Il corpo che io sono non è
mai il corpo che io penso…
Merleau-Ponty
Premessa
«Nello spazio potenziale infinito
della Scienza si aprono sempre vie alternative da esplorare,
nuovissime o antichissime, modi e forme, apparenze e realtà che
possono profondamente modificare le nostre fantasie e alterare
l’immagine del sé individuale e collettivo, come per esempio la
qualità e soprattutto il senso della continuità del nostro
essere», così come afferma Andreas Giannakoulas.
Egli altresì osserva come, oggi,
ogni ramo della Scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo
si regge su entità impalpabili e invisibili. Diremmo minimali e
infinitesimali.
Ci riferiamo ai messaggi del DNA,
agli impulsi dei neuroni, ai quark, ai neuroni che si
interconnettono dinamicamente nelle strutture dell’anatomia, nei
processi della fisiologia o concentrati in una parte del corpo
esclusiva e altamente specializzata quale il cervello, la cui
produzione è l’“immaterialità” della mente. Ma la mente rende in
qualche modo visibile l’invisibile che nei complessi meccanismi
biologici del corpo si struttura. Nelle opere d’arte, quali
schermi proiettivi della mente – meglio del corpomente –, è
possibile osservare la topica corporea, le emozioni, le varie
tematiche esistenziali dell’essere in quanto tale.
L’Arte Medica – nel suo significato
di Techne – è antica quanto l’uomo, poiché in vari modi questi ha
tentato attraverso l’uso di strumenti vari di lenire il dolore, di
migliorare le condizioni di vita e di rivolgere il suo sguardo
all’eternità.
Si ritrovano cognizioni mediche nel
Nei Ching (il Canone di medicina interna) dei Cinesi nel 2800 a.C.
che già dal 3600 a.C. avevano sviluppato gli elementi di una
osservazione sintomatologica del paziente.
Gli Egizi si occuparono
dell’anatomia e, da quanto si conosce, riuscivano tra l’altro a
curare le lesioni traumatiche e le ferite. L’ostetricia, di cui si
occupavano le donne, ebbe uno sviluppo con Cleopatra che studiò la
formazione del feto nell’utero materno. Cleopatra conosceva
elementi di medicina, tanto da scrivere libri di medicina, come
risulta da un antico manoscritto di Al-Masudi (m. nel 956).
Nel 1200 a.C. i Cinesi praticavano
la vaccinazione contro il vaiolo, avendo osservato che vi erano
casi di guarigione mediante insufflazione nasale di crosta
vaiolosa polverizzata.
Ma è in Grecia che la malattia
incominciò ad essere considerata come il sintomo di uno squilibrio
generale del paziente, per cui il medico prese ad occuparsi
dell’ammalato nella sua interezza.
Il Giuramento di Ippocrate: senso e
significato
A questo punto non sembri fuor di
luogo ricordare Ippocrate, il medico che trasformò la medicina
sciamanica in conoscenza dell’uomo e in scienza che non trascurava
l’ambiente, l’anamnesi e l’ereditarietà. Non sembri fuor di luogo
a questo punto ricordare il suo Giuramento, valido anche nel
nostro tempo. Così egli afferma:
«Considererò come padre colui che
mi iniziò e mi fu maestro in quest’arte, e con gratitudine lo
assisterò e gli fornirò quanto possa occorrergli per il nutrimento
e per le necessità della vita (...) Prescriverò agli infermi la
dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso
dalle mie cognizioni, e li difenderò da ogni cosa ingiusta e
dannosa. Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno,
propinerò medicamenti letali né commetterò mai cose di questo
genere. Per lo stesso motivo mai ad alcuna donna suggerirò
prescrizioni che possano farla abortire, ma serberò casta e pura
da ogni delitto sia la vita sia la mia arte. Non opererò i malati
di calcoli, lasciando tal compito agli esperti di quell’arte. In
qualsiasi casa entrato, baderò soltanto alla salute degli infermi,
rifuggendo ogni sospetto di ingiustizia e di corruzione, e
soprattutto dal desiderio di illecite relazioni con donne o con
uomini sia liberi che schiavi. Tutto quello che durante la cura ed
anche all’infuori di essa avrò visto e avrò ascoltato sulla vita
comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come
cosa sacra» (…).
