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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

Recensioni Bibliografiche

 

  "L'ARTE MEDICA TRA SCIENZA E CLINICA"

 

 

  di Santa Fizzarotti Selvaggi

  

Foto della copertina  del libro (Schena Editore, 2009)

 

 

 

Salutiamo con grande simpatia l'uscita del libro di Santa Fizzarotti Selvaggi "...dell'intimità dell'essere. Tra malattia e salute"(Schena Editore, 2009), che raccoglie una serie di scritti di ambito saggistico dell'autrice che gentilmente ha concesso a Frenis Zero l'autorizzazione a riprodurre un capitolo di questo interessante libro. Da segnalare nel libro la prefazione di Umberto Veronesi e la presentazione di Nicola Simonetti.

 

 


 

L'autrice è psicoterapeuta, scrittrice, poetessa e critico d’arte. Dal 1985 al 1990 è stata Presidente dell’Accademia di Belle Arti di Bari. Nel 2003 ha fondato e dirige per Schena Editore la collana “ArtePsiche”, la collana “Il Giardino delle Muse. Quaderni di Poesia e Arte” con G. Dotoli, e dal 2005 la collana “Frenis zero. Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia, Creatività” con G. Leo. Tra  le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Il counselling psicodinamico, con Andreas Giannakoulas, 2003 (Premio Gradiva, Lavarone 2004).

 

Il corpo che io sono non è mai il corpo che io penso…

Merleau-Ponty

 

Premessa

 

«Nello spazio potenziale infinito della Scienza si aprono sempre vie alternative da esplorare, nuovissime o antichissime, modi e forme, apparenze e realtà che possono profondamente modificare le nostre fantasie e alterare l’immagine del sé individuale e collettivo, come per esempio la qualità e soprattutto il senso della continuità del nostro essere», così come afferma Andreas Giannakoulas.

Egli altresì osserva come, oggi, ogni ramo della Scienza sembra ci voglia dimostrare che il mondo si regge su entità impalpabili e invisibili. Diremmo minimali e infinitesimali.

Ci riferiamo ai messaggi del DNA, agli impulsi dei neuroni, ai quark, ai neuroni che si interconnettono dinamicamente nelle strutture dell’anatomia, nei processi della fisiologia o concentrati in una parte del corpo esclusiva e altamente specializzata quale il cervello, la cui produzione è l’“immaterialità” della mente. Ma la mente rende in qualche modo visibile l’invisibile che nei complessi meccanismi biologici del corpo si struttura. Nelle opere d’arte, quali schermi proiettivi della mente – meglio del corpomente –, è possibile osservare la topica corporea, le emozioni, le varie tematiche esistenziali dell’essere in quanto tale.

L’Arte Medica – nel suo significato di Techne – è antica quanto l’uomo, poiché in vari modi questi ha tentato attraverso l’uso di strumenti vari di lenire il dolore, di migliorare le condizioni di vita e di rivolgere il suo sguardo all’eternità.

Si ritrovano cognizioni mediche nel Nei Ching (il Canone di medicina interna) dei Cinesi nel 2800 a.C. che già dal 3600 a.C. avevano sviluppato gli elementi di una osservazione sintomatologica del paziente.

Gli Egizi si occuparono dell’anatomia e, da quanto si conosce, riuscivano tra l’altro a curare le lesioni traumatiche e le ferite. L’ostetricia, di cui si occupavano le donne, ebbe uno sviluppo con Cleopatra che studiò la formazione del feto nell’utero materno. Cleopatra conosceva elementi di medicina, tanto da scrivere libri di medicina, come risulta da un antico manoscritto di Al-Masudi (m. nel 956).

Nel 1200 a.C. i Cinesi praticavano la vaccinazione contro il vaiolo, avendo osservato che vi erano casi di guarigione mediante insufflazione nasale di crosta vaiolosa polverizzata.

Ma è in Grecia che la malattia incominciò ad essere considerata come il sintomo di uno squilibrio generale del paziente, per cui il medico prese ad occuparsi dell’ammalato nella sua interezza.

