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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

Recensioni bibliografiche

 

 

  "L'ANIMA DEI LUOGHI"

 

 

  Numero monografico (vol.80/2009 n.28) della Rivista di Psicologia Analitica

    

 

 

 

 Siamo lieti di annunciare l'ultimo numero della Rivista di Psicologia Analitica ( www.rivistapsicologianalitica.it email: redazione@rivistapsicologianalitica.it ) dedicato a "L'anima dei luoghi". Ringraziamo la curatrice del numero, Barbara Massimilla, per aver autorizzato la riproduzione su Frenis Zero del suo editoriale.

 


 

L’ANIMA NEI LUOGHI DELLA VITA E DEL CINEMA

 

Barbara Massimilla

 

 

Cammino piano, ogni mattina, in quel tratto di strada che costeggia il Foro. Posso indugiare a lungo sulla striscia d’asfalto che si affaccia sullo scenario immobile della città eterna. Ogni attimo si dilata mentre mi perdo in quella visione così familiare. Le rovine di marmo riflettono silenziose la luce, e a me sembra di far parte di quel luogo che vivo come fosse la mia pelle. Lo sguardo penetra il paesaggio e si sofferma a lungo sulle due palme che spuntano in lontananza. Passando di là, in qualsiasi stagione, s’impressiona nel fondo dei miei occhi, l’immagine delle palme. Volgo la testa verso i due alberi, un gesto fedele, affezionato, sempre uguale a se stesso. Rimbalzano vicinissime nel controluce del giorno, emergono evanescenti dalla pioggia e si confondono nei toni morbidi dei tramonti e delle albe. Due comete con la coda piantata nelle rovine dei Fori. Nelle notti più oscure le ho intraviste tremare al taglio di luce silenzioso della luna. I tronchi spuntano esili dalle rovine come steli di fiori esotici. Le cime delle palme si trasformano di continuo e ritornano spesso nei momenti più impensabili. Ho sempre creduto che un luogo possa aiutare a vivere se concentra su di sé un affetto. Durante l’infanzia e lo scorrere dell’età, le palme si sono trasformate, hanno assunto una forma intima quasi umana, quasi un riferimento irrinunciabile per il mio mondo interno. Solo oggi capisco che da bambina la mente attribuiva alla loro esistenza, e più precisamente alla loro forma permanente, la speranza di creare una relazione ininterrotta con il bene della vita, oltre il dolore, la garanzia di una realtà più nutriente da cui si snoda la costruzione del futuro; una sorta d’adozione interiore a cui affidare il percorso della propria esistenza. Le due palme, la loro immagine immobile nello scorrere degli anni, stava piantata nella terra come un grumo di vita. Forse incarnavano il simbolo dell’esilio dalle colonie greco-albanesi della primissima infanzia alla città dei Fori, esprimevano la nostalgia per quel mondo colorato delle origini, divenendo metafora di un sostegno segreto, simile a una coppia di antenati che ti segue ovunque con lo sguardo. L’immagine di un luogo, la sua stessa fisicità e concretezza, può essere assimilata ad una ‘guida’ se quella visione che guardiamo e che ci guarda risuona nello spazio interiore, come un perimetro affettivo all’interno del quale si è giocata gran parte della nostra storia. La geografia delle origini protegge la crescita di un individuo e la àncora costantemente allo spazio e al tempo del nostro esistere.

 

La motivazione profonda a curare questo numero della rivista nasce da questa sceneggiatura privata, da un frammento personale che descrive un luogo dell’anima e dal desiderio di condividere con i colleghi della redazione, gli autori e il lettore, i molteplici significati sottesi alla relazione che lega l’anima ai luoghi.

Il tema si sviluppa dall’idea che il mondo interno ospita nel corso della vita molti luoghi, e che la nostra esistenza psichica si fonda e sedimenta anche sulle esperienze connesse ai luoghi. Il corpo e la mente hanno memoria dei luoghi e ne riconoscono le caratteristiche, non solo attraverso il ricordo per immagini, ma anche nell’istante in cui una situazione ambientale riesce a riattualizzare nel soggetto la specifica sensorialità e visibilità indelebilmente legata a forme dello spazio conosciute in precedenza.

I luoghi vissuti, ritrovati, immaginati incidono sull'identità individuale e collettiva, sia come spazio fisico che come spazio all'interno del Sé. Per il lettore, in forma di viaggio mi piacerebbe che si navigasse sulle acque silenziose del fiume che lambisce tutti i paesaggi che ogni autore ha aperto alla nostra visuale. Un fiume, dalle acque trasparenti e a tratti torbide, che come uno specchio riflette l’interiorità dei suoi abissi e la profondità del cielo. Un fiume che si chiama anima.

Per noi junghiani, anima è l’atteggiamento generale della coscienza verso l’inconscio e l’interiorità. «Il principale luogo dell’anima, non può che essere un luogo interiore, le trame nascoste del vissuto del soggetto oppure l’inconscio stesso. (…) In una specie così dipendente e ancorata al mondo relazionale come è il caso della specie umana, verranno subito ad aggiungersi quali condizioni ineludibili di quel luogo interiore, le circostanze esterne, i luoghi esterni, il corpo e l’altro».            Ricardo Carretero specifica come i luoghi esterni gravitino sui luoghi interni e viceversa, facendo della funzione dell’anima «una funzione molto complessa, che necessita insieme di pace interna e di pace esterna, una pace che sarà sempre precaria ed evanescente. Perché se la funzione prima dell’anima è rivolgersi come se fosse uno specchio verso il mondo interiore, la qualità del suo atteggiamento si vedrà interferita di continuo dai richiami esterni, diventando così uno specchio a due facce» una che rispecchia il mondo interiore e l’altra il mondo esterno.

E’ attraverso lo specchio a due facce dell’anima che il nostro itinerario si snoda percorrendo luoghi della mente e luoghi della vita.

