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 "COME CURA LA PSICOANALISI?"

 

Recensioni bibliografiche 2005

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 Recensione  a cura di Giuseppe Leo.

Novità - News

"Come cura la psicoanalisi?", a cura di Giuseppe Berti Ceroni, Franco Angeli, Milano, 2005, euro 35,00, ISBN 88-464-6820-1

 

 

 

 Il libro, curato dallo psicoanalista bolognese Berti Ceroni, raccoglie una parte degli interventi che furono presentati al XII Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana, svoltosi a Trieste nel giugno del 2002, dal titolo "Fattori terapeutici in psicoanalisi. Specificità e aspecificità nei processi trasformativi". Precisiamo trattarsi di una parte delle relazioni in quanto La Rivista della Psicoanalisi nel 2002 uscì con un fascicolo monografico recante le relazioni di Riolo, di Semi, di Bezoari, di De Toffoli e di Pellicanò, presentate allo stesso Congresso.

    

   

Recensioni dalla stampa 2003

 

  

 

 

                                                        

  

                 Rivista Frenis Zero

In questo anno di celebrazioni dell'anniversario della nascita di Sigmund Freud il lettore, non solo quello avvezzo alle riviste specialistiche di psicoanalisi, si è imbattuto in articoli, recensioni, pamphlets  i cui contenuti e le cui posizioni rispetto al fondatore della psicoanalisi hanno spesso rincorso spazi mediatici all'insegna del sensazionalismo. Per fortuna risaliva all'anno scorso l'uscita in Francia del Livre noir (il cui solo titolo evoca atmosfere inquisitorie da Malleus maleficarum), ma quest'anno l'occasione non poteva andare persa: e quindi giù a pubblicare Dossier Freud (come quello di Borch-Jacobsen e Shamdasani), oppure gli articoli usciti sulla stampa nazionale come quello uscito su "Il Sole 24 ore" del 20.08.2006, a firma di Alessandro Pagnini, ed intitolato <<Sigmund oltre il suo mito>>, e sottotitolato: <<A tenerlo vivo, secondo Woody Allen, sarebbe l'industria dei divani. Ma Freud resta un grande pensatore del Novecento, anche se ormai sono emerse tutte le pecche scientifiche della sua teoria. da noi si è fatto poco per commemorarla e per ricordare ciò che di vero ne è rimasto>>. Se si può concordare con Pagnini che si è fatto poco, bisognerebbe precisare che certe iniziative sensazionalistiche rischiano di oscurare quel poco che si è fatto finora con spirito di serietà scientifica. Tra queste iniziative meritorie mi riferisco ad es. alla tavola rotonda del Forum austriaco di cultura di Milano tenutasi nel gennaio scorso ("Quel che resta di Freud- Psicoanalisi freudiana oggi"), al ciclo di seminari tenutisi a Bologna sui rapporti tra psicoanalisi ed arte ed al convegno dell'Associazione Studi Psicoanalitici (Milano, 16-17 giugno 2006). E comunque aspettiamo la fine dell'anno per un bilancio consuntivo dell'anno freudiano! C'è sempre in vista (dal 28 settembre al 1 ottobre 2006) il XIII Congresso Nazionale della S.P.I., centrato su "Transfert. Cambiamenti nella storia e nella pratica clinica", che sicuramente darà un contributo di alto profilo scientifico a questo annus mirabilis. A proposito di S.P.I., ho il vivo piacere di presentare in questo contesto di festeggiamenti per il genio di Freud (fu solo un pensatore?) un libro che, seppure uscito l'anno scorso da Franco Angeli, mi sembra un tentativo davvero riuscito  di offrire al lettore, non necessariamente specialistico, non solo un panorama allargato ed approfondito delle tematiche maggiormente discusse nell'odierna psicoanalisi, ma anche dei tentativi di risposta, articolati e sufficientemente completi, ad una questione vecchia quanto la stessa psicoanalisi: << Cosa in essa funziona in quanto terapia?>>. Giuseppe Berti Ceroni nella presentazione del libro, da lui stesso curato,  rimarca come <<il tema della cura e dei fattori che in essa intervengono è tradizionale nella psicoanalisi, che sempre si è posta la coerenza del versante della conoscenza e di quello della cura (Conrotto, 2000, per una recente disamina); sul primo essa si pone dialetticamente con i contenuti e i metodi delle scienze delle idee, filosofia, antropologia, psicologia, dall'altra invece si pone dialetticamente con i concetti e le procedure di salute, di malattia, di terapia, di cura>>. Quindi richiama le più recenti pubblicazioni scientifiche italiane che concernono questo secondo versante di ricerche: da "Il contributo della psicoanalisi nella cura delle patologie gravi in infanzia e adolescenza" (di Ferruta A., Goisis P.R., Jaffé R., Loiacono N., Armando, Roma, 2000) a "Fattori di malattia, fattori di guarigione" (di Ferro A., Cortina, Milano, 2002) fino a "Curare con la psicoanalisi. Percorsi e strategie" (di Di Chiara G., Cortina, Milano, 2003).

