Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853
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"PSICOTERAPIA E PSICHIATRIA: L'URGENZA PSICHIATRICA
IN ETA' EVOLUTIVA"
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di Mario
Bertolini
Il
1 aprile 2010 Mario Bertolini, Ordinario di Neuropsichiatria
Infantile presso la Facoltà di Medicina di Milano, membro
ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e fondatore
dell'Associazione Italiana di Psicoanalisi (A.I.Psi.), è purtroppo
prematuramente scomparso. Per ricordarlo proponiamo il testo di
questo intervento da lui presentato nel 2008 a Bari ad un convegno
a cui fu invitato dall'Associazione Psiche e dal Prof. Andreas
Giannakoulas che con lui collaborava in qualità di didatta
della Scuola di psicoterapia psicoanalitica dell'età evolutiva e
adolescenziale (A.S.N.E.A.).
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Terrorizzato da sensazioni visive,
acustiche o somatestesiche che sente attuali come quelle del sognare,
mentre spesso gli è difficile sia dormire che sognare nel sonno, è
incapace di riconoscere i propri terrori come il proprio sognare.
Costretto a sentirli, nella loro concretezza sensoriale, assolutamente
veri nonostante siano del tutto irrealistici, bloccato in uno sviluppo
che spesso i genitori si erano abituati a pensare ordinato e normale,
preso in una tendenza antisociale, o in un delirio florido o in un
inaspettato tentativo di suicidio o in una intossicazione da droga, il
paziente urgente viene portato, non chiede, né potrebbe chiedere, la
consultazione.
Se i genitori non ne fanno un diniego, l’urgenza del paziente si
impone a loro con il senso di un proprio fallimento per un figlio
improvvisamente irraggiungibile o perduto, un fallimento sentito come
inaspettato e immeritato.
Nel raccogliere insieme a lui tratti dissociati del suo vissuto,
l’urgenza del paziente si impone al medico generando vari livelli di
ansietà. Il neuropsichiatria infantile al di là delle sue propensioni
teorico-cliniche per la neurologia, la psichiatria o la psichiatria
psicodinamica non può non percepire opacità, complessità e ambiguità
varie. Sente urgente la necessità di poter essere un mezzo attraverso
il quale il paziente possa avvicinarsi al potenziale significato
simbolico delle sue sensazioni, ma le loro caratteristiche sensoriali
funzionano come un muro che rende il mondo interiore inesistente per
il paziente e irraggiungibile per il medico.
Soltanto dopo una consumata esperienza potrebbe diventare capace di
non spiegare o di non esortare il paziente a riconoscere che esiste in
lui un mondo di sentimenti col quale dovrebbe essere familiare anche
se non lo è e non può esserlo spontaneamente. Una tale rinuncia ad
affermare le proprie conoscenze o intelligenza potrebbe essere
considerata dal medico qualcosa come una 'debacle', mentre nel tempo
della sua formazione si farà lentamente strada il riconoscimento che
l’unica verità è quella che potrebbe emergere dal paziente stesso e
che la verità dell’esperienza di sé si nega al convincimento
dall’esterno.
Il paziente urgente non può incuriosirsi al come mai in questo momento
gli accada di trovarsi in questo stato: tutto è un dato di fatto.
Rapporti, confini, limiti, similarità e differenze fra fantasia,
realtà di sé e mondo esterno non fanno parte del suo stare al mondo.
E’ impossibile classificare il paziente urgente sulla base di
categorie psicopatologiche: l’urgenza che il paziente fa sentire viene
da un tipo di funzionamento dell’apparato psichico che è psicotico, ma
questo non può indicare che il paziente sia affetto da una malattia
psicotica e quale se depressiva, schizofrenica, perversa.
Una ragione non secondaria della difficoltà e dell’impegno necessari
viene poi dalla questione che il paziente urgente è un evento
frequente con un forte impatto epidemiologico. Fa parte della
quotidianità del lavoro clinico e teorico sia in ospedale che nel
territorio. Ormai i neuropsichiatri infantili sanno che i politici
della sanità regionale e nazionale, interpretando la pressione delle
famiglie, dei fatti di cronaca e delle loro personali riflessioni,
vanno sollecitando ai medici e ai loro ospedali presidi sanitari
capaci di affrontare l’urgenza psichiatrica in età evolutiva e di
garantirne i livelli essenziali di assistenza
Nella combinazione di tutti questi aspetti, l’urgenza di un paziente
rappresenta per il medico una serie di “fatti clinici” impegnativi.
Rende necessarie riflessioni varie sulla indicazione farmacologica,
sulla possibilità o impossibilità di curare il paziente durante e dopo
il ricovero, sulla opportunità di prendere in cura la coppia
genitoriale, in definitiva sulla tecnica e sulle varie tecniche
possibili.
In tutto ciò assume valore centrale il fatto che il paziente urgente è
anche capace di suggerire al medico di essere terrorizzato da qualcosa
di se stesso. Il muro, segno immediatamente evidente della propria
irraggiungibilità per i genitori, gli amici, il medico, gli
infermieri, può avere riferimenti e rapporti col terrore di qualcosa
di sé, e segnalare, proprio attraverso il negarlo, un bisogno di
essere assistito. Una semeiotica del muro, se potessimo chiamarla
così, potrebbe suggerire multipli spessori di significato e
indicazioni terapeutiche non evidenziate dal comportamento.
Talvolta rapidamente, talvolta lentamente il medico coglie aspetti e
funzioni ambigue nel muro accennato poco sopra: costruendolo e
irrobustendolo il paziente allontana e scoraggia il medico e nello
stesso momento protegge se stesso da angosce o da agonie del suo mondo
interno: due scopi sincreticamente organizzati in una sola robusta
difesa. La terapia potrebbe così orientarsi verso due mire contigue ma
non coincidenti: organizzare per lui la massima tranquillità possibile
nell’ambiente esterno e andare incontro alla parte di lui quasi
irraggiungibile o congelata.