Sfiorerà le vestigia del passato accanto agli spazi contemporanei. Le architetture urbane intrise di storia, spiritualità, tragedia, assenza, come Gerusalemme o Napoli, i confini tra Palestina e Israele, sino a  toccare gli spazi intimi, interiorizzati, dei luoghi dell'infanzia o del setting analitico o di un set cinematografico…

Anche i linguaggi della letteratura e della poesia sono riflessi del luogo nella lingua viva, nelle parole che toccano, portatrici di sensorialità e della storia di un’etnia, di una esistenza.

Volutamente un numero ampio, culturale e non solo psicoanalitico, per questo ci saranno anche autori non psicoanalisti, persone autorevoli che hanno dedicato la loro ricerca alla costruzione sensibile di spazi, alla definizione dei confini, alle  geografie della memoria effetto del mutare e trasfigurarsi degli spazi.

I diversi contributi sono mescolati tra loro come a comporre lo sky-line ininterrotto di una città visionaria che non ha centro o periferie, ma dove all’interno dei propri confini ciascun edificio o albero ne rivela con eguale intensità l’intima essenza. Frammenti strutturali di questa costruzione collettiva:

 

- La memoria e l’esperienza di siti archeologici e il riflesso della loro mitologia nei sentimenti     d’appartenenza ed origine.

- I percorsi psicologici e le vicissitudini dell’esilio mentale e sociale, non solo per gli aspetti riguardanti la perdita, ma anche come spinta progettuale e di rifondazione verso nuove terre.

- Il riflesso del luogo nella lingua viva.

- Il declinarsi dell’esperienza psico-fisica del luogo nello spazio del Sé.

- Il rispecchiarsi dell’uomo negli spazi urbani, in termini di solitudine o d’utopia.

- Le città-simbolo e i luoghi desimbolizzati.

- Il rispetto dei diritti dell’uomo di avere una terra d’appartenenza.

- Gli spazi privati dell’anima come la stanza della meditazione.

- I luoghi nelle opere letterarie e nell’arte contemporanea.

- Il setting, luogo dell’analisi e i luoghi istituzionali nei quali si cura il disagio mentale.

- Il luogo simbolico/concreto della sabbiera e il controtransfert dell’analista.

- Il linguaggio iconico  che narra i luoghi del cinema.

- Il set cinematografico come luogo di un sogno collettivo, come spazio dove prende forma l’inatteso, il «galleggiare sulla superficie di una realtà». L’esperienza di un regista sul come si declina la realtà nel set.

 

L’effetto di questa complessa operazione, rispecchiare più luoghi attraverso più anime, deriva sempre dall’esperienza personale diretta o dall’eco significativo di un evento nella vita dell’autore, entrambe condizioni filtrate dal proprio background culturale. Un taglio coinvolgente che fa cogliere senza veli l’anima dell’autore e i suoi luoghi dell’anima.

 

Ripercorrendo le tracce di questo viaggio sul fiume dell’anima risalta il luogo tra i luoghi: la Casa, «raccordo simbolico privilegiato fra spazio, tempo, emozione - là dove i ricordi, già alla nascita, naturalmente abitano» (1). Le case «scavate in profondità dagli anni, risultano un composto in cui il tempo si mescola allo spazio, e a entrambi si presta una nuova qualità. Sono residui di un tempo denso di valore proprio perché sedimentato in controtendenza, ‘resistente’ si potrebbe dire al suo puro fluire. E, insieme, custodi come sono di esistenze che precedono o seguono la vita del singolo, le case divengono testimoni dei duplici movimenti, in avanti e all’indietro, del tempo». Ma le case hanno anche una consistenza meno volatile del tempo e restano sospese tra gli interni protetti dei loro spazi e il loro affacciarsi sul mondo. Il grembo materno è il primo spazio dell’essere umano, come la casa è il primo mondo, replicando all’infinito «stimoli di protezione, fornendo alla memoria uno spazio consolatorio, fisicamente posseduto. Lo spazio felice circoscritto dal perimetro domestico è il solo, infatti, in cui si ha la certezza di esistere, al contrario dello spazio indifferente o ostile dell’esterno, scavato progressivamente dai varchi dell’incertezza e della perdita». (2)

Il valore protettivo della casa ce lo rammentano di continuo i nostri pazienti per le resistenze che manifestano nel distaccarsene ed affrontare la realtà esterna, come se  la casa rappresentasse quel brandello di identità che se annullato, lasciato, dimenticato, metterebbe totalmente a rischio la loro stessa sopravvivenza. Un paziente, proveniente da un luogo diverso dalla città in cui vive, affetto da fobie che gli impediscono di viaggiare, timore delle malattie ed angosce legate alla separazione, nel corso dell’analisi mi porta a distanza di pochi mesi due sogni:

 

«Nel mio paese d’origine gli edifici esplodevano. Mi nascondevo assieme ad altri. Cerco di rifugiarmi con i miei parenti. Come se fossimo ai tempi della seconda guerra mondiale».

 

«La casa del mio paese d’origine la stavo sollevando come per portarla via dal luogo in cui è sempre stata, la stavo spostando verso un altrove. Avevo un’estrema tensione che si potesse rompere. Erano presenti i miei familiari ed io ero preoccupato ma mi sentivo attivo. La casa si sradica da terra… ».

 

In riferimento alle paure provate di non poter mai vivere da solo e distante dalla famiglia, il rischio d’implosione viene affrontato con la possibilità di uno sradicamento, che lo vede attivo nel compiere la delicata operazione di migrare in un’altra realtà, gesto simbolico che apre una porta al trasfert e al legame verso una nuova terra.

