Rivista Frenis Zero |
Dana Birksted-Breen,
psicoanalista di training della British Psychoanalytical Society e General
Editor della New Library of Psychoanalysis, nel suo articolo "Il tempo e l'après-coup"
(traduzione italiana di Isabella Negri) esamina i problemi relativi al tempo
in riferimento ai diversi orientamenti teorici della psicoanalisi, in
particolare confrontando due forme di temporalità: quella "evolutiva" (più
lineare, modello maggiormente tenuto in conto dagli psicoanalisti
britannici) e quella après-coup (modello non lineare della
temporalità più presente tra i colleghi francesi). Tuttavia, precisa subito
l'autrice, i due modelli non rappresentano una rigida dicotomia tra
orientamenti teorici, in quanto ella intende mostrare <<che le due forme
di temporalità, quella evolutiva e quella après-coup, sono implicitamente
collegate, essendo l'una il requisito dell'altra, e come tali si possono
rintracciare nell'approccio inglese>>.
Foto: J. Lacan
La Birksted-Breen richiama
il merito di Lacan di aver recuperato l'importanza del concetto freudiano di
Nachtraeglichkeit, non sempre riconosciuta in precedenza in parte
perché tale termine era stato tradotto in maniera differente nelle
traduzioni inglese e francese dell'opera freudiana (Laplanche e Pontalis,
1967). In realtà i termini nachtraeglich e Nachtraeglichkeit
non furono tradotti da Strachey sempre allo stesso modo perché si riferivano
a significati differenti. Il primo di essi vuol dire <<successivo>>. Il
secondo, indica <<un movimento che va dal passato al futuro: nell'individuo
si deposita qualcosa che si attiverà soltanto successivamente - secondo il
modello della teoria della seduzione dove il trauma si costituisce in due
fasi>> scrive l'autrice. Il terzo significato indica qualcosa che viene
percepito ma che assume un senso solo retrospettivamente: è questa
l'accezione di Nachtraeglichkeit che la psicoanalisi francese, sulla
scia di Lacan, ha maggiormente utilizzato, anche se esso è il meno presente
in Freud. Sebbene Laplanche e Pontalis (1967), sempre in seno alla
psicoanalisi francese, abbiano privilegiato il secondo significato,
tuttavia, come afferma Green (2002), <<l'originalità della posizione
francese si deve all'influsso di Lacan (...)>>. Per la Birksted-Breen <<la
nozione di après-coup* (...) è stata indicata come linea di
demarcazione tra l'approccio francese e quello inglese probabilmente in
seguito alla ripresa del concetto di après-coup da parte di Lacan e
al suo radicale rifiuto del corpo e dello sviluppo biologico in
psicoanalisi>>. Ma le cose sono più complesse di quelle che potrebbero a
prima vista sembrare. Perché se già in Freud sono egualmente presenti
entrambe le direzioni temporali, quella evolutiva e quella dell'après-coup,
è anche vero che nella psicoanalisi inglese la nozione di
après-coup, seppure denotata da altri termini, è più presente di quanto
non si pensi.
Se la psicoanalisi inglese
sembra privilegiare la dimensione del qui ed ora, secondo l'affermazione dei
Sandler (1994) per cui <<è indispensabile che lo psicoanalista dia priorità
assoluta alla comprensione, e se possibile all'interpretazione, di ciò che
accade al momento dell'analisi>>, è anche vero, però, come afferma la
Birksted-Breen, che il lavorare sul "qui ed ora" racchiude la concezione di
una temporalità complessa, stando alla nozione freudiana di transfert.
Foto: J. Sandler
<<In effetti>> afferma
l'autrice <<il qui e ora ha senso solo in quanto conservi la propria
dimensione temporale e contempli l'ambiguità delle due direzioni della
temporalità>>. Ovviamente, varia da analista ad analista il grado in cui il
passato sia passibile di conoscenza a partire dal presente, dal qui ed ora,
ben tenendo in considerazione il rischio, sottolineato da O'Shaughnessy
(1992), di imbattersi nell'<<enclave>>, ossia quella forma di 'impasse' in
cui l'analista, avendo perso la prospettiva temporale, collude con
l'analizzando <<in un presente perniciosamente denudato>>. Se l'enfasi della
psicoanalisi inglese sul qui ed ora dipende dall'idea che solo il presente è
conoscibile, tuttavia il presente è in un rapporto complesso con il passato
reale del paziente, nel senso che nel presente della seduta analitica si dà
un passato a cui è stato retrospettivamente attribuito nuovo significato, <<cioé
un passato modellato après-coup>>, scrive l'autrice. Gli stessi
concetti kleiniani delle posizioni schizo-paranoide e depressiva non
presuppongono una temporalità lineare, ma comportano sempre una
ristrutturazione continua di elementi precedenti, in senso progressivo o
regressivo.
L'autrice poi esamina alcuni concetti riguardanti la temporalità all'interno
della storia della psicoanalisi britannica: l'"istantaneità" come
caratteristica della posizione schizo-paranoide (<<che fronteggia il dolore
psichico scindendo ed evacuando immediatamente il sentimento indesiderato
addirittura prima di provarlo>>), la temporalità nella concezione di "reverie"
di Bion con il concetto di "tempo di riverbero" che l'autrice definisce come
<<il tempo necessario per assimilare, metabolizzare e trasformare gli
elementi disturbanti>>, il "contrasto di temporalità" (Sabbadini, 1989) su
cui si basa il setting analitico per cui <<lo psicoanalista diventa il
custode del tempo>>, il garante che la seduta ha un inizio ed una fine.
Quello che la
Birksted-Breen suggerisce a metà del suo articolo è il suo proposito di
considerare entrambe le temporalità, quella evolutiva e quella après-
coup, come concomitanti, per cui non si dà l'una senza l'altra. Questa
compresenza era stata già colta da Freud che utilizzava lo stesso termine
per indicare sia il tempo progressivo che quello retrospettivo.
Significativamente Laplanche suggerì, diversamente da Strachey, di tradurre
il freudiano nachtraeglich e Nachtraeglichkeit con lo stesso
termine, al fine di non imporre un unico significato ad una parola che
nell'originale ha un senso polivalente.
L'autrice attraverso due casi clinici, quello
di A. e quello di B., viene quindi ad illustrare il modo con cui i due
generi di tempo sono tra loro interdipendenti. Partendo specie dalle
considerazioni cliniche al caso di B., la Birksted-Breen enuncia le
correlazioni tra tempo, generatività e legame, utilizzando la propria
formula di <<pene-come-legame>> (nel suo articolo del 1996 "Phallus,
penis and mental space"). L'autrice richiama Lacan (1966) per cui il
fallo è l'oggetto del desiderio della madre, ciò che la completerebbe:
<<pertanto>> cito l'autrice <<si riferisce a un'integrità illusoria, a uno
stato libero dal desiderio>>. La Birksted-Breen distingue il fallo dal "pene-come-legame"
in quanto il fallo (come oggetto del desiderio materno) corrisponde a uno
stato illusorio assoluto ed a uno stato narcisistico assoluto (essere o non
essere, avere o non avere), mentre il 'pene-come-legame' si riferisce ad un
altro a cui essere collegati, ed alla coppia genitoriale. L'autrice spinge
tale distinzione su un livello metapsicologico attribuendo al "pene-come-legame"
il carattere di essere strumento dell'Eros, mentre il fallo lo è di Thanatos
, poiché mira a distruggere quel legame. Il "pene-come-legame" però non è
semplicemente riducibile alla relazione bi-personale madre-bambino, non è
omologo al seno che collega la madre col bambino. Esso rimanda ad una
relazione triangolare o tri-personale nella quale il legame ha un
insostituibile carattere generativo: è ciò che collega la coppia genitoriale
con il Sè e/o con la mente del bambino. Ora, per l'autrice, il concetto di "pene-come-legame"
è inseparabile dal tempo: è il tempo del rapporto sessuale dei genitori, che
implica separatezza ed unione. E' interessante l'accostamento, operato dalla
Birksted-Breen, tra atto sessuale e tempo da una parte e, dall'altra, la
lettura che Leach (1953) fa dell'atto sessuale come immagine fondamentale
del tempo per gli antichi Greci.