 

 

Il Giuramento di Ippocrate: senso e significato

 

A questo punto non sembri fuor di luogo ricordare Ippocrate, il medico che trasformò la medicina sciamanica in conoscenza dell’uomo e in scienza che non trascurava l’ambiente, l’anamnesi e l’ereditarietà. Non sembri fuor di luogo a questo punto ricordare il suo Giuramento, valido anche nel nostro tempo. Così egli afferma:

«Considererò come padre colui che mi iniziò e mi fu maestro in quest’arte, e con gratitudine lo assisterò e gli fornirò quanto possa occorrergli per il nutrimento e per le necessità della vita (...) Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni, e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa. Giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali né commetterò mai cose di questo genere. Per lo stesso motivo mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire, ma serberò casta e pura da ogni delitto sia la vita sia la mia arte. Non opererò i malati di calcoli, lasciando tal compito agli esperti di quell’arte. In qualsiasi casa entrato, baderò soltanto alla salute degli infermi, rifuggendo ogni sospetto di ingiustizia e di corruzione, e soprattutto dal desiderio di illecite relazioni con donne o con uomini sia liberi che schiavi. Tutto quello che durante la cura ed anche all’infuori di essa avrò visto e avrò ascoltato sulla vita comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come cosa sacra» (…).

In questo giuramento possiamo riconoscere come nel rapporto con il maestro emerga da parte dell’allievo il sentimento di figlio con tutte le sue ambivalenze. Ippocrate infatti dice:

«Considererò come padre colui che mi iniziò e mi fu maestro in quest’arte, e con gratitudine lo assisterò e gli fornirò quanto possa occorrergli per il nutrimento e per le necessità della vita». I sentimenti che derivano dalla “dipendenza” dal maestro devono essere elaborati al punto da sentire gratitudine e dunque la effettiva possibile reciprocità del rapporto che trascende la “genitorialità”, poiché gli insegnamenti e l’immagine “transferale” del maestro dovrebbero essere tanto radicati in noi da consentire di poterlo «assistere e fornirgli quanto possa occorrergli per il nutrimento e per le necessità della vita».

Nel Giuramento vi sono le fondazioni di quella che oggi si indica come Bioetica e la natura del rapporto Medico-Paziente che trascende la Scienza pur avvalendosi di questa. Il codice ippocrateo rifiutava l’aborto e dunque era ed è a difesa della vita. Nelle affermazioni di Ippocrate possiamo ravvisare come sia fondamentale il paziente nella sua unitarietà di corpo psiche mente, fatta di vissuti ed emozioni che mutano in relazione alle conoscenze delle dinamiche da parte del medico, ovviamente differenti a seconda che si tratti di uomini, donne, anziani, giovani di qualsiasi condizione ambientale e sociale.

Nel Giuramento incontriamo il paziente nel rapporto con il suo medico in grado di comprendere il sintomo, l’intimo inevitabile rapporto tra il dolore fisico e la sofferenza psichica. L’identità del medico appare l’elemento centrale per poter sostenere, contenere il paziente, prendendosene cura. Di qui la necessità assoluta del medico di saper ascoltare profondamente le parole del paziente, i gesti, lo sguardo, l’espressione del volto, la postura, il non-detto e quant’altro appartenga a quel determinato paziente e non ad altri.

 

 

L’Arte Medica: tra Medico, Paziente e Malattia

 

A Cicerone dobbiamo l’immagine altamente umanitaria del medico, e a Seneca (De Clem. XXXVIII, 4) il principio della non discriminazione del malato. Ma tutti appaiono consapevoli che in ogni caso il vissuto del paziente nel confronto della malattia è un vissuto di estraneità e dunque di angoscia.

Il che vuol dire che nella nostra contemporaneità, per alcune patologie, l’estraneità della malattia diventa un oggetto concreto nel proprio corpo: ci riferiamo alla grande tematica dei trapianti d’organo, sia interni che esterni, agli innesti di tessuto, alle protesi, e così via…

Nei Centri di ricerca statunitensi del Wistar Institute in Pennsylvania, un gruppo di ricercatori guidato dalla dottoressa Ellen Heber Katz sembra che abbia trovato un farmaco in grado di rigenerare parti del corpo senza eseguire atti chirurgici. La scoperta è avvenuta per caso, mentre cercavano di curare una malattia chiamata Lupus eritematoso. Naturalmente le ricerche sono in corso e si tenterà di applicare la scoperta anche all’uomo.