Occorre immaginare che l’eventuale scongelamento di aspetti di se
stesso sarà un lavorio psicofisico particolarmente impegnativo per lui
e per chi lo cura. Il paziente, nell’urgenza, sottintende e fa
sottintendere che i suoi stati psichici sono da giustificare e sono
infatti da lui stesso giustificati: il muro da tenere congelato e
robusto è una reazione contro qualcosa o contro qualcuno. Il medico
esperto può immaginare che, quando nel processo terapeutico gli
accadesse di sentire un autentico bisogno che viene da sé di opporsi a
ciò che è non sé o che un tale bisogno di sentirsi diverso, non
sarebbe né un distruggere concretamente né un essere concretamente
distrutto, il muro si scongelerebbe ma il paziente potrebbe sentire in
questo sia un nuovo inizio che uno sconvolgimento di sé.
In questa presentazione mi propongo di riflettere su alcuni aspetti di
questo processo: sul far sentire qualcosa a qualcuno, sulla questione
della distruzione, sulla regressione.
Nella maggioranza dei casi tutto il personale cerca di procurargli
una stanza piuttosto silenziosa e di proteggerlo contro il fatto che
gli altri pazienti in reparto non rispondano ai suoi stati eccitati
con analogo eccitamento. L’accorgimento di preparare un ambiente
tranquillo non è sempre attuabile facilmente: talvolta accade che il
personale medico e paramedico sia portato a reagire al paziente
agitato. E’ un inconveniente che tende tuttavia a diminuire se si
fanno strada consapevolezza di sé e del gruppo.
L’area delle differenze fra reagire specularmente agli stati eccitati
del paziente o facilitarlo sostenendolo nelle sue angosce, viene
appresa dai curanti sulla base dell’esperienza e una dialettica fra
loro può orientare talvolta anche scelte farmacologiche importanti.
Una paziente ci viene trasferita dalla comunità, dove è stata
collocata con la sorella da circa 10 giorni, in preda a uno stato di
agitazione psicomotoria acuta con allucinazioni. Sente e vede il suo
doppio che le dice di essere il demonio e le impone che cosa fare e
che cosa dire, suggerendole anche come uccidersi. Tre giorni prima del
ricovero era stata visitata nel pronto soccorso di un ospedale di
un’altra città dove le era stata fatta diagnosi di sindrome
dissociativa e consigliata una medicazione antidepressiva e
deliriolitica. Era poi tornata alla comunità dove era ricoverata con
la sorella minore e da lì, per il persistere della sintomatologia, al
ricovero presso il nostro reparto.
Ha 15 anni e ha raggiunto i suoi genitori in Italia tre anni fa dopo
che non li aveva più visti da quando aveva 5 anni. Proviene da un
paese asiatico. Tra papà e mamma erano frequenti litigi violenti e la
ragazzina ne era implicata: la mamma la considerava incapace e
disprezzabile come suo padre, mentre la sorella era considerata dalla
madre la figlia ideale. Nel corso di un ennesimo litigio, il papà
accoltella a morte la mamma, ma questa, ferita, non riesce a fuggire
perché la porta è stata chiusa a chiave dall’esterno dalla paziente
che, non riuscendo ad interrompere il litigio, si era riparata appunto
al di là della porta.
Chi di noi l’ha presa in cura ha deciso di togliere la medicazione
antidepressiva e ha mantenuto quella deliriolitica pensando che la
paziente non era depressa per la perdita della mamma. Piuttosto
attraverso le allucinazioni faceva pensare che realizzasse un
desiderio, che la parte diabolica di lei che aveva impedito la fuga
alla mamma ferita non le appartenesse e venisse da fuori. Averle
cercato di comunicare che forse, senza saperlo, lei attribuiva a
questa figura ciò che di cattivo lei non poteva pensare, le ha
consentito in tempi brevi di raccontare come era difficile la sua
vita, cattive la mamma e la sorella, dolorosa la lontananza da papà.
Ricordava e pensava a questo senza più allucinazioni, ma a questo
punto ha dato segni fisici di crollo, come svenimenti e cefalee.
Forse chi le aveva prescritto l’antidepressivo poteva sentirsi
depresso se si identificava con una povera bambina orfana. La paziente
era orfana ma, almeno all’inizio, non era depressa.
Riprendendo al di là di questo caso la semeiotica del muro, l’emergere
di elementi psicopatologici pur gravi che il paziente d’altra parte
non teme, non riesce tuttavia a nascondere a chi sta cercando di
soccorrerlo che l’allontanarlo non è forse l’unica necessità del
paziente. Almeno per ora è quella più mostrabile, mentre l’altra o le
altre sono solo suggerite, o fatte sentire.
Egli, il paziente, sta dedicando ogni sua energia a tenere a bada una
crisi di tipo diverso rispetto alla quale la psicopatologia
descrittiva come delirio, allucinazione, confusione mentale, psicosi
può esaudire soltanto una richiesta di oggettivazione diagnostica. Il
paziente infatti, prima o poi, trova modo di comunicare al medico, che
ciò che gli fa veramente terrore potrebbe essere la sua realtà
psichica personale situata interiormente.
In questo suo comunicare lascia nel medico un’impronta personalizzata
di sé. Il campo di attenzione di chi cura e di chi è curato potrebbe
non rimanere solo relativo all’odio, aggressività, confusione mentale,
delirio, intossicazione, eccetera, ma potrebbe estendersi alle
conseguenze nella realtà interiore del paziente, cioè agli elementi
benigni e persecutori da controllare in questo irraggiungibile mondo
interiore.
“L’elemento clinico della depressione o della maniacalità dell’umore
equivale a una copertura temporanea dei fenomeni interiori, mentre la
guarigione equivale ad un circospetto sollevamento della nebbia in
quelle zone del mondo interiore nelle quali si può permettere
tranquillamente agli elementi benigni e a quelli persecutori di
incontrarsi e lottare” (Winnicott, 1963).
Il paziente urgente non dice esplicitamente, ma comunica, suggerendo o
facendo sentire, che non potrebbe altro che soccombere se potesse
coltivare il dubbio che i terrori che vede e sente provenire dal di
fuori, potrebbero venire da percezioni di sé nel suo mondo interiore.
