Orfalian, cita Adorno per trasmettere il senso profondo della
domesticazione del lutto: «Il
posto più caro che abbia sulla terra, è la panchina sull’erba
presso la tomba dei miei genitori».
Tornando all’immagine della casa, Jung raffigura l’anima come una
vecchia dimora a più piani, composta da elementi architettonici di
età diverse. Pensando all’anima dobbiamo porci
«di
fronte allo spaccato di un edificio: il piano superiore costruito
nel XIX secolo, il pianterreno del XVI secolo ed un esame più
minuzioso della costruzione mostra che essa è stata innalzata su
una torre del II secolo. Nella cantina scopriamo fondazioni romane
e sotto la cantina si trova una grotta colmata sul cui suolo si
scoprono, nello strato superiore, utensili di selce, e, negli
strati più profondi, resti di fauna glaciale»
(7). L’immagine della casa di Jung racchiude al suo interno la
sostanza più profonda della vita, quella che si svela allo sguardo
quando ripercorriamo le archeologie delle nostre origini. Ad
esempio, i percorsi della psiche che attraversano il tempo
immobile delle Matres Matutae, nei ricordi affettivi di Domenico
Chianese rappresentano la ricerca di una preistoria personale. Le
statue delle Madri tracciano «un
processo generativo cieco e imperturbabile»,
un auspicio alla fecondità, ma per coincidenza degli opposti, i
neonati che stringono tra le braccia le madri, sono anche i morti
che ritornano in seno alla terra…
Capua e le sue Madri, nella mitobiografia
dell’autore, costellano una terra di vita e di esilio, quella in
cui si è eterni stranieri. Ma proprio per la posizione naturale
della mente di perenne dislocamento, di esilio da se stessi,
queste terre d’origine possono rappresentare il luogo del sogno,
dei simboli, dell’inconscio, il teatro interno del mondo
sepolto dal quale ha preso forma la storia di una vita.
Un
crocevia quello tra mondo interno ed esterno che Giuseppe Maffei
descrive come un continuum di atmosfere e climi che si creano
nell’incontro interpersonale e del soggetto con i luoghi.
«Il
paesaggio esterno, oggettivo e tangibile che appare ai nostri
sensi è sempre mediato da un paesaggio interno, nascosto e
mutevole».
Un «linguaggio
musicale segreto e poetico»,
un linguaggio vivo, si fa portatore dell’esperienza dei
nostri paesaggi interiori. Sul filo musicale di queste parole
costruiamo il mondo, mentre nello stesso istante, è anche il mondo
che ci costruisce. «Un
panorama formato da stratificazioni della memoria almeno quanto da
sedimentazioni di rocce».
Il crocevia dunque si struttura sempre attraverso la relazione
affettiva tra l’uomo e il mondo.
Nei casi in cui l’incontro tra vita emozionale e mondo non sia
possibile, «l’esilio
dell’Io - descritto da Marina Breccia - è l’ipotesi alternativa
alla morte, consentita dall’esistenza di un luogo di rifugio dove
si può conservare l’idea del ritorno, per l’esperienza comunque
positiva, ancorché parziale di un contatto con il mondo esterno».
Nella psicosi, il soggetto manterrebbe un angolino nella
coscienza, uno «sguardo
integro e memorizzabile su cosa stia accadendo all’Io, in
relazione alle sue vicende psichiche ed esistenziali, ma scisso
dalle altre funzioni dell’Io».
L’ipotesi avvincente è dunque «che
l’Io nella psicosi possa essere frequentemente un Io esiliato, più
che distrutto e frammentato»;
un piccolo spazio apolide che preserva una sua integrità e
nel quale in futuro potrebbe germinare una trasformazione. Per
analogia con la dimensione apolide è suggestiva l’immagine dei
Tuareg, gli Hommes bleu, la cui vita nomade
«testimonia
l’indomita volontà di conservare un’identità, di non essere
sopraffatti né dalla civiltà né dai poteri politici o religiosi
imperanti, (proteggendo) il loro contatto religioso con la natura
e il loro muoversi con essa».
