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 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

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    "ARTE CINESE CONTEMPORANEA SOTTO DENG XIAOPING"

     

di Emmanuel Lincot

  Foto: l'ingresso della mostra "Cina Cina" a Palazzo Strozzi a Firenze (conclusasi il 4 maggio 2008) con l'installazione di Wang Yu Yang dal titolo "Artificial Moon" (2007)..

  Negli ultimi mesi in Italia si sono succedute importanti mostre riguardanti l'arte contemporanea cinese. Ricordiamo in particolare quella tenutasi a Palazzo delle Esposizioni a Roma e quella di Firenze (Palazzo Strozzi), conclusasi il 4 maggio 2008. Certamente queste mostre riflettono non solo l'interesse per i movimenti culturali che si sono sviluppati negli ultimi anni in Cina, ma anche il modo con cui questi ci rimandano un'immagine della vita sociale e politica della Cina contemporanea che sia quanto più possibile filtrata dagli occhi dell'artista, al di là delle imposizioni e delle censure del regime politico vigente. In particolare, la mostra fiorentina ha mostrato per la prima volta in Italia le immagini di esposizioni 'off' tenutesi a Shanghai negli ultimi anni, illustrando per ognuna di esse anche i motivi addotti dalle autorità politiche per boicottarle o vietarle in un modo o nell'altro.

Proponiamo in questa pagina ai lettori di "Frenis Zero" un articolo di Emmanuel Lincot uscito quest'anno sulla rivista "China perspectives" ed intitolato "Arte cinese contemporanea sotto Deng Xiaoping". La lettura di questo saggio può costituire una buona occasione per riflettere sugli sviluppi attuali dell'arte contemporanea in Cina partendo da un periodo storico circoscritto, ma ancora vicino agli ultimi anni, in uno sforzo costante, enunciato dallo stesso autore, di circumnavigare un Continente in cui l'arte <<non è il prodotto di una condizione indipendente>> ma <<con le sue diversità e con le sue trasformazioni, comprende e riassume i cambiamenti di una cultura che si sta appropriando degli schemi, delle immagini e delle nozioni ereditate sia da una tradizione di antica data sia dall'Occidente (un Occidente che è talora in stretta vicinanza, come nel caso dell'Asia Centrale Mussulmana o dell'India Buddista)>>.

 

Giuseppe Leo

 

 

 

 

 

 


 

  Foto: un fotogramma di un video di un'esposizione 'off' di Shangai, in mostra a Palazzo Strozzi fino al 4 maggio 2008.

 

 

 

         
Studiare l'arte contemporanea in Cina non è una scelta esclusivamente estetica. Nel contesto di un mercato emergente, l'arte è materia di economia culturale nella stessa misura in cui lo è di socio-politica. Perciò l'arte non è il prodotto di una condizione indipendente. Nella sua immaginazione, così come nelle sue propria diversità e trasformazioni, essa comprende e riassume i cambiamenti di una cultura che si sta appropriando di schemi, immagini e nozioni ereditate sia da una tradizione di antica data sia dall'Occidente (un occidente che è talora in stretta vicinanza, come nel caso dell'Asia Centrale Mussulmana o dell'India Buddista). Gli artisti reinterpretano il significato originale allo scopo di pervenire ad una proclamazione della propria differenza, che viene solitamente presa per nazionalismo culturale. Per capire l'evoluzione dell'arte contemporanea cinese, esamineremo alcuni fatti salienti della vita artistica del Paese, che è stato profondamente trasformato dalle riforme iniziate da Deng Xiaoping. Tali cambiamenti non hanno cessato di unire o di dividere la scena culturale cinese nei suoi rapporti con un governo impegnato in una costante ricerca di legittimazione, di essere il garante dell'ordine e di un'ortodossia che è stata scossa da un'apertura economica del Paese e dalla globalizzazione1

