Home page 

Biblioteca on-line

Chronology

 "L'ANNATA PSICOANALITICA INTERNAZIONALE"

 

Recensioni bibliografiche 2005

Recensioni bibliografiche 2004

Recensioni bibliografiche 2003  

 

 Recensione  a cura di Giuseppe Leo.

Novità - News

"L'annata psicoanalitica internazionale", a cura di Antonino Ferro e coll., Borla, Roma, 2005, euro 26,50, ISBN 88-263-1587-6

 

 

 

 

 Le Edizioni Borla nel dicembre 2005 ha inaugurato una meritevole iniziativa: una collana di libri intitolata "L'Annata Psicoanalitica Internazionale" che raccoglie una scelta di lavori pubblicati nello International Journal of Psychoanalysis, tradotti in italiano e con la cura editoriale di un comitato di redazione diretto da Antonino Ferro, ed i cui membri sono Giuseppina Antinucci, Stefano Bolognini, Vincenzo Bonaminio, Anna Ferruta e Diana Norsa, e con la segreteria editoriale a cura di Roberto Basile. Il primo numero della collana raccoglie dei testi comparsi nella prestigiosa rivista internazionale nel corso del 2003.

Come affermano i membri del comitato di redazione nella nota introduttiva al volume, erano già apparsi degli Annuari dello IJP tradotti in varie lingue, ma per l'Italia era uscito solo da Bollati Boringhieri una raccolta di articoli risalenti al 2002 e pubblicati in un volume dal titolo "Psicoanalisi e pluralismo delle lingue". Ma per difficoltà di quella casa editrice, l'iniziativa non ha proseguito le pubblicazioni, e quindi Borla ha meritoriamente deciso di dare un seguito al progetto. Questo primo numero raccoglie i lavori i cui titoli riportiamo qui sotto nell'indice: a seguire una loro sintetica presentazione.

    

   INDICE:

Collaboratori                                                                                                                      9

Curatori                                                                                                                             11

DANA BIRKSTED-BREEN, Il tempo e l'après-coup                                                             13

HAROLD P. BLUM, Controversie psicoanalitiche. Rimozione, transfert e ricostruzione        29

PETER FONAGY, Replica ad Harold Blum                                                                          37

HAROLD P. BLUM, Controreplica a Peter Fonagy                                                               45

GLEN O. GABBARD e DREW WESTEN, Ripensare l'azione terapeutica                               51

OTTO F. KERNBERG, Parte I. Violenza socialmente accettata: un punto di vista psicoanalitico 75

OTTO F. KERNBERG, Parte II. Violenza socialmente accettata: un punto di vista psicoanalitico 95

JILL M. MILLER, Un esempio dall'analisi di una bambina con commenti di Johan Norman e Florence Guignard                                                                                                                 115

THOMAS H. OGDEN, Sull'incapacità di sognare                                                                    131

MARIA E. POZZI, L'uso dell'osservazione nel trattamento psicoanalitico di un ragazzo di 12 anni con sindrome d'Asperger                                                                                                         147

DANIELLE QUINODOZ, Parole che toccano                                                                          165

ANDREA SABBADINI, <<Perché noi siamo anche quello che abbiamo perduto...>>. Fantasie di salvataggio nel film Amores perros                                                                                           183

BARBARA SHAPIRO, Costruire ponti tra il corpo e la mente: l'analisi di un'adolescente con dolore cronico paralizzante                                                                                                                 197

HENRY F. SMITH, Analisi del transfert: una prospettiva nordamericana                                   215

 

Recensioni dalla stampa 2003

 

  

 

 

                                                        

  

                 Rivista Frenis Zero Dana Birksted-Breen, psicoanalista di training della British Psychoanalytical Society e General Editor della New Library of Psychoanalysis, nel suo articolo "Il tempo e l'après-coup" (traduzione italiana di Isabella Negri) esamina i problemi relativi al tempo in riferimento ai diversi orientamenti teorici della psicoanalisi, in particolare confrontando due forme di temporalità: quella "evolutiva" (più lineare, modello maggiormente tenuto in conto dagli psicoanalisti britannici) e quella après-coup (modello non lineare della temporalità più presente tra i colleghi francesi). Tuttavia, precisa subito l'autrice, i due modelli non rappresentano una rigida dicotomia tra orientamenti teorici, in quanto ella intende mostrare <<che le due forme di temporalità, quella evolutiva e quella après-coup, sono implicitamente collegate, essendo l'una il requisito dell'altra, e come tali si possono rintracciare nell'approccio inglese>>.

  Foto: J. Lacan

La Birksted-Breen richiama il merito di Lacan di aver recuperato l'importanza del concetto freudiano di Nachtraeglichkeit, non sempre riconosciuta in precedenza in parte perché tale termine era stato tradotto in maniera differente nelle traduzioni inglese e francese dell'opera freudiana (Laplanche e Pontalis, 1967). In realtà i termini nachtraeglich e Nachtraeglichkeit non furono tradotti da Strachey sempre allo stesso modo perché si riferivano a significati differenti. Il primo di essi vuol dire <<successivo>>. Il secondo, indica <<un movimento che va dal passato al futuro: nell'individuo si deposita qualcosa che si attiverà soltanto successivamente - secondo il modello della teoria della seduzione dove il trauma si costituisce in due fasi>> scrive l'autrice. Il terzo significato indica qualcosa che viene percepito ma che assume un senso solo retrospettivamente: è questa l'accezione di Nachtraeglichkeit che la psicoanalisi francese, sulla scia di Lacan, ha maggiormente utilizzato, anche se esso è il meno presente in Freud. Sebbene Laplanche e Pontalis (1967), sempre in seno alla psicoanalisi francese, abbiano privilegiato il secondo significato, tuttavia, come afferma Green (2002), <<l'originalità della posizione francese si deve all'influsso di Lacan (...)>>. Per la Birksted-Breen <<la nozione di après-coup* (...) è stata indicata come linea di demarcazione tra l'approccio francese e quello inglese probabilmente in seguito alla ripresa del concetto di après-coup da parte di Lacan e al suo radicale rifiuto del corpo e dello sviluppo biologico in psicoanalisi>>. Ma le cose sono più complesse di quelle che potrebbero a prima vista sembrare. Perché se già in Freud sono egualmente presenti entrambe le direzioni temporali, quella evolutiva e quella dell'après-coup, è anche vero che  nella psicoanalisi inglese la nozione di après-coup, seppure denotata da altri termini, è più presente di quanto non si pensi.

Se la psicoanalisi inglese sembra privilegiare la dimensione del qui ed ora, secondo l'affermazione dei Sandler (1994) per cui <<è indispensabile che lo psicoanalista dia priorità assoluta alla comprensione, e se possibile all'interpretazione, di ciò che accade al momento dell'analisi>>, è anche vero, però, come afferma la Birksted-Breen, che il lavorare sul "qui ed ora" racchiude la concezione di una temporalità complessa, stando alla nozione freudiana di transfert.

  Foto: J. Sandler

<<In effetti>> afferma l'autrice <<il qui e ora ha senso solo in quanto conservi la propria dimensione temporale e contempli l'ambiguità delle due direzioni della temporalità>>. Ovviamente, varia da analista ad analista il grado in cui il passato sia passibile di conoscenza a partire dal presente, dal qui ed ora, ben tenendo in considerazione il rischio, sottolineato da O'Shaughnessy (1992), di imbattersi nell'<<enclave>>, ossia quella forma di 'impasse' in cui l'analista, avendo perso la prospettiva temporale, collude con l'analizzando <<in un presente perniciosamente denudato>>. Se l'enfasi della psicoanalisi inglese sul qui ed ora dipende dall'idea che solo il presente è conoscibile, tuttavia il presente è in un rapporto complesso con il passato reale del paziente, nel senso che nel presente della seduta analitica si dà un passato a cui è stato retrospettivamente attribuito nuovo significato, <<cioé un passato modellato après-coup>>, scrive l'autrice. Gli stessi concetti kleiniani delle posizioni schizo-paranoide e depressiva non presuppongono una temporalità lineare, ma comportano sempre una ristrutturazione continua di elementi precedenti, in senso progressivo o regressivo.