Riguardo ai pazienti psicotici, nel caso in cui i paesaggi
interiori siano costantemente minacciati dal rischio della
scissione, è pure fondamentale lo spazio esterno che li accoglie,
quello della stanza d’analisi come anche quello dei Servizi di
salute mentale. I luoghi fisici che ospitano le relazioni di cura
sono i fedeli depositari delle autentiche capacità di cura
di una istituzione, essi hanno una funzione attiva, affettiva,
«hanno
ricordi».
Per l’esperienza sul campo di Giuseppe Riefolo, i luoghi dei
Servizi si prestano per i pazienti molto regrediti a divenire una
«estensione
del senso del Sé».
I luoghi o le cose hanno una funzione di
stabilizzazione e favoriscono il recupero della dimensione
affettiva, proprio in virtù di essere custodi di elementi
affettivi indifferenziati, che nel percorso di cura, verranno
restituiti dall’elaborazione condivisa nello spazio della
relazione terapeutica.
I luoghi della mente assumono il volto degli
adolescenti e dei bambini descritti da Pia De Silvestris.
Il
silenzio di una ragazzina russa che non rivela il paese d’origine
alla sua analista racchiude lo stesso mistero che avvolge la
nascita delle idee nella mente di un’artista. L’autenticità alla
base del linguaggio dell’infanzia, nasce spontanea come una forza
della natura. Lo stesso fascino che sprigionano le opere di Louise
Bourgeois, l’energia che emana dai suoi giganteschi ragni
metallici e dai feti, sino alle sculture che rappresentano i
bambini sospesi tra il grembo di una madre di stoffa e il mondo.
Luoghi primari che sfuggono alla
«comprensibilità
del ricordo del passato».
La condivisione delle emozioni nella stanza d’analisi porterà
gradualmente alla parola fino all’acquisizione di una competenza
narrativa del giovane paziente. «Lasciar
parlare il paziente è paragonabile alla bellezza di un fiume che
scorre, simile ad un luogo della mente percorribile, dove sono
state depositate le fantasie più radicate e apparentemente
immutabili».
Sempre dal mondo dell’infanzia emerge un’altra preziosa
possibilità per l’ascolto e la cura analitica, è il gioco
quel territorio altro che anche l’adulto deve recuperare come
corpo in azione e spazio che fa nascere immagini, emozioni,
affetti. L’anima si specchia nel fondo della sabbiera dove le mani
sognano scene del proprio mondo interno. Un luogo concreto,
come ricorda Paolo Aite, che riapre strade antiche di
comunicazione come accadeva nell’infanzia. Le parole condivise,
appunto, sono solo un approdo finale, perché il primo movimento
interiore è rivolto alla materia toccata e all’oggetto.
«Quanto
viene percepito ed usato nel gioco si associa ad un affetto
emergente, corrispondente al vissuto del giocatore in quel
momento. Si crea un legame tra percezione ed affetto vissuto».
La continua ricerca di senso si modula sul filo delle metafore
apparse nel campo, metafore simili a
«sonde
lanciate nello spazio, che assumono un carattere esplorativo»
per la coppia analitica. Uno degli aspetti più interessanti del
setting del gioco della sabbia consiste nella consapevolezza
dell’analista che nel suo atteggiamento d’ascolto percepisce se
stesso come quel campo di sabbia ancora vuoto.
Il vuoto inteso come spazio insaturo, estrema potenzialità in
divenire.
Echi di questa qualità
intrinseca del
vuoto,
creare uno spazio vitale all’interno della mente, si respirano
nella stanza della meditazione. Un luogo poetico come lo
definisce Chandra Livia Candiani. Il corpo che nel gioco della
sabbia si esprime nel gesto di creare la scena nella sabbiera,
ritorna a muoversi nella meditazione nel gesto d’inchinarsi e di
poggiare la fronte a terra. La quiete del corpo si raccoglie nel
silenzio. «Il luogo di un fare, un
particolare tipo di fare che in un certo senso consiste nello
smettere di fare alcunché, nel disimparare». Lo spazio della
stanza è simile allo spazio del cuore. Nel buddismo cuore vuoto
significa «spazioso, ampio, un cielo in cui le emozioni, gli
affetti, i pensieri, passano ma non permangono, sorgono e
svaniscono. La non-identificazione con le inaffidabili emozioni, i
discontinui pensieri, illumina la fondamentale vacuità dello
sfondo».