In questo giuramento possiamo
riconoscere come nel rapporto con il maestro emerga da parte
dell’allievo il sentimento di figlio con tutte le sue ambivalenze.
Ippocrate infatti dice:
«Considererò come padre colui che
mi iniziò e mi fu maestro in quest’arte, e con gratitudine lo
assisterò e gli fornirò quanto possa occorrergli per il nutrimento
e per le necessità della vita». I sentimenti che derivano dalla
“dipendenza” dal maestro devono essere elaborati al punto da
sentire gratitudine e dunque la effettiva possibile reciprocità
del rapporto che trascende la “genitorialità”, poiché gli
insegnamenti e l’immagine “transferale” del maestro dovrebbero
essere tanto radicati in noi da consentire di poterlo «assistere e
fornirgli quanto possa occorrergli per il nutrimento e per le
necessità della vita».
Nel Giuramento vi sono le
fondazioni di quella che oggi si indica come Bioetica e la natura
del rapporto Medico-Paziente che trascende la Scienza pur
avvalendosi di questa. Il codice ippocrateo rifiutava l’aborto e
dunque era ed è a difesa della vita. Nelle affermazioni di
Ippocrate possiamo ravvisare come sia fondamentale il paziente
nella sua unitarietà di corpo psiche mente, fatta di vissuti ed
emozioni che mutano in relazione alle conoscenze delle dinamiche
da parte del medico, ovviamente differenti a seconda che si tratti
di uomini, donne, anziani, giovani di qualsiasi condizione
ambientale e sociale.
Nel Giuramento incontriamo il
paziente nel rapporto con il suo medico in grado di comprendere il
sintomo, l’intimo inevitabile rapporto tra il dolore fisico e la
sofferenza psichica. L’identità del medico appare l’elemento
centrale per poter sostenere, contenere il paziente, prendendosene
cura. Di qui la necessità assoluta del medico di saper ascoltare
profondamente le parole del paziente, i gesti, lo sguardo,
l’espressione del volto, la postura, il non-detto e quant’altro
appartenga a quel determinato paziente e non ad altri.
L’Arte Medica: tra Medico, Paziente
e Malattia
A Cicerone dobbiamo l’immagine
altamente umanitaria del medico, e a Seneca (De Clem. XXXVIII, 4)
il principio della non discriminazione del malato. Ma tutti
appaiono consapevoli che in ogni caso il vissuto del paziente nel
confronto della malattia è un vissuto di estraneità e dunque di
angoscia.
Il che vuol dire che nella nostra
contemporaneità, per alcune patologie, l’estraneità della malattia
diventa un oggetto concreto nel proprio corpo: ci riferiamo alla
grande tematica dei trapianti d’organo, sia interni che esterni,
agli innesti di tessuto, alle protesi, e così via…
Nei Centri di ricerca statunitensi
del Wistar Institute in Pennsylvania, un gruppo di ricercatori
guidato dalla dottoressa Ellen Heber Katz sembra che abbia trovato
un farmaco in grado di rigenerare parti del corpo senza eseguire
atti chirurgici. La scoperta è avvenuta per caso, mentre cercavano
di curare una malattia chiamata Lupus eritematoso. Naturalmente le
ricerche sono in corso e si tenterà di applicare la scoperta anche
all’uomo.
La Scienza Medica amplia sempre di
più le frontiere del possibile, e l’Arte Medica, nel suo più
autentico significato, si ritrova oggi tra problematiche
complesse, sia relazionali che tecnologiche e organizzative. Tutto
ciò determina una risonanza emotiva profondissima nel paziente,
con l’emergere di inaspettati vissuti e aspetti latenti e/o
rimossi.
Le innovazione tecnologiche che
applicano nella realtà le conoscenze scientifiche non sono senza
effetti sulla persona del paziente e del medico, nonché del loro
rapporto. Delegare totalmente le diagnosi alle “macchine”
significa abdicare alla propria funzione di medico, così come non
tenerne conto può significare credere nella propria onnipotenza
narcisistica: in entrambi i casi il paziente viene negato nella
sua realtà di persona (burn out).