In conclusione del suo
articolo, l'autrice discute questa polarizzazione teorica tra la
psicoanalisi francese e quella britannica in relazione alla temporalità.
<<Gli psicoanalisti francesi pongono l'accento sull'intento analitico di
liberare il processo associativo>> scrive <<connotato da assenza di
preoccupazione per una successione ordinata nel tempo. esso diventa non un
mezzo per un fine, bensì un fine di per se stesso>>. Questa liberazione del
processo associativo dai vincoli della temporalità diventa per essi il
fondamento dello sforzo analitico (Donnet, 2001). Ma se gli psicoanalisti
britannici hanno trattato l'après-coup non sempre in maniera
consapevole, i colleghi francesi ne hanno parlato talora loro malgrado,
<<dal momento che il tempo evolutivo deve essere tollerato psichicamente
perché si compia una ristrutturazione continua dell'esperienza>>. Nel
tentativo di esplicitare questo fondarsi della psicoanalisi
sull'"interdipendenza paradossale" tra tempo progressivo e tempo
retrospettivo, tra quello evolutivo e l'aprés-coup, l'autrice
recupera quella concezione complessa della temporalità, enunciata da
Winnicott (1974) in "Fear of breakdown" (per cui il paziente avrebbe paura
del crollo già avvenuto) come ausilio per comprendere il modo in cui
l'esperienza analitica <<diventa>> il trauma. |
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Harold Blum, nel suo articolo
"Controversie psicoanalitiche. Rimozione, transfert e ricostruzione",
risponde ad un articolo del 1999 di Fonagy ("Memory and therapeutic action")
sempre apparso sull'IJP, in cui quest'ultimo metteva in dubbio l'importanza
della rimozione e del recupero dei ricordi rimossi nell'azione terapeutica
della psicoanalisi.
Foto: Peter Fonagy
Fonagy in quel lavoro
affermava che <<le terapie che si concentrano sul recupero dei ricordi
inseguono un falso dio. Gli psicoanalisti dovrebbero evitare con cura e
coerenza la metafora archeologica >> (Fonagy, 1999). Riporterò il più
fedelmente possibile le critiche e le obiezioni che Blum rivolge al riguardo
a Fonagy. Intanto, per Blum Fonagy non terrebbe in alcun conto il nesso
<<cruciale>> tra transfert e resistenza da un lato, e rimozione dall'altra.
Forse, ipotizza Blum, si parte da concezioni diverse del transfert. E si
chiede (e chiede al suo virtuale interlocutore, Fonagy):<<concetti e
formulazioni tradizionali come quelli del transfert devono forse essere
modificati o sostituiti e, in tal caso, come?>>
Un altro interrogativo che
egli pone a Fonagy è il seguente: <<su che cosa si basa Fonagy per
concludere che il recupero dei ricordi rimossi è terapeuticamente inutile,
un epifenomeno?>> Blum richiama gran parte della storia della psicoanalisi
la cui diffusione, specie dopo le due guerre mondiali, fu dovuta allla sua
efficacia nel trattamento delle "psicosi da shock" e delle 'nevrosi
belliche'.
Un altro appunto critico
Blum lo muove alla frase citata da Fonagy, secondo cui l'unico modo in cui
possiamo sapere <<ciò che accade nella mente dei nostri pazienti, ciò che
potrebbe essere loro accaduto, è come essi sono con noi nel transfert>> (Fonagy,
1999). <<Su quali prove si regge questo punto di vista?>> chiede Blum. E
risponde:<<Se si ignora la biografia del paziente - livello di istruzione,
famiglia, cultura e carattere compresi - non si può comprendere appieno il
transfert, e viceversa>>. E ancora (si) chiede Blum:<<Come si sente il
paziente quando si interpreta soltanto il transfert e si ignorano gli altri
problemi?>>. L'autore cita Arlow (2003) il quale ha evidenziato che limitare
l'attenzione al transfert manifesto <<non riesce a cogliere i conflitti
soggiacenti e l'aspetto di compromesso difensivo del transfert>>.
Fonagy così definisce il
transfert: <<una sorta di modello, una reta di aspettative inconsce o
modelli mentali delle relazioni del Sé con l'altro. I modelli esistono a
livello non conscio come procedure ... I modelli non sono repliche
dell'esperienza reale, ma sono indubbiamente distorti in modo difensivo dai
desideri e dalle fantasie correnti al momento dell'esperienza. Pertanto non
possono essere considerati in alcun senso come portatori del testamento di
una verità storica>> (Fonagy, 1999). Per Blum, Fonagy nel suo articolo
abbandona l'inconscio dinamico per il non-conscio, dando la priorità a
ipotetiche memorie procedurali a scapito di quella autobiografica. In
definitiva, il transfert <<non è una ricapitolazione letterale delle prime
relazioni d'oggetto del paziente>> scrive Blum <<bensì una formazione di
compromesso, una fantasia inconscia che comprende componenti dell'esperienza
reale, rappresentazioni del Sé e dell'oggetto, difese, elementi del Super-Io
e gli affetti associati.>>
Altro punto problematico
che Blum rileva è nella frase di Fonagy:<< E' probabile che le modalità
profondamente patologiche dell'esperienza dell'altro precedano i sistemi di
memoria...>> (Fonagy, 1999). Allora Blum chiede: <<Perché e in qual modo
egli deduce che l'imprint di tale esperienza arcaica si collochi nella
memoria procedurale? Forse egli ritiene implicito che tale esperienza
infantile inalterata si rifletta e si ripeta nel successivo transfert
psicoanalitico attraverso la memoria procedurale? Che cosa pensa Fonagy del
significato della memoria autobiografica in Ricordare, ripetere e
rielaborare (Freud, 1941a)?>>
Se è vero, inoltre, che
Fonagy rimarca che la memoria procedurale resta inconoscibile finché non
<<accede alla sfera dell'esperienza autobiografica>>, tuttavia non esplicita
in che modo <<l'uso psicoanalitico della memoria procedurale da lui
prospettato si articoli con l'analisi tradizionale del transfert>>. E ancora
Blum chiede:<<Quale significato attribuisce Fonagy alle doti naturali o ai
moti pulsionali? Come si articola il suo modello delle relazioni del "Sé con
l'altro", e i relativi affetti, con le trasformazioni e la riorganizzazione
delle successive fasi di sviluppo?>> Per Blum la posizione di Fonagy su tali
questioni non è chiara. Anche la sua idea del transfert lascia perplessi:
<<E' difficile immaginare la formulazione di una ricostruzione precisa sulle
basi dei ricordi distorti e dei sintomi del paziente>> (Fonagy, 1999, p.
216), quando, invece, per Blum <<l'interpretazione e la ricostruzione
genetiche dei conflitti inconsci e del trauma risalenti all'infanzia
contribuiscono in maniera significativa all'azione terapeutica>>.