La stanza vuota della meditazione
insegna ad essere un contenitore vuoto pronto ad accogliere, ad
essere abitato.
Il Vuoto come mezzo di
significazione è molto presente nelle architetture orientali. «Lo
spazio giapponese è sempre legato alla sublimazione del vuoto. Per
vivere, infatti, in uno spazio con la massima libertà possibile,
occorre innanzitutto creare il vuoto; in seguito il vuoto sarà in
qualche maniera occupato, ma la vibrazione del vuoto e la sua
presenza devono restare sensibili» (8).
Lo spazio vuoto diventa in qualche
modo il centro, l’origine generatrice dell’insieme
dell’architettura che lo racchiude (9). Quando le stanze sono
quelle abitate dalla quotidianità è il
nostro sguardo che le risveglia
dall’assenza, dall’immobilità. Lo sguardo interroga lo spazio e
gli oggetti in essa contenuti. Testimoni delle azioni e dei
sentimenti più privati, le stanze come luoghi personali portano i
segni dell’esistenza del suo abitante. Un esempio toccante è la
Stanza di Van Gogh ad Arles del 1888. L’assenza di Van Gogh
nel quadro «non è dolorosa, poiché il pittore ha saputo dissolvere
se stesso in ognuna delle componenti» della stanza. L’interno è
impregnato della vita segreta del suo abitante e la vita nascosta
dalla stanza accentua la differenza tra spazi interni ed esterni.
Il tempo omogeneo della stanza contrasta con l’attività urbana che
anima la strada…
Scendendo in strada, altri scorci,
altri paesaggi, la seconda stazione di questo viaggio apre la
visuale verso i luoghi esterni antichi e contemporanei, lo sguardo
si ferma in modo preciso sulla Città e su tutti gli spazi
che essa contiene. Nell’antichità l’ordine dell’universo si
rifletteva sullo schema di due assi che s’intersecano in un piano.
Infatti ad esempio le città dei Romani erano «organizzate in
armonia con le leggi divine». Concepire oggi la città «a
somiglianza degli antichi, come una forma simbolica appare del
tutto vano», spesso ci troviamo di fronte alla povertà del
pensiero urbanistico, solo poche città si può dire che abbiano
mantenuto una matrice simbolica, e nel nostro testo la scelta è
caduta in particolare su Gerusalemme e su Napoli.
Oggi «l’uso dello spazio urbano è
oggetto di molti studi, ma solo dal punto di vista fisico
dell’occupazione del suolo e dell’amenità dell’ambiente: lo spazio
psicologico, quello culturale, giuridico, religioso non sono presi
in esame come aspetti dello spazio ecologico che l’urbanista ha il
compito di ottimizzare» (10). Le forme partorite dalle Archistar
sono la conseguenza di resti non analizzati del proprio
modo di essere urbanista e della morfologia e storia della città,
derivano da residui irrazionali di pregiudizi spirituali ed
estetici non dichiarati… molti sociologi hanno criticato questa
modalità ed affermano la necessità di tener conto di un modello
concettuale e del prototipo di città che gli abitanti elaborano
mentalmente e che spesso si trova esemplificato nelle loro case.
«Molte volte la casa è sentita come una città in miniatura: non la
città com’è, ma come vorremmo che fosse» (11).
Ero presente all’inaugurazione del
Museo MAXXI di Roma, progettato dall’Archistar Zaha Hadid, le ex
caserme del quartiere Prati trasformate in un immenso serpente di
cemento e vetrate, al cui interno i piani inclinati dei corridoi
si reggono sul vuoto; un impatto spettacolare allo sguardo del
visitatore. Ma dove sarà lo spazio per affiggere le opere su
queste pareti curve? «Lo spazio - dice Zaha Hadid - deve essere un
luogo in cui le persone si sentono bene. Questo è il vero lusso!»
(12).