Non a caso alcuni ritengono che sia
in atto un grande cambiamento nel rapporto tra Paziente e Medico
in seguito alla parcellizzazione delle varie aree mediche. Nel
corso dell’iter diagnostico e terapeutico spesso il paziente
incontra molti specialisti. Vi sono le degenze brevi e i
lungodegenti, la cronicità di una patologia e le urgenze. Il tipo
di patologia «determina un rapporto piuttosto che un altro. In
realtà sono molte le domande che sorgono in questa area dei
rapporti umani e in questa éra carica di trasformazioni». Ma
l’uomo dentro di sé rimane inalterato, per cui cercherà sempre il
suo medico a cui affidarsi.
Il “femminile genitoriale” nel
prendersi cura dell’Altro
Il medico, in ogni modo e dal
nostro punto di vista, rappresenta l’emergere materno e del
“femminile” nel prendersi cura dell’Altro. Il paziente, infatti,
rievoca le tecniche di accudimento materne. Non sembri il nostro
dire una costante ripetizione, bensì una riaffermazione di
concetti a nostro favore fondanti e di base.
In ogni caso è essenziale osservare
i cambiamenti intervenuti nell’area scientifica nei vari ambiti
della medicina, quali per esempio per quanto riguarda la
Fecondazione Medica Assistita, che ci inducono a una riflessione
sulla separazione della sessualità dalla fecondazione e sulle
nuove generazioni che possono nascere senza quella particolare
fantasia che si riferisce alla “scena primaria”, con risvolti
immaginabili, ma ancora poco conosciuti.
Queste generazioni diventano un
evento affidato all’istituzione medica, che nel caso di donatori e
via discorrendo si ritrova con un “Terzo polo” particolarmente
pregnante e problematico (cfr. Poullion).
Cambia l’idea di maternità e dunque
di genitorialità, e finanche quello che alcuni definiscono “il
destino della nascita” e del “corpo”. Mi riferisco a coloro che
desiderano un adeguamento di sesso: i Transessuali.
Così come la Trapiantologia che
inaugura frontiere nuove del rapporto dell’essere umano con il
proprio corpo che vive grazie all’organo dell’Altro, o ad un
organo “bionico”… e così via. Oggi si pensa ad un cybercorpo:
ibridazioni corporee e identitarie…
Quale futuro attende la Scienza
Medica e l’Uomo? Si tratta di pensare il non ancora che ci appare
già presente.
Prometeo per la mitologia era «facitore
di uomini e in origine divinità del fuoco». In questo contesto si
sceglie questa immagine perché anche oggi l’uomo intende creare
l’uomo con le biotecnologie. Cambiano i tempi, ma l’essere umano
rimane inalterato nelle sue profondità.
Quando ci riferiamo a Prometeo
parliamo di noi, sia che si tratta del plasmare l’uomo dal fango
che del crearlo biotecnologicamente: l’illusione dell’eternità ha
abitato in Prometeo e dimora nel nostro tempo. Ma per il desiderio
di onnipotenza spesso non c’è perdono, come il mito ci insegna.
L’intrusività della tecnologia
vìola, in ogni caso, l’intimità del paziente, che oggi più che in
altri tempi necessita di una relazione con il medico in cui la
fiducia, quale possibilità di affidarsi, diventa davvero un
elemento cardine dell’intera relazione. In tal modo, con la
riaffermazione della fiducia, il paziente continuerà a sentire di
essere una persona, e dunque a poter affrontare i cambiamenti con
la possibilità di ridefinire e integrare l’identità biologica
senza lacerazioni irreversibili dell’Io.
Non è più un mistero che i sintomi
somatici siano la parte manifesta di un processo molto più
complesso, sostenuto da interni e lontani conflitti, sofferenze,
lutti non elaborati… Vi sono opere letterarie che sottolineano i
sintomi psicosomatici dei protagonisti, come per esempio Il malato
immaginario di Molière.
Il dolore, qualunque esso sia, in
realtà ci invita a fermarci, e a volte ci appare come l’ultima
parola detta dal nostro Sé per poter avviare un processo
terapeutico di guarigione. (Cfr. J.-B. Pontalis).
La malattia è una metafora (dal
greco metaphérein e dal latino transferre, e significa
trasportare), trasporto all’esterno di qualcosa che altrimenti non
si può dire.