L'autrice poi esamina alcuni concetti riguardanti la temporalità all'interno della storia della psicoanalisi britannica: l'"istantaneità" come caratteristica della posizione schizo-paranoide (<<che fronteggia il dolore psichico scindendo ed evacuando immediatamente il sentimento indesiderato addirittura prima di provarlo>>), la temporalità nella concezione di "reverie" di Bion con il concetto di "tempo di riverbero" che l'autrice definisce come <<il tempo necessario per assimilare, metabolizzare  e trasformare gli elementi disturbanti>>, il "contrasto di temporalità" (Sabbadini, 1989) su cui si basa il setting analitico per cui <<lo psicoanalista diventa il custode del tempo>>, il garante che la seduta ha un inizio ed una fine.

Quello che la Birksted-Breen suggerisce a metà del suo articolo è il suo proposito di considerare entrambe le temporalità, quella evolutiva e quella après- coup, come concomitanti, per cui non si dà l'una senza l'altra. Questa compresenza era stata già colta da Freud che utilizzava lo stesso termine per indicare sia il tempo progressivo che quello retrospettivo. Significativamente Laplanche suggerì, diversamente da Strachey, di tradurre il freudiano nachtraeglich e Nachtraeglichkeit con lo stesso termine, al fine di non imporre un unico significato ad una parola che nell'originale ha un senso polivalente.

L'autrice attraverso due casi clinici, quello di A. e quello di B., viene quindi ad illustrare il modo con cui i due generi di tempo sono tra loro interdipendenti. Partendo specie dalle considerazioni cliniche al caso di B., la Birksted-Breen enuncia le correlazioni tra tempo, generatività e legame, utilizzando la propria formula di <<pene-come-legame>> (nel suo articolo del 1996 "Phallus, penis and mental space"). L'autrice richiama Lacan (1966) per cui il fallo è l'oggetto del desiderio della madre, ciò che la completerebbe: <<pertanto>> cito l'autrice <<si riferisce a un'integrità illusoria, a uno stato libero dal desiderio>>. La Birksted-Breen distingue il fallo dal "pene-come-legame" in quanto il fallo (come oggetto del desiderio materno) corrisponde a uno stato illusorio assoluto ed a uno stato narcisistico assoluto (essere o non essere, avere o non avere), mentre il 'pene-come-legame' si riferisce ad un altro a cui essere collegati, ed alla coppia genitoriale. L'autrice spinge tale distinzione su un livello metapsicologico attribuendo al "pene-come-legame" il carattere di essere strumento dell'Eros, mentre il fallo lo è di Thanatos , poiché mira a distruggere quel legame. Il "pene-come-legame" però non è semplicemente riducibile alla relazione bi-personale madre-bambino, non è omologo al seno che collega la madre col bambino. Esso rimanda ad una relazione triangolare o tri-personale nella quale il legame ha un insostituibile carattere generativo: è ciò che collega la coppia genitoriale con il Sè e/o con la mente del bambino. Ora, per l'autrice, il concetto di "pene-come-legame" è inseparabile dal tempo: è il tempo del rapporto sessuale dei genitori, che implica separatezza ed unione. E' interessante l'accostamento, operato dalla Birksted-Breen, tra atto sessuale e tempo da una parte e, dall'altra, la lettura che Leach (1953) fa dell'atto sessuale come immagine fondamentale del tempo per gli antichi Greci.

In conclusione del suo articolo, l'autrice discute questa polarizzazione teorica tra la psicoanalisi francese e quella britannica in relazione alla temporalità. <<Gli psicoanalisti francesi pongono l'accento sull'intento analitico di liberare il processo associativo>> scrive <<connotato da assenza di preoccupazione per una successione ordinata nel tempo. esso diventa non un mezzo per un fine, bensì un fine di per se stesso>>. Questa liberazione del processo associativo dai vincoli della temporalità diventa per essi il fondamento dello sforzo analitico (Donnet, 2001). Ma se gli psicoanalisti britannici hanno trattato l'après-coup non sempre in maniera consapevole, i colleghi francesi ne hanno parlato talora loro malgrado, <<dal momento che il tempo evolutivo deve essere tollerato psichicamente perché si compia una ristrutturazione continua dell'esperienza>>.  Nel tentativo di esplicitare questo fondarsi della psicoanalisi sull'"interdipendenza paradossale" tra tempo progressivo e tempo retrospettivo, tra quello evolutivo e l'aprés-coup, l'autrice recupera quella concezione complessa della temporalità,  enunciata da Winnicott (1974) in "Fear of breakdown" (per cui il paziente avrebbe paura del crollo già avvenuto) come ausilio per comprendere il modo in cui l'esperienza analitica <<diventa>> il trauma.

Harold Blum,  nel suo articolo "Controversie psicoanalitiche. Rimozione, transfert e ricostruzione", risponde ad un articolo del 1999 di Fonagy ("Memory and therapeutic action") sempre apparso sull'IJP, in cui quest'ultimo metteva in dubbio l'importanza della rimozione e del recupero dei ricordi rimossi nell'azione terapeutica della psicoanalisi.

  Foto: Peter Fonagy

Fonagy in quel lavoro affermava che <<le terapie che si concentrano sul recupero dei ricordi inseguono un falso dio. Gli psicoanalisti dovrebbero evitare con cura e coerenza la metafora archeologica >> (Fonagy, 1999). Riporterò il più fedelmente possibile le critiche e le obiezioni che Blum rivolge al riguardo a Fonagy. Intanto, per Blum Fonagy non terrebbe in alcun conto il nesso <<cruciale>> tra transfert e resistenza da un lato, e rimozione dall'altra. Forse, ipotizza Blum, si parte da concezioni diverse del transfert. E si chiede (e chiede al suo virtuale interlocutore, Fonagy):<<concetti e formulazioni tradizionali come quelli del transfert devono forse essere modificati o sostituiti e, in tal caso, come?>>

Un altro interrogativo che egli pone a Fonagy è il seguente: <<su che cosa si basa Fonagy per concludere che il recupero dei ricordi rimossi è terapeuticamente inutile, un epifenomeno?>> Blum richiama gran parte della storia della psicoanalisi la cui diffusione, specie dopo le due guerre mondiali, fu dovuta allla sua efficacia nel trattamento delle "psicosi da shock" e delle 'nevrosi belliche'.

Un altro appunto critico  Blum lo muove alla frase citata da Fonagy, secondo cui l'unico modo in cui possiamo sapere <<ciò che accade nella mente dei nostri pazienti, ciò che potrebbe essere loro accaduto, è come essi sono con noi nel transfert>> (Fonagy, 1999). <<Su quali prove si regge questo punto di vista?>> chiede Blum. E risponde:<<Se si ignora la biografia del paziente - livello di istruzione, famiglia, cultura e carattere compresi - non si può comprendere appieno il transfert, e viceversa>>. E ancora (si) chiede Blum:<<Come si sente il paziente quando si interpreta soltanto il transfert e si ignorano gli altri problemi?>>. L'autore cita Arlow (2003) il quale ha evidenziato che limitare l'attenzione al transfert manifesto <<non riesce a cogliere i conflitti soggiacenti e l'aspetto di compromesso difensivo del transfert>>.