La ballerina Sasha Waltz di Berlino
Est, quella sera insieme alla sua compagnia ha inaugurato con la
sua danza ondivaga le sale vuote del MAXXI. Due ore e una trentina
di azioni in loop, che il pubblico ha seguito disseminato
in ogni dove. Rispetto allo straordinario impegno dei danzatori il
MAXXI appariva alla mia percezione come un utero freddo e
inospitale. A nulla valeva lo sforzo degli artisti di riscaldare
l’atmosfera… solo alla fine ci sono riusciti quando, tutto il
pubblico seduto a terra in uno spazio raccolto, senza prospettiva
architettonica, che sarebbe potuto essere ovunque nel mondo, hanno
rappresentato l’ultima scena, la loro performance toccante,
collettiva, che mimava, credo, la tragedia del Muro di Berlino.
Questo per dire che se non scatta la possibilità di instaurare una
relazione con uno spazio, che offre il suo ambiente
diventando stimolatore e scrigno dell’incontro umano, è come
essere sospesi in un vuoto non generatore, lo spazio si riduce ad
essere ipertrofico, narcisistico ed autoreferenziale.
Gli spazi grandiosi di quest’epoca
sono operazioni di marketing, architetture da sfogliare come le
riviste del settore, e gli architetti presi dai loro alibi non
rivelano competenze artigianali di carpenteria ma si occupano
invece di tappezzerie, di inutili ornamenti (13). Piuttosto che
essere alla moda, la sfida è di riuscire ancora, come
nell’antichità, a produrre dei simboli condivisi, a fare in modo
che le città sognino altre città, come le pietre di Venezia
o San Pietroburgo… diversamente in città come New York sembra che
ora il business sia distruggere e non costruire; si cancellano
così le vestigia memoria del passato per perseguire una frenesia
edilizia senza limiti. Un elogio doveroso dunque a tutti quei
resti urbani che ricordano altri tempi, questo dovrebbe essere
il compito di un urbanista sensibile e rispettoso del
trasfigurarsi degli spazi, mantenendo intatta la narrazione del
luogo, le geografie della memoria, i resti di altre epoche:
«Una città (oggi) è costruita per
somigliare a una mente cosciente, a una trama che può calcolare,
amministrare, produrre. Le rovine diventano l’inconscio di una
città, la sua memoria, lo sconosciuto, il buio, la terra desolata.
Con le rovine la città si libera dai suoi piani per passare verso
uno stato intricato come la vita». La presenza di rovine urbane
può far pensare che le città passino alla morte ma «è una morte
fertile come un cadavere che nutre dei fiori» (14).
Le città, come gli individui, hanno
bisogno di essere protetti nei loro percorsi di sviluppo, fatti di
passato e di presente. Sarebbe auspicabile che la ricerca di senso
e progettualità avesse per meta ideale e fine ultimo il
raggiungimento della saggezza. Ricordano Chiara Ripamonti
ed Andrea Bassanini, attraverso le parole di Hillman, che «la
nostra società, e la psicologia che ne fa parte, rivelano forti
tensioni per quanto riguarda il sentimento, la femminilità,
l’eros, l’anima». La spaventosa perdita d’anima potrebbe essere
arginata dall’integrazione degli aspetti femminili nelle
rappresentazioni della saggezza. L’Archetipo di Sophia, si
riflette in tutti i lavori degli autori che hanno scritto in
questo numero della Rivista sulle Città e sui Luoghi di
fondazione e delle origini:
Domenico Chianese, Francesca
Comencini, Giorgio Corrente, Nicole Janigro, Mario Mastroianni,
Pierbattista Pizzaballa, Paola Russo, Andrea Sabbadini, Luigi Zoja.
Anima e Saggezza si mescolano nei
loro sguardi per restituire ai luoghi la profondità che meritano.