La Scienza Medica amplia sempre di più le frontiere del possibile, e l’Arte Medica, nel suo più autentico significato, si ritrova oggi tra problematiche complesse, sia relazionali che tecnologiche e organizzative. Tutto ciò determina una risonanza emotiva profondissima nel paziente, con l’emergere di inaspettati vissuti e aspetti latenti e/o rimossi.

Le innovazione tecnologiche che applicano nella realtà le conoscenze scientifiche non sono senza effetti sulla persona del paziente e del medico, nonché del loro rapporto. Delegare totalmente le diagnosi alle “macchine” significa abdicare alla propria funzione di medico, così come non tenerne conto può significare credere nella propria onnipotenza narcisistica: in entrambi i casi il paziente viene negato nella sua realtà di persona (burn out).

Non a caso alcuni ritengono che sia in atto un grande cambiamento nel rapporto tra Paziente e Medico in seguito alla parcellizzazione delle varie aree mediche. Nel corso dell’iter diagnostico e terapeutico spesso il paziente incontra molti specialisti. Vi sono le degenze brevi e i lungodegenti, la cronicità di una patologia e le urgenze. Il tipo di patologia «determina un rapporto piuttosto che un altro. In realtà sono molte le domande che sorgono in questa area dei rapporti umani e in questa éra carica di trasformazioni». Ma l’uomo dentro di sé rimane inalterato, per cui cercherà sempre il suo medico a cui affidarsi.

Il “femminile genitoriale” nel prendersi cura dell’Altro

 

Il medico, in ogni modo e dal nostro punto di vista, rappresenta l’emergere materno e del “femminile” nel prendersi cura dell’Altro. Il paziente, infatti, rievoca le tecniche di accudimento materne. Non sembri il nostro dire una costante ripetizione, bensì una riaffermazione di concetti a nostro favore fondanti e di base.

In ogni caso è essenziale osservare i cambiamenti intervenuti nell’area scientifica nei vari ambiti della medicina, quali per esempio per quanto riguarda la Fecondazione Medica Assistita, che ci inducono a una riflessione sulla separazione della sessualità dalla fecondazione e sulle nuove generazioni che possono nascere senza quella particolare fantasia che si riferisce alla “scena primaria”, con risvolti immaginabili, ma ancora poco conosciuti.

Queste generazioni diventano un evento affidato all’istituzione medica, che nel caso di donatori e via discorrendo si ritrova con un “Terzo polo” particolarmente pregnante e problematico (cfr. Poullion).

Cambia l’idea di maternità e dunque di genitorialità, e finanche quello che alcuni definiscono “il destino della nascita” e del “corpo”. Mi riferisco a coloro che desiderano un adeguamento di sesso: i Transessuali.

Così come la Trapiantologia che inaugura frontiere nuove del rapporto dell’essere umano con il proprio corpo che vive grazie all’organo dell’Altro, o ad un organo “bionico”… e così via. Oggi si pensa ad un cybercorpo: ibridazioni corporee e identitarie…

Quale futuro attende la Scienza Medica e l’Uomo? Si tratta di pensare il non ancora che ci appare già presente.

Prometeo per la mitologia era «facitore di uomini e in origine divinità del fuoco». In questo contesto si sceglie questa immagine perché anche oggi l’uomo intende creare l’uomo con le biotecnologie. Cambiano i tempi, ma l’essere umano rimane inalterato nelle sue profondità.

Quando ci riferiamo a Prometeo parliamo di noi, sia che si tratta del plasmare l’uomo dal fango che del crearlo biotecnologicamente: l’illusione dell’eternità ha abitato in Prometeo e dimora nel nostro tempo. Ma per il desiderio di onnipotenza spesso non c’è perdono, come il mito ci insegna.

L’intrusività della tecnologia vìola, in ogni caso, l’intimità del paziente, che oggi più che in altri tempi necessita di una relazione con il medico in cui la fiducia, quale possibilità di affidarsi, diventa davvero un elemento cardine dell’intera relazione. In tal modo, con la riaffermazione della fiducia, il paziente continuerà a sentire di essere una persona, e dunque a poter affrontare i cambiamenti con la possibilità di ridefinire e integrare l’identità biologica senza lacerazioni irreversibili dell’Io.