Qualcosa che esista nel mondo interiore e che, inatteso e non voluto,
sia soprattutto impensabile, funziona come il terrore di perdere se
stesso mentre si vive: una “agonia”.
Foto: Winnicott
Winnicott usa questo nome per differenziare questi stati dalla più
conosciuta e pensabile ansietà. Un tale suggerire o far sentire, pure
non capace di sviluppi attuali e immediati, può potenzialmente
favorire trasformazioni di grande interesse per la cura. Il paziente,
insomma, così capace di convincere esplicitamente chi gli sta intorno
di esistere soltanto nell’ agire, fa sentire o suggerisce di aver
terrore del sentire.
Un fenomeno psichico
centrale:trasferire e ricevere affetti.
Non è automatico che questo
suggerimento e far sentire venga raccolto dal medico. Si tratta,
quando accade, di un incontro possibile fra due soggettività quella
del paziente e quella del medico o di due privatezze protette e
nascoste da ciò che è maggiormente evidente o maggiormente esibito: da
una parte l’eccitamento, dall’altra il ruolo.
Il fenomeno consiste di un trasferimento di affetti ed emozioni (transfert) e di un possibile, non automatico né obbligatorio, effetto
conseguente in chi lo riceve (controtransfert). Un tale trasferimento
non obbedisce a logiche formali o consequenzialità. Si inserisce
piuttosto all’interno di una cornice non concreta, neppure astratta e
concettuale, sentita come una reale esperienza emozionale. Un tale
fenomeno chiaroscurale costituisce l’atmosfera terapeutica e il medico
può iniziare a pensare che il terrore potrebbe venire dalla minaccia
che emerga qualcosa che il paziente ha dovuto cancellare, ma che è già
esistito in lui. Il terrore cioè non potrebbe sussistere se non
venisse da qualcosa di già provato.
Nel loro insieme questi fenomeni di trasferimento e di ricevimento
non trasportano idee, ma soprattutto stati psicofisici che non sono
ancora diventati emozioni e pensieri definibili. L’uno sta in scambio
dell’altro o, come viene suggerito dalla parola controtransfert, l’uno
sta contro l’altro: l’assetto psicofisico necessario al medico per
ricevere funziona con modalità e scopi contro la modalità e gli scopi
tipici dell’assetto psicofisico per trasmettere, suggerendo o facendo
sentire.
Poter sentire il suggerire del paziente è permesso da uno stato di
concentrazione su di sé. La concentrazione del medico potrebbe
assomigliare alla concentrazione del paziente che è effettivamente
concentrato nell’agire i suoi sintomi, ma i due tipi di concentrazione
anche si differenziano. Nel caso del medico, la concentrazione su di
sé viene dalla sua formazione personale e professionale e viene
utilizzata come lo strumento del suo lavoro clinico. La capacità di
concentrarsi sui propri stati psicofisici da parte del medico permette
di sentire l’impronta del paziente su di lui e diventa un corrimano
utile per potere raggiungere il paziente non in termini teorici o
generalizzati, impersonali ma nei termini del suo idioma privato.
Nello stesso momento tale capacità permette al paziente di sentirsi
accolto per ciò che di sé egli fa sentire, e dunque facilita le sue
capacità di incuriosirsi a sé o di sollevare in modo circospetto un
po’ di nebbia in certe zone del suo mondo interiore. Infine questa
capacità del medico, che deve molto ma non coincide con le sue
capacità intellettive e con le conoscenze della propria disciplina, ha
per riferimento preciso ed implicito la promessa al paziente di essere
in grado di occuparsi di lui. E’ una capacità di sostenere, o, come si
potrebbe anche dire, di contenere l’ incerto suggerire del paziente.
Lo spessore della parola contro è vario e nemmeno facilmente
definibile: potrebbe riguardare passività contro attività, ricezione
contro trasmissione, comprensione contro accordo o disaccordo. Anche
nella tradizione psichiatrica, oltre che nella teoria e tradizione
psicoanalitica da cui deriva, la parola controtransfert sta ad indicare
l’insieme degli stati che chi cura percepisce in relazione a ciò che
il paziente trasferisce dentro di lui.
L’atmosfera terapeutica contiene un paradosso sconosciuto alla
psichiatria prevalentemente diagnostica: la discrepanza tra lasciarsi
improntare e non prendere provvedimenti correttivi. Sostenere il
paziente in questa fase potrebbe voler dire adattarsi il più possibile
alle sue necessità senza spiegare e senza reagire.
Il paziente, dal canto suo, potrebbe essere sostenuto nel mantenere vive
molteplici domande anche se non ha a disposizione risposte semplici o
immediate. Nella mia esperienza potrebbero essere: se l’ambiente non
reagisce ai terrori che sto cercando di proiettare in esso, posso
continuare ad essere certo che i miei terrori e quelli che ho avuto
necessità di vedere nell’ambiente siano una cosa sola? Questo medico
piuttosto silenzioso che non reagisce a me può continuare ad essere
identico a me e io a lui? I miei terrori vengono dal di fuori o dal di
dentro?
Potrebbe innescarsi un processo: la serie di domande che il paziente
si pone e di cui non trova immediata risposta, crea uno spazio
intermedio non solo fra il sì e il no, ma anche fra assenza e presenza.
In questo spazio potenziale il paziente potrebbe iniziare a veder
comparire se stesso non più solo come paziente, ma soprattutto come
individuo degno della sua curiosità e del suo proprio interesse.
Potrebbe iniziare a comparire il sognatore dei brutti sogni.