L'arte in Cina a partire dal 1979 e dalle prime riforme, è uno spazio in cui si intersecano due aspetti importanti della storia cinese alla fine del XX secolo, sotto la duplice egida dell'ortodossia politica e di una cultura variegata (duoyuan wenhua ), che oscilla costantemente tra endogeno ed esogeno, tra tradizioni originarie e pratiche culturali importate, chiamando in questione i criteri estetici di ciò che è chiamato periodo del  realismo socialista2. Questa enorme e tumultuosa mescolanza, spesso legata ad acute crisi politiche, sta all'origine di un'iconografia smisurata che esercita il suo potere su generazioni successive, e si rivela come l'arena di intense rivalità in cui si scontrano temporalità diversissime. Non si può capire, con un giudizio retrospettivo, né l'emergenza di una arte popolare politica e reazionaria ( la critica del consumo di massa, la celebrazione ironica e scherzosa del Maoismo...) né la popolarità del kitsch senza prendere in considerazione l'irresistibile infatuazione, in Cina l'incanto (qiguan), il sentimentalismo post-rivoluzionario. Questo è, per definizione, uno degli aspetti più aneddotici, e perciò dei più datati, di un periodo caratterizzato da un'improvvisa accelerazione della storia. Un'arte di transizione, kitsch nella sua versione cinese, contrassegna l'inizio di un consenso tra governo ed opinione pubblica circa il valore del denaro. Perciò l'arte, che in Cina era essenzialmente quella della pittura e della calligrafia, è divenuta un fenomeno plurale: non è arte, ma arti.

L'impatto della mostra "Cina/Avan-guardia"
 

La prima retrospettiva nazionale delle avanguardie "China/Avant-garde" (Zhongguo xiandai yishu zhan ), che ebbe luogo a Pechino nel Palazzo delle Belle Arti nel 1989, costituì un evento precursore. La comunità artistica, nell'era della repressione del movimento di Tian'anmen, diede un significato, il proprio significato, a dieci anni posti sotto il segno di un auto-proclamato avanguardismo, che la successiva generazione doveva riconoscere  unicamente allo scopo di prendere le distanze da esso in modo più effettivo, quindi avanzando pretese verso una totale rottura rispetto ad esso e rispetto al 'gap' esistente tra esso e il mondo tradizionale dell'arte, ed in particolare quello della pittura. I valori della pittura - legati a quelli dello studioso ed al mito di vecchia data di una cultura di stato - su cui si basano la cornice del dibattito e le scelte politiche, portarono alla definizione di nuove frontiere. Mentre l'informazione - che si era diffusa dagli anni '80 in poi - e la trasformazione della società cinese non permettono allo storico di delineare, al momento, un'analisi onnicomprensiva, che copra tutti gli eventi che sono stati parte dei nuovi linguaggi dell'arte, sembra comunque possibile concentrarsi sulle mostre e sulle nuove professioni artistiche che hanno creato il nuovo volto di una società che cerca di legittimare sia la propria identità cinese sia i propri contatti col mondo esterno.

Foto: Peking, 1989. China/Avant-garde (Nu U-Turn).

(In Hung Wu, Exhibiting Experimental Art in China, op. cit., p. 16)

Il 1989 è stato l'anno di una rivoluzione fallita. E' stato anche quello di un 'colpo di stato' estetico di gran successo, con la mostra "China/Avant-garde" che aprì il 5 febbraio e conteneva 293 dipinti, sculture e video di 186 artisti - tra cui Wang Guangyi, Xu Bing, Wu Shanzhuan, Huang  Yongping e Gu Wenda4.

L'evento fu preparato a lungo, nell'ambito della riunione  della cosiddetta "arte moderna cinese" (Dangdai yishu yantaohui) ,  cui principi furono stabiliti nel novembre dell'anno precedente a Tunxi nella provincia di Anhui. Questa mostra fu il risultato di una collaborazione tra tre critici d'arte: Gao Minglu, Peng De e Li Xianting. Gao Minglu, che ora insegna negli U.S.A., era il curatore all'epoca del giornale "Meishu". Peng De, vice-presidente dell'Istituto di ricerca degli artisti Hubei, dirigeva il più indipendente dei giornali d'arte "Meishu sichao" che fu pubblicato a Wuhan finché fu definitivamente censurato dal 1987 in poi. Li Xianting è collegato all'istituto per la Ricerca artistica di Pechino. Co-fondatore e direttore di "Zhongguo meishubao" fino alle sue dimissioni nel 1989, egli rimane uno dei più influenti critici cinesi.