Nel corso della storia umana la
“metafora” si è sviluppata “insieme all’evoluzione umana e della
sua psiche, e spesso è stata assimilata all’allegoria e al
simbolo”. Ed è la metafora che spesso facilita gli insights.
Termine, questo, intraducibile, che riguarda quella particolare
improvvisa “illuminazione” della mente. Il medico, a volte e come
affermano alcuni studiosi, per meglio comunicare con il suo
paziente deve utilizzare le metafore sottese da un processo
creativo che consente di dar forma e senso all’inesprimibile.
Molti pazienti, infatti, non
accettano la propria difficile condizione di sofferenza, ma
attraverso i campi intermedi della comunicazione possono
avvicinarsi ai nuclei della propria sofferenza e darsi una
“rappresentazione accettabile di sé” nella realtà. In tale nuova
prospettiva ogni paziente necessita di una sua propria metafora.
Ed è qui che il medico deve poter accendere risorse e affetti
attraverso la sua propria capacità creativa di essere medico.
Le emozioni: tra Scienza medica,
Tecnica e Paziente
Di qui, nonostante il sostegno
della Tecnica, la necessità di una formazione del medico: ed è a
tale formazione che abbiamo dedicato parte della nostra
esperienza. Riconsiderare il paziente nella sua complessità di
persona non significa evidentemente rinunciare a quanto la scienza
ci indica.
La Medicina pone le sue radici
nelle discipline umanistiche, e in tal senso è conoscenza
dell’essere umano, che in ogni caso appare sempre diverso, pur
nella somiglianza. Nessuno può negare che ognuno di noi ha un
“sistema immunitario” che reagisce diversamente a seconda
dell’individuo, dell’agente patologico, e così via.
La Scienza propone nuovi percorsi
che scaturiscono dall’aver tenuto conto della riproducibilità del
fenomeno: segue, cioè, il metodo scientifico che necessita di
alcuni parametri e soprattutto di rare smentite. La Scienza,
perché possa definirsi tale, necessita dell’osservazione di
fenomeni riproducibili, mentre la Conoscenza, che la sostiene nel
suo esistere, si dispone all’attraversamento di territori e ambiti
diversi, esprimendo quelle possibilità proprie dell’essere umano e
della sua creatività.
Alla luce di tale considerazione,
il rapporto Medico-Paziente pone in costante relazione le
conoscenze del medico e i vissuti del paziente in una reciprocità
in cui le emozioni, al di là delle “macchine”, transitano dal
paziente al medico e viceversa. In realtà siamo immersi nelle
emozioni anche quando tentiamo di negarle: una trama alla quale
risulta difficile sfuggire, poiché tesse la nostra vita sin
dall’epoca prenatale, in cui siamo stati impregnati dalle emozioni
dell’Altro che ci ha plasmato così come il nostro DNA ha permesso
che fossimo plasmati. In definitiva siamo stati costruiti in un
intreccio di ambienti: interno, esterno, profondamente arcaico e
contemporaneamente sempre nuovo e diverso, come quello determinato
dall’intreccio genetico.
L’incontro con il Paziente
Freud è stato il primo a cercare
nell’infanzia l’origine dei traumi che riemergono nella vita dalla
nostra più lontana memoria, determinando quella che egli indicò
come coazione a ripetere, apparentemente ineluttabile. In realtà,
segni di traumi “altri” possono essere già stati lasciati in
epoche più remote, nel grembo materno che plasma il bambino a
“immagine e somiglianza” di colei che lo genera.
Le ferite materne transitano nel
bambino quali immagini riflesse che indurranno più facilmente la
stesura di un copione della vita piuttosto che di un altro. È noto
che le immagini fantasmastiche di precedenti linee genitoriali
attraversano le generazioni senza essere mai riconosciute.
Nell’incontro con l’Altro
riaffiorano le emozioni, e nel rapporto Medico-Paziente saranno
queste a far sì che possa venire a costituirsi il luogo della
condivisione della sofferenza, dalla quale il medico deve poter
avere la giusta distanza per potere prendersi cura del paziente.