Riguardo al fattore
terapeutico più rilevante, per Fonagy sarebbe costituito dalla risoluzione
delle difficoltà nell'esperienza di Sé con l'altro. Blum, perciò, (si)
chiede : <<Come si conduce una terapia basata su questo modello? Fonagy è in
favore di interventi intersoggettivi, interpersonali, basati sul paradigma
genitore-bambino?>>. E ancora per Blum Fonagy non assumerebbe una posizione
esplicita rispetto alla questione della neutralità. Un altro interrogativo
che si pone Blum è: <<Fonagy indica una "relazione reale" benefica nel qui e
ora, oppure propone lo psicoanalista come nuovo oggetto?>> E ancora per Blum
non è chiaro se Fonagy, <<nel costruire l'azione terapeutica del Sé con lo
psicoanalista/altro, la realizzi per lo più attraverso l'esperienza,
l'educazione o l'insight sull'inconscio infantile>>.
Blum non nasconde
l'importanza euristica delle ipotesi che Fonagy formula sulla memoria
procedurale e le neuroscienze. Tuttavia ipotizzare, come fa Fonagy, che i
supposti patterns infantili di memoria procedurale si potrebbero considerare
come fenomeni di transfert non verbale, no escluderebbe per Blum il ruolo
del ricordo rimosso e della sua elaborazione fantasmatica nell'azione
terapeutica della psicoanalisi.
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Maitres
à dispenser |
All'articolo
di Blum ha risposto Fonagy con un editoriale in cui egli dissente
soprattutto dall'idea che il miglioramento clinico sia da mettersi in
relazione al recupero di ricordi, prendendo spunto da un commento ad una
vignetta clinica esposta da Blum nel suo articolo. Rifacendosi anche a un
lavoro di Bonanno e Kaltman del 2000 ("The assumed necessity of working
through memories of traumatic experiences", in P. Duberstein & J. Masling
eds., Psychodynamic perspectives on sickness and health: Empirical
studies on psychoanalytic theories, A.P.A), Fonagy evidenzia i limiti
concettuali di un'impostazione che attribuisce alla rimozione un posto
centrale nella teoria dell'efficacia terapeutica. Anche Brenneis (2000),
studiando i resoconti clinici di trattamenti analitici, ha evidenziato la
non autenticità dei ricordi recuperati in terapia. Fonagy ricorda inoltre
che già trent'anni fa George Klein (1970) sottolineava che il recupero del
ricordo consisteva nel mutamento di significato di un'esperienza ricordata,
anziché in un autentico riemergere di qualcosa ex novo.
Altra obiezione che Fonagy
pone a Blum riguarda l'affermazione di quest'ultimo, a proposito della
vignetta clinica, che la ricostruzione del ricordo consentì una migliore
relazione tra la paziente ed il suo bambino. Qui si pone, per Fonagy, un
punto di debolezza di certa teoria del trattamento analitico secondo cui la
consapevolezza delle origini dei sintomi condurrebbe alla guarigione. Una
simile obiezione sarebbe stata mossa alla psicoanalisi anche da Gruenbaum
(1984) (il cosiddetto "Tally argument"), anche se gli psicoanalisti moderni
considererebbero ingenua una tale causalità lineare. E Fonagy ribadisce:
<<Non esiste alcuna prova che colleghi direttamente il manifestarsi di un
miglioramento dei sintomi alla ricostruzione (o, in quanto a ciò, alla
maggior parte degli altri intenti del processo della terapia
psicoanalitica)>>. E quindi Fonagy si chiede se sia possibile dare
un'interpretazione differente dell'esito terapeutico della vignetta clinica
di Blum, <<una spiegazione psicoanalitica del miglioramento della paziente
che non comporti l'ipotesi del beneficio terapeutico della
ricostruzione>> . La risposta di Fonagy è che la paziente era migliorata
grazie ad una propria migliore comprensione delle <<strutture relazionali
implicite che aveva messo in scena>>.
Altro punto di discussione
verte intorno al tema del transfert. Fonagy afferma di richiamarsi nella
propria teorizzazione sul transfert al concetto d "soluzione totale" di
Joseph (1985) e concorda con Blum sull'importanza da accordare alla storia
del paziente nel dare significato alla "situazione di transfert". Tuttavia,
precisa Fonagy, che lo specifico "modo di essere con l'altro" che un
paziente ha nel transfert <<non è affatto la prova di un rapporto storico
omologo>>, in quanto la relazione oggettuale è ugualmente suscettibile di
distorsioni (da parte di fantasie consce o inconsce) quanto lo è la
rappresentazione oggettuale. Ne consegue un accordo di Fonagy con Blum sul
fatto che <<il transfert non è una ricapitolazione letterale delle relazioni
d'oggetto precoci del paziente>> (Blum, 2003). Tuttavia, per Fonagy
resta centrale la comprensione delle relazioni precoci del paziente, per la
quale bisogna far ricorso alla memoria implicita più che a quella
dichiarativa (Gerhardtstein et al., 2000).
Un'osservazione Fonagy
fa poi sull'affermazione di Blum che la ricostruzione di come stessero
realmente le cose nell'infanzia del paziente <<contribuisce in maniera
significativa all'azione terapeutica>> (Blum, 2003). Fonagy è convinto che
possa risultare terapeutica la ricostruzione non in quanto tale, ma se
costituisce una prospettiva 'altra' nel cui contesto avviene la
rielaborazione delle esperienze attuali. E' quest'ultima il fondamento del
processo terapeutico. E' essenziale, per Fonagy, <<fornire una prospettiva o
una cornice per l'interpretazione di una soggettività che sta oltre ciò cui
il paziente ha immediato accesso conscio al di fuori dell'incontro
psicoanalitico>>, ma l'"altra prospettiva" non necessariamente, per Fonagy,
è rappresentata dalle relazioni precoci del paziente. <<Potrebbe essere
l'esperienza attuale dello psicoanalista, oppure il modo in cui il paziente
è vissuto dalle altre persone a lui vicine (...)>> afferma Fonagy.
Ulteriori precisazioni
vengono riservate da Fonagy ai rapporti tra psicoanalisi e neuroscienze
cognitive in tema di memoria. Ai tempi di Freud i ricordi erano considerati
delle entità fisiche archiviate nel cervello. Oggi riteniamo che il cervello
non immagazzini dei ricordi (Goldman Rakic et al., 2000; Mayes, 2000;
Schacter et al., 2000; Baddeley, 2002), ma conserva tracce delle
informazioni che poi utilizzerà per creare i ricordi. Quindi i ricordi
vengono creati e ri-creati in continuazione. I diversi sistemi di memoria,
che permettono di codificare, immagazzinare e recuperare ciò che può essere
poi usato in una creazione dei ricordi, interagiscono tra di loro e hanno
sedi in strutture cerebrali differenti, anche se non c'è una
corrispondenza biunivoca tra tipo di memoria e sede cerebrale. La metafora
archeologica freudiana del disseppellire un'esperienza dimenticata on trova
quindi sostegno alla luce delle attuali conoscenze sul funzionamento della
memoria. Per Fonagy, nulla autorizza quindi a ritenere che <<il ricordare,
anziché i pensieri e i sentimenti conseguenti alla costruzione del ricordo,
procuri una maggiore pace interiore e una migliore capacità di lavorare,
amare e giocare>>.