Si tratta di varie e concatenate forme di trasformazione nel
funzionamento dell’apparato psichico. Nei primi momenti in cui è stato
accolto, il suo apparato psichico funzionava solo dentro a se stesso in
una modalità che ricordava l’autarchia. Se si potesse esprimere questo
anche sotto una forma numerica si dovrebbe usare il numero uno: un solo
apparato per pensare in forma onirica o delirante che taglia fuori
l’altro. Nel lavorio che ho cercato di indicare come il suggerire,
l’apparato psichico del paziente funziona cercando o avendo per
riferimento un secondo apparato psichico a cui rivolgersi e far
sentire. Con questo funzionamento l’apparato può tentare la
comunicazione di stati, una specie di suggerimento appunto, che non
può ancora accedere all’area del significato e della simbolizzazione.
Questo diventa possibile in un quadro o in una situazione differente
in cui il sognatore, in presenza del medico improntato dal suo far
sentire, può incuriosirsi non solo ai singoli sogni come eventi
psichici determinati, ma anche al proprio sognare e a se stesso come
sognatore dei propri sogni, insomma al sognare come processo e ai suoi
significati simbolici.
L’urgenza del paziente, quando le cose vanno bene, potrebbe funzionare
come l’occasione per un nuovo inizio della sua vita psichica, ma di
questo il medico e il paziente vengono a sapere nello sviluppo del
processo terapeutico, non prima che esso prenda consistenza.
La comparsa del sognatore dei propri brutti sogni apre una potenziale
dialettica affettivo-emotiva e cognitiva fra sognatore, sogni e il
terzo (il medico) in grado di facilitarla con la sua promessa di
prendersene cura. In uno spazio e in un tempo psichici per pensare e
per fare esperienza di sé appaiono e sono coinvolte immagini di sé,
del proprio mondo intorno a sé, rapporti fra presente attuale con un
passato tenuto scisso nell’urgenza.
Il sentire e fare sentire stati psicofisici diversi, e successivamente
emozioni e affetti, si svolge in una trasparenza umbratile e, da un
certo punto di vista, debole, ma questo bisogno di comunicare è
tuttavia forte e non si spegne facilmente. Effettivamente ogni
individuo ha bisogno, e non vi rinuncia facilmente, di rivivere nei
suoi brutti sogni aspetti di sé irrisolti, che sono rimasti senza
risposta e che tuttavia lavorano dentro di lui talvolta affacciandosi
in qualche forma, talvolta negandosi al pensiero cosciente.
Il medico di un paziente urgente è nel vero se pensa che si tratti di
paure irreali nel senso che non potranno mai realizzarsi, ma è
altrettanto nel vero se pensa che le paure, tanto irreali quanto vere,
sono nella fantasia del paziente, che tutto questo non è un niente
rispetto al paziente e che non potrà svanire nel niente, come se
niente ci fosse stato.
Il terrore del paziente è di sentire crollare le difese grazie alle
quali aveva fino ad ora condotto la sua vita Era stato abbastanza in
grado di adattarsi alle esigenze di mutuo accordo e di normalità che
spesso possono essere state reclamate dall’ambiente famigliare o
sociale, con il vantaggio di mantenersi abbastanza protetto dagli
elementi del suo mondo interiore in contrasto con le sue capacità di
adattarsi. I vari tipi di svantaggi connessi al sentirsi vuoto di sé
sono stati per molto tempo nascosti e il sentirsi vuoto di sé è una
percezione possibile solo a posteriori all’interno della atmosfera
terapeutica.
Una dottoressa del reparto cercava di fare capire ad un paziente
urgente che, a suo parere, stava rischiando di uccidere se stesso se
non mangiava, non faceva pipì, non defecava. Aveva capito nei colloqui
con i genitori che era sempre stato figlio perfetto e adorante o
ipernormale di una madre depressa e piena di esigenze e di un padre
che si asteneva dal partecipare alla vita famigliare come un vero papà
e un vero marito. Come icona di questo, la dottoressa aveva appreso
dai genitori, che lui assisteva e in qualche modo allevava la sorella
appena nata cinque anni dopo di lui cambiandole, per esempio, i
pannolini al posto della madre. Ella si trovava ad essere così
spaventata dalla nuova nascita da esserne paralizzata.
La dottoressa gli parla della sua idea che lui sta uccidendo se
stesso mentre lui, nei primi due giorni del ricovero, dorme per terra
perché il letto è infetto, se fa pipì per terra sostiene che non ha
potuto trattenerla, impone alla dottoressa e agli infermieri inusitate
forme di assistenza, mentre lui insiste ed è certo che la madre e la
sorella lo stanno infettando e avvelenando. Il paziente le risponde
prontamente che non è vero che lui stia cercando di morire: quello
secondo cui si comporta è l’unico modo per non morire o per non
sentirsi definitivamente perduto. La dottoressa qui sente venire dal
ragazzino a lei un suggerimento indistinto e forte: sarebbe un
terrore insostenibile per lui, addirittura un terrore di poter morire,
non resistere sia agli elementi benigni (quelli della devota dedizione
di lui al piccolo di cinque anni), che agli elementi maligni (quelli di
attaccare la madre perché infettante e di tenerla lontana per non
vederla soffrire o scomparire sotto il peso del suo risentimento).
Certo il paziente resiste alla dottoressa con l’ostinazione insistita
e furiosa del delirio-sogno dei suoi sistemi deliranti e, suggerisce
alla dottoressa, proprio questo gli permette di vivere. Quando era
molto piccolo aveva trovato modo, pur di non sentire perduta per lui
la mamma, di farle lui stesso da madre. Ma, continua a far sentire alla
dottoressa nei colloqui successivi, "che cosa rimarrebbe di me
rinunciando a delirare, se non un bambino senza un appoggio, perduto o
disperato"? Quello stesso bambino degli inizi, nascosto o obliterato da
uno pseudo-adulto? In una paritetica complessità muta di chiari
indirizzi e di definizioni, la dottoressa sente che il suo paziente,
attraverso il terrore dell’infezione, resiste alla paura di crollare,
ma comincia a intuire che se le cose dovessero restare per sempre
così, non gli sarebbe mai concesso di esistere. Sarebbe costretto, pur
di non morire, a continuare a reagire, o attraverso il delirio di
veneficio o attraverso la dedizione.