Oggi i neurofisiologi e gli
scienziati che si occupano della biologia molecolare sottolineano
l’importanza delle emozioni nel comportamento delle proteine e
nella funzione della coscienza. L’emozione, pur nella sua
dolorosità, è in definitiva la conditio sine qua non di alcuni
meccanismi di difesa, dei processi cognitivi, e così via
discorrendo. Negare l’emozione appare dannoso. Non è un caso che i
Greci credessero al Fato per tollerare gli eventi dolorosi –
tragici – dell’esistenza. In tal modo essi, pur prendendo la
distanza dalle cose, non negavano l’emozione e riuscivano a
costruire nuovi spazi di coscienza. Le origini della Tragedia sono
a tutti note. Certo è che siamo pieni di cicatrici, alcune delle
quali possono riaprirsi e ricominciare a sanguinare. Ma
l’ambiente, la creatività propria dell’essere umano, possono
tamponare il sanguinamento e trasformare il luogo della cicatrice
– il trauma – in possibilità di comprensione degli eventi
accaduti. E sarà la ritrovata memoria di questi a modificare la
percezione di Sé e del proprio essere in relazione con l’Altro-da-Sé,
compresa la malattia percepita come Estraneità.
L’uso delle tecniche che la Scienza
pone a disposizione del Medico diventa allora meramente
strumentale, al fine di facilitare la risoluzione di patologie, ma
non si sostituiscono all’ineludibile rapporto clinico e
terapeutico in cui fondante è l’alleanza terapeutica
Medico-Paziente. Lo sguardo e la parola del medico, l’empatia
propria che si stabilisce fra l’uno e l’altro, possono determinare
la riaccensione di emozioni e risorse sopite in un angolo della
memoria inconscia del paziente.
D’altra parte, molti studiosi
affermano che gli esperimenti dimostrano che le molecole
comunicano fra loro. Molti ricercatori ci dicono che le proteine
in questa comunicazione si trasformano.
Ma, oltre ai processi metabolici,
da che cosa è sollecitato il cambiamento? Forse dalle emozioni,
dalla parola, dagli stimoli ambientali che possono indurre
condizioni di plasticità, che a sua volta si strutturerà a livello
neuronale e sinaptico quale base di ulteriori esperienze (cfr.
Kandel, 1999).
Certo è che l’essere umano è un
essere complesso che, pur rimanendo inalterato nelle profondità
del suo inconscio, proprio come inalterata rimane la struttura del
gene, può esprimersi diversamente o in conformità ai
condizionamenti ambientali.
In tal senso il lavoro “clinico”
del medico, vale a dire il suo intervenire “al letto” del
paziente, diventa fondamentale, poiché attraverso il suo ascolto e
la riformulazione di questo in parola può portare alla luce ciò
che si è inscritto profondamente nel vissuto e nella memoria
inconscia del paziente.
Nel rapporto Medico-Paziente la
storia personale dell’uno e dell’altro ritorna attraverso la
parola che deve poter essere “sentita” e ascoltata come una
partitura musicale. La parola del Medico, allora, diventa lo
strumento di una nuova “poiesis”, la possibilità di “esprimere” il
proprio “mondo” “ri-creandolo”, “ri-fabbricandolo”, proprio come
accade quando la parola si fa poesia e consente di rischiarare
l’oscuro che è in noi. È evidente che l’esempio è paradigmatico
dell’“agire”, del “fare” del medico, che significa soprattutto un
“sentire” le parole del paziente. Non sono casuali le tecniche di
musicoterapia e di arte terapia, in genere utilizzate in alcuni
reparti, come quelli pediatrici.
Ma tutto ciò si concretizza nella
comunicazione, che è un “farsi” dinamico che si stabilisce tra
l’uno e l’altro. Si crea così un rapporto che evoca quel “dolore”
che nelle cicatrici sempre si racchiude. In tale speciale
comunicazione, individui lontani per esperienze e per coordinate
spazio-temporali nonché ambientali si incontrano, mentre il loro
“parlare” li determina e a sua volta cambia il loro modo di
sentire, plasmando la mente di entrambi. In ogni caso si tratta di
un parlare che riconduce alla voce materna attraverso la quale il
bambino comincia a conoscere il mondo, ad immaginarlo, a
relazionarsi con l’esterno. La voce della madre è il primum movens
dell’essere umano, una voce che è linguaggio attraverso il quale
madre e bambino insieme “fanno” il mondo. In tal senso il medico,
che in ogni caso ripropone l’immagine genitoriale alla persona che
regredisce quando si ammala, finisce per assomigliare ad un
«fabbro del parlar materno» (cfr. Dante, Purgatorio, Canto XXVI).