Non è più un mistero che i sintomi somatici siano la parte manifesta di un processo molto più complesso, sostenuto da interni e lontani conflitti, sofferenze, lutti non elaborati… Vi sono opere letterarie che sottolineano i sintomi psicosomatici dei protagonisti, come per esempio Il malato immaginario di Molière.

Il dolore, qualunque esso sia, in realtà ci invita a fermarci, e a volte ci appare come l’ultima parola detta dal nostro Sé per poter avviare un processo terapeutico di guarigione. (Cfr. J.-B. Pontalis).

La malattia è una metafora (dal greco metaphérein e dal latino transferre, e significa trasportare), trasporto all’esterno di qualcosa che altrimenti non si può dire.

Nel corso della storia umana la “metafora” si è sviluppata “insieme all’evoluzione umana e della sua psiche, e spesso è stata assimilata all’allegoria e al simbolo”. Ed è la metafora che spesso facilita gli insights. Termine, questo, intraducibile, che riguarda quella particolare improvvisa “illuminazione” della mente. Il medico, a volte e come affermano alcuni studiosi, per meglio comunicare con il suo paziente deve utilizzare le metafore sottese da un processo creativo che consente di dar forma e senso all’inesprimibile.

Molti pazienti, infatti, non accettano la propria difficile condizione di sofferenza, ma attraverso i campi intermedi della comunicazione possono avvicinarsi ai nuclei della propria sofferenza e darsi una “rappresentazione accettabile di sé” nella realtà. In tale nuova prospettiva ogni paziente necessita di una sua propria metafora. Ed è qui che il medico deve poter accendere risorse e affetti attraverso la sua propria capacità creativa di essere medico.

Le emozioni: tra Scienza medica, Tecnica e Paziente

 

Di qui, nonostante il sostegno della Tecnica, la necessità di una formazione del medico: ed è a tale formazione che abbiamo dedicato parte della nostra esperienza. Riconsiderare il paziente nella sua complessità di persona non significa evidentemente rinunciare a quanto la scienza ci indica.

La Medicina pone le sue radici nelle discipline umanistiche, e in tal senso è conoscenza dell’essere umano, che in ogni caso appare sempre diverso, pur nella somiglianza. Nessuno può negare che ognuno di noi ha un “sistema immunitario” che reagisce diversamente a seconda dell’individuo, dell’agente patologico, e così via.

La Scienza propone nuovi percorsi che scaturiscono dall’aver tenuto conto della riproducibilità del fenomeno: segue, cioè, il metodo scientifico che necessita di alcuni parametri e soprattutto di rare smentite. La Scienza, perché possa definirsi tale, necessita dell’osservazione di fenomeni riproducibili, mentre la Conoscenza, che la sostiene nel suo esistere, si dispone all’attraversamento di territori e ambiti diversi, esprimendo quelle possibilità proprie dell’essere umano e della sua creatività.

Alla luce di tale considerazione, il rapporto Medico-Paziente pone in costante relazione le conoscenze del medico e i vissuti del paziente in una reciprocità in cui le emozioni, al di là delle “macchine”, transitano dal paziente al medico e viceversa. In realtà siamo immersi nelle emozioni anche quando tentiamo di negarle: una trama alla quale risulta difficile sfuggire, poiché tesse la nostra vita sin dall’epoca prenatale, in cui siamo stati impregnati dalle emozioni dell’Altro che ci ha plasmato così come il nostro DNA ha permesso che fossimo plasmati. In definitiva siamo stati costruiti in un intreccio di ambienti: interno, esterno, profondamente arcaico e contemporaneamente sempre nuovo e diverso, come quello determinato dall’intreccio genetico.

 

L’incontro con il Paziente

 

Freud è stato il primo a cercare nell’infanzia l’origine dei traumi che riemergono nella vita dalla nostra più lontana memoria, determinando quella che egli indicò come coazione a ripetere, apparentemente ineluttabile. In realtà, segni di traumi “altri” possono essere già stati lasciati in epoche più remote, nel grembo materno che plasma il bambino a “immagine e somiglianza” di colei che lo genera.

Le ferite materne transitano nel bambino quali immagini riflesse che indurranno più facilmente la stesura di un copione della vita piuttosto che di un altro. È noto che le immagini fantasmastiche di precedenti linee genitoriali attraversano le generazioni senza essere mai riconosciute.