Fonagy così definisce il transfert: <<una sorta di modello, una reta di aspettative inconsce o modelli mentali delle relazioni del Sé con l'altro. I modelli esistono a livello non conscio come procedure ... I modelli non sono repliche dell'esperienza reale, ma sono indubbiamente distorti in modo difensivo dai desideri e dalle fantasie correnti al momento dell'esperienza. Pertanto non possono essere considerati in alcun senso come portatori del testamento di una verità storica>> (Fonagy, 1999). Per Blum, Fonagy nel suo articolo abbandona l'inconscio dinamico per il non-conscio, dando la priorità a ipotetiche memorie procedurali a scapito di quella autobiografica. In definitiva, il transfert <<non è una ricapitolazione letterale delle prime relazioni d'oggetto del paziente>> scrive Blum <<bensì una formazione di compromesso, una fantasia inconscia che comprende componenti dell'esperienza reale, rappresentazioni del Sé e dell'oggetto, difese, elementi del Super-Io e gli affetti associati.>>

Altro punto problematico che Blum rileva è nella frase di Fonagy:<< E' probabile che le modalità profondamente patologiche dell'esperienza dell'altro precedano i sistemi di memoria...>> (Fonagy, 1999). Allora Blum chiede: <<Perché e in qual modo egli deduce che l'imprint di tale esperienza arcaica si collochi nella memoria procedurale? Forse egli ritiene implicito che tale esperienza infantile inalterata si rifletta e si ripeta nel successivo transfert psicoanalitico attraverso la memoria procedurale? Che cosa pensa Fonagy del significato della memoria autobiografica in Ricordare, ripetere e rielaborare (Freud, 1941a)?>>

Se è vero, inoltre, che Fonagy rimarca che la memoria procedurale resta inconoscibile finché non <<accede alla sfera dell'esperienza autobiografica>>, tuttavia non esplicita in che modo <<l'uso psicoanalitico della memoria procedurale da lui prospettato si articoli con l'analisi tradizionale del transfert>>. E ancora Blum chiede:<<Quale significato attribuisce Fonagy alle doti naturali o ai moti pulsionali? Come si articola il suo modello delle relazioni del "Sé con l'altro", e i relativi affetti, con le trasformazioni e la riorganizzazione delle successive fasi di sviluppo?>> Per Blum la posizione di Fonagy su tali questioni non è chiara. Anche la sua idea del transfert lascia perplessi: <<E' difficile immaginare la formulazione di una ricostruzione precisa sulle basi dei ricordi distorti e dei sintomi del paziente>> (Fonagy, 1999, p. 216), quando, invece, per Blum <<l'interpretazione e la ricostruzione genetiche dei conflitti inconsci e del trauma risalenti all'infanzia contribuiscono in maniera significativa all'azione terapeutica>>.

Riguardo al fattore terapeutico più rilevante, per Fonagy sarebbe costituito dalla risoluzione delle difficoltà nell'esperienza di Sé con l'altro. Blum, perciò, (si) chiede : <<Come si conduce una terapia basata su questo modello? Fonagy è in favore di interventi intersoggettivi, interpersonali, basati sul paradigma genitore-bambino?>>. E ancora per Blum Fonagy non assumerebbe una posizione esplicita rispetto alla questione della neutralità. Un altro interrogativo che si pone Blum è: <<Fonagy indica una "relazione reale" benefica nel qui e ora, oppure propone lo psicoanalista come nuovo oggetto?>> E ancora per Blum non è chiaro se Fonagy, <<nel costruire l'azione terapeutica del Sé con lo psicoanalista/altro, la realizzi per lo più attraverso l'esperienza, l'educazione o l'insight sull'inconscio infantile>>.

Blum non nasconde l'importanza euristica delle ipotesi che Fonagy formula sulla memoria procedurale e le neuroscienze. Tuttavia ipotizzare, come fa Fonagy, che i supposti patterns infantili di memoria procedurale si potrebbero considerare come fenomeni di transfert non verbale, no escluderebbe per Blum il ruolo del ricordo rimosso e della sua elaborazione fantasmatica nell'azione terapeutica della psicoanalisi.

 

                  Maitres à dispenser All'articolo di Blum ha risposto Fonagy con un editoriale in cui egli dissente soprattutto dall'idea che il miglioramento clinico sia da mettersi in relazione al recupero di ricordi, prendendo spunto da un commento ad una vignetta clinica esposta da Blum nel suo articolo. Rifacendosi anche a un lavoro di Bonanno e Kaltman del 2000 ("The assumed necessity of working through memories of traumatic experiences", in P. Duberstein & J. Masling eds., Psychodynamic perspectives on sickness and health: Empirical studies on psychoanalytic theories, A.P.A), Fonagy evidenzia i limiti concettuali di un'impostazione che attribuisce alla rimozione un posto centrale nella teoria dell'efficacia terapeutica. Anche Brenneis (2000), studiando i resoconti clinici di trattamenti analitici, ha evidenziato la non autenticità dei ricordi recuperati in terapia. Fonagy ricorda inoltre che già trent'anni fa George Klein (1970) sottolineava che il recupero del ricordo consisteva nel mutamento di significato di un'esperienza ricordata, anziché in un autentico riemergere di qualcosa ex novo.

Altra obiezione che Fonagy pone a Blum riguarda l'affermazione di quest'ultimo, a proposito della vignetta clinica, che la ricostruzione del ricordo consentì una migliore relazione tra la paziente ed il suo bambino. Qui si pone, per Fonagy, un punto di debolezza di certa teoria del trattamento analitico secondo cui la consapevolezza delle origini dei sintomi condurrebbe alla guarigione. Una simile obiezione sarebbe stata mossa alla psicoanalisi anche da Gruenbaum (1984) (il cosiddetto "Tally argument"), anche se gli psicoanalisti moderni considererebbero ingenua una tale causalità lineare. E Fonagy ribadisce: <<Non esiste alcuna prova che colleghi direttamente il manifestarsi di un miglioramento dei sintomi alla ricostruzione (o, in quanto a ciò, alla maggior parte degli altri intenti del processo della terapia psicoanalitica)>>. E quindi Fonagy si chiede se sia possibile dare un'interpretazione differente dell'esito terapeutico della vignetta clinica di Blum, <<una spiegazione psicoanalitica del miglioramento della paziente che non comporti  l'ipotesi del beneficio terapeutico della ricostruzione>> . La risposta di Fonagy è che la paziente era migliorata grazie ad una propria migliore comprensione delle <<strutture relazionali implicite che aveva messo in scena>>.

Altro punto di discussione verte intorno al tema del transfert. Fonagy afferma di richiamarsi nella propria teorizzazione sul transfert al concetto d "soluzione totale" di Joseph (1985) e concorda con Blum sull'importanza da accordare alla storia del paziente nel dare significato alla "situazione di transfert". Tuttavia, precisa Fonagy, che lo specifico "modo di essere con l'altro" che un paziente ha nel transfert <<non è affatto la prova di un rapporto storico omologo>>, in quanto la relazione oggettuale è ugualmente suscettibile di distorsioni (da parte di fantasie consce o inconsce) quanto lo è la rappresentazione oggettuale. Ne consegue un accordo di Fonagy con Blum sul fatto che <<il transfert non è una ricapitolazione letterale delle relazioni d'oggetto precoci del paziente>>  (Blum, 2003). Tuttavia, per Fonagy resta centrale la comprensione delle relazioni precoci del paziente, per la quale bisogna far ricorso alla memoria implicita più che a quella dichiarativa (Gerhardtstein et al., 2000).

Un'osservazione Fonagy  fa poi sull'affermazione di Blum che la ricostruzione di come stessero realmente le cose nell'infanzia del paziente <<contribuisce in maniera significativa all'azione terapeutica>> (Blum, 2003). Fonagy è convinto che possa risultare terapeutica la ricostruzione non in quanto tale, ma se costituisce una prospettiva 'altra'  nel cui contesto avviene la rielaborazione delle esperienze attuali. E' quest'ultima il fondamento del processo terapeutico. E' essenziale, per Fonagy, <<fornire una prospettiva o una cornice per l'interpretazione di una soggettività che sta oltre ciò cui il paziente ha immediato accesso conscio al di fuori dell'incontro psicoanalitico>>, ma l'"altra prospettiva" non necessariamente, per Fonagy, è rappresentata dalle relazioni precoci del paziente. <<Potrebbe essere l'esperienza attuale dello psicoanalista, oppure il modo in cui il paziente è vissuto dalle altre persone a lui vicine (...)>> afferma Fonagy.