 

Un altro sogno,  si tratta di un paziente dolorosamente ma inconsapevolmente chiuso per anni in un guscio autistico. La percezione della propria fragilità muta nel momento in cui porta in analisi questo frammento onirico che coglie nel simbolo della casa instabile il senso costante della precarietà di vita, del vuoto che minaccia la sua esistenza, verso cui è urgente opporre una costruzione…

 

«La casa del sogno ricorda una struttura arcaica, quella formata da tre grandi pietre, credo del megalitico, l’involucro esterno è privo di tetto e di finestre, e la presenza del cemento armato la rende simile ad una gabbia; all’interno di questa struttura ve ne è un’altra più esile nella quale manca sempre il collegamento tra interno ed esterno. Questa parte centrale dell’edificio si muove, è fluttuante, non c’è equilibrio. Mancano i corridoi, mentre percorro le scale interne devo fare molta attenzione per non far oscillare tutto. Se nella realtà vedessi un palazzo simile penserei che deve essere completato, e che sarebbe utile che qualcuno portasse i materiali per costruire le parti mancanti». 

 

Le case dei sogni dei pazienti sono simboli dell’identità. Se pensiamo al nostro mondo personale non esiste forse una casa che ha rappresentato in modo forte la nostra identità? Ricordo la mia prima casa dopo la laurea, ristrutturata con cura e grande piacere, sempre in ordine e arredata con oggetti amati, da sola tra quelle pareti mi sembrava che la mia dimora divenisse nella fantasia l’estensione della mia stessa pelle.

Per Freud la casa nel linguaggio onirico rappresenta la proiezione del corpo umano, una figurazione del corpo (3). La casa vive nell’ombra del corpo e contiene la vita nella sua essenzialità, penetra «in noi come noi siamo in essa» (4), e non ci lascia mai anche quando dovesse non esistere più perché una parte di noi resta indelebilmente legata al suo ricordo.

Esistono alcune condizioni di vita in cui non si può più possedere uno spazio privato e la propria esistenza si aggira nelle strade, senza-tetto per l’anima. La situazione psicologica dei senza-tetto, per Maria Teresa Colonna, va osservata non solo come «conseguenza delle privazioni, ma soprattutto in termini di perdita di capacità d’elaborazione psicologica». Certamente la permanenza prolungata per la strada è una minaccia per l’integrità psicologica e la propria identità. Malgrado i tentativi di riorganizzazione del Sé e di una casa interiore, lo smarrimento di coordinate fisiche rassicuranti, alimenta le sensazioni di essere invischiati in labirinti senza via d’uscita. Una dimora per l’anima può diventare una realtà concreta quando un gesto di solidarietà crea un luogo di ascolto e sostegno per i senza-tetto.

 

Altre situazioni appartenenti alla sfera del collettivo in cui la casa delle origini è perduta per sempre - o è continuamente minacciata nella sua identità come descrive bene il film «il Giardino di limoni» - riguardano tutte le condizioni di forzato esilio o di guerra o genocidi che affliggono il pianeta.

Nel film del regista Eran Riklis, la donna israeliana e quella palestinese si guardano attraverso il muro che divide le rispettive case in Cisgiordania, e si intuisce che se solo loro due potessero risolvere il conflitto avrebbero scelto altre soluzioni e non quella di erigere un muro ancora più alto tra le loro abitazioni, un’umiliazione per le piante sacre secolari di limoni simbolo del passato e di una terra che ha diritto di fruttare ed esistere.

Il viaggio di Alessandro Petti è una cronaca privata fatta dal vivo di un attraversamento di confine tra Giordania e Palestina-Israele e ritorno, dopo quattro anni. Un matrimonio e la nascita di una bambina scandiscono le tappe di questo turbolento andare in una striscia di terra incandescente, tra soldati, checkpoint e stratagemmi per sfuggire alla logica del controllo e della sicurezza, evidente nei Territori occupati palestinesi, e presente per motivi diversi in tante altre parti del mondo.

Se non guardiamo nell’oscurità di questi confini sfocati, separati, isolati, la ricaduta della nostra cecità graverà sulla nostra coscienza collettiva per aver colluso a generare enclave, realtà irrimediabilmente separate tra di loro, congelando la nostra coscienza sulla soglia di una surrealtà disumanizzante.

Una conseguenza altrettanto grave dell’indifferenza collettiva sono i genocidi orrore dei popoli che si consumano in ogni angolo del mondo. Tutto ciò che trascuriamo, non filtrato dalla sfera della consapevolezza ricade nell’Ombra, il lato oscuro, non vissuto e rimosso del complesso dell’Io. L’invito di Andrea Arrighi nel confronto con l’Ombra è di riconoscerla «come una risorsa proprio nel suo essere costante stimolo a considerare l’evolversi di una situazione, a tenere presente che qualcosa di non ancora pienamente conscio sussiste sempre, sia che ci si confronti con un percorso psicoterapeutico, ma anche con le condizioni di una nazione nei suoi aspetti sociopolitici». Le vicissitudini dell’Ombra nel doppio statuto di limite e risorsa, vengono analizzate attraverso il genocidio compiuto in Rwanda rappresentato nella proiezione cinematografica del film «Hotel Rwanda» di T. George.

Proseguendo il nostro itinerario, le note auto ironiche nel testo letterario di Giorgio Corrente hanno per sfondo Buenos Aires, scenario di altre tragedie come quella dei desaparecidos, gli scomparsi, vittime delle polizie dei regimi. Da esuli il ritorno nella propria terra d’origine è importante ma un processo, si direbbe irreversibile, non può ormai cancellare l’esistenza di più luoghi nella propria identità. La scelta più forte potrebbe virare verso il nuovo mondo piuttosto che favorire il ritorno, riallacciarsi alle proprie radici. Un modo per epurare le ferite del passato e preservare solo quanto di nostalgicamente bello vogliamo custodire nella mente?

Forse è questione di quanto il trauma si è avvicinato alle nostre vite.