L'impianto generale del libro prevede, dopo gli scritti introduttivi di Domenico Chianese ("La cura psicoanalitica: forme di un sapere antico") e di Giovanna Goretti ("Pensieri sul tema della cura"),  una prima sezione dedicata ai fattori terapeutici "specifici" della psicoanalisi, con i testi di Angelo Battistini, di Patrizia Cupelloni, di Alessandro Garella, del recentemente scomparso Agostino Racalbuto, di Lucio Russo e di Sarantis Thanopoulos. Ai fattori terapeutici "aspecifici" , che pur <<meno presenti nell'abituale teoresi psicoanalitica>> come dice Berti Ceroni <<mantengono la complanarità, almeno parziale, fra psicoanalisi e le altre discipline terapeutiche>>, è dedicata la seconda sezione del libro con i testi dello stesso Berti Ceroni, di Antonio Di Benedetto, di Amedeo Falci, di Anna Maria Nicolò, di Lucia Pancheri e Franco Paparo, di Mario Rossi Monti e Giovanni Foresti e di Giovanni Hautmann.

A proposito della dicotomia specificità/aspecificità,  Berti Ceroni precisa che parlare di fattori terapeutici "aspecifici" per indicare quelli comuni tra la psicoanalisi ed altri approcci terapeutici può essere fuorviante, preferendo egli 'etichettarli' come "fattori terapeutici specifici comuni", poiché, come  argomenta Berti Ceroni   <<per sottolineare la"specificità" di fattori terapeutici propri della psicoanalisi non occorre infatti negare specificità ad altri fattori terapeutici, che sono presenti nel complesso della cura psicoanalitica come in altre cure e che possono avere alto grado di efficacia e indispensabilità nell'esito terapeutico temporaneo o a lungo termine>>.

La terza sezione del volume è poi consacrata alle "Aree specifiche di cura" con gli scritti di De Masi sulla psicosi, di De Zordo, di Olivotto, di Polojaz e Sartori sull'analisi in età evolutiva, mentre la quarta sezione, infine, raggruppa interventi concernenti la durata del trattamento.

Naturalmente per questioni di spazio in questa recensione non si potrà dare eguale risalto a  tutti gli scritti contenuti in un così ricco libro, e si darà un taglio tematico alla esposizione dei vari capitoli.