L’abisso fra resistere ed esistere, o fra reagire ed essere, diventerà
parte integrante della cura dei pazienti che ci si presentano come
urgenti. Essi lottano e reagiscono contro la paura di affondare e
crollare verso certi elementi del mondo interiore, addirittura
rinforzando i quadri comportamentali e sintomatologici dell’urgenza.
“Meglio per me che tu ti convinca che sono matto e incurabile. Così
sei tu che mi attribuisci colpa per le sofferenze che ti infliggo e io
sento cattivo te contro di me. Io non ho intenzioni colpevoli, né colpa:
sono appunto matto. L’alternativa per me sarebbe ben più pericolosa:
io mi potrei sentire cattivo contro di te quando ti vedessi soffrire
fino a soccomberne della mia fantasia di allontanarmi da te solo
poiché sento che tu sei il non-me, e sento me diverso da te”.
Talvolta i pazienti personificano quel titolo pirandelliano “Così è se
vi pare”. Allontanare il curante da sé con lo strumento di opporglisi
fino a fargli temere di essere sia inutile sia dannoso, ripetere tali
allontanamenti e tali muri fino a fargli sentire che la sua inutilità
è necessaria per lui, ha per il paziente un vantaggio sostanzioso:
evitare di affrontare la sua intenzione di separarsene.
Intenzioni di separarsi dall’oggetto non-me portano con sé la colpa di
volere con questo uccidere o eliminare l’oggetto o di non amarlo più
nello stesso modo con cui gli era stato legato da bambino. Dalla
raccolta dell’anamnesi e dal lavoro diagnostico sulla coppia, noi
sappiamo che i genitori, uno o tutti e due, da cui il paziente non ha
potuto separarsi, hanno contribuito a fargli temere che ogni suo
movimento verso la diversità potesse avere conseguenze insostenibili e
distruttive per loro. Per questi motivi le angosce di distruggere
l’altro che ogni paziente porta dentro di sé attraverso i sintomi
dell’urgenza ha radici lontane ed è una parte importante del processo
terapeutico.
Il fatto clinicamente impegnativo, che si può ripetere e ripresentare
più e più volte in una miriade di circostanze con cambiamenti esterni
di vario tipo, sta nel fatto che il medico possa avere concretamente
paura che le minacce di questi pazienti possano concretizzarsi. Quando
è così nei nostri volti, nei modi di parlare e di fare nostri e del
resto del reparto, il paziente vede la traduzione concreta delle
proprie paure di essere cattivo ed è facilitato a sentire di essere
concretamente cattivo, si identifica con noi impauriti da lui ed è
quindi impaurito da sé. Talvolta, come sanno tutti gli psichiatri, è
facilitato a diventare cattivo.
Il problema della distruzione non è così semplice. Si tratta di una
distruzione concreta di noi, o dei genitori, del reparto e degli
infermieri? Quando temiamo di esserne distrutti, il paziente ci sta
annunciando che la nostra distruzione concretamente avverrà come
potrebbe annunciare: stanotte sarà buio e domattina sarà luce? Se
così non è, quale rapporto fra la distruzione di noi nella fantasia
del paziente e la paura che si concretizza in noi? Quale rapporto fra
le fantasie in uno e la loro concretizzazione nell’altro? Uno può
diventare ciò che vede negli occhi dell’altro che lo guarda? Occorre
pensare che una questione, centrale per facilitare o no l’avvio del
processo, si incerniera intorno all’uso che il paziente fa di noi e,
reciprocamente, a quale uso permettiamo al paziente di fare di noi.
Il guardare, come il sentire acusticamente o il toccare col tatto,
come tutte le sensazioni hanno la caratteristica di portare con sé
nello stesso momento in cui sono sentite, una modificazione del corpo.
Nella potenza istantanea delle sensazioni l’oggetto sentito diviene,
grazie alle modificazioni indotte, parte di chi lo sente. Nel registro
puramente somatico dell’esperienza una differenza fra chi sente e
l’oggetto sentito tende a non esserci. Agli inizi il bambino, ed ogni
bambino, nello sguardo della madre non vede la madre come persona
separata e distinta da lui, ma se stesso, un se stesso che è quel che
la madre sente di lui.
Nel caso di pazienti difficili tornano a lavorare arcaici modi di
identificarsi: la istantanea potenza della sensazione visiva di noi lo
fa sentire identico a noi, impaurito e cattivo e a noi, per la
medesima identificazione, potrebbe accadere l’identico. In un tale
istante potrebbero venire a mancare al paziente e al medico tempo e
spazio psichico sufficienti per trattare la fantasia di
attaccare-essere attaccati come espressione del bisogno di differenze.
Nella mia esperienza, il cuore e la difficoltà del processo
terapeutico con un paziente urgente sta nel poter ri-incontrare gli
istanti potenti delle identificazioni arcaiche.
Riconoscere al vissuto di identicità speculare il carattere di un
investimento affettivo potente e parziale permette di riconoscere che
al di fuori di tale potente e parziale sensazione esiste anche una
verità di tipo diverso: quella delle differenze dell’uno dall’altro.
La difficoltà sta in che tipo di lavorio psichico è necessario.
In sé tali riconoscimenti fanno parte della quotidianità del nostro
esistere. Alla fine di una rappresentazione teatrale che ci coinvolge
profondamente accade di uscire per strada, o di ritrovare il nostro
vicino di sedia e accorgerci, nel momento in cui disinvestiamo la
scena appena vista, che siamo vissuti per un'ora come se fossimo stati
uno dei personaggi rappresentati. Gli adolescenti, quando aiutati
dalla fine del film, disinvestono, diventano consapevoli che hanno
vissuto come se loro stessi avessero il corpo tagliato a pezzi o se
fossero il tagliatore dei corpi. Sia gli adolescenti che gli adulti
dopo il teatro potrebbero ricordarsi che il loro corpo passava per
stati psicofisici particolari, come un battito cardiaco aumentato, o
stati tensivi di parti della muscolatura scheletrica.