In alcuni casi quando il trauma ci ha colpito in pieno ed ha fatto vacillare la nostra famiglia, percepiamo il dovere etico della memoria. In queste circostanze non possiamo e non vogliamo dimenticare. Da bambina quasi per gioco Sonya Orfalian registra la voce di nonno Ohannes che le racconta quando ad otto anni camminava a piedi nudi sul grasso che usciva dalla cattedrale di Urfa. Erano umori umani derivanti dai corpi bruciati vivi. Fu il sultano Abdul Hamid nel 1895 che comandò la folle mattanza degli armeni. Uno dei tanti episodi che culmineranno tra il 1915 e il 1920 a cancellare gli armeni dalle loro terre. Il semplice e innocente gesto di una bambina, per rammentare il valore della trasmissione della memoria storica,  perché nulla tra secoli sia dimenticato. Da anni il regista Steven Spielberg si è fatto portatore della missione di non far dimenticare l’Olocausto con le migliaia di testimonianze raccolte tra i superstiti.

Sonya Orfalian, esule e figlia della diaspora armena affronta lo scorrere del tempo seguendo un’immagine precisa: «volando con lo sguardo rivolto all’indietro come l’Angelo della Storia di Benjamin. Ovunque io sia cerco segni e tracce che rivelino un legame sia pur labile con qualcosa di nostro, qualcosa che fondi un noi». Anche una tovaglia ornata di melograni, frutto in relazione con la cultura armena più profonda, può ricostruire un legame interiore con la terra perduta e confortare nello sperdimento.

Perché non considerare Ospiti di una nuova terra persone così ferite dalla storia? Invece di definirli: apolidi, rifugiati, profughi, stranieri, apatridi… forse dimentichiamo che riguardo all’esistenza siamo tutti ospiti, nessuno escluso, di questa grande madre terra? Forse il superamento del nostro narcisismo locale potrebbe essere quello di stringere un pugno della nostra terra d’origine e portarla camminando per il mondo nella nostra mano come nel cuore. I paesaggi delle origini possono non lasciarci mai se diventano interiori.

Nell’arco della storia di ogni singolo uomo anche la tomba non è altro che la casa, «seppellire significa restituire il defunto alle viscere della Grande Madre. Il morto è ospitato in un grembo in cui conserva la sua compromessa integrità materiale e, pertanto, la sua individualità senza intaccarla» (5). Dai tempi del neolitico il grembo della madre terra era inteso come l’utero in cui era in gestazione la vita definitiva e tale ipotesi la confermerebbe la posizione fetale in cui venivano trovati i cadaveri.

L’ingresso solenne nel mondo sotterraneo viene descritto in Memorie di Adriano. Il fanciullo

di  Claudiopoli scendeva nella tomba come un Faraone, entrando in quella «durata senz’aria, senza luce, senza stagioni e senza fine, al cui confronto ogni vita appare breve (…) I secoli ancora celati nel seno opaco del tempo sarebbero passati a migliaia su quella tomba, senza rendergli l’esistenza, è vero, ma anche senza contribuire a quella morte, senza poter impedire che egli sia esistito…» (6).

Ai giorni nostri una situazione ben diversa è destinata a chi sognando un Nuovomondo, a un passo dalle rive italiane, precipita cadavere lentamente «lungo una verticale di ottomila metri, fino all’oscurità fredda di quella distesa sterminata di fango vivente e di scheletri microscopici che forma il fondo del mare», oltre la perdita nessuna sepoltura, per noi occidentali che abitiamo la terra promessa non resta che il marchio della vergogna.

Il lutto ha bisogno di domesticazione, di casa, di un luogo dove s’imprima il segno di una vita (Lella Ravasi), nel caso contrario, di fare casa almeno dentro di noi, e alimentare una luce accesa nell’ombra di quegli abissi nei quali uomini, donne, bambini con le loro speranze sono stati «spolpati in sussurri». Orfalian, cita Adorno per trasmettere il senso profondo della domesticazione del lutto: «Il posto più caro che abbia sulla terra, è la panchina sull’erba presso la tomba dei miei genitori».

Tornando all’immagine della casa, Jung raffigura l’anima come una vecchia dimora a più piani, composta da elementi architettonici di età diverse. Pensando all’anima dobbiamo porci «di fronte allo spaccato di un edificio: il piano superiore costruito nel XIX secolo, il pianterreno del XVI secolo ed un esame più minuzioso della costruzione mostra che essa è stata innalzata su una torre del II secolo. Nella cantina scopriamo fondazioni romane e sotto la cantina si trova una grotta colmata sul cui suolo si scoprono, nello strato superiore, utensili di selce, e, negli strati più profondi, resti di fauna glaciale» (7). L’immagine della casa di Jung racchiude al suo interno la sostanza più profonda della vita, quella che si svela allo sguardo quando ripercorriamo le archeologie delle nostre origini. Ad esempio, i percorsi della psiche che attraversano il tempo immobile delle Matres Matutae, nei ricordi affettivi di Domenico Chianese rappresentano la ricerca di una preistoria personale. Le statue delle Madri tracciano «un processo generativo cieco e imperturbabile», un auspicio alla fecondità, ma per coincidenza degli opposti, i neonati che stringono tra le braccia le madri, sono anche i morti che ritornano in seno alla terra…

Capua e le sue Madri, nella mitobiografia dell’autore, costellano una terra di vita e di esilio, quella in cui si è eterni stranieri. Ma proprio per la posizione naturale della mente di perenne dislocamento, di esilio da se stessi, queste terre d’origine possono rappresentare il luogo del sogno, dei simboli, dell’inconscio, il teatro interno del mondo sepolto dal quale ha preso forma la storia di una vita.