Ulteriori precisazioni vengono riservate da Fonagy ai rapporti tra psicoanalisi e neuroscienze cognitive in tema di memoria. Ai tempi di Freud i ricordi erano considerati delle entità fisiche archiviate nel cervello. Oggi riteniamo che il cervello non immagazzini dei ricordi (Goldman Rakic et al., 2000; Mayes, 2000; Schacter et al., 2000; Baddeley, 2002), ma conserva tracce delle informazioni che poi utilizzerà per creare i ricordi. Quindi i ricordi vengono creati e ri-creati in continuazione. I diversi sistemi di memoria, che permettono di codificare, immagazzinare e recuperare ciò che può essere poi usato in una creazione dei ricordi, interagiscono tra di loro e hanno sedi  in strutture cerebrali differenti, anche se non c'è una corrispondenza biunivoca tra tipo di memoria e sede cerebrale. La metafora archeologica freudiana del disseppellire un'esperienza dimenticata on trova quindi sostegno alla luce delle attuali conoscenze sul funzionamento della memoria. Per Fonagy, nulla autorizza quindi a ritenere che <<il ricordare, anziché i pensieri e i sentimenti conseguenti alla costruzione del ricordo, procuri una maggiore pace interiore e una migliore capacità di lavorare, amare e giocare>>.

In più, Fonagy cita altri articoli apparsi sull'IJP che egli ritiene siano in sintonia con le ricerche contemporanee sulla memoria . In particolare, egli cita un articolo di Davis del 2001("Revising psychoanalytic interpretations of the past: An examination of declarative and non declarative memory processes", Int.J.Psychoanalysis, 82), in cui veniva focalizzato il ruolo della memoria non dichiarativa nel riportare dall'infanzia esperienze relazionali che potrebbero influire sul presente. Pugh ("Freud's problem", Int.J.Psychoanalysis, 2002) in un altro articolo sul Journal ha concettualizzato la teoria degli 'oggetti memoria', basata sulla distinzione tra sistemi di memoria implicita ed esplicita. Per Talvitie e Ihanus ("The repressed and implicit knowledge", Int.J.Psychoanalysis, 83, 2002) i contenuti che sono stati sottoposti alla rimozione sarebbero da mettersi in relazione alla memoria implicita non dichiarativa che, secondo loro, non potrebbe accedere alla coscienza, per cui parlare di 'portare alla coscienza l'inconscio (rimosso)' risulterebbe una contraddizione. Fonagy scrive, riferendosi a questo articolo: <<Essi suggeriscono, esattamente sulle stesse linee del mio editoriale, che il divenire conscio del rimosso potrebbe essere inteso come la creazione di strutture di conoscenza esplicita degli effetti delle rappresentazioni interne implicite>>. Spielman (citato in Lechevalier, "Neuroscience and psychoanalysis", Int. J.Psychoanalysis, 83, 2002) ha presentato un modello,  basato sulla teoria dell'attaccamento e sulla fisica quantistica, capace di spiegare come le rappresentazioni delle organizzazioni patologiche passate possano influenzare il materiale analitico attuale.

In conclusione, Fonagy ritiene che le posizioni teoriche di Blum riflettano le teorie psicoanalitiche degli inizi e non si integrino con le attuali conoscenze sulla memoria e sul processo clinico della psicoanalisi.

 

Harold Blum ha quindi scritto una controreplica a Peter Fonagy. Blum apprezza il fatto che Fonagy, nella sua replica, abbia chiarito la propria posizione riguardo al transfert. <<Il transfert definito da Fonagy>> scrive Blum <<come situazione totale sembra racchiudere aspetti del reale e nuove relazioni psicoanalitiche>>. Blum è d'accordo con Fonagy che il transfert non sia una ricapitolazione letterale del passato, che abbia dimensioni di difesa e di resistenza, che <<sia un importante ma non esclusivo punto focale del lavoro psicoanalitico>>. E' d'accordo sull'importanza di ciò che si manifesta nel transfert e nelle libere associazioni, ma è altrettanto importante ciò che in essi è assente. Blum conviene con Fonagy sul rischio che qualsiasi paziente o analista possa opporsi alle interpretazioni sul presente concentrandosi sul passato, e viceversa. Ma Blum passa poi a elencare i punti di divergenza che riguardano la rimozione, la memoria, il ruolo dell'interpretazione e della ricostruzione, nonché l'analisi del transfert. Per Blum, Fonagy sminuirebbe il valore della prospettiva genetica ed evolutiva nella psicoanalisi, dando priorità, in quanto ad efficacia terapeutica, all'esperienza di <<un modo di essere con l'altro>>. Per Blum, invece, mantengono la loro priorità l'interpretazione, l'insight e la rielaborazione. Blum precisa, poi, che non ha mai sostenuto che il recupero del ricordo sia in rapporto diretto con il miglioramento sintomatico. <<Si tratta di un obiettivo intermedio>> afferma Blum <<della psicoanalisi, ora largamente sostituito dall'interpretazione genetica, dalla ricostruzione e dal processo di rielaborazione>>. Inoltre, anche se i ricordi possono essere 'falsati' dalle fantasie, essi non sono in genere inventati di sana pianta, secondo Blum, ma conservare una loro significatività per l'analisi. Blum passa quindi a discutere le osservazioni di Fonagy sulla vignetta clinica, su cui per motivi di spazio qui non ci possiamo soffermare. Per Blum, Fonagy non chiarisce a sufficienza la propria posizione rispetto alle parole ed alle immagini della memoria dichiarativa autobiografica. <<Sebbene egli riconosca l'importanza della storia della vita del paziente>> afferma Blum a proposito di Fonagy <<la sua teoria della tecnica è talmente radicata nel rapporto presente da relegare la storia all'orizzonte estremo>>. Secondo Blum,  Fonagy paradossalmente ritiene che i ricordi della memoria procedurale acquisiti nella primissima infanzia possano essere recuperati nell'adulto attraverso il transfert. Ma, chiede Blum:<<Questi ricordi procedurali rimangono relativamente inalterati o si trasformano nelle fasi di sviluppo successive? Inoltre le procedure non-consce e le fantasie inconsce sono concetti derivanti rispettivamente da impalcature teoriche in qualche modo diverse. Il "non-conscio" di Fonagy elude l'inconscio?>> Per Blum, il processo primario che si manifesta nel sogno e nei sintomi non può essere ascritto alla memoria procedurale. Per Blum, nonostante i grandi progressi nelle basi neuroscientifiche della memoria, resta da stabilire in che modo memoria procedurale, memoria dichiarativa ed altri sistemi di memoria siano collegati all'inconscio dinamico.

 

Glen O. Gabbard e Drew Westen in "Ripensare l'azione terapeutica" cercano di integrare gli sviluppi all'interno ed all'esterno della psicoanalisi al fine di fornire un modello di funzionamento dei processi sfaccettati coinvolti nella produzione del cambiamento in psicoanalisi ed in psicoterapia psicoanalitica. In sintesi, elencheremo alcuni punti su cui si soffermano gli autori nell'offrire una panoramica dei recenti sviluppi nelle teorie psicoanalitiche dell'azione terapeutica.

  Foto: Glen O. Gabbard       Foto: Drew Westen

 

Evoluzione dei concetti dell'azione terapeutica.