Per noi abitanti delle città, il
recupero della saggezza consiste nel non rinunciare ad una
posizione apolide, l’archetipo del nomade, come scrive Zoja, la
libertà di ondeggiare tra spazio e tempo. Il flaneur si
aggira per le città, con al guinzaglio una tartaruga senza tempo
che sceglierà per lui la strada… Saper attendere che un impulso
non cosciente emani dalla meta e ci trascini verso di lei, perché
i luoghi urbani da raggiungere «non sono preventivamente noti alla
coscienza, ma sono conosciuti dall’anima della città: essa non è
un oggetto da conoscere, è un soggetto della conoscenza. La strada
non è oggetto da percorrere, è soggetto che decide il percorso».
Nicole Janigro attraverso un suo
toccante, personale viaggio, per sette stazioni di una stessa
storia, si confronta con il tema di un’identità spaziale
resa più ampia dall’intrecciarsi dei linguaggi. Da est ad ovest,
le lingue si confondono nella mente di un bambino che ha più
origini di provenienza, lottano tra di loro; tutto poi si gioca
sul piano dell’identità, nell’ipotesi più auspicabile come una
grande ricchezza. Diversi luoghi dell’anima toccano la vita
dell’autrice e i suoi ricordi. Berlino una città dove è
«l’estraneità» a trasmettere un senso di appartenenza, e in cui
gli angeli della storia, di Wendersiana memoria, volteggiano
accanto agli angeli della nostalgia. Sarajevo divisa da un
decennio di guerra delle parole tra lingue diverse, anch’essa
teatro di un conflitto che ha dilaniato la ex Jugoslavia.
Berlino e Sarajevo due città
simbolo, in qualche modo oggetti di un martirio. Berlino ha avuto
il coraggio di rinascere e dopo il crollo del Muro è diventata un
immenso cantiere, «ed è significativo che questo luogo, teatro
della massima intolleranza storica nel nostro secolo, sia oggi
protagonista della massima cooperazione multietnica. (…) La gente
ha veramente una sorta di senso di colpa per cui c’è una specie di
gentilezza diffusa, un desiderio di partecipazione, una voglia di
riscatto, di innocenza…» (15).
Altra città simbolo emerge dal
nostro viaggio: Gerusalemme, anch’essa luogo della convivenza
delle differenze. «Se la città non teme di mostrarsi a noi con le
sue contraddizioni, anche noi dobbiamo conoscere, accettare e
vincere le nostre per renderci liberi di aderire al sogno che essa
ci propone e che sta scritto nel suo nome: pace». Le parole di
Pierbattista Pizzaballa, frate Custode di Terra Santa risuonano
per umanità, fede e speranza nella vita. Gerusalemme come una
grande Madre accoglie nel suo grembo senza riserve, generosamente,
chi l’ama. Carlo Maria Martini che ha scelto per molti anni di
vivere in Terra Santa, narra di aver celebrato la Messa al Santo
Sepolcro una notte alle quattro del mattino: «Fu una esperienza
molto intensa, una sensazione fortissima di vita, di ciò
che significa vita. Pregando e celebrando da solo sulla
pietra del Sepolcro, con pochissime persone che assistevano fuori,
mi pareva di cogliere in una maniera straordinariamente lucida che
la vita è il tema nodale di tutte le religioni, è l’anelito
dell’umanità, che in quel luogo si concentrava ogni speranza, ogni
certezza, tutta la fiducia di vita» (16).
Città di convivenze multietniche e
religiose, luogo di poesia e di ascolto, a Gerusalemme sono
dedicate le rime di Alda Merini:
Le più belle poesie / si scrivono
sopra le pietre / coi ginocchi piagati / e le menti aguzzate dal
mistero. / Le più belle poesie si scrivono / davanti a un altare
vuoto, / accerchiati da agenti / della divina follia.
Infine Napoli chiude il cerchio
delle città simbolo. Città soglia che fa da ponte tra la
civiltà nord europea e quella mediterranea, simile a una città
dell’antichità, come Pompei, Babilonia o Alessandria. A Napoli,
scrive La Capria, non c’è il popolo c’è la plebe: «Gli
abitanti di questa città antica vivono nel cuore e nelle viscere
di Napoli, nell’intrico miserabile dei vicoli e delle stradine del
centro storico, hanno conservato il loro carattere e il loro
dialetto, e sono rimasti sempre uguali a se stessi nei secoli. (…)
La plebe non è per Napoli soltanto un problema ancora irrisolto e
forse irrisolvibile, è anche un humus fertilizzante dove affondano
le radici delle città, la sua memoria, la sua cultura; è una
riserva di immaginazione e di fantasia, l’origine del dialetto e
delle canzoni. E’ da questo humus antichissimo che è venuto fuori
il carattere dei napoletani, i loro vizi e le loro virtù» (17).