Un crocevia quello tra mondo interno ed esterno che Giuseppe Maffei descrive come un continuum di atmosfere e climi che si creano nell’incontro interpersonale e del soggetto con i luoghi. «Il paesaggio esterno, oggettivo e tangibile che appare ai nostri sensi è sempre mediato da un paesaggio interno, nascosto e mutevole». Un «linguaggio musicale segreto e poetico», un linguaggio vivo, si fa portatore dell’esperienza dei nostri paesaggi interiori. Sul filo musicale di queste parole costruiamo il mondo, mentre nello stesso istante, è anche il mondo che ci costruisce. «Un panorama formato da stratificazioni della memoria almeno quanto da sedimentazioni di rocce». Il crocevia dunque si struttura sempre attraverso la relazione affettiva tra l’uomo e il mondo.

Nei casi in cui l’incontro tra vita emozionale e mondo non sia possibile, «l’esilio dell’Io - descritto da Marina Breccia - è l’ipotesi alternativa alla morte, consentita dall’esistenza di un luogo di rifugio dove si può conservare l’idea del ritorno, per l’esperienza comunque positiva, ancorché parziale di un contatto con il mondo esterno». Nella psicosi, il soggetto manterrebbe un angolino nella coscienza, uno «sguardo integro e memorizzabile su cosa stia accadendo all’Io, in relazione alle sue vicende psichiche ed esistenziali, ma scisso dalle altre funzioni dell’Io». L’ipotesi avvincente è dunque «che l’Io nella psicosi possa essere frequentemente un Io esiliato, più che distrutto e frammentato»; un piccolo spazio apolide che preserva una sua integrità e nel quale in futuro potrebbe  germinare una trasformazione. Per analogia con la dimensione apolide è suggestiva l’immagine dei Tuareg, gli Hommes bleu, la cui vita nomade «testimonia l’indomita volontà di conservare un’identità, di non essere sopraffatti né dalla civiltà né dai poteri politici o religiosi imperanti, (proteggendo) il loro contatto religioso con la natura e il loro muoversi con essa».

Riguardo ai pazienti psicotici, nel caso in cui i paesaggi interiori siano costantemente minacciati dal rischio della scissione, è pure fondamentale lo spazio esterno che li accoglie, quello della stanza d’analisi come anche quello dei Servizi di salute mentale. I luoghi fisici che ospitano le relazioni di cura sono i fedeli depositari delle autentiche capacità di cura di una istituzione, essi hanno una funzione attiva, affettiva, «hanno ricordi». Per l’esperienza sul campo di Giuseppe Riefolo, i luoghi dei Servizi si prestano per i pazienti molto regrediti a divenire una «estensione del senso del Sé». I luoghi o le cose hanno una funzione di stabilizzazione e favoriscono il recupero della dimensione affettiva, proprio in virtù di essere custodi di elementi affettivi indifferenziati, che nel percorso di cura, verranno restituiti dall’elaborazione condivisa nello spazio della relazione terapeutica.

I luoghi della mente assumono il volto degli adolescenti e dei bambini descritti da Pia De Silvestris.

Il silenzio di una ragazzina russa che non rivela il paese d’origine alla sua analista racchiude lo stesso mistero che avvolge la nascita delle idee nella mente di un’artista. L’autenticità alla base del linguaggio dell’infanzia, nasce spontanea come una forza della natura. Lo stesso fascino che sprigionano le opere di Louise Bourgeois, l’energia che emana dai suoi giganteschi ragni metallici e dai feti, sino alle sculture che rappresentano i bambini sospesi tra il grembo di una madre di stoffa e il mondo. Luoghi primari che sfuggono alla «comprensibilità del ricordo del passato». La condivisione delle emozioni nella stanza d’analisi porterà gradualmente alla parola fino all’acquisizione di una competenza narrativa del giovane paziente. «Lasciar parlare il paziente è paragonabile alla bellezza di un fiume che scorre, simile ad un luogo della mente percorribile, dove sono state depositate le fantasie più radicate e apparentemente immutabili».

Sempre dal mondo dell’infanzia emerge un’altra preziosa possibilità per l’ascolto e la cura analitica, è il gioco quel territorio altro che anche l’adulto deve recuperare come corpo in azione e spazio che fa nascere immagini, emozioni, affetti. L’anima si specchia nel fondo della sabbiera dove le mani sognano scene del proprio mondo interno. Un luogo concreto, come ricorda Paolo Aite, che riapre strade antiche di comunicazione come accadeva nell’infanzia. Le parole condivise, appunto, sono solo un approdo finale, perché il primo movimento interiore è rivolto alla materia toccata e all’oggetto. «Quanto viene percepito ed usato nel gioco si associa ad un affetto emergente, corrispondente al vissuto del giocatore in quel momento. Si crea un legame tra percezione ed affetto vissuto». La continua ricerca di senso si modula sul filo delle metafore apparse nel campo, metafore simili a «sonde lanciate nello spazio, che assumono un carattere esplorativo» per la coppia analitica. Uno degli aspetti più interessanti del setting del gioco della sabbia consiste nella consapevolezza dell’analista che nel suo atteggiamento d’ascolto percepisce se stesso come quel campo di sabbia ancora vuoto. Il vuoto inteso come spazio insaturo, estrema potenzialità in divenire.

Echi di questa qualità intrinseca del vuoto, creare uno spazio vitale all’interno della mente, si respirano nella stanza della meditazione. Un luogo poetico come lo definisce Chandra Livia Candiani. Il corpo che nel gioco della sabbia si esprime nel gesto di creare la scena nella sabbiera, ritorna a muoversi nella meditazione nel gesto d’inchinarsi e di poggiare la fronte a terra. La quiete del corpo si raccoglie nel silenzio. «Il luogo di un fare, un particolare tipo di fare che in un certo senso consiste nello smettere di fare alcunché, nel disimparare». Lo spazio della stanza è simile allo spazio del cuore. Nel buddismo cuore vuoto significa «spazioso, ampio, un cielo in cui le emozioni, gli affetti, i pensieri, passano ma non permangono, sorgono e svaniscono. La non-identificazione con le inaffidabili emozioni, i discontinui pensieri, illumina la fondamentale vacuità dello sfondo».