La funzione immaginativa delle Arti
nel processo terapeutico:
alcune riflessioni
Il pensiero estetico trasfigura
l’esistente e consente di tollerare la realtà. È proprio l’arte
che prefigura il non-ancora, e da tutto ciò che definiamo informe,
dal caos sconosciuto che abita dentro di noi, trae forme
condivisibili, generando possibilità di dialogo e comunicazione.
Di qui la riflessione che le Arti, e in modo particolare la
pittura e la poesia, tra loro mai disgiunte (Ut pictura poesis,
diceva Orazio), possono facilitare l’emergere di aspetti rimossi
che contengono le germinazioni psicosomatiche della malattia. Non
a caso in alcuni reparti pediatrici, come già detto, si fa ricorso
all’Art Therapy per poter sostenere e contenere le angosce del
bambino.
Nella creatività possiamo
riconoscere il senso della continuità dell’essere, pur nel
mutamento che in tal modo non appare così angoscioso poiché
possibilità di incontrare l’Alterità quale parte di noi da
conoscere per poterla riconoscere.
Due studiosi americani, James J.
Stark (oncologo ) e Jonathan K. Nelson (storico dell’arte), hanno
notato che una delle sculture scolpite da Michelangelo nelle
Cappelle Medicee (1524), La Notte, presenta delle anomalie al
seno. Ho dunque osservato anch’io a lungo l’opera di Michelangelo
e in realtà nel seno sinistro appare qualche anomalia, quale una
retrazione del capezzolo, proprio come se ci fosse un tumore.
Nulla di ciò è rilevabile nelle rappresentazioni de Il Giorno,
L’Aurora e Il Tramonto.
Michelangelo ha associato tale
patologia – allora poco conosciuta ma comunque esistente – alla
notte che giunge, alla morte imminente quale conclusione della
vita. Una morte che per l’Artista era rigenerazione e rinascita in
un altrove. Ed è soltanto con la riaccensione della speranza che
lo “choc del futuro” di cui parla Alvin Toffler può essere
contenuto e diventare occasione di trasformazione dell’esistente.
Al medico tocca sempre, in qualche
modo, ricomporre un corpo in frammenti, perché tale immagine
corporea di sé il paziente possa coltivare nella sua mente. Al
medico spetta rendere familiare l’estraneità rappresentata dalla
malattia o da un nuovo organo, o da una protesi...
La Scienza moderna, nata con
Galileo, non può includere la “mente” tra i fenomeni
riproducibili, ma non può negarne la realtà che, se pur
apparentemente invisibile, si manifesta in quel rapporto unico e
diremmo forse “unificato” che intercorre tra corpo e psiche, al
quale è indissolubilmente legato l’insorgere della mente plasmata
dalle emozioni e dall’ambiente.
Il corpo umano appartiene, infatti,
a una dimensione molto più complessa, e il medico dovrebbe poter
ritornare a considerare che se una parte dell’organismo è malata,
soffrono anche tutte le altre parti.
Ma in futuro quale corpo abiteremo?
Vi saranno identità in transito, identità mutanti?
Oggi il metodo scientifico rimane
ovviamente immutabile, ma l’ottica della visione delle cose è
cambiata. La fisica sub-atomica ci viene in soccorso, poiché
afferma che esistono solo campi di energia le cui onde, vibrando,
si propagano nello spazio. Einstein in tal senso si riferisce al
“campo unificato”.
La risonanza magnetica fa vibrare i
nostri organi e le onde magnetiche creano l’immagine del nostro
corpo. Anche la nostra mente inevitabilmente vibra quando la voce
del medico ci comunica la diagnosi, quando prescrive la terapia, e
così via. E nel vibrare ci induce a ricordare… Tutto ciò ci
riconduce alla considerazione che anche le medicine Altre, come
per esempio quella orientale, hanno tenuto conto dell’unitarietà
dell’essere umano.