"China/Avant-garde" non mostrò al pubblico alcun dipinto cinese tradizionale (guohua, letteralmente: pittura nazionale) e nessuna opera di calligrafia. La mostra in modo egregio riassumeva il clima di tensione che, per svariati anni, aveva costantemente diviso la scena dell'arte. "China/Avant-garde" fu la prima mostra nazionale di arte sperimentale (shiyan meishu). Questo è il nome dato ad ogni mostra che consenta ai lavori di produrre il loro effetto per conto proprio, eliminando ogni radicamento (del lavoro, della critica, dell'istituzione) in un culto. "China/Avant-garde" fu precisamente una sfida lanciata in opposizione ad ogni forma di culto. L'evento fu caratterizzato da una 'performance' di Tang Song e Xiao Lu: dei colpi venivano sparati direttamente sulla loro installazione, una cabina telefonica ironicamente intitolata "duihua" (Dialogo). Gli organizzatori miravano, secondo quanto era dato vedere, a dei segni tangibili di rottura tra il momento della mostra ed il pubblico, usando striscioni con l'etichetta "No U-Turn".

Questa modalità di espressione artistica doveva divenire predominante durante il decennio successivo. La mostra di arte sperimentale andava contro lo stato repressivo (un'espressione equivalente ad un pleonasmo nel caso della Cina, che non ha mai avuto uno stato liberale). Lo scontro tra queste due entità che erano sempre in opposizione (un'organizzazione astratta contro una manifestazione concreta) poteva solo frontale. "China/Avant-garde" fu censurata. L'evento precedette la repressione dei dimostranti di Piazza Tian'anmen, che ebbe luogo tre mesi dopo.

Se consideriamo che un'arte come la pittura così legata in modo schiacciante al culto  - e come corollario, la venerazione di un'immagine  corrisponde allo stesso modo a quella di uno studioso nei confronti della cultura di cui è guardiano - si rese improvvisamente disponibile verso tutti, si può capire che, parallelamente alle mostre nei musei, le arti visive cinesi entrarono in crisi (weiji). Questa crisi nell'arte - ed in particolare nella pittura e nella calligrafia, che sono considerate in Cina come l'apice  della gerarchia dei valori sociali ed estetici5- consisteva di fatto nell'invenzione di essa. Dove prima non c'era stata nessuna arte nel senso stretto del termine, ma un oggetto da adorare, da allora in poi ci fu l'arte, dato che una domada era stata posta a proposito del gesto che la fondava. Ogni mostra di arte contemporanea reinventa l'arte ponendosi nuovamente domande sull'arte, sui suoi confini e, novità in Cina, sulla sua memorizzazione, o su ciò che Francis A. Yates, in un contesto completamente differente, ha chiamato l'arte della memoria, enfatizzando  il valore ed il ruolo anamnestico della storia6. Si trattò della trasformazione di un'antica arte religiosa in un'arte da esposizione, prima che la questione du ciò che fosse religioso in essa - la sua aura - potesse infine essere posta.

 
Verso la sparizione dei vecchi riferimenti

 La mostra, come luogo, come lavoro e come evento, è divenuta uno spazio per la trasformazione delle categorie tradizionali nel campo delle arti visive. Come era accaduto negli U.S.A. ed in Europa quasi quarant'anni prima, la cornice, sia letteralmente che figurativamente, sta andando in frantumi davanti ai nostri occhi, scuotendo gli elementi di un linguaggio visivo che, in passato, aveva assegnato alle arti visive (calligrafia e pittura) ed ai loro supporti ( il rotolo guohua, il supporto per la tela ad olio) le loro specificità in termini di campo: materiali, locandine, luoghi di esposizione, modalità di diffusione prese dalle pratiche occidentali. E' il lavoro che, secondo il desiderio degli artisti, porta direttamente a porsi domande sulla sua esibizione,e più in generale sul ruolo dell'esibizione.