Loewald ("On the therapeutic action of psychoanalysis", Papers on psychoanalysis ) nel 1960 affermava che il processo di cambiamento è <<azionato non solo dalle capacità tecniche dell'analista ma dal fatto che l'analista stesso si rende disponibile allo sviluppo di una nuova "relazione d'oggetto" tra il paziente e l'analista (...)>>. Gli autori quindi si soffermano su tre temi che attraversano le attuali discussioni in campo psicoanalitico: a) la debolezza del dibattito <<interpretazione contro relazione>> e la consapevolezza della molteplicità delle modalità di azione terapeutica; b) lo spostamento dell'interesse dalla ricostruzione alle interazioni qui-e-ora tra analista e paziente; c) l'importanza della negoziazione dell'atmosfera terapeutica. Riguardo al punto a) i risultati del "Menninger Psychotherapy Research Project" (Wallerstein R., "Forty-two lives in treatment", New York:Guilford, 1986) mostrarono che tanto le strategie di supporto quanto gli approcci interpretativi producevano in egual misura durevoli cambiamenti strutturali nei 42 pazienti reclutati. Wallerstein, perciò, affermava che gli aspetti interpretativi e quelli di sostegno sono sempre intrecciati tra di loro. Una successiva analisi dei dati del Menninger Project condotta da Blatt ("The differential effect of psychotherapy and psychoanalysis with anaclitic and introjective patients: The Menninger Psychotherapy Research Project revisited", J. Am. Psychoanal. Assoc., 40, 1992) mostrò che la suddivisione dei pazienti in "introiettivi" ed in "anaclitici" prediceva la risposta più favorevole, rispettivamente, ai trattamenti basati sull'interpretazione piuttosto che sul supporto. Oggi, in generale, si riconosce che in ogni trattamento interpretazione e supporto agiscono in maniera sinergica, con una maggiore enfasi ora su l'uno ora sull'altro aspetto. I coniugi Sandler hanno perciò rivisitato in una chiave più moderna la posizione di Strachey sugli elementi non interpretativi del cambiamento:

  Foto: J. Sandler    Foto: A.-M. Sandler

<<L'analista deve fornire, mediante le proprie interpretazioni e la maniera in cui vengono esposte, un'atmosfera di tolleranza dell'infantile, del perverso e del ridicolo, un'atmosfera in cui il paziente possa far parte delle proprie attitudini verso se stesso, che le possa interiorizzare unitamente alla comprensione raggiunta grazie al lavoro svolto di concerto con l'analista>> ("The 'second censorship', the 'three box model', and some technical implications", Int. J. Psychoanal., 64, 1983).

Riguardo al punto b), concernente lo spostamento dell'enfasi dalla ricostruzione all'interazione nell'hic et nunc, gli autori affermano che oggi <<la nostra attenzione è piuttosto concentrata sul modo in cui l'interazione qui-e-ora tra analista e paziente fornisca un'introspezione nell'influenza che il passato del paziente esercita sugli aspetti delle relazioni dell'oggetto e conflittuali del presente>>. Gli autori in particolare sostengono l'importanza della capacità da parte del terapeuta di aiutare il paziente a raggiungere la consapevolezza dei propri modelli inconsci  espressi con il comportamento non verbale (cfr. Wachtel, "Psychoanalysis, behavior therapy, and the relational world", A.P.A., 1997). Fonagy e Target ("Playing with reality, I: Theory of mind and the normal development of psychic reality",  Int. J. Psychoanal., 77, 1996) definiscono ciò come incremento della capacità di mentalizzazione o della funzione riflessiva.

Foto: Peter Fonagy

Altro concetto su cui si soffermano gli autori è quello di "conoscenza relazionale implicita", introdotto da Lyons-Ruth ("Implicit relational knowing: Its role in development and psychoanalytic treatment", Infant Mental Health J., 19, 1998). I cambiamenti della conoscenza relazionale implicita possono avvenire in "momenti di incontro" tra paziente ed analista <<che non sono né simbolicamente/verbalmente/consciamente rappresentati né dinamicamente inconsci in senso ordinario>>. Inoltre, Jones ("Modes of therapeutic interaction", Int. J. Psychoanal., 78, 1997; Therapetic action, Jason Aronson, 2000) ha introdotto un modello che integra gli interventi interpretativi con le dinamiche interattive, definito "struttura d'interazione ripetitiva".

Riguardo al punto c), quello della negoziazione del clima terapeutico, Greenberg ("Psychoanalytic technique and the interactive matrix", Psychoanal. Q., 64, 1995) ha parlato di "matrice interattiva" ed ha sostenuto che <<la cornice stessa e i 'ruoli' variano a seconda dlla specifica natura soggettiva dell'analista e del paziente>>. Per Mitchell  (Influence and autonomy in psychoanalysis,  Analytic Press, 1997) negoziazione e mutuo adattamento sono centrali: <<Non siste una tecnica o una soluzione generale, poiché ciascuna risoluzione, per sua stessa natura, deve essere adattata al soggetto. Se il paziente sente che l'analista sta applicando una tecnica o mostra un'attitudine o una posizione generica, l'analisi probabilmente non otterrà risultati>> (Mitchell, 1997, p. 58).

In definitiva, per Gabbard e Westen <<non esiste più un'opinione generale diffusa su cosa funziona in psicoanalisi e perché>>. E da ciò discende un richiamo ad una maggiore umiltà ed a una maggiore tolleranza dell'incertezza, sia nella letteratura specializzata che nella prassi terapeutica. Gli autori, nella seconda parte dell'articolo, vengono ad esaminare le questioni connesse con l'azione terapeutica sotto la duplice lente di ingrandimento di "cosa cambia" (gli scopi della terapia) e di "quali strategie" siano più adatte a facilitare questi cambiamenti.

 

COSA CAMBIA NELLA PSICOANALISI?

L'acquisizione da parte delle neuroscienze cognitive dell'esistenza di due sistemi di memoria, quello della memoria implicita e quello della memoria esplicita, ha radicalmente mutato, secondo Gabbard e Westen, il modo con cui vedere gli scopi della terapia psicoanalitica. Gli autori ne individuano due basilari: 1) modificare le reti associative inconsce, ed in particolare a) quelle che determinano reazioni emotive problematiche, b) quelle che scatenano strategie difensive problematiche, e c) quelle che evidenziano le disfunzioni dei modelli interpersonali; 2) modificare i modelli consci di pensiero, sentimento, motivazione e regolazione affettiva. Ricorrendo anche al richiamo dei modelli connessionistici delle neuroscienze cognitive (Westen & Gabbard, "Developments in cognitive neuroscience, 1: Conflict, compromise, and connectionism", J. Am. Psychoanal. Assoc., 50, 2002), gli autori affermano che <<una terapia che si risolve in un cambiamento strutturale non annulla o sostituisce completamente le vecchie reti, cosa neurologcamente impossibile da eseguire in determinate condizioni. Piuttosto, un cambiamento duraturo richiede una relativa disattivazione dei collegamenti problematici nelle reti attive e l'aumento delle attivazioni di nuove, più adattive connessioni, in modo che il paziente tenderà a trovare nuove, più adattive soluzioni di compromesso>>. Per gli autori il cambiamento strutturale è una questione di grado che dipende da diversi fattori: dalla durata dei cambiamenti delle reti associative nonostante la forza delle circostanze della vita che possono imporre vecchie soluzioni di compromesso; dal grado di penetrazione e di impatto dei cambiamenti delle reti associative nei precedenti modelli disfunzionali; dalla capacità di autoriflessione conscia. Riguardo alla modificazione dei modelli consci di pensiero, sentimento, motivazione e regolazione affettiva, Westen e Gabbard affermano che in passato si privilegiavano i cambiamenti nella sfera dei processi inconsci (si veda il già citato Wachtel, 1997) e che c'è una base nelle neuroscienze cognitive per considerare privi di efficacia a lungo termine quelle terapie (cognitive) che si focalizzano principalmente sui pensieri ed i sentimenti consci. Infatti, Westen e Morrison ("A multidimensional meta-analysis of treatments for depression, panic, and generalized anxiety disorder: An empirical examination of the status of empirically supported therapies", J. Consult. and Clin. Psychol., 69, 2001) ipotizzano che, poiché i sistemi di memoria implicita sono psicologicamente e neurologicamente differenti da quelli di memoria esplicita, <<trattare solo quei processi che raggiungono l'attenzione conscia significa lasciare intatte molte importanti reti associative>>. Tuttavia, per Gabbard e Westen la relativa mancanza di attenzione ai processi consci sia nella letteratura che nella pratica psicoanalitica è paradossale, data l'"implicita" importanza data da Freud alla coscienza nella sua affermazione sul rendere conscio l'inconscio.