In più, Fonagy cita altri
articoli apparsi sull'IJP che egli ritiene siano in sintonia con le ricerche
contemporanee sulla memoria . In particolare, egli cita un articolo di Davis
del 2001("Revising psychoanalytic interpretations of the past: An
examination of declarative and non declarative memory processes",
Int.J.Psychoanalysis, 82), in cui veniva focalizzato il ruolo della memoria non dichiarativa
nel riportare dall'infanzia esperienze relazionali che potrebbero influire
sul presente. Pugh ("Freud's problem", Int.J.Psychoanalysis, 2002) in un altro articolo sul Journal ha
concettualizzato la teoria degli 'oggetti memoria', basata sulla distinzione
tra sistemi di memoria implicita ed esplicita. Per Talvitie e Ihanus ("The
repressed and implicit knowledge", Int.J.Psychoanalysis, 83, 2002)
i contenuti che sono stati sottoposti alla rimozione sarebbero da mettersi
in relazione alla memoria implicita non dichiarativa che, secondo loro, non
potrebbe accedere alla coscienza, per cui parlare di 'portare alla coscienza
l'inconscio (rimosso)' risulterebbe una contraddizione. Fonagy scrive,
riferendosi a questo articolo: <<Essi suggeriscono, esattamente sulle stesse
linee del mio editoriale, che il divenire conscio del rimosso potrebbe
essere inteso come la creazione di strutture di conoscenza esplicita degli
effetti delle rappresentazioni interne implicite>>. Spielman (citato in
Lechevalier, "Neuroscience and psychoanalysis", Int. J.Psychoanalysis,
83, 2002) ha presentato un modello, basato sulla teoria
dell'attaccamento e sulla fisica quantistica, capace di spiegare come le
rappresentazioni delle organizzazioni patologiche passate possano
influenzare il materiale analitico attuale.
In conclusione, Fonagy
ritiene che le posizioni teoriche di Blum riflettano le teorie
psicoanalitiche degli inizi e non si integrino con le attuali conoscenze
sulla memoria e sul processo clinico della psicoanalisi.
Harold Blum ha quindi scritto una
controreplica a Peter Fonagy. Blum apprezza il fatto che Fonagy, nella
sua replica, abbia chiarito la propria posizione riguardo al transfert.
<<Il transfert definito da Fonagy>> scrive Blum <<come situazione totale
sembra racchiudere aspetti del reale e nuove relazioni
psicoanalitiche>>. Blum è d'accordo con Fonagy che il transfert non sia
una ricapitolazione letterale del passato, che abbia dimensioni di
difesa e di resistenza, che <<sia un importante ma non esclusivo punto
focale del lavoro psicoanalitico>>. E' d'accordo sull'importanza di ciò
che si manifesta nel transfert e nelle libere associazioni, ma è
altrettanto importante ciò che in essi è assente. Blum conviene con
Fonagy sul rischio che qualsiasi paziente o analista possa opporsi alle
interpretazioni sul presente concentrandosi sul passato, e viceversa. Ma
Blum passa poi a elencare i punti di divergenza che riguardano la
rimozione, la memoria, il ruolo dell'interpretazione e della
ricostruzione, nonché l'analisi del transfert. Per Blum, Fonagy
sminuirebbe il valore della prospettiva genetica ed evolutiva nella
psicoanalisi, dando priorità, in quanto ad efficacia terapeutica,
all'esperienza di <<un modo di essere con l'altro>>. Per Blum, invece,
mantengono la loro priorità l'interpretazione, l'insight e la
rielaborazione. Blum precisa, poi, che non ha mai sostenuto che il
recupero del ricordo sia in rapporto diretto con il miglioramento
sintomatico. <<Si tratta di un obiettivo intermedio>> afferma Blum
<<della psicoanalisi, ora largamente sostituito dall'interpretazione
genetica, dalla ricostruzione e dal processo di rielaborazione>>.
Inoltre, anche se i ricordi possono essere 'falsati' dalle fantasie,
essi non sono in genere inventati di sana pianta, secondo Blum, ma
conservare una loro significatività per l'analisi. Blum passa quindi a
discutere le osservazioni di Fonagy sulla vignetta clinica, su cui per
motivi di spazio qui non ci possiamo soffermare. Per Blum, Fonagy non
chiarisce a sufficienza la propria posizione rispetto alle parole ed
alle immagini della memoria dichiarativa autobiografica. <<Sebbene egli
riconosca l'importanza della storia della vita del paziente>> afferma
Blum a proposito di Fonagy <<la sua teoria della tecnica è talmente
radicata nel rapporto presente da relegare la storia all'orizzonte
estremo>>. Secondo Blum, Fonagy paradossalmente ritiene che i
ricordi della memoria procedurale acquisiti nella primissima infanzia
possano essere recuperati nell'adulto attraverso il transfert. Ma,
chiede Blum:<<Questi ricordi procedurali rimangono relativamente
inalterati o si trasformano nelle fasi di sviluppo successive? Inoltre
le procedure non-consce e le fantasie inconsce sono concetti derivanti
rispettivamente da impalcature teoriche in qualche modo diverse. Il
"non-conscio" di Fonagy elude l'inconscio?>> Per Blum, il processo
primario che si manifesta nel sogno e nei sintomi non può essere
ascritto alla memoria procedurale. Per Blum, nonostante i grandi
progressi nelle basi neuroscientifiche della memoria, resta da stabilire
in che modo memoria procedurale, memoria dichiarativa ed altri sistemi
di memoria siano collegati all'inconscio dinamico.
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Glen O.
Gabbard e Drew Westen in "Ripensare l'azione terapeutica" cercano di
integrare gli sviluppi all'interno ed all'esterno della psicoanalisi al
fine di fornire un modello di funzionamento dei processi sfaccettati
coinvolti nella produzione del cambiamento in psicoanalisi ed in
psicoterapia psicoanalitica. In sintesi, elencheremo alcuni punti su cui
si soffermano gli autori nell'offrire una panoramica dei recenti
sviluppi nelle teorie psicoanalitiche dell'azione terapeutica.
Foto: Glen O. Gabbard
Foto:
Drew Westen
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Evoluzione dei concetti dell'azione terapeutica.
Loewald ("On the
therapeutic action of psychoanalysis", Papers on psychoanalysis )
nel 1960 affermava che il processo di cambiamento è <<azionato non solo
dalle capacità tecniche dell'analista ma dal fatto che l'analista stesso
si rende disponibile allo sviluppo di una nuova "relazione d'oggetto"
tra il paziente e l'analista (...)>>. Gli autori quindi si soffermano su
tre temi che attraversano le attuali discussioni in campo
psicoanalitico: a) la debolezza del dibattito <<interpretazione contro
relazione>> e la consapevolezza della molteplicità delle modalità di
azione terapeutica; b) lo spostamento dell'interesse dalla ricostruzione
alle interazioni qui-e-ora tra analista e paziente; c) l'importanza
della negoziazione dell'atmosfera terapeutica. Riguardo al punto a) i
risultati del "Menninger Psychotherapy Research Project" (Wallerstein
R., "Forty-two lives in treatment", New York:Guilford, 1986) mostrarono
che tanto le strategie di supporto quanto gli approcci interpretativi
producevano in egual misura durevoli cambiamenti strutturali nei 42
pazienti reclutati. Wallerstein, perciò, affermava che gli aspetti
interpretativi e quelli di sostegno sono sempre intrecciati tra di loro.