Al destarsi di questi sconvolgimenti e di questa profusione di sperimentazione, un numero crescente di artisti abbandonò la base, la cornice ed il rotolo; il muro, il tavolo (il supporto convenzionale per la lettura - nian - di una calligrafia o di un shanshui ) non erano più preminenti per la presentazione dei lavori, e molti di loro ora occupavano il pavimento o il soffitto. L'archetipo del museo, un'eredità dell'Europa del XIX secolo e, prima ancora, delle prime stanze di oggetti curiosi del Rinascimento, con le sue implicazioni culturali e politiche, come anche nella sua configurazione molto architettonica, venne messo in discussione; artisti come Zhang Dali o Rong Rong si volsero verso le rovine delle abitazioni dei lavoratori, verso i siti industriali dismessi, uno spazio urbano che era stato disgregato e che esso stesso aveva disgregato la scelta di sedi di esposizione.

 

  Foto: Rong Rong, foto senza titolo (in:  Emmanuel Lincot, L’Invitation à la Chine, op. cit.)

Le mostre di arte sperimentale nella Repubblica Popolare vennero scoperte dai professionisti dell'arte in Occidente, a Taiwan e a Hong Kong all'inizio degli anni '90. Il successo della mostra internazionale "China's New Art, post-1989", organizzata dalla galleria di Hong Kong "Hanart TZ"7, e la notevole attenzione suscitata dalla prima partecipazione dei giovani artisti cinesi nel 1993 alla Biennale di Venezia, come anche la pubblicazione degli articoli in "Flash Art" e nel "The New York Times Magazine", spiegano il crescente interesse dei media stranieri per la scena artistica cinese, come anche l'enorme prestigio che gli artisti acquisirono diventando, talora contro la loro volontà, i portabandiera del loro Paese.

Le sedi di esposizione si diversificarono. Esse tendevano ad opporsi alla persistente collusione tra interessi statali e membri delle giurie, che è raramente propizia allo sviluppo di creazioni originali. Dopo il 1989, le mostre si ritirarono dalle gallerie d'arte e dagli spazi commerciali, per spostarsi talora in case private o in aree diplomatiche. A partire dal 1993, le gallerie affiliate alle istituzioni, come quelle del "Teacher Training College" o del "Central Fine Arts Academy", divennero importanti sedi di mostre sperimentali a Pechino, soprattutto a causa dell'apertura mentale mostrata dai direttori di queste istituzioni. Non erano comunque degli esempi isolati. Perciò, Guo Shirui, direttore del molto ufficiale Centro per l'Arte Contemporanea di Pechino, iniziò nel 1994 ad organizzare una serie di eventi artistici molto importanti. Col tempo divenne chiaro che queste gallerie ed il mondo dell'arte in generale erano soggetti a giocare in competizione sia nella direzione di una strategia di discorso modulabile che tentava di trascendere le costrizioni della censura governativa sia nel cercare sovvenzioni pubbliche e private. Tale competizione era all'origine dello sviluppo di un mercato dell'arte contemporanea che iniziò con la prima Biennale di Canton (nell'ottobre 1992). Poi essa giunse a Shanghai (1996), i cui premi, sulla scena del mondo dell'arte, vennero aumentati dal critico d'arte francese Pierre Restany quando presiedette l'evento quattro anni dopo.

Nel cuore di questo processo decisionale era l'autore, allo stesso tempo progettatore, direttore, interprete e creatore della mostra, concepita come un lavoro artistico in cui l'artista, l'organizzatore ed il pubblico si incontravano; gli eventi divennero delle performance. Tale parola rievoca la varietà di significati, la differenziazione e la multipla temporalizzazione dei fenomeni sociali. La performance ed i suoi oggetti ci fanno pensare tanto al soggetto quanto al luogo, che deve essere considerato come un posto in cui il lavoro viene realizzato, viene fruito e persino fischiato, e non finisce mai di creare e ricreare se stesso. Il fatto che il lavoro e l'esposizione si stessero costantemente evolvendo dava agli organizzatori una varietà di modi per evitare le costrizioni della censura, ad es. trasferendo la mostra dalla Cina in uno o più paesi esteri. Fu nel micromondo della mostra sperimentale che si svilupparono le idee più nuove e le immagini più potenti, che erano sempre meno quelle della pittura. La riluttanza del governo a facilitare questi eventi artistici era tanto più comprensibile in quanto essi turbavano gli equilibri politici ed i codici culturali di vecchia data. La censura o l'auto-censura che portava alla cancellazione di un evento costituivano le realtà sintomatiche di una cultura tenuta sotto un giogo ideologico che continuava ad esercitare una terribile costrizione nell'era di Deng Xiaoping.