Nell’incontro con l’Altro riaffiorano le emozioni, e nel rapporto Medico-Paziente saranno queste a far sì che possa venire a costituirsi il luogo della condivisione della sofferenza, dalla quale il medico deve poter avere la giusta distanza per potere prendersi cura del paziente.

Oggi i neurofisiologi e gli scienziati che si occupano della biologia molecolare sottolineano l’importanza delle emozioni nel comportamento delle proteine e nella funzione della coscienza. L’emozione, pur nella sua dolorosità, è in definitiva la conditio sine qua non di alcuni meccanismi di difesa, dei processi cognitivi, e così via discorrendo. Negare l’emozione appare dannoso. Non è un caso che i Greci credessero al Fato per tollerare gli eventi dolorosi – tragici – dell’esistenza. In tal modo essi, pur prendendo la distanza dalle cose, non negavano l’emozione e riuscivano a costruire nuovi spazi di coscienza. Le origini della Tragedia sono a tutti note. Certo è che siamo pieni di cicatrici, alcune delle quali possono riaprirsi e ricominciare a sanguinare. Ma l’ambiente, la creatività propria dell’essere umano, possono tamponare il sanguinamento e trasformare il luogo della cicatrice – il trauma – in possibilità di comprensione degli eventi accaduti. E sarà la ritrovata memoria di questi a modificare la percezione di Sé e del proprio essere in relazione con l’Altro-da-Sé, compresa la malattia percepita come Estraneità.

L’uso delle tecniche che la Scienza pone a disposizione del Medico diventa allora meramente strumentale, al fine di facilitare la risoluzione di patologie, ma non si sostituiscono all’ineludibile rapporto clinico e terapeutico in cui fondante è l’alleanza terapeutica Medico-Paziente. Lo sguardo e la parola del medico, l’empatia propria che si stabilisce fra l’uno e l’altro, possono determinare la riaccensione di emozioni e risorse sopite in un angolo della memoria inconscia del paziente.

D’altra parte, molti studiosi affermano che gli esperimenti dimostrano che le molecole comunicano fra loro. Molti ricercatori ci dicono che le proteine in questa comunicazione si trasformano.

Ma, oltre ai processi metabolici, da che cosa è sollecitato il cambiamento? Forse dalle emozioni, dalla parola, dagli stimoli ambientali che possono indurre condizioni di plasticità, che a sua volta si strutturerà a livello neuronale e sinaptico quale base di ulteriori esperienze (cfr. Kandel, 1999).

Certo è che l’essere umano è un essere complesso che, pur rimanendo inalterato nelle profondità del suo inconscio, proprio come inalterata rimane la struttura del gene, può esprimersi diversamente o in conformità ai condizionamenti ambientali.

In tal senso il lavoro “clinico” del medico, vale a dire il suo intervenire “al letto” del paziente, diventa fondamentale, poiché attraverso il suo ascolto e la riformulazione di questo in parola può portare alla luce ciò che si è inscritto profondamente nel vissuto e nella memoria inconscia del paziente.

Nel rapporto Medico-Paziente la storia personale dell’uno e dell’altro ritorna attraverso la parola che deve poter essere “sentita” e ascoltata come una partitura musicale. La parola del Medico, allora, diventa lo strumento di una nuova “poiesis”, la possibilità di “esprimere” il proprio “mondo” “ri-creandolo”, “ri-fabbricandolo”, proprio come accade quando la parola si fa poesia e consente di rischiarare l’oscuro che è in noi. È evidente che l’esempio è paradigmatico dell’“agire”, del “fare” del medico, che significa soprattutto un “sentire” le parole del paziente. Non sono casuali le tecniche di musicoterapia e di arte terapia, in genere utilizzate in alcuni reparti, come quelli pediatrici.