Una successiva analisi dei dati del Menninger Project condotta da Blatt
("The differential effect of psychotherapy and psychoanalysis with
anaclitic and introjective patients: The Menninger Psychotherapy
Research Project revisited", J. Am. Psychoanal. Assoc., 40, 1992)
mostrò che la suddivisione dei pazienti in "introiettivi" ed in "anaclitici"
prediceva la risposta più favorevole, rispettivamente, ai trattamenti
basati sull'interpretazione piuttosto che sul supporto. Oggi, in
generale, si riconosce che in ogni trattamento interpretazione e
supporto agiscono in maniera sinergica, con una maggiore enfasi ora su
l'uno ora sull'altro aspetto. I coniugi Sandler hanno perciò rivisitato
in una chiave più moderna la posizione di Strachey sugli elementi non
interpretativi del cambiamento:
Foto: J. Sandler
Foto: A.-M. Sandler
<<L'analista deve
fornire, mediante le proprie interpretazioni e la maniera in cui vengono
esposte, un'atmosfera di tolleranza dell'infantile, del perverso e del
ridicolo, un'atmosfera in cui il paziente possa far parte delle proprie
attitudini verso se stesso, che le possa interiorizzare unitamente alla
comprensione raggiunta grazie al lavoro svolto di concerto con
l'analista>> ("The 'second censorship', the 'three box model', and some
technical implications", Int. J. Psychoanal., 64, 1983).
Riguardo al punto b),
concernente lo spostamento dell'enfasi dalla ricostruzione
all'interazione nell'hic et nunc, gli autori affermano che oggi <<la
nostra attenzione è piuttosto concentrata sul modo in cui l'interazione
qui-e-ora tra analista e paziente fornisca un'introspezione
nell'influenza che il passato del paziente esercita sugli aspetti delle
relazioni dell'oggetto e conflittuali del presente>>. Gli autori in
particolare sostengono l'importanza della capacità da parte del
terapeuta di aiutare il paziente a raggiungere la consapevolezza dei
propri modelli inconsci espressi con il comportamento non verbale
(cfr. Wachtel, "Psychoanalysis, behavior therapy, and the relational
world", A.P.A., 1997). Fonagy e Target ("Playing with reality, I: Theory
of mind and the normal development of psychic reality", Int. J.
Psychoanal., 77, 1996) definiscono ciò come incremento della
capacità di mentalizzazione o della funzione riflessiva.
Foto: Peter Fonagy
Altro concetto su cui
si soffermano gli autori è quello di "conoscenza relazionale implicita",
introdotto da Lyons-Ruth ("Implicit relational knowing: Its role in
development and psychoanalytic treatment", Infant Mental Health J.,
19, 1998). I cambiamenti della conoscenza relazionale implicita
possono avvenire in "momenti di incontro" tra paziente ed analista <<che
non sono né simbolicamente/verbalmente/consciamente rappresentati né
dinamicamente inconsci in senso ordinario>>. Inoltre, Jones ("Modes of
therapeutic interaction", Int. J. Psychoanal., 78, 1997;
Therapetic action, Jason Aronson, 2000) ha introdotto un modello che
integra gli interventi interpretativi con le dinamiche interattive,
definito "struttura d'interazione ripetitiva".
Riguardo al punto c),
quello della negoziazione del clima terapeutico, Greenberg ("Psychoanalytic
technique and the interactive matrix", Psychoanal. Q., 64, 1995)
ha parlato di "matrice interattiva" ed ha sostenuto che <<la cornice
stessa e i 'ruoli' variano a seconda dlla specifica natura soggettiva
dell'analista e del paziente>>. Per Mitchell (Influence and
autonomy in psychoanalysis, Analytic Press, 1997) negoziazione
e mutuo adattamento sono centrali: <<Non siste una tecnica o una
soluzione generale, poiché ciascuna risoluzione, per sua stessa natura,
deve essere adattata al soggetto. Se il paziente sente che l'analista
sta applicando una tecnica o mostra un'attitudine o una posizione
generica, l'analisi probabilmente non otterrà risultati>> (Mitchell,
1997, p. 58).
In definitiva, per
Gabbard e Westen <<non esiste più un'opinione generale diffusa su cosa
funziona in psicoanalisi e perché>>. E da ciò discende un richiamo ad
una maggiore umiltà ed a una maggiore tolleranza dell'incertezza, sia
nella letteratura specializzata che nella prassi terapeutica. Gli
autori, nella seconda parte dell'articolo, vengono ad esaminare le
questioni connesse con l'azione terapeutica sotto la duplice lente di
ingrandimento di "cosa cambia" (gli scopi della terapia) e di "quali
strategie" siano più adatte a facilitare questi cambiamenti.
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COSA
CAMBIA NELLA PSICOANALISI?
L'acquisizione da parte delle
neuroscienze cognitive dell'esistenza di due sistemi di memoria, quello
della memoria implicita e quello della memoria esplicita, ha
radicalmente mutato, secondo Gabbard e Westen, il modo con cui vedere
gli scopi della terapia psicoanalitica. Gli autori ne individuano due
basilari: 1) modificare le reti associative inconsce, ed in particolare
a) quelle che determinano reazioni emotive problematiche, b) quelle che
scatenano strategie difensive problematiche, e c) quelle che evidenziano
le disfunzioni dei modelli interpersonali; 2) modificare i modelli
consci di pensiero, sentimento, motivazione e regolazione affettiva.
Ricorrendo anche al richiamo dei modelli connessionistici delle
neuroscienze cognitive (Westen & Gabbard, "Developments in cognitive
neuroscience, 1: Conflict, compromise, and connectionism", J. Am.
Psychoanal. Assoc., 50, 2002), gli autori affermano che <<una
terapia che si risolve in un cambiamento strutturale non annulla o
sostituisce completamente le vecchie reti, cosa neurologcamente
impossibile da eseguire in determinate condizioni. Piuttosto, un
cambiamento duraturo richiede una relativa disattivazione dei
collegamenti problematici nelle reti attive e l'aumento delle
attivazioni di nuove, più adattive connessioni, in modo che il paziente
tenderà a trovare nuove, più adattive soluzioni di compromesso>>. Per
gli autori il cambiamento strutturale è una questione di grado che
dipende da diversi fattori: dalla durata dei cambiamenti delle reti
associative nonostante la forza delle circostanze della vita che possono
imporre vecchie soluzioni di compromesso; dal grado di penetrazione e di
impatto dei cambiamenti delle reti associative nei precedenti modelli
disfunzionali; dalla capacità di autoriflessione conscia. Riguardo alla
modificazione dei modelli consci di pensiero, sentimento, motivazione e
regolazione affettiva, Westen e Gabbard affermano che in passato si
privilegiavano i cambiamenti nella sfera dei processi inconsci (si veda
il già citato Wachtel, 1997) e che c'è una base nelle neuroscienze
cognitive per considerare privi di efficacia a lungo termine quelle
terapie (cognitive) che si focalizzano principalmente sui pensieri ed i
sentimenti consci. Infatti, Westen e Morrison ("A multidimensional
meta-analysis of treatments for depression, panic, and generalized
anxiety disorder: An empirical examination of the status of empirically
supported therapies", J. Consult. and Clin. Psychol., 69, 2001)
ipotizzano che, poiché i sistemi di memoria implicita sono
psicologicamente e neurologicamente differenti da quelli di memoria
esplicita, <<trattare solo quei processi che raggiungono l'attenzione
conscia significa lasciare intatte molte importanti reti associative>>.
Tuttavia, per Gabbard e Westen la relativa mancanza di attenzione ai
processi consci sia nella letteratura che nella pratica psicoanalitica è
paradossale, data l'"implicita" importanza data da Freud alla coscienza
nella sua affermazione sul rendere conscio l'inconscio.