Nel contesto del processo terapeutico con uno di questi pazienti,
diversamente che nei films, il teatro delle identificazioni continua e
occorre una specifica capacità di sospendere solo da parte nostra
l’investimento affettivo parziale e potente per diventare consapevoli
che stiamo vivendo l’identificazione col paziente come se fosse vera.
Nella mia esperienza una tale sospensione dell’investimento parziale è
possibile grazie alla concentrazione sugli stati psicofisici del
nostro corpo di cui ho accennato sopra.
Interrogandomi come mai e che cosa a noi piaccia del teatro, dei films,
e del nostro lavoro di psichiatri, psichiatri dinamici o
psicoterapeuti, penso di poter rispondere che ci piace quello che ci
permette di accorgerci che fra realtà soggettiva e realtà percepita
oggettivamente ci sono differenze e ponti, fenomeni di transizione
dall’una all’altra. Facendone esperienza ognuno può accorgersi che
esiste in lui l’area dello psichico. Questo è quel che ci piace del
nostro lavoro.
Ho in sostanza l’impressione che il “come se”, una locuzione che Freud
ha usato in saggi famosi e discussi anche al di fuori dei circoli
psicoanalitici, per esempio nel saggio sull’amore di transfert, possa
rappresentare, a chi sia capace di farne uso, l’area dello psichico.
L’assolutismo delle identificazioni
arcaiche potenti e parziali attraverso le sensazioni dei corpi è
visibile clinicamente nelle psicosi e nelle perversioni. Si potrebbero
ricordare quadri noti a chi di noi si occupa di adolescenti
patologici, le intese fra due perversi, per esempio, che, da mutue
identificazioni attraverso lo sguardo, diventano in un istante azioni
senza essere prima state fantasie di desiderio.
Un bozzetto di Mirò raffigura un uomo in piedi che guarda davanti a
sé. Il suo volto è riconoscibile come un volto umano qualsiasi, mentre
il suo corpo ha una particolare deformazione: non esistono il torace e
l’addome normalmente conformati e al loro posto c’è un’impronta,
minuziosamente scolpita, di un piede: l’uomo l’ha subita e ne risulta
scavato. Il fascino del bozzetto sta nel viso dell’uomo, un viso
normale, di una persona a cui non sia accaduto nulla, come nulla
accade quando le identificazioni fra due diventano azioni senza essere
state fantasie di desiderio. Una specie di stranezza dell’io che, se
non può riconoscere che cerca di vivere eliminando lo spessore polisemico del “come se”, può trattare per normali le proprie
stranezze.
Una riflessione sulla possibile stranezza dell’io normale si adatta al
nostro caso. L’io normale in sostanza è capace del più completo
rinnegamento delle identificazioni arcaiche. La questione ha correlati
significativi nella quotidianità del lavoro clinico. Ho avuto
esperienze personali, oltre che esperienze con colleghi, che un paziente
urgente e il suo terapeuta potrebbero sentirsi normali se il processo
terapeutico rimanesse non avviato. Fino a quando il più grande e
formato dei due (il medico) non abbia la capacità di concentrarsi sul
suo stato psicofisico e di percepire anche in se stesso bisogni di
arcaiche identificazioni, anche il medico può sentire la non avvenuta
guarigione del paziente come un dato di fatto, qualcosa di normale.
Dalla parte del paziente le sue fantasie nel loro stato germinale di
potersi separare portano con sé, come residui, un dilemma non ancora
esplorato. Le sue intenzioni diventano per lui cattiveria concreta se,
guardandoci, le vede concretizzate nei modi in cui noi non riusciamo a
ricevere da lui l’impronta emozionale di sé: ne siamo improntati
invece concretamente, come cera da un punzone. Potrebbe in sostanza
accadere che il paziente, vedendo che noi diventiamo quel che lui ha
bisogno di farci diventare nella sua fantasia, realizzi lo scopo di non
digerire, pensando i residui potenziali delle sue fantasie di essere un
individuo separato.
L’altro corno del dilemma promette sviluppi. Se il paziente
guardandoci vede nel nostro sguardo e nel modo con cui stiamo con lui
che, mentre percepiamo le sue ansietà sul distruggerci e sul potersi
sentire cattivo contro di noi, non ne siamo concretamente deformati
come cera da un punzone, potrebbe chiedersi se effettivamente lui e
noi siamo due entità separate, differenti, l’una e l’altra
individuale. Nell’ idioma winnicottiano questo viene detto la "scoperta
del non me". Se le sue intenzioni non ci deformano, la necessità di
sentirsi cattivo congelando nel terrore i risultati
dell’identificazione arcaica tende a diminuire. Effettivamente accade
che il paziente potrebbe anche sentire che se noi sopravviviamo alla
sua fantasia di distruggerci, cioè se non colludiamo con la sua
necessità di identificarsi, gli diamo conferma che lui non è cattivo e
che non ci distrugge se non in fantasia.
La questione del come il paziente ci usa diventa centrale rispetto
alla patologia del paziente e nella nostra tecnica. Emerge spontanea
quando può divenire possibile che ognuno ammetta, anche con la più
difficile o rabbiosa delle delusioni, che l’oggetto, la sua esistenza
o i suoi pensieri non dipendono interamente da ciò che il soggetto ha
bisogno di farlo diventare nella sua fantasia e nel suo sognare. Solo
dopo che questo ha potuto realizzarsi più e più volte il soggetto può
amare l’oggetto come qualcuno che non deformato o ucciso dalla sua
necessità di separarsi permetta a lui di arrivare a pensare di
esistere nei termini di una iniziale indipendenza.
Potrebbe apparire paradossale concludere che, perché si sviluppi un
processo di sviluppo, potrebbe essere necessario poter regredire
tornando a livelli arcaici potenti e parziali di funzionamento mentale
per poterli elaborare. Nella breve 'tranche' clinica che segue vorrei
indicare nel bisogno di regredire il bisogno di rifare un tipo di
esperienza che, ai tempi degli inizi, è stata insufficiente per avviare
un processo abbastanza sano.