La stanza vuota della meditazione insegna ad essere un contenitore vuoto pronto ad accogliere, ad essere abitato

Il Vuoto come mezzo di significazione è molto presente nelle architetture orientali. «Lo spazio giapponese è sempre legato alla sublimazione del vuoto. Per vivere, infatti, in uno spazio con la massima libertà possibile, occorre innanzitutto creare il vuoto; in seguito il vuoto sarà in qualche maniera occupato, ma la vibrazione del vuoto e la sua presenza devono restare sensibili» (8).

Lo spazio vuoto diventa in qualche modo il centro, l’origine generatrice dell’insieme dell’architettura che lo racchiude (9). Quando le stanze sono quelle abitate dalla quotidianità è il

nostro sguardo che le risveglia dall’assenza, dall’immobilità. Lo sguardo interroga lo spazio e gli oggetti in essa contenuti. Testimoni delle azioni e dei sentimenti più privati, le stanze come luoghi personali portano i segni dell’esistenza del suo abitante. Un esempio toccante è la Stanza di Van Gogh ad Arles del 1888. L’assenza di Van Gogh nel quadro «non è dolorosa, poiché il pittore ha saputo dissolvere se stesso in ognuna delle componenti» della stanza. L’interno è impregnato della vita segreta del suo abitante e la vita nascosta dalla stanza accentua la differenza tra spazi interni ed esterni. Il tempo omogeneo della stanza contrasta con l’attività urbana che anima la strada…

Scendendo in strada, altri scorci, altri paesaggi, la seconda stazione di questo viaggio apre la visuale verso i luoghi esterni antichi e contemporanei, lo sguardo si ferma in modo preciso sulla Città e su tutti gli spazi che essa contiene. Nell’antichità l’ordine dell’universo si rifletteva sullo schema di due assi che s’intersecano in un piano. Infatti ad esempio le città dei Romani erano «organizzate in armonia con le leggi divine». Concepire oggi la città «a somiglianza degli antichi, come una forma simbolica appare del tutto vano», spesso ci troviamo di fronte alla povertà del pensiero urbanistico, solo poche città si può dire che abbiano mantenuto una matrice simbolica, e nel nostro testo la scelta è caduta in particolare su Gerusalemme e su Napoli.

Oggi «l’uso dello spazio urbano è oggetto di molti studi, ma solo dal punto di vista fisico dell’occupazione del suolo e dell’amenità dell’ambiente: lo spazio psicologico, quello culturale, giuridico, religioso non sono presi in esame come aspetti dello spazio ecologico che l’urbanista ha il compito di ottimizzare» (10). Le forme partorite dalle Archistar sono la conseguenza di resti non analizzati del proprio modo di essere urbanista e della morfologia e storia della città, derivano da residui irrazionali di pregiudizi spirituali ed estetici non dichiarati… molti sociologi hanno criticato questa modalità ed affermano la necessità di tener conto di un modello concettuale e del prototipo di città che gli abitanti elaborano mentalmente e che spesso si trova esemplificato nelle loro case. «Molte volte la casa è sentita come una città in miniatura: non la città com’è, ma come vorremmo che fosse» (11).

Ero presente all’inaugurazione del Museo MAXXI di Roma, progettato dall’Archistar Zaha Hadid, le ex caserme del quartiere Prati trasformate in un immenso serpente di cemento e vetrate, al cui interno i piani inclinati dei corridoi si reggono sul vuoto; un impatto spettacolare allo sguardo del visitatore. Ma dove sarà lo spazio per affiggere le opere su queste pareti curve? «Lo spazio - dice Zaha Hadid - deve essere un luogo in cui le persone si sentono bene. Questo è il vero lusso!» (12).

La ballerina Sasha Waltz di Berlino Est, quella sera insieme alla sua compagnia ha inaugurato con la sua danza ondivaga le sale vuote del MAXXI. Due ore e una trentina di azioni in loop, che il pubblico ha seguito disseminato in ogni dove. Rispetto allo straordinario impegno dei danzatori il MAXXI appariva alla mia percezione come un utero freddo e inospitale. A nulla valeva lo sforzo degli artisti di riscaldare l’atmosfera… solo alla fine ci sono riusciti quando, tutto il pubblico seduto a terra in uno spazio raccolto, senza prospettiva architettonica, che sarebbe potuto essere ovunque nel mondo, hanno rappresentato l’ultima scena, la loro performance toccante, collettiva, che mimava, credo, la tragedia del Muro di Berlino. Questo per dire che se non scatta la possibilità di instaurare una relazione con uno spazio, che offre il suo ambiente diventando stimolatore e scrigno dell’incontro umano, è come essere sospesi in un vuoto non generatore, lo spazio si riduce ad essere ipertrofico, narcisistico ed autoreferenziale.

Gli spazi grandiosi di quest’epoca sono operazioni di marketing, architetture da sfogliare come le riviste del settore, e gli architetti presi dai loro alibi non rivelano competenze artigianali di carpenteria ma si occupano invece di tappezzerie, di inutili ornamenti (13). Piuttosto che essere alla moda, la sfida è di riuscire ancora, come nell’antichità, a produrre dei simboli condivisi, a fare in modo che le città sognino altre città, come le pietre di Venezia o San Pietroburgo… diversamente in città come New York sembra che ora il business sia distruggere e non costruire; si cancellano così le vestigia memoria del passato per perseguire una frenesia edilizia senza limiti. Un elogio doveroso dunque a tutti quei resti urbani che ricordano altri tempi, questo dovrebbe essere il compito di un urbanista sensibile e rispettoso del trasfigurarsi degli spazi, mantenendo intatta la narrazione del luogo, le geografie della memoria, i resti di altre epoche:  

«Una città (oggi) è costruita per somigliare a una mente cosciente, a una trama che può calcolare, amministrare, produrre. Le rovine diventano l’inconscio di una città, la sua memoria, lo sconosciuto, il buio, la terra desolata. Con le rovine la città si libera dai suoi piani per passare verso uno stato intricato come la vita». La presenza di rovine urbane può far pensare che le città passino alla morte ma «è una morte fertile come un cadavere che nutre dei fiori» (14).