Vengono a questo
riguardo enunciati degli obbiettivi dell'azione terapeutica: focalizzare
quei pensieri consci che possono amplificare sentimenti in modo da
consentire al paziente di intraprendere o evitare azioni che influiscono
in modo preponderante sulla propria vita, centrare l'attenzione sugli
stati di affetto consci per modificare l'intensità o la coesistenza di
sentimenti contraddittori, incidere sulle strategie consce (coping ) che
il paziente mette in atto per regolare i propri affetti.
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TECNICA:
STRATEGIE PER INCORAGGIARE IL CAMBIAMENTO TERAPEUTICO.
In questa sezione
dell'articolo gli autori passano in dettaglio ad un'analisi delle
strategie tecniche che possono servire per ottenere il cambiamento
terapeutico. Gli autori focalizzano l'attenzione su tre gruppi di
intervento: quelli miranti ad incoraggiare l'introspezione, quelli che
partono dagli aspetti della relazione terapeutica, e infine le
"strategie secondarie" , tra cui l'esposizione e l'auto-apertura.
I primi due sono essenziali nella psicoanalisi vera e propria mentre le
strategie secondarie sono più chiaramente riferibili alle psicoterapie,
anche se, affermano gli autori, <<nessuno potrebbe considerarle
esclusivamente di pertinenza dell'una o dell'altra>>. Per motivi di
spazio qui non possiamo passare in rassegna questa parte dell'articolo,
a cui rimandiamo per una lettura integrale, e passiamo alle conclusioni.
Sinteticamente, le
affermazioni conclusive degli autori sono le seguenti. Primo, non esiste
un unico percorso, o obiettivo, del cambiamento terapeutico. Con umiltà
gli autori ammettono che molti meccanismi che possono incoraggiare il
cambiamento ancora attendono di essere compresi. Secondo, alcuni
principi di cambiamento e tecniche per incoraggiarlo sono utili per
certi pazienti, ma non per tutti. <<Se stiamo per esporre la nostra
teoria di azione terapeutica e le nostre tecniche di cambiamento, avremo
bisogno di sviluppare modelli di base dei domini del funzionamento che
costituiscono la personalità in maniera più sistematica, clinica ed
empirica (ad esempio, motivazione, cognizione, affetto, regolazione
dell'affetto, relazioni d'oggetto) e le modalità di procedere in
ciascuno di questi domini possono andare storte>> (Westen, 1998). Terzo,
<<la varietà di scopi della terapia e delle strategie di intervento
(...) interagiscono con modalità complesse e sembrano diventare più
chiare se noi le distinguiamo con maggiore attenzione evitando le teorie
della singola causa dell'azione terapeutica>>. Quarto, <<niente
garantisce che i vari scopi della terapia e le tecniche che facilitano
il cambiamento terapeutico presentate qui siano prive di elementi in
conflitto o avversi ai propositi prefissati, nella stessa misura in cui
possiamo attenderci che le motivazioni delle persone siano libere da
conflitti>>. Infine, un auspicio viene espresso dagli autori: che con le
nuove tecniche di misurazione di quanto accade nelle ore di terapia**
nonché di valutazione della struttura della personalità*** si
possa scoprire e misurare <<cosa stanno facendo gli specialisti, quali
cambiamenti e quali metodi di lavoro sono associati ai risultati
migliori>>.
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Otto F. Kernberg nel suo articolo
"Violenza socialmente accettata: un punto di vista psicoanalitico",
uscito in due parti distinte sull'IJP, intende rendere sistematica
l'applicazione della teoria psicoanalitica dei processi gruppali alle
esplosioni di violenza di massa.
Foto: Otto Kernberg
L'ideazione di questo
lavoro da parte dello psicoanalista americano ha preceduto l'11
settembre 2001, ma questa data ha certamente rinnovato l'urgenza del
compito che egli si era prefissato. Un primo paragrafo è dedicato alle
psicodinamiche della psicologia di gruppo e della psicologia di massa,
con un esame particolareggiato dei contributi di Bion, di Turquet e di
Anzieu . In un suo precedente lavoro (Kernberg O.F., "Mass
psychology through the analytic lens", in The spectrum of
psychoanalysis. Essays in honor of Martin Bergmann, ed. A. K.
Richards, Int. Univ. Press, 1994) l'autore aveva ipotizzato che il
gruppo allargato non strutturato impedisce che vengano agite le comuni
relazioni di status e di ruolo, in modo che vengono disattivate le
relazioni oggettuali con figure genitoriali che si erano costruite
durante la storia personale dell'individuo. Parallelamente, nascono
delle relazioni che non è possibile gestire con l'ausilio degli ordinari
meccanismi di difesa primitivi (identificazione proiettiva, controllo
onnipotente, negazione e scissione), e si creano delle condizioni nelle
relazioni interpersonali che impediscono all'individuo di ottenere
conferme della percezione di sé dagli altri significativi, tutto
ciò riproponendo quelle condizioni primitive
dell'organizzazione psicologica individuale, che precedono la costanza
dell'oggetto e il raggiungimento di un'identità integrata. Il vissuto di
impotenza che ne deriva finisce per rinforzare paure e vissuti
aggressivi primitivi, e induce una regressione ai patterns strutturali
più arcaici (schizo-paranoidi) dello sviluppo.
Kernberg inoltre
richiama il concetto di Freud (apparso in Psicologia delle masse ed
analisi dell'Io, 1921) di proiezione dell'Io ideale sulla figura del
leader, nozione ripresa da Moscovici (L'age des foules, Fayard,
1981) ed adattata alle attuali società di massa influenzate dai
mass-media. In un precedente lavoro ("Le relazioni nei gruppi.
Ideologia, conflitto, leadership", Cortina, 1999) Kernberg aveva
ipotizzato che il conformismo riflette la proiezione da parte
dell'individuo sull'intero gruppo sociale dello strato di super-Io
infantile corrispondente alla fase di latenza, piuttosto che della
totale struttura del super-Io infantile (Jacobson E., "The self and the
object world", Int. Univ. Press, 1964). Per Kernberg <<i mezzi di
comunicazione di massa attivano questo aspetto di "latenza" della
psicologia di massa che viene probabilmente rispecchiato al meglio dalle
soap opera, dai gialli, dal ricorso ai cliché del sentimentalismo
e dalla pubblicità mirata alla gratificazione dei bisogni
narcisistici>>. Ma i mass media possono anche facilitare la regressione
paranoide del gruppo allargato e dell'assunto attacc-fuga del piccolo
gruppo, intensificando e promuovendo l'immagine di una netta divisione
tra bene e male.
I mass-media presentano
l'immagine di un mondo in cui un gruppo viene definito come minaccioso,
sadico, vendicativo, in contrapposizione ad un gruppo di individui
buoni, desiderabili, illuminati, superiori. Per Kernberg <<qui la
psicologia di massa originariamente descritta da Freud compie uno
sviluppo completo, persino in assenza di un leader paranoide
riconosciuto>>.
Ne deriva l'interesse
per il tema della spinta regressiva delle ideologia che l'autore tratta
nel successivo paragrafo. Le ideologie paranoidi, quali quelle dei
sistemi politici totalitari ad esempio, finiscono per determinare una
totale identificazione dell'individuo con il sistema. Anche nei paesi
democratici, l'adesione di gruppi di individui ad un estremo dello
spettro di una data ideologia è determinata sia da fattori sociali ma
anche da determinanti psicopatologiche. Lo studio di Adorno (1950) sulla
personalità autoritaria andrebbe rivisto alla luce delle attuali
conoscenze sui disturbi della personalità, tuttavia l'immaturità e la
rigidità di funzionamento del Super-Io favoriscono l'accettazione di
ideologie paranoidi, narcisistiche o regressive. In tema di relazioni
tra strutture personologiche e dinamiche gruppali regressive, il terzo
paragrafo dell'articolo di Kernberg si occupa delle caratteristiche
della personalità della leadership politica e sociale. Il paradosso
della leadership, per l'autore, consiste nel fatto che tratti paranoidi
e narcisistici, che sono indispensabili per un leader, se raggiungono
livelli patologici ed esasperati, diventano capaci di favorire la
regressione di massa paranoide e narcisistica.