Vengono a questo riguardo enunciati degli obbiettivi dell'azione terapeutica: focalizzare quei pensieri consci che possono amplificare sentimenti in modo da consentire al paziente di intraprendere o evitare azioni che influiscono in modo preponderante sulla propria vita, centrare l'attenzione sugli stati di affetto consci per modificare l'intensità o la coesistenza di sentimenti contraddittori, incidere sulle strategie consce (coping ) che il paziente mette in atto per regolare i propri affetti.

 

TECNICA: STRATEGIE PER INCORAGGIARE IL CAMBIAMENTO TERAPEUTICO.

In questa sezione dell'articolo gli autori passano in dettaglio ad un'analisi delle strategie tecniche che possono servire per ottenere il cambiamento terapeutico. Gli autori focalizzano l'attenzione su tre gruppi di intervento: quelli miranti ad incoraggiare l'introspezione, quelli che partono dagli aspetti della relazione terapeutica, e infine le "strategie secondarie" , tra cui  l'esposizione e l'auto-apertura. I primi due sono essenziali nella psicoanalisi vera e propria mentre le strategie secondarie sono più chiaramente riferibili alle psicoterapie, anche se, affermano gli autori, <<nessuno potrebbe considerarle esclusivamente di pertinenza dell'una o dell'altra>>. Per motivi di spazio qui non possiamo passare in rassegna questa parte dell'articolo, a cui rimandiamo per una lettura integrale, e passiamo alle conclusioni.

Sinteticamente, le affermazioni conclusive degli autori sono le seguenti. Primo, non esiste un unico percorso, o obiettivo, del cambiamento terapeutico. Con umiltà gli autori ammettono che molti meccanismi che possono incoraggiare il cambiamento ancora attendono di essere compresi. Secondo, alcuni principi di cambiamento e tecniche per incoraggiarlo sono utili per certi pazienti, ma non per tutti. <<Se stiamo per esporre la nostra teoria di azione terapeutica e le nostre tecniche di cambiamento, avremo bisogno di sviluppare modelli di base dei domini del funzionamento che costituiscono la personalità in maniera più sistematica, clinica ed empirica (ad esempio, motivazione, cognizione, affetto, regolazione dell'affetto, relazioni d'oggetto) e le modalità di procedere in ciascuno di questi domini possono andare storte>> (Westen, 1998). Terzo, <<la varietà di scopi della terapia e delle strategie di intervento (...) interagiscono con modalità complesse e sembrano diventare più chiare se noi le distinguiamo con maggiore attenzione evitando le teorie della singola causa dell'azione terapeutica>>. Quarto, <<niente garantisce che i vari scopi della terapia e le tecniche che facilitano il cambiamento terapeutico presentate qui siano prive di elementi in conflitto o avversi ai propositi prefissati, nella stessa misura in cui possiamo attenderci che le motivazioni delle persone siano libere da conflitti>>. Infine, un auspicio viene espresso dagli autori: che con le nuove tecniche di misurazione di quanto accade nelle ore di terapia** nonché di valutazione della struttura della personalità*** si possa scoprire e misurare <<cosa stanno facendo gli specialisti, quali cambiamenti e quali metodi di lavoro sono associati ai risultati migliori>>. 

 

Otto F. Kernberg nel suo articolo "Violenza socialmente accettata: un punto di vista psicoanalitico", uscito in due parti distinte sull'IJP, intende rendere sistematica l'applicazione della teoria psicoanalitica dei processi gruppali alle esplosioni di violenza di massa.

  Foto: Otto Kernberg

L'ideazione di questo lavoro da parte dello psicoanalista americano ha preceduto l'11 settembre 2001, ma questa data ha certamente rinnovato l'urgenza del compito che egli si era prefissato. Un primo paragrafo è dedicato alle psicodinamiche della psicologia di gruppo e della psicologia di massa, con un esame particolareggiato dei contributi di Bion, di Turquet e di Anzieu . In un suo precedente lavoro (Kernberg O.F.,  "Mass psychology through the analytic lens", in The spectrum of psychoanalysis. Essays in honor of Martin Bergmann, ed. A. K. Richards, Int. Univ. Press, 1994) l'autore aveva ipotizzato che il gruppo allargato non strutturato impedisce che vengano agite le comuni relazioni di status e di ruolo, in modo che vengono disattivate le relazioni oggettuali con figure genitoriali che si erano costruite durante la storia personale dell'individuo. Parallelamente, nascono delle relazioni che non è possibile gestire con l'ausilio degli ordinari meccanismi di difesa primitivi (identificazione proiettiva, controllo onnipotente, negazione e scissione), e si creano delle condizioni nelle relazioni interpersonali che impediscono all'individuo di ottenere conferme della percezione di sé dagli altri  significativi, tutto ciò riproponendo  quelle condizioni  primitive dell'organizzazione psicologica individuale, che precedono la costanza dell'oggetto e il raggiungimento di un'identità integrata. Il vissuto di impotenza che ne deriva finisce per rinforzare paure e vissuti aggressivi primitivi, e induce una regressione ai patterns strutturali più arcaici (schizo-paranoidi) dello sviluppo.

Kernberg inoltre richiama il concetto di Freud (apparso in Psicologia delle masse ed analisi dell'Io, 1921) di proiezione dell'Io ideale sulla figura del leader, nozione ripresa da Moscovici (L'age des foules, Fayard, 1981) ed adattata alle attuali società di massa influenzate dai mass-media. In un precedente lavoro ("Le relazioni nei gruppi. Ideologia, conflitto, leadership", Cortina, 1999) Kernberg aveva ipotizzato che il conformismo riflette la proiezione da parte dell'individuo sull'intero gruppo sociale dello strato di super-Io infantile corrispondente alla fase di latenza, piuttosto che della totale struttura del super-Io infantile (Jacobson E., "The self and the object world", Int. Univ. Press, 1964). Per Kernberg <<i mezzi di comunicazione di massa attivano questo aspetto di "latenza" della psicologia di massa che viene probabilmente rispecchiato al meglio dalle soap opera, dai gialli, dal ricorso ai cliché del sentimentalismo  e dalla pubblicità mirata alla gratificazione dei bisogni narcisistici>>. Ma i mass media possono anche facilitare la regressione paranoide del gruppo allargato e dell'assunto attacc-fuga del piccolo gruppo, intensificando e promuovendo l'immagine di una netta divisione tra bene e male.

I mass-media presentano l'immagine di un mondo in cui un gruppo viene definito come minaccioso, sadico, vendicativo, in contrapposizione ad un gruppo di individui buoni, desiderabili, illuminati, superiori. Per Kernberg <<qui la psicologia di massa originariamente descritta da Freud compie uno sviluppo completo, persino in assenza di un leader paranoide riconosciuto>>.