Ma tutto ciò si concretizza nella comunicazione, che è un “farsi” dinamico che si stabilisce tra l’uno e l’altro. Si crea così un rapporto che evoca quel “dolore” che nelle cicatrici sempre si racchiude. In tale speciale comunicazione, individui lontani per esperienze e per coordinate spazio-temporali nonché ambientali si incontrano, mentre il loro “parlare” li determina e a sua volta cambia il loro modo di sentire, plasmando la mente di entrambi. In ogni caso si tratta di un parlare che riconduce alla voce materna attraverso la quale il bambino comincia a conoscere il mondo, ad immaginarlo, a relazionarsi con l’esterno. La voce della madre è il primum movens dell’essere umano, una voce che è linguaggio attraverso il quale madre e bambino insieme “fanno” il mondo. In tal senso il medico, che in ogni caso ripropone l’immagine genitoriale alla persona che regredisce quando si ammala, finisce per assomigliare ad un «fabbro del parlar materno» (cfr. Dante, Purgatorio, Canto XXVI).

 

 

La funzione immaginativa delle Arti nel processo terapeutico:

alcune riflessioni

 

Il pensiero estetico trasfigura l’esistente e consente di tollerare la realtà. È proprio l’arte che prefigura il non-ancora, e da tutto ciò che definiamo informe, dal caos sconosciuto che abita dentro di noi, trae forme condivisibili, generando possibilità di dialogo e comunicazione. Di qui la riflessione che le Arti, e in modo particolare la pittura e la poesia, tra loro mai disgiunte (Ut pictura poesis, diceva Orazio), possono facilitare l’emergere di aspetti rimossi che contengono le germinazioni psicosomatiche della malattia. Non a caso in alcuni reparti pediatrici, come già detto, si fa ricorso all’Art Therapy per poter sostenere e contenere le angosce del bambino.

Nella creatività possiamo riconoscere il senso della continuità dell’essere, pur nel mutamento che in tal modo non appare così angoscioso poiché possibilità di incontrare l’Alterità quale parte di noi da conoscere per poterla riconoscere.

Due studiosi americani, James J. Stark (oncologo ) e Jonathan K. Nelson (storico dell’arte), hanno notato che una delle sculture scolpite da Michelangelo nelle Cappelle Medicee (1524), La Notte, presenta delle anomalie al seno. Ho dunque osservato anch’io a lungo l’opera di Michelangelo e in realtà nel seno sinistro appare qualche anomalia, quale una retrazione del capezzolo, proprio come se ci fosse un tumore. Nulla di ciò è rilevabile nelle rappresentazioni de Il Giorno, L’Aurora e Il Tramonto.

Michelangelo ha associato tale patologia – allora poco conosciuta ma comunque esistente – alla notte che giunge, alla morte imminente quale conclusione della vita. Una morte che per l’Artista era rigenerazione e rinascita in un altrove. Ed è soltanto con la riaccensione della speranza che lo “choc del futuro” di cui parla Alvin Toffler può essere contenuto e diventare occasione di trasformazione dell’esistente.

Al medico tocca sempre, in qualche modo, ricomporre un corpo in frammenti, perché tale immagine corporea di sé il paziente possa coltivare nella sua mente. Al medico spetta rendere familiare l’estraneità rappresentata dalla malattia o da un nuovo organo, o da una protesi...

La Scienza moderna, nata con Galileo, non può includere la “mente” tra i fenomeni riproducibili, ma non può negarne la realtà che, se pur apparentemente invisibile, si manifesta in quel rapporto unico e diremmo forse “unificato” che intercorre tra corpo e psiche, al quale è indissolubilmente legato l’insorgere della mente plasmata dalle emozioni e dall’ambiente.

Il corpo umano appartiene, infatti, a una dimensione molto più complessa, e il medico dovrebbe poter ritornare a considerare che se una parte dell’organismo è malata, soffrono anche tutte le altre parti.

Ma in futuro quale corpo abiteremo? Vi saranno identità in transito, identità mutanti?

Oggi il metodo scientifico rimane ovviamente immutabile, ma l’ottica della visione delle cose è cambiata. La fisica sub-atomica ci viene in soccorso, poiché afferma che esistono solo campi di energia le cui onde, vibrando, si propagano nello spazio. Einstein in tal senso si riferisce al “campo unificato”.

La risonanza magnetica fa vibrare i nostri organi e le onde magnetiche creano l’immagine del nostro corpo. Anche la nostra mente inevitabilmente vibra quando la voce del medico ci comunica la diagnosi, quando prescrive la terapia, e così via. E nel vibrare ci induce a ricordare… Tutto ciò ci riconduce alla considerazione che anche le medicine Altre, come per esempio quella orientale, hanno tenuto conto dell’unitarietà dell’essere umano.