Comunque l'evoluzione reale dell'arte cinese contemporanea si doveva trovare nella sua integrazione nella logica del mercato, che l'economia nazionale nella sua totalità  stava allora cercando di abbracciare. Questa evoluzione si accompagnò ad un'emergenza di nuove categorie socio-politiche, centrate sull'individuo e poste alla frontiera tra le professioni dell'informazione, dell'arte e della politica.

 

 

 

 

 

  Foto: Ai Weiwei, "Spider table" (in: Emmanuel Lincot, Avant-gardes [Xianfeng yishu], op. cit.)

Un archetipo di artista che comunica: Ai Weiwei
 

Apparve una nuova professione: quella del critico-mercante o mediatore culturale (in inglese "curatore indipendente"; in cinese "duli cezhanren"). Il mediatore culturale è un professionista 'freelance' che combina svariate funzioni. E' l'intermediario obbligatorio tra il Ministro della Cultura, le sue 'éminences grise', il committente della mostra, gli artisti, il pubblico ed i potenziali fruitori. Egli "confeziona" opinioni, descrive tendenze, viaggia, e negozia tra le parti interessate, in particolare con il collezionista che, per mezzo delle loro risorse finanziarie e della loro posizione sociale -  è spesso un diplomatico o un industriale - diffonde rumori, distrugge riputazioni, si veste del ruolo prestigioso di 'patron', di difensore -  all'occasione - ei diritti umani, della libertà di espressione in un Paese in cui davvero la società non apprezza molto l'indipendenza o il diritto di essere diversi.

Il fattore principale in questa evoluzione della scena artistica è stato l'apparizione di determinati eventi, sotto forma di performances o di mostre in spazi privati, che tendevano a variare i loro partecipanti e le loro sedi senza che fosse necessario ottenere, in modo sistematico, il permesso delle autorità. Sviluppatasi questa tendenza, non senza delle reali perplessità (talora da parte degli stessi artisti che preferivano, per strategie di carriera, l'esclusivo riconoscimento dei circoli ufficiali), il campo della sperimentazione artistica si dissolse in gruppi molto diversi (negli anni '80) e poi in individui molto differenti (dopo il 1989) ai bordi del sistema che incrementava la loro dipendenza dai critici, dai mercanti, e da un certo ambito di opinioni e che non era più ristretto agli agglomerati urbani di Pechino e di Shanghai. Volenti o no, essi erano integrati in una micro-società in cui l'immaginazione incontrava l'economia internazionale. I processi virtuali come internet e gli altri mezzi di comunicazione talora avevano l'effetto di spostare l'attenzione dei critici e del pubblico sulla specificità identitaria e persino nazionalistica sia del lavoro che del suo produttore.