Un altro fattore
predisponente alla violenza socialmente accettata consiste per Kernberg
nel trauma storico e nelle crisi sociali a cui è dedicato l'ultimo
paragrafo della prima parte dell'articolo. <<Un grande sconvolgimento
politico>> scrive l'autore <<una guerra persa, una rivalità di lunga
durata con un altro gruppo sociale sono da includere tra i primi miti
culturali insiti nella storia e nelle origini di una famiglia e di un
gruppo sociale. I gruppi "altri" diventano oggetto dei primi meccanismi
di scissione, di regressioni narcisistiche e paranoidi e di difesa>>.
Volkan ("The need to have enemies and allies: From clinical practice to
international relationships", Jason Aronson, 1988) ha affermato che tale
eredità storica condivisa finisce per far parte integrante
dell'equilibrio narcisistico dell'individuo. Quando il trauma storico
finisce per tradursi ideologie che predicano la separatezza tra
sottogruppi sociali (come nella pulizia etnica), specie se una ideologia
ha prodotto la disumanizzazione di un gruppo, una leadership di tipo
narcisistico 'maligno' o paranoide può condurre ad uno scatenamento
senza limiti della violenza sociale.
Foto:
il lager di Dachau nel 1945
La seconda parte
dell'articolo tratta della psicologia del terrorismo e della
trasformazione di un'ideologia fondamentalista in una sottocultura
terrorista.
Riguardo alle
caratteristiche psicologiche connesse al terrorismo, Kernberg,
innanzitutto, invita a distinguere il terrorismo in quanto fenomeno
sociale dalle ideologie fondamentaliste, seppure quest'ultime possano
costituire la base più comune delle azioni terroristiche. Inoltre il
terrorismo, secondo l'autore, va anche differenziato dai gruppi 'regressivi'
esaminati in precedenza che esercitano comportamenti sadici e brutali
contro sottogruppi minoritari, sulla base di un'ideologia giustificatica
del gruppo dominante. Il terrorismo, citando testualmente Kernberg, <<è
un tipo di violenza socialmente diretta contro il gruppo sociale
circostante, perpetrata da individui e gruppi che vivono in relativa
solitudine, segretezza e sfida, uniti da un'ideologia fondamentalista>>.
La letteratura sulle caratteristiche psicologiche di personalità dei
terroristi citano gravi traumi infantili, un sentimento di inferiorità o
di abbandono vissuto durante l'infanzia, compensato successivamente in
termini in sentimenti di auto-affermazione aggressiva o di vendetta
sadica (Post, "The mind of the terrorist", Presentation to the
Association for Psychoanalytic Medicine, 30 october 2001; Volkan (2001),
"From Waco to the Bomian valley: Violence and the psychology of
religious fundamentalism", manoscritto non pubblicato; Volkan (2001), "September
11, 2001: From the Bomian Valley to the Twin Towers and Pentagon", man.non
pubblicato). Nel paragrafo su "Predisposizioni culturali alle ideologie
fondamentaliste", Kernberg fa una disamina della letteratura
psicoanalitica al riguardo, affermando, e concordando con Green ("Sexualité
et idéologie chez Marx et Freud", Etudes Freudiennes, 1969), che i
sistemi fondamentalisti <<si armonizzano con un rigido, primitivo
super-Io o Io ideale che accetta le proibizioni edipiche, ma non ha
incorporato l'identificazione sublimata con il "generoso" e procreativo
padre edipico>>. In un ulteriore paragrafo, dal titolo "Origini e
contenimento del terrorismo", l'autore ammette che mentre la psicologia
degli individui coinvolti nel terrorismo (anche le vittime) è
suscettibile di un'indagine psicoanalitica, l'analisi delle cause del
terrorismo, nonché la sua prevenzione e gestione, implicano un approccio
più globale (sociale, politico, culturale, economico, storico) in cui
quello psicoanalitco riveste un ruolo limitato. Infine, un ultimo
paragrafo riguarda "L'impatto del terrorismo sulle vittime", e qui
l'approccio psicoanalitico può certamente dire la sua. Per prima cosa,
una domanda sorge spontanea in chi fa parte del gruppo sociale preso di
mira: <<Perché ci odiano tanto?>>. Dice Kernberg che questa domanda
riflette lo shock di un gruppo che non è regredito, ma che vive in un
<<ambiente psicologico ordinario quando è costretta a confrontarsi
improvvisamente, con le manifestazioni più violente e primitive
dell'aggressività umana>>. Il gruppo delle vittime rischia di prendere
così sul serio le dichiarazioni propagandistiche del gruppo terrorista,
potendo a sua volta regredire ad una posizione masochistica che trova il
suo punto di partenza in una identificazione coll'aggressore,
sollecitando la domanda:<<Cosa abbiamo fatto di sbagliato?>>. Il rischio
è la auto-colpevolizzazione e la ricerca all'interno del gruppo delle
cause dell'aggressione: la sindrome di Stoccolma. Una terza domanda
deriva dalle prime due:<<Si può fare qualcosa che possa cambiare un così
profondo e diffuso sentimento di odio?>>. Qui, dice Kernberg, <<è utile
la comprensione delle immediate conseguenze della regressione di gruppo
e della psicologia di massa>>. Ed allora si può verificare una
regressione alla psicologia della massa violenta che finisce per ridurre
le possibilità di conciliazione con le forze politiche e sociali che
sono correlate con ma sono diverse da quelle terroristiche (Volkan,
1988, op.cit.; Huntington, "The clash of civilizations and the remaking
of world order", Touchstone, 1996). Il ruolo dei mezzi di comunicazione
di massa diventa centrale nell'innescare questa regressione di massa, in
quanto <<sono in grado di generare una rapida regressione nella
psicologia di grandi gruppi in spettatori o ascoltatori che assorbono le
informazioni in un contesto di individui che ricevono simultaneamente le
informazioni trasmesse ad una massa di grandi dimensioni>>.
Da un punto di vista
psicoanalitico, inoltre, ci si può chiedere: <<quali sono le possibilità
per un terrorista di sfuggire al sistema di cui fa parte e di ritornare
ad una condizione di normalità che risolva la regressione personale,
l'aggressività scissa e la sottomissione personale ad un'ideologia
fondamentalista?>> Ciò dipende dalle strutture psicopatologiche
sottostanti alla personalità del terrorista, e , secondo Kernberg, <<la
relativa conservazione di una capacità ordinaria di identificazione ed
empatia umana coi valori etici può consentire ad alcuni terroristi di
abbandonare il loro sistema nel momento in cui raggiungono la
consapevolezza del sadismo, della crudeltà, dell'irrazionalità e della
inumanità del loro agire>>. Ci sono esempi di storie personali di
ex-terroristi (Menachem Begin in Israele, Joska Fischer in Germania) che
fanno ben sperare in tal senso.