Siamo ad un cambiamento epistemologico che include la possibilità di trasformazione della persona in costante relazione con l’ambiente e le proprie emozioni. D’altra parte Einstein ha scritto che «la differenza tra un computer e la mente umana è che il computer potrà risolvere virtualmente ogni tipo di problema, ma non ne potrà mai porre uno».

La nostra mente, infatti, a differenza delle macchine, è costituita di immagini, visive, sonore, olfattive, tattili, pregne di piacere e dolore, ordine e disordine, illusione e realtà, desiderio di eternità, senso del limite. Nel rapporto Medico-Paziente inevitabilmente affiorano parti che sfuggono al discorso, non facilmente controllabili, che possono indurre nel paziente la percezione dolorosa della frantumazione del Sé.

La parola del medico può, dunque, inconsapevolmente facilitare processi integrativi e disintegrativi, ed è proprio la sua voce, insieme al gesto, allo sguardo, che diventa il veicolo di molteplici messaggi. Ma è l’intersoggettività della relazione che facilita l’alleanza terapeutica e la cura. Vi sono dentro di noi, infatti, le condizioni biochimiche del cambiamento che a volte, a causa dell’incontro Medico-Paziente, appare addirittura “miracoloso” come pure distruttivo. Nella comunicazione transferale e controtransferale, fatta anche di sguardi, di gesti, di silenzi, di attese, che si stabilisce tra medico e paziente, emergono gli aspetti affettivi ed emozionali. In tale dinamica possiamo ritrovare la “poiesis”: vale a dire la capacità di formare, di creare qualcosa di nuovo rendendo pensabile “il corpo che sono” e tollerabile il dolore nella prospettiva di una trasformazione, pur nel meccanismo oscuro e complesso e le relazioni che intercorrono tra il gene e la sua espressione.

La nostra mente, infatti, non è solo il risultato dell’elaborazione che il cervello compie delle informazioni e delle emozioni, ma è quella dimensione che, pur rimanendo strutturalmente inalterata, come il DNA, è capace di vedere e dunque immaginare nuovi percorsi, intrecci, scenari che interagiscono con il corpo e la psiche, in considerazione altresì che alla rivoluzione terapeutica dei farmaci e a quella tecnologica delle macchine si aggiunge quella anagrafica.

L’immaginare, in realtà, si struttura sulle emozioni che lo sostengono. Un immaginare che è sviluppo della coscienza: nell’Elettra di Sofocle, Oreste si fa riconoscere da Elettra attraverso la condivisione delle sofferenze. Insieme, infatti, ravvisano i segni di un soffrire comune: ed è solo nella condivisione delle emozioni che emergono nel rapporto che l’Altro si sente riconosciuto. Se non c’è condivisione, non c’è cura e nemmeno civiltà. Una sofferenza che ci pone il problema del limite nonostante «lo spazio potenziale infinito della Scienza». Ed è questo soffrire che fa dire a M. Merleau-Ponty: «Il corpo che io sono non è mai il corpo che io penso» e che al medesimo tempo ci fa evolvere.

E, come nel rapporto con l’Arte si inscrive il «sogno della cura» del mondo, così nel rapporto medico-paziente ravvisiamo l’Arte della cura e del prendersi cura, al di là della scienza e della tecnica.

Le nuove tecnologie non possono sostituire la parola terapeutica del medico, né la mano del medico che tocca il corpo del paziente.

Molto profonde, e volta per volta diverse, possono essere le radici di situazioni in cui il corpo si ritrova in condizione di disagio nella sua stessa pelle, dominato dal sentimento angosciante dell’estraneità. Ma è proprio in tale spazio dolente che si inscrive il mistero della “parola” che traduce e stabilisce l’evolversi del pensiero e dell’essere: una parola che però oggi è sempre più povera di evocazioni, di sentimenti, di affetti.

Ritrovare la parola perduta tra medico e paziente significa riscoprire la parola d’amore, quell’unica parola che lenisce le sofferenze, calma il dolore, consola nella notte, contiene le angosce, facilita la guarigione.

 

 

Opere di riferimento

 

 

 

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