Ci furono molti esempi di brillanti carriere artistiche. Tali successi furono indubbiamente legati all'utilizzazione dei nuovi mezzi di comunicazione, che gli artisti di nuova generazione ingegnosamente volsero a proprio vantaggio. Il più considerevole archetipo di questo nuovo tipo di artista fu il pechinese Ai Weiwei. Artista, mercante, gallerista, collezionista, editore, egli ha incorporato ad un livello fino ad allora non eguagliato le più diverse funzioni che corrispondono agli assiomi chiave della comunicazione artistica, allora ancora in uno stadio prematuro. Il suo modo di lavorare e il suo atteggiamento libertario lo resero un artista di nuovo genere, al confine tra il mondo dell'arte, la dissidenza poetica, l'opportunismo commerciale e l'aristocrazia intellettuale. In quanto figlio del poeta Ai Qing, un sostenitore del regime, il suo 'pedigree' gli aprì le porte ad un vasto riconoscimento sociale. Scelse di frequentare il "Film Institute" che riaprì nel 1979, essendo stato chiuso a causa della Rivoluzione Culturale. Ma né il cinema né la Cina potevano trattenere il giovane Ai Weiwei, e dopo essersi unito al gruppo "Xing Xing", optò per l'espatrio a New York. Lì, frequentò la "Parsons School of Design", commerciò in antichità per una vita, e frequentò sia i musei che l'underground, come anche uno dei suoi mentori, William Burroughs. Il suo riferimento artistico fu e restò sempre Marcel Duchamp: una scelta che è sintomatica di una generazione che trova il suo marchio non in un dibattito formalista, ma piuttosto nella distinzione tra la sfera dell'arte e quella dell'estetica.

In relazione a questo modello, il viaggio di un lavoro verso il suo presunto consumatore non è più lineare, ma forma un'ansa; in questo esso assomiglia ad una pratica che è esistita nei circoli eruditi nella Cina della vecchia scuola. Il dotto, sia l'uomo d'azione che quello di lettere, era un mediatore culturale come anche un vettore essenziale della produzione e della trasmissione della conoscenza. Per la generazione di Ai Weiwei, comunque, che sta a mezza strada tra un'invocazione alla modernità e l'ideale disincantato dello studioso-contadino che Mao Zedong incarnava nel modo iconoclastico e rivoluzionario, il sentiero da seguire è quello del consumismo e, di conseguenza, quello dell'inautenticità dei lavori artistici e della loro riducibilità al livello di linguaggio (che fosse quello della pubblicità, del classico, dell'universale o del criptico) che diventa la forza conduttrice di una realtà che necessita di essere reinterpretata. L'artista ruppe nuovi schemi quando suggerì ai collezionisti e mercanti Hans Van Dick e Frank Uytterhaegen di metter su una fondazione a Pechino, la "China Modern Art Foundation", di cui è attualmente co-direttore. Essa espone i suoi lavori (dipinti, installazioni e sculture) e funziona come un'impresa tesa allo sviluppo sociale, al mantenere su una scala internazionale la natura e l'ambizione del mercato artistico tra Pechino e New York.

 
L'integrazione dell'arte cinese nel mercato internazionale

 

 

La novità in Cina non era il mercato delle opere d'arte - cosa che senza dubbio risale all'invenzione del collezionismo - ma piuttosto la loro integrazione nel mercato dell'arte internazionale. La mania per l'arte contemporanea cinese era conforme con una tendenza dei media con forti inclinazioni esotiche che dapprima iniziò nell'Europa dell'Est, prima e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, per poi continuare fino ai nostri giorni. All'inizio si trattava di iniziative private, da parte di amanti dell'arte come l'ambasciatore svizzero Uli Sigg, che attirò l'attenzione dei media. Poi vari governi organizzarono, con qualche difficoltà, importanti retrospettive in Europa, in Australia, negli Stati Uniti ed in Giappone. C'erano poche gallerie in Cina fino ai primi anni '90 - tranne quelle di Hong Kong. Ciò era dovuto al fastidio continuo ed alle minacce amministrative che subivano i proprietari di questi spazi (che erano molto ricercati dagli artisti), la maggioranza dei quali erano di origini straniere. Tali gallerie, perlopiù situate a Pechino e a Shanghai, avevano nondimeno un considerevole impatto in quanto stabilivano i prezzi delle opere d'arte per coloro che aspiravano ad una carriera internazionale8.

I critici spesso hanno parlato di una perversione del sistema scolastico dell'arte e di un crescente disagio del pubblico, che ha determinato una valutazione delle opere unicamente in termini di speculazione commerciale a cui essi erano quindi soggetti. Tale disagio ha incoraggiato le autorità ad adattare il sistema scolastico dell'arte a norme create dal mercato. Riforme strutturali così come la revisione dei corsi di 'training' per gli studenti (compresa l'esperienza di lavoro nelle agenzie di pubblicità o all'estero) hanno aperto le scuole d'arte a nuove possibilità. La riforma delle scuole d'arte in Cina (la fusione di svariate accademie, la creazione di gallerie che unissero fondi sia pubblici che privati), che fu realizzata solo dopo la morte di Deng Xiaoping, mise fondamentalmente in discussione uno dei principi canonici, definiti nello Yan'an : l'arte al servizio del popolo.