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Thomas
Ogden nel suo articolo "Sull'incapacità di sognare" esplora da tre
differenti punti di vista tale fenomeno (in contrapposizione
all'incapacità di ricordare i propri sogni). In primis, egli discutel'idea
di Bion che l'attività onirica crei la mente conscia e quella
inconscia (e non viceversa). Chi non sa sognare non riesce a generare
un'esperienza cosciente e un'esperienza inconscia tra loro
distinguibili, vivendo pertanto in uno stato psichico nel quale non sa
distinguere la veglia dal sonno, il sognare dal percepire.
Successivamente, l'autore affronta il problema dell'incapacità di
sognare dalla prospettiva ricavata da un'opera letteraria, un racconto
di Borges. Infine, il terzo punto di vista è quello di un
particolareggiato resoconto di un'esperienza clinica: egli descrive uno
stato iniziale caratterizzato dalla 'proliferazione', nella paziente, di
'rumori psichici' inutilizzabili che, in un periodo di anni, indussero
nell'analista la 'deprivazione della reverie' e brevi periodi di
'psicosi da controtransfert'. Ogden quindi presenta e discute due sedute
analitiche in cui il lavoro psicologico contribuì ad accrescere, nell'analizzanda
e nell'analista, la capacità di sognare sia nello stato di sonno sia in
quello della reverie analitica.
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Maria F. Pozzi nel suo articolo "L'uso
dell'osservazione nel trattamento psicoanalitico di un ragazzo di 12
anni con sindrome d'Asperger" descrive, per prima cosa, lo sviluppo
emotivo e cognitivo del paziente, rallentato sin dall'infanzia. Egli non
era consapevole di avere delle difficoltà, andava male a scuola, era
socialmente isolato e spesso infelice. Secondo l'autrice, il diniego, la
scissione e la proiezione delle emozioni e dell'insight rendevano
difficile per il terapeuta il poter raggiungere il paziente. Per poter
comunicare emotivamente con lui la terapeuta ha creato una tecnica
modificata che rifletteva lo stato evolutivo in atto del paziente. La
terapia ha consentito al paziente di passare dall'intrattenere relazioni
solo con oggetti parziali al giungere a relazioni con oggetti interi. Un
resoconto dei primi anni è stato accoppiato ad un commento dettagliato
di quanto la terapeuta ha osservato ed ha intuito nel corso delle
sedute, così come anche di ciò che ella ha potuto comprendere a partire
dal proprio controtransfert. Dopo due anni di trattamento la sensibilità
e la creatività del paziente - che erano rimaste <<seppellite sotto un
incapsulamento di autosufficienza di tipo autistico>> - sono iniziate ad
emergere nelle sue comunicazioni con la terapeuta.
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Danielle Quinodoz nel suo articolo
"Parole che toccano" esamina il proprio uso del linguaggio da
psicoanalista e si interroga sul modo migliore di aiutare gli
analizzandi a trovare le parole per esprimere non solo ciò che pensano
ma anche ciò che sentono e provano. Secondo l'autrice, ognuno di noi
utilizza contemporaneamente meccanismi psichici avanzati, aperti al
simbolismo, ed altri più arcaici. Ella distingue tra coloro che sono in
grado di tollerare la percezione della propria eterogeneità, pur essendo
talora fonte di sofferenza, e quanti sono da lei definiti "pazienti
eterogenei". Questi ultimi, la cui mancanza di coesione interna causa in
loro ansia, temono di perdere il proprio senso di identità. L'autrice si
chiede come possiamo comprendere il loro linguaggio e come si debba
parlare con loro. L'autrice utilizza diversi esempi clinici per
dimostrare che i "pazienti eterogenei" hanno bisogno di essere toccati
da un linguaggio che non si limiti a comunicare pensieri verbalmente ma
che veicoli i sentimenti e le sensazioni che accompagnano quei
sentimenti. Si tratta di un linguaggio "incarnato" perché le parole
pronunciate dall'analista possono destare o risvegliare fantasie
corporee nel paziente. Queste parole possono metterlo in condizione di
trovare un significato emotivo in esperienze sensoriali o corporee
dimenticate che, a loro volta, possono diventare un punto di partenza
per il suo lavoro di pensiero e di simbolizzazione.
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Andrea Sabbadini nel suo articolo
"<<Perché noi siamo anche quello che abbiamo perduto...>>. Fantasie
di salvataggio nel film Amores perros" dà una lettura
psicoanalitica del film messicano del 2000, vincitore di molti premi
internazionali, diretto da Alejandro Gonzales Inarritu e scritto da
Guillermo Arriaga Jordan. Il film inizia con un travolgente
incidente automobilistico che fa improvvisamente incrociare in modo
indissolubile i personaggi della storia. Diversi sono i temi su cui
una lettura psicoanalitica potrebbe soffermarsi, ma l'autore sceglie
di concentrarsi sulle fantasie di salvataggio che emergono dal film.
Per un dettagliato svolgimento del tema, si rimanda alla lettura
integrale dell'articolo di Sabbadini.
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Barbara Shapiro nel suo "Costruire ponti
tra il corpo e la mente: L'analisi di un'adolescente con dolore
cronico paralizzante" descrive la valutazione, la psicoterapia
iniziale e la successiva psicoanalisi di una adolescente che
presentava un grave disturbo psicosomatico, implicante sofferenza
fisica totale e profonda stanchezza. Il disturbo psicosomatico era
costituito da diversi elementi intessuti tra di loro, quali
somatizzazione, conversione, conflitti relativi all'aggressività,
alla sessualità e all'identità, masochismo, vantaggi secondari,
depressione anaclitica, interazioni interiorizzate Sé-altro con una
madre depressa e trasmissione transgenerazionale del trauma.
L'autrice utilizza il materiale del caso per discutere gli approcci
tecnici ai problemi che spesso insorgono durante il trattamento
psicoanalitico di pazienti che presentano quale principale disturbo
una complicazione di sofferenza fisica e stanchezza croniche. Tali
approcci richiedono il rispetto della scissione tra mente e corpo
come difesa principale: parlare il linguaggio del corpo assieme al
linguaggio della mente e sviluppare la sfera verbale attorno ai
sintomi non verbali. L'autrice rileva che i complessi problemi della
sofferenza fisica cronica sono comuni e si possono curare con la
psicoanalisi a condizione che siano capite e rispecchiate
nell'approccio tecnico le loro peculiari e complesse
caratteristiche.
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Infine, nell'ultimo articolo dal titolo
"Analisi del transfert: una prospettiva nordamericana", Henry F.
Smith , utilizzando vignette cliniche particolareggiate, illustra e
mette a confronto numerosi modi di affrontare l'analisi del
transfert nel mondo nordamericano, facendoli risalire all'opera di
Freud e a varie teorizzazioni postfreudiane, tra cui gli scritti di
Anna Freud e di Charles Brenner. Egli dedica particolare attenzione
al lavoro di Merton Gill, di Evelyn Schwaber, di Paul Gray e a
quello della psicoanalista inglese Betty Joseph. Egli inoltre
discute e illustra le controversie sulle teorie del transfert,
sull'interpretazione dell'azione nel setting analitico, sulle
interpretazioni del transfert precoci e tardive, con particolare
attenzione al contrasto tra le prospettive kleiniane contemporanee e
quelle della psicologia dell'Io, al ruolo dell'interpretazione
extratransferale e al concetto di nevrosi di transfert. L'autore
sostiene un approccio integrato, enfatizzando diversi elementi che
dipendono dalle circostanze cliniche e dall'emergenza affettiva del
paziente, che può o non può coincidere con l'emergenza affettiva
dell'analista. |
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