La prima sezione dedicata ai fattori terapeutici "specifici" viene inaugurata dal saggio di Angelo Battistini dal titolo "Manifestazioni occulte di resistenza ed elaborazione trasformativa". Dopo un breve excursus storico  sull'importanza dell'analisi delle resistenze e della  elaborazione, egli sostiene che <<nel tempo, il progressivo affermarsi di una maggiore sensibilità relazionale e di una maggiore  attenzione alle vicende transferali e soprattutto controtransferali, ha consentito di indagare sempre più finemente quanto e come le resistenze del paziente, espressione della sua organizzazione caratteriale, possano trovare supporto all'interno delle singolari dinamiche inconsce circolanti nella relazione analitica>>. Battistini cita quindi gli autori che hanno maggiormente approfondito questo aspetto: i Baranger, Betty Joseph, Meltzer, Etchegoyen, Rosenfeld e  Steiner. Naturalmente gli psicoanalisti odierni lavorano sul processo di elaborazione in maniera più accurata ed efficace di quanto accadesse ai tempi di Freud. Come afferma Battistini, <<l'elaborazione, lungi dall'essere semplicemente un processo temporale d'assimilazione che, in seguito all'insight, permetta al paziente di modificare modalità e obiettivi delle proprie pulsioni, può essere considerata, in modo più significativo, come parte di un processo circolare dove insight ed elaborazione trasformativa si rincorrono e sono l'uno precondizione dell'altra e viceversa>>. Un caso clinico viene quindi proposto come spunto di riflessione sul gioco tra strategie resistenziali e processi elaborativi. L'autore conclude affermando che, oltre all'insight, alle ipotesi ricostruttive, va considerata la grande importanza dell'elaborazione  e dell'assimilazione di tali acquisizioni. Perché si pongano le basi per un cambiamento terapeutico è necessario analizzare <<a fondo le modalità inconsce di resistenza, evidenziabili nelle sottili trame dei movimenti transferali, con l'ausilio del controtransfert e l'esplorazione minuziosa del modo tacito, talora criptico, comunque fantasmatico, con cui il paziente si rapporta all'analista e reagisce alla sua presenza e alla sua attività>>. Per quei pazienti, infine, in cui predominano modalità di funzionamento mentale riconducibili alla posizione schizoparanoide, il lavoro analitico dovrebbe privilegiare quel ruolo di "Io ausiliario" dell'analista, favorendo la possibilità da parte del paziente di <<esercitare correttamente alcune facoltà cognitive riconducibili allo sviluppo del pensiero secondario, suggerendo vertici o prospettive diverse da cui osservare le nuove conoscenze fornite dall'analisi>>.

Patrizia Cupelloni nel suo articolo "La funzione autobiografica della mente come fattore terapeutico in psicoanalisi" affronta le questioni connesse al rapporto tra cura analitica e narrazione autobiografica, affermando che <<l'autobiografia ci permette di rimodellare lo psichico, attraverso l'intreccio di elementi storici e fantasmatici, in quel precipitato unico e irripetibile che è un individuo sessualmente differenziato: un soggetto che, narrandosi, costruisce fabulando la trama autorappresentativa della propria esistenza>>. Il modello autobiografico viene quindi confrontato con quello del lutto, e a tal fine l'autrice propone due testi, uno clinico e l'altro letterario (tratto da "La mia Africa" di Karen Blixen). Il racconto autobiografico si situa all'incrocio tra il dicibile e l'indicibile, esso non aspira all'oggettiva ricostruzione storica, ma va verso la "O" (per come la concepisce Bion).

Foto: W. R. Bion

L'indicibile va oltre l'accessibilità del rimosso (inconscio dinamico) e ciò sembra rilevante <<nella clinica degli stati psicotici, borderline, melanconici>> in cui <<l'analista può osservare che la mente del paziente è occupata da un "eccesso di storia", da simboli filogenetici e da fantasmi transgenerazionali>>. In un suo recente lavoro ("La ferita dello sguardo", 2002) la Cupelloni , all'interno di uno studio sulla melanconia, ha avuto modo di approfondire il genere autobiografico. Sorvolando sulle originali formulazioni teoriche che l'autrice ha proposto in relazione alla clinica degli stati melanconici, ella propone delle analogie tra modelli di costruzione del genere letterario e modalità di funzionamento della mente familiari agli analisti (il riferimento è a "Trame" di Brooks ). Brooks afferma che <<la trama maestra di Freud ci parla della temporalità del desiderio, e parla al nostro desiderio di trame immaginarie>>. L'interesse straordinario di Freud per la letteratura dimostra questa correlazione forte tra esperienza autobiografica e quella analitica. Cercherò qui di elencare i punti su cui l'autrice si sofferma nel delineare questa correlazione:

- l'attraversamento di differenze e somiglianze che consentono di imbattersi nell'uguale (autoconservativo) e nel diverso ( trasformativo). Nell'analisi si costruiscono nuove forme di autorappresentazione;

- la possibilità di rintracciare la propria storia affettiva attraverso la memoria, che costruisce nuove autorappresentazioni. Perché questo lavoro produttivo sia possibile è necessario tollerare il lutto delle vecchie autorappresentazioni;

- la funzione critica connessa all'io parlante: <<nella scrittura come nella narrazione il soggetto si pone come altro e attraverso una seconda lettura, che è atto creativo>> scrive la Cupelloni <<svela di sé aspetti molteplici e contraddittori. Si procede ad una sorta di riscoperta che accade al presente>>.

- riferendosi al lavoro di Lejeune "Il patto autobiografico" (1975), la Cupelloni propone che un elemento di contrattualità relazionale costituisce l'aspetto cruciale dell'accostamento tra esperienza autobiografica ed esperienza analitica. Come nei racconti autobiografici emergono discrepanza tra forma e contenuto, così nel corso dell'analisi, accanto alla narrazione cosciente, si evidenziano gli aspetti <<astorici e anacronistici, paradossali e al tempo stesso veri>> del soggetto <<stagliando le sue potenzialità e ricostruendo, nella relazione transferale, una nuova economia interna>>.

- il raccontare, come lo scrivere, trasforma l'Io: <<il parlante, nel dirsi, dice di sé ciò che è, e contemporaneamente, quello che non è più.>>

Il caso di un sogno riportato durante una seduta analitica dà alla Cupelloni la possibilità di soffermarsi sullo <<scarto tra materiale onirico e racconto del sogno>>, <<tra funzione autobiografica ricostruttiva del passato e costruttiva degli eventi del presente, tra la loro narrazione e l'economia emotiva che la sottende, tra eventi reali e immagini inconsce>>.

Un breve accenno viene poi riservato alle autobiografie scritte dagli analisti (quella di Freud, quella di Lou Andreas Salomé, quella di Pontalis) nelle quali la Cupelloni rintraccia un <<prepotente richiamo alle origini>>.

Un ritratto di Lou Andreas Salomé

 

 Pontalis in un suo lavoro sull'autobiografia ("Derniers, premiers mots", 1987) commenta una lettera di Van Gogh al fratello Theo con queste parole: <<Melanconia attiva: avvincente alleanza dei contrari>>. Per la Cupelloni la funzione autobiografica della mente viene intesa in modo simile a questa formulazione di Pontalis. La melanconia attiva , che <<superando i blocchi inespressivi costituisce un paese immaginario, una prima dimora del proprio essere>> scrive la Cupelloni <<da dove poter provare nostalgia del paese perduto>>. La melanconia (attiva) viene intesa come una produzione artistica, <<un proprio quadro di riferimento, che rimanda ad una immagine non disperata di sé e che costituisce la possibilità di un proprio autoritratto>>.

Alessandro Garella in "Talking cure: considerazioni su linguaggio e discorso in psicoanalisi" si ricollega ad un suo lavoro precedente ("Talking cure", Riv. Psicoanal., vol. 48, 851-871 [2002]), in cui aveva fatto una ricognizione storica della psicoanalisi come talking cure, al fine di sviluppare quel discorso tentando di <<approfondire ulteriormente>> - sono parole dell'autore - <<la questione della natura dialogica del discorso analitico, della sua specificità rispetto ad altre forme di discorso, incluse quelle psicoterapiche>>. L'autore struttura il suo articolo in tre sezioni, dedicate ad altrettanti tentativi di chiarificazione concettuale sui seguenti temi:  linguaggio vs lingua; linguaggio e comunicazione; il discorso psicoanalitico: retorica e psicoanalisi. Per motivi di spazio non è possibile qui sintetizzare le elaborate articolazioni del discorso su questi temi, per cui si rimanda direttamente alla lettura dell'articolo nella sua completezza.