Siamo ad un cambiamento
epistemologico che include la possibilità di trasformazione della
persona in costante relazione con l’ambiente e le proprie
emozioni. D’altra parte Einstein ha scritto che «la differenza tra
un computer e la mente umana è che il computer potrà risolvere
virtualmente ogni tipo di problema, ma non ne potrà mai porre
uno».
La nostra mente, infatti, a
differenza delle macchine, è costituita di immagini, visive,
sonore, olfattive, tattili, pregne di piacere e dolore, ordine e
disordine, illusione e realtà, desiderio di eternità, senso del
limite. Nel rapporto Medico-Paziente inevitabilmente affiorano
parti che sfuggono al discorso, non facilmente controllabili, che
possono indurre nel paziente la percezione dolorosa della
frantumazione del Sé.
La parola del medico può, dunque,
inconsapevolmente facilitare processi integrativi e
disintegrativi, ed è proprio la sua voce, insieme al gesto, allo
sguardo, che diventa il veicolo di molteplici messaggi. Ma è
l’intersoggettività della relazione che facilita l’alleanza
terapeutica e la cura. Vi sono dentro di noi, infatti, le
condizioni biochimiche del cambiamento che a volte, a causa
dell’incontro Medico-Paziente, appare addirittura “miracoloso”
come pure distruttivo. Nella comunicazione transferale e
controtransferale, fatta anche di sguardi, di gesti, di silenzi,
di attese, che si stabilisce tra medico e paziente, emergono gli
aspetti affettivi ed emozionali. In tale dinamica possiamo
ritrovare la “poiesis”: vale a dire la capacità di formare, di
creare qualcosa di nuovo rendendo pensabile “il corpo che sono” e
tollerabile il dolore nella prospettiva di una trasformazione, pur
nel meccanismo oscuro e complesso e le relazioni che intercorrono
tra il gene e la sua espressione.
La nostra mente, infatti, non è
solo il risultato dell’elaborazione che il cervello compie delle
informazioni e delle emozioni, ma è quella dimensione che, pur
rimanendo strutturalmente inalterata, come il DNA, è capace di
vedere e dunque immaginare nuovi percorsi, intrecci, scenari che
interagiscono con il corpo e la psiche, in considerazione altresì
che alla rivoluzione terapeutica dei farmaci e a quella
tecnologica delle macchine si aggiunge quella anagrafica.
L’immaginare, in realtà, si
struttura sulle emozioni che lo sostengono. Un immaginare che è
sviluppo della coscienza: nell’Elettra di Sofocle, Oreste si fa
riconoscere da Elettra attraverso la condivisione delle
sofferenze. Insieme, infatti, ravvisano i segni di un soffrire
comune: ed è solo nella condivisione delle emozioni che emergono
nel rapporto che l’Altro si sente riconosciuto. Se non c’è
condivisione, non c’è cura e nemmeno civiltà. Una sofferenza che
ci pone il problema del limite nonostante «lo spazio potenziale
infinito della Scienza». Ed è questo soffrire che fa dire a M.
Merleau-Ponty: «Il corpo che io sono non è mai il corpo che io
penso» e che al medesimo tempo ci fa evolvere.
E, come nel rapporto con l’Arte si
inscrive il «sogno della cura» del mondo, così nel rapporto
medico-paziente ravvisiamo l’Arte della cura e del prendersi cura,
al di là della scienza e della tecnica.
Le nuove tecnologie non possono
sostituire la parola terapeutica del medico, né la mano del medico
che tocca il corpo del paziente.
Molto profonde, e volta per volta
diverse, possono essere le radici di situazioni in cui il corpo si
ritrova in condizione di disagio nella sua stessa pelle, dominato
dal sentimento angosciante dell’estraneità. Ma è proprio in tale
spazio dolente che si inscrive il mistero della “parola” che
traduce e stabilisce l’evolversi del pensiero e dell’essere: una
parola che però oggi è sempre più povera di evocazioni, di
sentimenti, di affetti.
Ritrovare la parola perduta tra
medico e paziente significa riscoprire la parola d’amore, quell’unica
parola che lenisce le sofferenze, calma il dolore, consola nella
notte, contiene le angosce, facilita la guarigione.
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