Funzioni della regressione nel paziente urgente
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Questa edizione della parola
regressione come esperienza differisce dal significato della parola
dal punto di vista del fenomeno più frequentemente considerato: quello
per cui la regressione è un tornare indietro perdendo competenze
acquisite. Questo tipo di regressione o di esperienza regressiva è una
regressione al servizio dell’io non contro l’io. Un’altra importante
differenza rispetto alla regressione come perdita di competenze
acquisite consiste nella necessità della presenza di un terzo. Nella
regressione terapeutica al medico e al paziente ormai cresciuto è
possibile guardare e prendersi cura di lui stesso bambino, per come
funzionava nel passato, al tempo degli inizi.
Un piccolo bambino di cinque anni viene ricoverato da noi provenendo
da un reparto pediatrico in cui una diagnosi di anemia emolitica grave
basata sui dati ematologici del piccolo aveva spostato l’attenzione
dal riconoscimento di una anoressia gravissima a problemi ematologici
gravi. Tuttavia la situazione ematologia non migliorava, il piccolo
continuava a non mangiare e i pediatri hanno iniziato a riconoscere
che non era chiara la genesi e l’eziologia della anemia emolitica
sospettata. Era un bambino molto particolare del quale ricorderò
soltanto gli aspetti che potrebbero esserci utili ora, ivi compresi
anche aspetti della storia del suo sviluppo raccontati dai genitori.
Si attaccava con tutte le sue forze al seno della mamma che cercava di
non abbandonare per non perderlo. La madre ricorda di aver cercato ed
esserci riuscita a sopportare stoicamente il dolore fisico di essere
così energicamente succhiata. Soffriva terribilmente per ragadi.
Talvolta sentiva anche cattivi odori, come se il suo sangue si
raggrumasse nella bocca del bambino. Lo svezzamento è stato evitato
come processo. Semplicemente il nutrimento del bambino è cambiato e il
bambino dava da pensare alla mamma che per lui non fosse accaduto
nulla di strano. A un anno e mezzo i denti si sgretolavano: c’era un deficit
di dentina e il piccolo mostrava alla mamma i pezzi dei suoi denti che
cadevano senza alcuna preoccupazione. Era molto precoce nelle capacità
linguistiche e parlava come un adulto. A 4 anni ha iniziato a cibarsi
con grande difficoltà e con cibi molto particolari che non dovevano
essere preparati dalla mamma, ma confezionati in scatole. Ha anche
iniziato, per lo schifo degli odori dei suoi escrementi, a cercare di
non defecare, e a non volere più le mutande, poiché nel togliersele e
nel mettersele gli poteva accadere di osservare le sue erezioni.
Arrivato in reparto era pallido, anemico, aveva bisogno di frequenti
trasfusioni di sangue. La sua estrema astenia faceva pensare a
condizioni terminali e così il piccolo terrorizzava la mamma e il
papà, gli infermieri e i medici non solo del nostro reparto ma anche i
pediatri che ce lo avevano inviato.
La dottoressa che si occupava di lui ha iniziato ad osservare che un
tale morticino governava con gli occhi la mamma. Non gli era
necessario chiederle alcunché: era attraverso gli occhi che la mamma
gli dava con un preciso rituale la scatola preconfezionata, sempre
della stessa marca e della stessa forma, di prosciutto crudo. Non
metteva nulla in bocca, era la mamma che, attraverso lo sguardo del
piccolo, sapeva imboccarlo, a quale ritmo e fino a quando. Purtroppo
la quantità di cibo era adatta quasi a portarlo verso la morte, ma
questa tremenda paura paralizzava la mamma. Era particolare ciò
che la mamma e il piccolo facevano sentire alla dottoressa: un accordo
reciproco in cui aspetti di estrema devozione erano coassiali ad
estrema crudeltà: un compromesso psicotico fra devozione e crudeltà.
E’ diventato necessario che qualcuno di noi si prendesse, sia nei
confronti della mamma che del bambino, la responsabilità di interferire
con la ciclicità coatta di psicosi a due e di alimentazione
insufficiente. Alla seconda giornata di ricovero la dottoressa ha
iniziato a intervenire durante i pasti allontanando la mamma. Il
piccolo era diventato improvvisamente vigoroso. Urlava, piangeva, era
furioso contro la dottoressa, ma la dottoressa ha iniziato a rendersi
conto che la sua furia poteva essergli utile e il piccolo
effettivamente la utilizzava. La dottoressa era capace di rimanere lì
con lui senza richiamare la mamma per consolarlo o per evitare a se
stessa una oggettiva difficoltà. Lo rimproverava blandamente se le
sembrava così eccitato da buttare via il cibo, ma sentiva di poterlo
fare senza rabbia o senza sentirsi eccessivamente frustrata. Si
chiedeva talvolta che cosa avrebbero pensato nel frattempo gli altri
pazienti, gli infermieri e anche alcuni dei suoi colleghi, dato lei
che trattava così un bambino che sembrava a tutti quasi morto.
Il piccolo può trarre utilità dalla propria furia quando dice alla
dottoressa che, se nessuno lo rimprovera, lui ha sempre più paura di
essere cattivo e di far morire tutti.
Forse la dottoressa gli permette di realizzare attacchi furiosi contro
un oggetto buono e forte ( la dottoressa stessa ) e quello che
comincia ad essere possibile al bambino è intuire che lui è furioso
come se potesse distruggerla, ma questo non accade.
Il bambino, alleandosi con lei, osserva che invece vorrebbe attaccare
e far morire chi continua ad ubbidirgli quando è furioso. Sembra che
pensi: "se non trovo nessuno che mi si oppone, trovo in lui la conferma
che sono omicida". La mamma identificandosi con lui diminuisce
effettivamente la possibilità che emerga da lui il “sono furioso come
se potessi distruggerla ma questo non accade”.
Erano forse anche più inquietanti le difficoltà della madre
allontanata: non le nascondeva di sentirla cattiva e la accusava di
poter essere così solo perché stava approfittando della sua
disperazione. Era evidente che la forza della sua fissazione al suo
piccolino moribondo superava la speranza nel miglioramento del
piccolo. Anche la madre mostrava così di aver bisogno di poter
regredire alla presenza della dottoressa del piccolo.