Il profondo disagio avvertito da un gran numero di artisti ed intellettuali in Cina di fronte a questo terremoto viene meglio spiegato dal fatto che gli ultimi venti anni hanno prodotto una straordinaria confusione nel lavoro e nelle menti delle persone; le filosofie egualitaristiche e comuniste sono state sostituite da idee nazionalistiche e persino xenofobe di resistenza all'"inquinamento spirituale". Eppure la Cina di Deng Xiaoping non era più, se mai lo fosse stata, solitaria dal punto di vista culturale. Essa seguiva ed accompagnava la globalizzazione e, allo stesso tempo, manifestava resistenza nei confronti della reinterpretazione di una tradizione vivente che era la propria, mentre fondamentalmente metteva in discussione le strutture del mondo dell'arte ereditate dal periodo maoista.

 

 

 Note:

(1) Questo articolo si basa su quello dello stesso autore dal titolo "Culture, identités et réformes politiques: la peinture en République populaire de Chine (1979-1997)", tesi di laurea in fase di pubblicazione, Università di Parigi VII, 2003.

(2) Cfr. Julia F. Andrews, "Painters and Politics in the People’s Republic of China (1949-1979)", Berkeley, University of California Press, 1994, and Ellen Jonston Laing, "The Winking Owl: Art in the People’s Republic of China", Berkeley, Los Angeles, University of California Press, 1988.

(3) Hung Wu, Exhibiting Experimental Art in China, Smart Museum of Art, University of Chicago, 2000

(4) Su questi artisti, e sul periodo interessato, sono disponibili numerosi libri e riviste in cinese. Menzioniamo in particolare il libro di Lu Peng e Yi Dan, Zhongguo xiandai yishu shi (1979-1989) (A History of Contemporary Chinese Art [1979-1989]), Changsha, Hunan meishu chubanshe, 1992. Una rivista offre una presentazione in tre lingue (in francese, cinese ed inglese) di questi artisti: Emmanuel Lincot, Avant-gardes (Xianfeng yishu), published with the assistance of the French Ministry of Foreign Affairs, Peking, 1997.

(5) Cfr. Kraus Richard Curt, Brushes with Power: Modern Politics and the Chinese Art of Calligraphy, Berkeley, University of California, 1991; James Cahill, The Painter’s Practice. How Artists Lived and Worked in Traditional China, New York, Columbia University, 1994.

(6) Francis A. Yates, L’Art de la mémoire, Paris, Gallimard, 1975.

(7) China’s New Art, Post-1989, organised by the Hong Kong gallery Hanart TZ, 1993.

(8) Numerosi cataloghi di  esposizioni sono stati pubblicati in Occidente, fatto che ha reso possibile una maggiore familiarità col lavoro di diversi artisti. In particolare citiamo: Emmanuel Lincot, "L’Invitation à la Chine" (Biennale d’Issy-les-Moulineaux), Paris, Beaux-Arts, 1999 (una delle primissime  retrospettive di arte contemporanea cinese  in Francia); Marie-José Mondzain, "Transparence, opacité ? 14 artistes contemporains chinois", Paris, Cercle d’art, 1999 (una notevole riflessione di un filosofo specializzato nello studio delle  immagini); Jean-Marc Decrop and Christine Buci-Glucksmann, "Modernités chinoises", Paris, Skira, 2003 (la  collezione di un gallerista di Parigi con il commento di un accademico); "Made by Chinese", Paris, Galerie Enrico Navarra, 2001 (un catalogo pratico con le biografie dei più importanti artisti cinesi contemporanei); "Paris / Pékin", Espace Cardin Asiart archive, Paris, 2002 (un superbo catalogo della collezione  privata del  Barone Ullens).

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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