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Pierre Guyotat, Coma, trad. di Marco Dotti e Valentina
Parlato, Edizioni Medusa, Euro 14.80 (ed. originale 2006, Éditions
Mercure de France) |
È l’esperienza della guerra in Algeria,
dove è chiamato ventenne nel 1960, a determinare il destino di
scrittore di Pierre Guyotat: agli orrori della guerra si aggiungono i
mesi di isolamento in un carcere militare, con l’accusa di complicità
in diserzione, di divulgazione fra i soldati di scritti proibiti, di
attentato al morale dell’esercito. Tombeau pour cinq cent mille
soldats, pubblicato da Gallimard nel ’67, dopo ripetuti rifiuti di
altre case editrici, è la narrazione in prima persona di quegli
eventi; l’ossessiva relazione fra la sessualità e le violenze dei
soldati francesi scatena la reazione degli ambienti militari, in
particolare del generale Massu, che aveva guidato l’armée in
Algeria. Il romanzo ottiene il sostegno di intellettuali come Michel
Foucault e Roland Barthes; proprio quest’ultimo scriverà nel ’70 una
delle tre prefazioni (le altre saranno di Michel Leiris e di Philippe
Sollers) a Eden, Eden, Eden, il nuovo romanzo in cui Guyotat
torna sulle atrocità della guerra. Nonostante le petizioni di molti
intellettuali (Sartre, Simone de Beauvoir, Pierre Boulez e Italo
Calvino, tra gli altri), l’opera sarà vietata dal governo per una
decina d’anni.
L’aspetto inquietante delle pagine
di Guyotat non si deve solo alla visione dell’umanità come parte di un
immenso bordello in cui le relazioni umane oscillano fra schiavitù e
prostituzione; lo scandalo è quello di una scrittura che rifiuta di
aderire al precetto di risultare piacevoli. La sua letteratura riparte
da uno stadio primitivo della lingua, ritorna all’elementare, alla
fame, al desiderio, alla difesa del territorio; procedendo per
digressioni e incroci spazio-temporali, prendendo spesso licenza dalla
grammatica e dalla sintassi consueta, la scrittura mira a dar voce
alle reazioni del corpo, si carica di eros prima di farsi “carne
vocale”. Ed è per questo che Guyotat, la cui opera è oggi accostata a
quelle di Antonin Artaud e di Jean Genet, si dedica a letture
pubbliche dei suoi scritti, dove la voce conserva la carica del dramma
e dell’emozione, anestetizzata dallo scritto.
Tradotto con partecipe competenza
da Marco Dotti e Valentina Parlato, Coma (2006) è il primo
libro di Guytotat offerto al lettore italiano; vi si “narra” la
depressione vissuta dall’autore sul finire degli anni Settanta e il
volontario internamento in clinica psichiatrica. La patologia
psichica, che impone il confronto con l’inafferrabile e la morte, si
coagula attorno alla questione della creazione artistica; la scrittura
risponde ad un bisogno “corporeo” di confessione, un mettersi a nudo
che trova la sua metafora più calzante nel disegno col pennarello
praticato da un medico sulle gambe dell’autore, in preparazione dello
stripping alle vene varicose. La letteratura è pharmakon,
veleno e rimedio, scatena la crisi esistenziale, strappa la nostra
carne, ma nel contempo è l’unica attività che possa dare conforto e
offrirsi come catarsi. La guarigione è anche perdita, di coraggio e di
desiderio: la ricompensa della traversata del deserto è un mondo
disincantato, senza rilievo né colore, sguardi spenti e voci sommesse,
non il ritorno alla vita ma la sopravvivenza.
L’impianto narrativo di Coma
segue l’esistenza errante di Guyotat che vive su di un camper e si
ferma, lungo le strade di Francia, d’Italia e del nord Africa, per
incontrare vecchi amici o parenti – visitare una zia morente che aveva
rischiato la vita per proteggere militanti algerini perseguitati o
prostitute fuggite dai loro magnaccia –, o per fugaci amori
omosessuali. La vita nomade è un modo di sfuggire l’angoscia “legata a
ciò che fissa, all’abitazione […]. Nomadizzarsi è rendersi disponibili
a tutti, ai vicini ma soprattutto agli sconosciuti. È anche
dimenticare sempre più il proprio io, il vero nemico, ma purtroppo
ancora – e per quanto tempo – il supporto della creazione”. Rifiutare
un’identità statica equivale ad un’apertura al mondo e agli altri che
è per Guyotat fondamento anche dell’atto poetico; l’opera non può
ridursi a semplice lamento, è “una sorta di intercessione fra me e il
mondo o Dio”, e lo scrittore è solo un intermediario, un
messaggero.
Cercando di sfuggire alla
prepotenza dell’io, l’opera diventa crocevia di più tempi e più spazi:
l’autore risveglia il passato dell’infanzia e i rapporti con i
genitori, risale ad epoche antiche, si fonde nel mondo, assumendo
empaticamente tutte le identità, quasi ad inseguire quel che Italo
Calvino chiamava “un’ottica non antropomorfa”: “Vedere il mondo come
lo vedono la talpa – che vede ben poco -, il ragno d’acqua, l’aquila.
Esperire il mondo come l’acaro della polvere, il granchio, la balena”.
Non si tratta soltanto di riconnettersi al ritmo primordiale della
vita, ma di esprimere il senso di partecipazione alla sorte degli
altri, al di là dell’umano a cui si è arrestato il cuore cristiano:
“Pensare il pensiero dell’animale, l’uomo non è più il signore
dell’Universo …”.
L’eticità
della scrittura dilata lo spazio storico fino ad inscriverlo
nell’evoluzione dell’universo, ripercorrendo il tragitto che il
pensiero di Dio ha compiuto nel tempo. L’opera è un servizio reso alla
bellezza, “compensazione del servizio all’altro”: chi ha condiviso
l’esistenza degli esclusi e dei marginali sa che può venire aggredito
e colpito, “… non sono mai ‘io’ che vengo insultato, picchiato,
respinto, ma, nella mia persona, qualcosa al di sopra, una realtà
organica, solidale o una solidarietà storica, vedi metafisica”. Dal
naturalismo che ci rende partecipi delle sorti del mondo si innalza in
Guyotat uno slancio “religioso”, il supplizio di una separazione
originaria da Dio, la nostalgia di un assoluto di cui si può solo
cantare l’assenza.
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