Le città, come gli individui, hanno bisogno di essere protetti nei loro percorsi di sviluppo, fatti di passato e di presente. Sarebbe auspicabile che la ricerca di senso e progettualità avesse per meta ideale e fine ultimo il raggiungimento della saggezza. Ricordano Chiara Ripamonti ed Andrea Bassanini, attraverso le parole di Hillman, che «la nostra società, e la psicologia che ne fa parte, rivelano forti tensioni per quanto riguarda il sentimento, la femminilità, l’eros, l’anima». La spaventosa perdita d’anima potrebbe essere arginata dall’integrazione degli aspetti femminili nelle rappresentazioni della saggezza. L’Archetipo di Sophia, si riflette in tutti i lavori degli autori che hanno scritto in questo numero della Rivista sulle Città e sui Luoghi di fondazione e delle origini:

Domenico Chianese, Francesca Comencini, Giorgio Corrente, Nicole Janigro, Mario Mastroianni, Pierbattista Pizzaballa, Paola Russo, Andrea Sabbadini, Luigi Zoja.

Anima e Saggezza si mescolano nei loro sguardi per restituire ai luoghi la profondità che meritano.

Per noi abitanti delle città, il recupero della saggezza consiste nel non rinunciare ad una posizione apolide, l’archetipo del nomade, come scrive Zoja, la libertà di ondeggiare tra spazio e tempo. Il flaneur si aggira per le città, con al guinzaglio una tartaruga senza tempo che sceglierà per lui la strada… Saper attendere che un impulso non cosciente emani dalla meta e ci trascini verso di lei, perché i luoghi urbani da raggiungere «non sono preventivamente noti alla coscienza, ma sono conosciuti dall’anima della città: essa non è un oggetto da conoscere, è un soggetto della conoscenza. La strada non è oggetto da percorrere, è soggetto che decide il percorso».

Nicole Janigro attraverso un suo toccante, personale viaggio, per sette stazioni di una stessa storia, si confronta con il tema di un’identità spaziale resa più ampia dall’intrecciarsi dei linguaggi. Da est ad ovest, le lingue si confondono nella mente di un bambino che ha più origini di provenienza, lottano tra di loro; tutto poi si gioca sul piano dell’identità, nell’ipotesi più auspicabile come una grande ricchezza. Diversi luoghi dell’anima toccano la vita dell’autrice e i suoi ricordi. Berlino una città dove è «l’estraneità» a trasmettere un senso di appartenenza, e in cui gli angeli della storia, di Wendersiana memoria, volteggiano accanto agli angeli della nostalgia. Sarajevo divisa da un decennio di guerra delle parole tra lingue diverse, anch’essa teatro di un conflitto che ha dilaniato la ex Jugoslavia.

Berlino e Sarajevo due città simbolo, in qualche modo oggetti di un martirio. Berlino ha avuto il coraggio di rinascere e dopo il crollo del Muro è diventata un immenso cantiere, «ed è significativo che questo luogo, teatro della massima intolleranza storica nel nostro secolo, sia oggi protagonista della massima cooperazione multietnica. (…) La gente ha veramente una sorta di senso di colpa per cui c’è una specie di gentilezza diffusa, un desiderio di partecipazione, una voglia di riscatto, di innocenza…» (15).

Altra città simbolo emerge dal nostro viaggio: Gerusalemme, anch’essa luogo della convivenza delle differenze. «Se la città non teme di mostrarsi a noi con le sue contraddizioni, anche noi dobbiamo conoscere, accettare e vincere le nostre per renderci liberi di aderire al sogno che essa ci propone e che sta scritto nel suo nome: pace». Le parole di Pierbattista Pizzaballa, frate Custode di Terra Santa risuonano per umanità, fede e speranza nella vita. Gerusalemme come una grande Madre accoglie nel suo grembo senza riserve, generosamente, chi l’ama. Carlo Maria Martini che ha scelto per molti anni di vivere in Terra Santa, narra di aver celebrato la Messa al Santo Sepolcro una notte alle quattro del mattino: «Fu una esperienza molto intensa, una sensazione fortissima di vita, di ciò che significa vita. Pregando e celebrando da solo sulla pietra del Sepolcro, con pochissime persone che assistevano fuori, mi pareva di cogliere in una maniera straordinariamente lucida che la vita è il tema nodale di tutte le religioni, è l’anelito dell’umanità, che in quel luogo si concentrava ogni speranza, ogni certezza, tutta la fiducia di vita» (16).

Città di convivenze multietniche e religiose, luogo di poesia e di ascolto, a Gerusalemme sono dedicate le rime di Alda Merini:

 

Le più belle poesie / si scrivono sopra le pietre / coi ginocchi piagati / e le menti aguzzate dal mistero. / Le più belle poesie si scrivono / davanti a un altare vuoto, / accerchiati da agenti / della divina follia.