Del genius loci di Napoli e
dintorni, parlano in profondità Mario Mastroianni e Paola Russo
che ci invitano a seguirli in itinerari della psiche lungo le vie
della Campania Felix. Il mito più affascinante ed
enigmatico è quello di Partenope, una delle sirene che viveva
sullo scoglio de Li Galli nelle acque di Positano. Nel racconto di
Omero, Ulisse resistette al loro dolcissimo canto perché si fece
legare all’albero maestro della sua nave. Sconvolte per
l’umiliante fallimento, le sirene si suicidarono lanciandosi da
una rupe e il corpo di Partenope, trascinato dalle onde, restò
incagliato negli scogli del golfo dove sarà la futura Napoli.
Secondo la leggenda il corpo di Partenope viene assimilato alla
morfologia del paesaggio: il capo è la collina di Capodimonte, il
corpo è adagiato lungo l’arco del golfo e il piede affiorante dal
mare è la collina di Posillipo. E’ dal mito di Partenope che può
derivare il profilo identitario della città nelle sue mille
contraddizioni e sfaccettature «riconducibili ai temi della
seduzione e della ferinità mortifera». Scrive ancora La Capria:
«Sotto le amene apparenze Napoli è stata sempre per me, Natura
primordiale e indomabile in contrasto con una plurisecolare Storia
irredimibile; e questo contrasto è assurto in me a valore di
simbolo, è una chiave interpretativa per capire meglio la città, e
il mio rapporto con essa» (18).
Sui luoghi del Cinema, forma d’arte
contemporanea che più di ogni altra oggi narra gli spazi in cui
viviamo, anche la regista Francesca Comencini si sofferma su
Napoli, dove ha girato la sua ultima opera: «Lo spazio bianco».
Napoli ha forse bisogno di trasformarsi da sirena in madre per
portare a termine le sue gestazioni e non abortire la ricchezza di
cui la natura e la cultura l’ha dotata. Un’autentica lotta per la
sopravvivenza quella di Napoli e della bambina Irene che nel film
nasce prematuramente. Ma nel suo dire Francesca Comencini ci
trasporta anche lungo i labirinti del cinema rivelandoci
con generosità i segreti del fare cinema con la mente, il
corpo e la passione degli affetti.
Abbiamo voluto mostrare con
numerosi articoli sul tema in che modo il cinema d’autore sia
vicino all’anima dei luoghi, perché dunque le sue rappresentazioni
visive non mentono mai e inseguono come un’ombra fedelmente la
realtà più intima dei luoghi.
Lo sguardo psicoanalitico sul film
Cult: «Il terzo uomo» è di Andrea Sabbadini, uno degli esponenti
europei più autorevoli nel campo del cinema e della psicoanalisi.
Nel film, la Vienna di Freud appare non solo attraverso la sua
regale eleganza, ma viene anche vista attraverso le sue fogne che
nel dramma di Carol Reed sono l’equivalente dell’inconscio. Un
mondo sotterraneo, territorio misterioso e incontrollabile simile
all’inferno. In forma di metafora, ma nella sostanza simile a
quanto espresso da Arrighi in «Hotel Rwanda», torna il tema sui
rischi che l’uomo corre per non aver accettato il confronto con
l’Ombra.
Un architettura di pensiero
fondativa dell’arte cinematografica ci viene proposta dal denso
excursus di Luca Bandirali. Attraverso vari aspetti teorici
affiorano in un caleidoscopio di immagini intensi percorsi
ricostruiti dalle filmografie di registi indimenticabili che hanno
fatto la storia del cinema.
Il nostro viaggio sul fiume
dell’anima è arrivato alla sua ultima stazione, ora gli Autori,
artefici sensibili di questo errare tra le infinite anime dei
luoghi.
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