Ne deriva l'interesse per il tema della spinta regressiva delle ideologia che l'autore tratta nel successivo paragrafo. Le ideologie paranoidi,  quali quelle dei sistemi politici totalitari ad esempio, finiscono per determinare una totale identificazione dell'individuo con il sistema. Anche nei paesi democratici, l'adesione di gruppi di individui  ad un estremo dello spettro di una data ideologia è determinata sia da fattori sociali ma anche da determinanti psicopatologiche. Lo studio di Adorno (1950) sulla personalità autoritaria andrebbe rivisto alla luce delle attuali conoscenze sui disturbi della personalità, tuttavia l'immaturità e la rigidità di funzionamento del Super-Io favoriscono l'accettazione di ideologie paranoidi, narcisistiche o regressive. In tema di relazioni tra strutture personologiche e dinamiche gruppali regressive, il terzo paragrafo dell'articolo di Kernberg si occupa delle caratteristiche della personalità della leadership politica e sociale. Il paradosso della leadership, per l'autore, consiste nel fatto che tratti paranoidi e narcisistici, che sono indispensabili per un leader, se raggiungono livelli patologici ed esasperati, diventano capaci di favorire la regressione di massa paranoide e narcisistica.

Un altro fattore predisponente alla violenza socialmente accettata consiste per Kernberg nel trauma storico e nelle crisi sociali a cui è dedicato l'ultimo paragrafo della prima parte dell'articolo. <<Un grande sconvolgimento politico>> scrive l'autore <<una guerra persa, una rivalità di lunga durata con un altro gruppo sociale sono da includere tra i primi miti culturali insiti nella storia e nelle origini di una famiglia e di un gruppo sociale. I gruppi "altri" diventano oggetto dei primi meccanismi di scissione, di regressioni narcisistiche e paranoidi e di difesa>>. Volkan ("The need to have enemies and allies: From clinical practice to international relationships", Jason Aronson, 1988) ha affermato che tale eredità storica condivisa finisce per far parte integrante  dell'equilibrio narcisistico dell'individuo. Quando il trauma storico finisce per tradursi  ideologie che predicano la separatezza tra sottogruppi sociali (come nella pulizia etnica), specie se una ideologia ha prodotto la disumanizzazione di un gruppo, una leadership di tipo narcisistico 'maligno' o paranoide può condurre ad uno scatenamento senza limiti della violenza sociale.

Foto: il lager di Dachau nel 1945

La seconda parte dell'articolo tratta della psicologia del terrorismo e della trasformazione di un'ideologia fondamentalista in una sottocultura terrorista.

Riguardo alle caratteristiche psicologiche connesse al terrorismo, Kernberg, innanzitutto, invita a distinguere il terrorismo in quanto fenomeno sociale dalle ideologie fondamentaliste, seppure quest'ultime possano costituire la base più comune delle azioni terroristiche. Inoltre il terrorismo, secondo l'autore, va anche differenziato dai gruppi 'regressivi' esaminati in precedenza che esercitano comportamenti sadici e brutali contro sottogruppi minoritari, sulla base di un'ideologia giustificatica del gruppo dominante. Il terrorismo, citando testualmente Kernberg, <<è un tipo di violenza socialmente diretta contro il gruppo sociale circostante, perpetrata da individui e gruppi che vivono in relativa solitudine, segretezza e sfida, uniti da un'ideologia fondamentalista>>. La letteratura sulle caratteristiche psicologiche di personalità dei terroristi citano gravi traumi infantili, un sentimento di inferiorità o di abbandono vissuto durante l'infanzia, compensato successivamente in termini in sentimenti di auto-affermazione aggressiva o di vendetta sadica (Post, "The mind of the terrorist", Presentation to the Association for Psychoanalytic Medicine, 30 october 2001; Volkan (2001), "From Waco to the Bomian valley: Violence and the psychology of religious fundamentalism", manoscritto non pubblicato; Volkan (2001), "September 11, 2001: From the Bomian Valley to the Twin Towers and Pentagon", man.non pubblicato). Nel paragrafo su "Predisposizioni culturali alle ideologie fondamentaliste", Kernberg fa una disamina della letteratura psicoanalitica al riguardo, affermando, e concordando con Green ("Sexualité et idéologie chez Marx et Freud", Etudes Freudiennes, 1969), che i sistemi fondamentalisti <<si armonizzano con un rigido, primitivo super-Io o Io ideale che accetta le proibizioni edipiche, ma non ha incorporato l'identificazione sublimata con il "generoso" e procreativo padre edipico>>. In un ulteriore paragrafo, dal titolo "Origini e contenimento del terrorismo", l'autore ammette che mentre la psicologia degli individui coinvolti nel terrorismo (anche le vittime) è suscettibile di un'indagine psicoanalitica, l'analisi delle cause del terrorismo, nonché la sua prevenzione e gestione, implicano un approccio più globale (sociale, politico, culturale, economico, storico) in cui quello psicoanalitco riveste un ruolo limitato. Infine, un ultimo paragrafo riguarda "L'impatto del terrorismo sulle vittime", e qui l'approccio psicoanalitico può certamente dire la sua. Per prima cosa, una domanda sorge spontanea in chi fa parte del gruppo sociale preso di mira: <<Perché ci odiano tanto?>>. Dice Kernberg che questa domanda riflette lo shock di un gruppo che non è regredito, ma che vive in un <<ambiente psicologico ordinario quando è costretta a confrontarsi improvvisamente, con le manifestazioni più violente e primitive dell'aggressività umana>>. Il gruppo delle vittime rischia di prendere così sul serio le dichiarazioni propagandistiche del gruppo terrorista, potendo a sua volta regredire ad una posizione masochistica che trova il suo punto di partenza in una identificazione coll'aggressore, sollecitando la domanda:<<Cosa abbiamo fatto di sbagliato?>>. Il rischio è la auto-colpevolizzazione e la ricerca all'interno del gruppo delle cause dell'aggressione: la sindrome di Stoccolma. Una terza domanda deriva dalle prime due:<<Si può fare qualcosa che possa cambiare un così profondo e diffuso sentimento di odio?>>. Qui, dice Kernberg, <<è utile la comprensione delle immediate conseguenze della regressione di gruppo e della psicologia di massa>>. Ed allora si può verificare una regressione alla psicologia della massa violenta che finisce per ridurre le possibilità di conciliazione con le forze politiche e sociali che sono correlate con ma sono diverse da quelle terroristiche (Volkan, 1988, op.cit.; Huntington, "The clash of civilizations and the remaking of world order", Touchstone, 1996). Il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa diventa centrale nell'innescare questa regressione di massa, in quanto <<sono in grado di generare una rapida regressione nella psicologia di grandi gruppi in spettatori o ascoltatori che assorbono le informazioni in un contesto di individui che ricevono simultaneamente le informazioni trasmesse ad una massa di grandi dimensioni>>.

Da un punto di vista psicoanalitico, inoltre, ci si può chiedere: <<quali sono le possibilità per un terrorista di sfuggire al sistema di cui fa parte e di ritornare ad una condizione di normalità che risolva la regressione personale, l'aggressività scissa e la sottomissione personale ad un'ideologia fondamentalista?>> Ciò dipende dalle strutture psicopatologiche sottostanti alla personalità del terrorista, e , secondo Kernberg, <<la relativa conservazione di una capacità ordinaria di identificazione ed empatia umana coi valori etici può consentire ad alcuni terroristi di abbandonare il loro sistema nel momento in cui raggiungono la consapevolezza del sadismo, della crudeltà, dell'irrazionalità e della inumanità del loro agire>>. Ci sono esempi di storie personali di ex-terroristi (Menachem Begin in Israele, Joska Fischer in Germania) che fanno ben sperare in tal senso.