 

Infine Napoli chiude il cerchio delle città simbolo. Città soglia che fa da ponte tra la civiltà nord europea e quella mediterranea, simile a una città dell’antichità, come Pompei, Babilonia o Alessandria. A Napoli, scrive La Capria, non c’è il popolo c’è la plebe: «Gli abitanti di questa città antica vivono nel cuore e nelle viscere di Napoli, nell’intrico miserabile dei vicoli e delle stradine del centro storico, hanno conservato il loro carattere e il loro dialetto, e sono rimasti sempre uguali a se stessi nei secoli. (…) La plebe non è per Napoli soltanto un problema ancora irrisolto e forse irrisolvibile, è anche un humus fertilizzante dove affondano le radici delle città, la sua memoria, la sua cultura; è una riserva di immaginazione e di fantasia, l’origine del dialetto e delle canzoni. E’ da questo humus antichissimo che è venuto fuori il carattere dei napoletani, i loro vizi e le loro virtù» (17).

Del genius loci di Napoli e dintorni, parlano in profondità Mario Mastroianni e Paola Russo che ci invitano a seguirli in itinerari della psiche lungo le vie della Campania Felix. Il mito più affascinante ed enigmatico è quello di Partenope, una delle sirene che viveva sullo scoglio de Li Galli nelle acque di Positano. Nel racconto di Omero, Ulisse resistette al loro dolcissimo canto perché si fece legare all’albero maestro della sua nave. Sconvolte per l’umiliante fallimento, le sirene si suicidarono lanciandosi da una rupe e il corpo di Partenope, trascinato dalle onde, restò incagliato negli scogli del golfo dove sarà la futura Napoli. Secondo la leggenda il corpo di Partenope viene assimilato alla morfologia del paesaggio: il capo è la collina di Capodimonte, il corpo è adagiato lungo l’arco del golfo e il piede affiorante dal mare è la collina di Posillipo. E’ dal mito di Partenope che può derivare il profilo identitario della città nelle sue mille contraddizioni e sfaccettature «riconducibili ai temi della seduzione e della ferinità mortifera». Scrive ancora La Capria: «Sotto le amene apparenze Napoli è stata sempre per me, Natura primordiale e indomabile in contrasto con una plurisecolare Storia irredimibile; e questo contrasto è assurto in me a valore di simbolo, è una chiave interpretativa per capire meglio la città, e il mio rapporto con essa» (18).

Sui luoghi del Cinema, forma d’arte contemporanea che più di ogni altra oggi narra gli spazi in cui viviamo, anche la regista Francesca Comencini si sofferma su Napoli, dove ha girato la sua ultima opera: «Lo spazio bianco». Napoli ha forse bisogno di trasformarsi da sirena in madre per portare a termine le sue gestazioni e non abortire la ricchezza di cui la natura  e la cultura l’ha dotata. Un’autentica lotta per la sopravvivenza quella di Napoli e della bambina Irene che nel film nasce prematuramente. Ma nel suo dire Francesca Comencini ci trasporta anche lungo i labirinti del cinema rivelandoci con generosità i segreti del fare cinema con la mente, il corpo e la passione degli affetti.

Abbiamo voluto mostrare con numerosi articoli sul tema in che modo il cinema d’autore sia vicino all’anima dei luoghi, perché dunque le sue rappresentazioni visive non mentono mai e inseguono come un’ombra fedelmente la realtà più intima dei luoghi.

Lo sguardo psicoanalitico sul film Cult: «Il terzo uomo» è di Andrea Sabbadini, uno degli esponenti europei più autorevoli nel campo del cinema e della psicoanalisi. Nel film, la Vienna di Freud appare non solo attraverso la sua regale eleganza, ma viene anche vista attraverso le sue fogne che nel dramma di Carol Reed sono l’equivalente dell’inconscio. Un mondo sotterraneo, territorio misterioso e incontrollabile simile all’inferno. In forma di metafora, ma nella sostanza simile a quanto espresso da Arrighi in «Hotel Rwanda», torna il tema sui rischi che l’uomo corre per non aver accettato il confronto con l’Ombra.

Un architettura di pensiero fondativa dell’arte cinematografica ci viene proposta dal denso excursus di Luca Bandirali. Attraverso vari aspetti teorici affiorano in un caleidoscopio di immagini intensi percorsi ricostruiti dalle filmografie di registi indimenticabili che hanno fatto la storia del cinema.

 

Il nostro viaggio sul fiume dell’anima è arrivato alla sua ultima stazione, ora gli Autori, artefici sensibili di questo errare tra le infinite anime dei luoghi.

 

 

 

        

NOTE

 

(1)   A. Tarpino, Geografie della memoria, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, p. 4.

(2)   Ibidem, pp. 39 - 43.

(3)   S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 1985, pp. 326-27.

(4)   G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1993, p. 28.

(5)   F. Espuelas, (1999), Il Vuoto - riflessioni sullo spazio in architettura, C. Marinotti Ed.,

Milano, 2006, p. 26.

(6)   M. Yourcenar, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 2002, pag. 199.

(7)   C. G. Jung, Le conditionemment terrestre de l’âme, in A. Tarpino, Geografie della memoria, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, p. 40.

(8)   M. Random, Giappone: la strategia dell’invisibile, ECIG, Genova, 1988, p. 176.

(9)   F. Espuelas, op. cit., p. 115.

(10) J. Rykwert, (1976), L’idea di città, Adelphi, Milano, 2002, p. 5-7.

(11) Ibidem, p. 8.

(12) Quotidiano La Repubblica del 22-11-2009.

(13) F. La Cecla, Contro l’Architettura, Boringhieri, 2008, Torino, p. 37-38.

(14) R. Solnit, A Field Guide to Getting Lost, Viking, New York, 2005,  pp. 88-90.

(15) R. Piano, La responsabilità dell’architetto, Passigli, Firenze, 2007, p. 56-58.

(16) G. Caffulli, ( a cura di ), Colloqui su Gerusalemme, Ed. Terra Santa, 2008, p. 6.

(17) R. La Capria, Napoli, Mondadori, 2009, p. 183-184.

(18) Ibidem, p. 173.

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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