Non è automatico dunque che il paziente urgente trovi tipi di
accoglienza sufficienti per aiutarlo ad iniziare ad affrontare i nodi
del suo sviluppo distorto. Il medico può cominciare a essere realmente
impaurito dal paziente, e, per autoterapia, può in vari modi cercare
di evitare a se stesso le angosce e gli attacchi del paziente,
diminuendo più o meno consapevolmente la sua capacità di lasciarsi
emotivamente improntare da ciò che il paziente potrebbe suggerirgli di
sé. Quando accade qualcosa di simile a questo, si verifica un
paradosso. Il paziente potrebbe addirittura essere tranquillizzato dal
sentire che il medico cerca di mascherargli inconfessati sentimenti di
incapacità o di impotenza e di paura insopportabile. Può trovare
conferma che fra lui e il mondo degli adulti e dei genitori, che il
medico rappresenta, c’è corrispondenza speculare, similarità e
necessità di identificazioni. La paura di crollare nel suo mondo
interiore può diminuire. Il paradosso è che il paziente può a questo
punto rinunciare lentamente ad opporsi, e i sintomi dell’urgenza
possono diminuire spontaneamente in assenza dell’inizio di un processo
di elaborazione.
Il paziente dal punto di vista dei sintomi dell’urgenza
psicopatologica o psichiatrica migliora, non è più così necessaria una
assistenza specializzata. Dal punto di vista della sua vitalità
potenziale, tutto questo funziona come una rinuncia e una perdita di
speranza.
Qui gli orizzonti teorici e clinici della psichiatria e della
psicoterapia, per me meglio sarebbe dire della psichiatria psicodinamica, corrono il rischio di divergere o di non incontrarsi
mai più se mantengono una reticenza a confrontarsi su alcuni concetti
chiave come sostegno, elaborazione, elisione dei sintomi.
Mi permetto di proporre l’idea: i dilemmi non sono in realtà fra
farmaci contro psicodinamica o psicodinamica contro psichiatria
biologica, ma nelle intenzioni di lavoro se queste non possono essere
discusse reciprocamente.
Tali incontri o necessarie integrazioni, o discussioni sul metodo
hanno avuto uno spazio eccessivamente ridotto.
La capacità degli psicoanalisti di dare un contributo clinico
sufficiente alla gestione e alla cura di pazienti psichiatrici non è
stata sino ad ora sempre sufficiente. Soprattutto in Italia gli
psicoanalisti non hanno potuto dare alla psichiatria dei bambini e
adolescenti gravi l’aiuto o le riflessioni necessarie: erano carenti
le competenze tecniche necessarie come la terapia della coppia
genitoriale, mentre la psicoanalisi del divano non era sufficiente.
Molti psicoanalisti sono usciti dalle istituzioni, forse alcuni hanno
anche provocato la propria uscita attraverso una troppo lunga serie di
polemiche contro la farmacologia psichiatrica, o le istituzioni
ospedaliere e universitarie. Contemporaneamente anche gli altri due
gruppi degli psichiatri biologici e degli psichiatri sociali sono
entrati nell’assunto di base bioniano di attacco e fuga, così che a
nessuna parte dell’unico grande gruppo degli psichiatri è stata
possibile l’elaborazione del lutto per la perdita degli altri.
Soprattutto è venuta a mancare la possibilità a ognuno di imparare
dall’esperienza dell’altro. Forse da questo scisma sono venuti anche
vantaggi, almeno per quanto riguarda la diffusione sul territorio
della assistenza psichiatrica e neuropsichiatria infantile. La mia
idea è tuttavia che un tale scisma abbia favorito uno stallo nella
ricerca delle tecniche utilizzabili per la terapia.
Oggi la situazione presenta qualche sintomo di cambiamento: alcuni
gruppi di neuropsichiatria infantile hanno mantenuto negli anni una loro attenzione
specializzata nell’area psicodinamica e una loro attenzione
altrettanto viva all’area della psichiatria biologica, farmacologia e
sociale partecipando o proponendo incontri scientifici comuni,
partecipando a ricerche cliniche sull’uso dei farmaci. Sta accadendo
anche che membri di un gruppo inviino propri pazienti a qualche membro di
un gruppo diverso. Forse la situazione paranoide, che mi permetterei
di datare dall’'80 alla metà o alla fine degli anni '90, sta dando
qualche segno di minore resistenza.
Un piccolo esempio di questo è che la lettura che il Prof. Condini mi
ha affidato non parla di psicoterapia o psichiatria nell’urgenza ma di
psicoterapia e psichiatria. Forse sarebbe ancora più adeguato, almeno
per me, immaginare che un trattino potrebbe stare al posto della e.
Certo questo potrebbe porre una domanda: dopo la e, addirittura dopo
il trattino esistono differenze e quali?
Nelle procedure di metodo che si chiamano psicoterapia sta in primo
piano la capacità di concentrazione su di sé e sui propri stati
psicofisici, e alle loro modificazioni in relazione a ciò che il
paziente ci suggerisce e ci fa pensare di sé. Questo aspetto non
caratterizza la metodologia psichiatrica in sé.
Le questioni sottostanti sono varie e sottili. Quella con cui vorrei
concludere questa lettura è la questione delle differenze di metodo. Essa
non coincide con i significati e gli usi che la psicoterapia e la
psichiatria hanno preso nella pratica socialmente diffusa dell’una o
dell’altra disciplina organizzata per così dire in falangi. E’ una
questione che riguarda il funzionamento psichico del singolo medico.
Potrebbe accadere che uno psichiatra sia capace di concentrazione su
di sé o che uno psicoterapeuta non ne sia capace.
Certo è che nella mia esperienza la concentrazione di cui ho cercato
di parlare rende possibile avvicinarsi, con una non frettolosa
capacità di lavorare insieme al paziente urgente, al cuore del
processo terapeutico.
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