 

Thomas Ogden nel suo articolo "Sull'incapacità di sognare" esplora da tre differenti punti di vista tale fenomeno (in contrapposizione all'incapacità di ricordare i propri sogni). In primis, egli discutel'idea di Bion che l'attività onirica crei la mente conscia e quella inconscia (e non viceversa). Chi non sa sognare non riesce a generare un'esperienza cosciente e un'esperienza inconscia tra loro distinguibili, vivendo pertanto in uno stato psichico nel quale non sa distinguere la veglia dal sonno, il sognare dal percepire. Successivamente, l'autore affronta il problema dell'incapacità di sognare dalla prospettiva ricavata da un'opera letteraria, un racconto di Borges. Infine, il terzo punto di vista è quello di un particolareggiato resoconto di un'esperienza clinica: egli descrive uno stato iniziale caratterizzato dalla 'proliferazione', nella paziente, di 'rumori psichici' inutilizzabili che, in un periodo di anni, indussero nell'analista la 'deprivazione della reverie' e brevi periodi di 'psicosi da controtransfert'. Ogden quindi presenta e discute due sedute analitiche in cui il lavoro psicologico contribuì ad accrescere, nell'analizzanda e nell'analista, la capacità di sognare sia nello stato di sonno sia in quello della reverie analitica.

 

Maria F. Pozzi nel suo articolo "L'uso dell'osservazione nel trattamento psicoanalitico di un ragazzo di 12 anni con sindrome d'Asperger" descrive, per prima cosa, lo sviluppo emotivo e cognitivo del paziente, rallentato sin dall'infanzia. Egli non era consapevole di avere delle difficoltà, andava male a scuola, era socialmente isolato e spesso infelice. Secondo l'autrice, il diniego, la scissione e la proiezione delle emozioni e dell'insight rendevano difficile per il terapeuta il poter raggiungere il paziente. Per poter comunicare emotivamente con lui la terapeuta ha creato una tecnica modificata che rifletteva lo stato evolutivo in atto del paziente. La terapia ha consentito al paziente di passare dall'intrattenere relazioni solo con oggetti parziali al giungere a relazioni con oggetti interi. Un resoconto dei primi anni è stato accoppiato ad un commento dettagliato di quanto la terapeuta ha osservato ed ha intuito nel corso delle sedute, così come anche di ciò che ella ha potuto comprendere a partire dal proprio controtransfert. Dopo due anni di trattamento la sensibilità e la creatività del paziente - che erano rimaste <<seppellite sotto un incapsulamento di autosufficienza di tipo autistico>> - sono iniziate ad emergere nelle sue comunicazioni con la terapeuta. 

 

Danielle Quinodoz nel suo articolo "Parole che toccano" esamina il proprio uso del linguaggio da psicoanalista e si interroga sul modo migliore di aiutare gli analizzandi a trovare le parole per esprimere non solo ciò che pensano ma anche ciò che sentono e provano. Secondo l'autrice, ognuno di noi utilizza contemporaneamente meccanismi psichici avanzati, aperti al simbolismo, ed altri più arcaici. Ella distingue tra coloro che sono in grado di tollerare la percezione della propria eterogeneità, pur essendo talora fonte di sofferenza, e quanti sono da lei definiti "pazienti eterogenei". Questi ultimi, la cui mancanza di coesione interna causa in loro ansia, temono di perdere il proprio senso di identità. L'autrice si chiede come possiamo comprendere il loro linguaggio e come si debba parlare con loro. L'autrice utilizza diversi esempi clinici per dimostrare che i "pazienti eterogenei" hanno bisogno di essere toccati da un linguaggio che non si limiti a comunicare pensieri verbalmente ma che veicoli i sentimenti e le sensazioni che accompagnano quei sentimenti. Si tratta di un linguaggio "incarnato" perché le parole pronunciate dall'analista possono destare o risvegliare fantasie corporee nel paziente. Queste parole possono metterlo in condizione di trovare un significato emotivo in esperienze sensoriali o corporee dimenticate che, a loro volta, possono diventare un punto di partenza per il suo lavoro di pensiero e di simbolizzazione.

 

 
Andrea Sabbadini nel suo articolo "<<Perché noi siamo anche quello che abbiamo perduto...>>. Fantasie di salvataggio nel film Amores perros" dà una lettura psicoanalitica del film messicano del 2000, vincitore di molti premi internazionali, diretto da Alejandro Gonzales Inarritu e scritto da Guillermo Arriaga Jordan. Il film inizia con un travolgente incidente automobilistico che fa improvvisamente incrociare in modo indissolubile i personaggi della storia. Diversi sono i temi su cui una lettura psicoanalitica potrebbe soffermarsi, ma l'autore sceglie di concentrarsi sulle fantasie di salvataggio che emergono dal film. Per un dettagliato svolgimento del tema, si rimanda alla lettura integrale dell'articolo di Sabbadini.

 

Barbara Shapiro nel suo "Costruire ponti tra il corpo e la mente: L'analisi di un'adolescente con dolore cronico paralizzante" descrive la valutazione, la psicoterapia iniziale e la successiva psicoanalisi di una adolescente che presentava un grave disturbo psicosomatico, implicante sofferenza fisica totale e profonda stanchezza. Il disturbo psicosomatico era costituito da diversi elementi intessuti tra di loro, quali somatizzazione, conversione, conflitti relativi all'aggressività, alla sessualità e all'identità, masochismo, vantaggi secondari, depressione anaclitica, interazioni interiorizzate Sé-altro con una madre depressa e trasmissione transgenerazionale del trauma. L'autrice utilizza il materiale del caso per discutere gli approcci tecnici ai problemi che spesso insorgono durante il trattamento psicoanalitico di pazienti che presentano quale principale disturbo una complicazione di sofferenza fisica e stanchezza croniche. Tali approcci richiedono il rispetto della scissione tra mente e corpo come difesa principale: parlare il linguaggio del corpo assieme al linguaggio della mente e sviluppare la sfera verbale attorno ai sintomi non verbali. L'autrice rileva che i complessi problemi della sofferenza fisica cronica sono comuni e si possono curare con la psicoanalisi a condizione che siano capite e rispecchiate nell'approccio tecnico le loro peculiari e complesse caratteristiche.

 

Infine, nell'ultimo articolo dal titolo "Analisi del transfert: una prospettiva nordamericana", Henry F. Smith , utilizzando vignette cliniche particolareggiate, illustra e mette a confronto numerosi modi di affrontare l'analisi del transfert nel mondo nordamericano, facendoli risalire all'opera di Freud e a varie teorizzazioni postfreudiane, tra cui gli scritti di Anna Freud e di Charles Brenner. Egli dedica particolare attenzione al lavoro di Merton Gill, di Evelyn Schwaber, di Paul Gray e a quello della psicoanalista inglese Betty Joseph. Egli inoltre discute e illustra le controversie sulle teorie del transfert, sull'interpretazione dell'azione nel setting analitico, sulle interpretazioni del transfert precoci e tardive, con particolare attenzione al contrasto tra le prospettive kleiniane contemporanee e quelle della psicologia dell'Io, al ruolo dell'interpretazione extratransferale e al concetto di nevrosi di transfert. L'autore sostiene un approccio integrato, enfatizzando diversi elementi che dipendono dalle circostanze cliniche e dall'emergenza affettiva del paziente, che può o non può coincidere con l'emergenza affettiva dell'analista.

 

 

 

 

 

 

Note:

* L'autrice d'ora in poi utilizzerà il termine après-coup nell'accezione del terzo significato del termine freudiano Nachtraeglichkeit .

** La bibliografia riportata dagli autori è la seguente:

Jones E.E.,  Pulos S., (1993), Comparing the process in psychodynamic and cognitive-behavioral therapies, J. Consult. Clin. Psychol., 61: 306-16.

Ablon J.S., Jones E.E. (1998), How expert clinicians' prototypes of an ideal tretment correlate with outcome in psychodynamic and cognitive-behavioral therapy, Psychother. Res., 8: 71-83.

*** Westen D., Shedler J. (1999), Revising and assessing Axis II, Part I: Developing a clinically and empirically valid assessment method, Am. J. Psychiat., 156:258-72.

Westen D., Shelder J. (1999), Revising and assessing Axis II, Part II: Toward an empirically based and clinically useful classification of personality disorders, Am. J. Psychiat., 156: 273-85.