Il compianto Agostino Racalbuto (alla cui memoria il libro è  dedicato) nel suo "Teoria, metodo e fattori terapeutici in psicoanalisi" introduce il discorso con due domande secche: <<Cos'è che permette a un'analisi di dirsi terapeutica? Quali gli elementi analitici abituali di una prassi terapeutica, di un modello teorico-clinico e di un metodo che la sostiene?>>. Partendo da L'Io e l'Es del 1922, Racalbuto sottolinea come Freud pensasse alla libertà come compito analitico, concetto che si articola con quello di civiltà che, afferma l'autore, <<appare nell'opera freudiana come componente intrinseca della cura psicoanalitica e dell'efficacia terapeutica, come recupero nell'Io della matrice affettiva pulsionale mediata dal sistema di relazioni umane>>. Precisa però Racalbuto che civiltà non è da intendersi solo come 'far subentrare l'Io dove c'era l'Es', ma comprende anche la tolleranza dell'ignoto e la capacità di fondare la propria esistenza su un sapere non intellettuale <<che è un saper vivere in base alla propria peculiare umanità>>. Ma ne Il disagio della civiltà (1929) Freud articola il discorso sulla civiltà con quello dello sviluppo della cultura (Kultur), del lavoro della storia collettiva. Per Racalbuto l'opera di civiltà è <<soprattutto inerente - e in specifico all'interno della cura analitica - al recupero, attraverso l'umano al suo interno rintracciato e reso vivo, della crescita "civile" individuale, propria della storia personale di ogni paziente (...)>>. Quindi l'"opera della civiltà" come libertà di pensiero che il "disagio della civiltà" può mettere in pericolo. In termini di efficacia terapeutica della psicoanalisi tutto ciò si traduce non in una posta in gioco esclusivamente privata, ma viene coinvolta l'intera storia soggettiva unica dell'individuo che <<è il prodotto di due modi di funzionamento psichico, entrambi estranei però a ogni preoccupazione di unità narcisistica, estranei al punto di vista personale di chiunque - in quanto soggetto - rispetto alla propria vita>>. Il primo dei due funzionamenti per Racalbuto ha a che fare con le pulsioni (<<immortali, ineluttabili, trans-soggettive e transgenerazionali>>), l'altro con quello della realtà umana, <<dell'essere mortali, comune a tutti i soggetti>>. Con le parole di Racalbuto<<in pratica noi non smettiamo mai, attraverso ogni analisi, di rimontare il corso delle generazioni che precedono l'analizzando e osserviamo hic et nunc come la loro storia ne venga retroattivamente modificata sulla scena psichica ( nachtraeglickeit ) del paziente, e di conseguenza nella trasmissione del passato che egli farà a sua volta. Allo stesso tempo non smettiamo di ascoltare anche le ripercussioni dell'analisi in corso sui protagonisti fisicamente assenti, psichicamente presenti. Se veniamo meno a questa forma di pensiero, a questi rilievi, a questa curiosità, ci sottraiamo a una funzione analitica>>. Nel paragrafo "La terapia fra teoria e pratica analitica", poi, Racalbuto tratta di come intendere le interpretazioni perché siano analiticamente efficaci, del rapporto tra terapia e teoria, tra prassi e metodo di ricerca, della distinzione tra l'atteggiamento dell'analista-setting e quello dell' analista-oggetto. Seguono poi i paragrafi "Terapeuticità e inconscio: un modo economico e relazionale più vantaggioso di affrontare la vita", "L'avanzata metapsicologica e la cura che progredisce" ed, infine, "Il lavoro terapeutico integrativo", tutti estremamente attenti alle problematiche di analisi del lavoro di trasformazione psichica nel corso dell'analisi. Quest'ultima viene ricondotta, in estrema sintesi, a due ordini di fattori: da una parte, alla <<possibilità di dare una nuova lettura - prima inaccessibile - ad un determinato ambito di esperienze>>; dall'altra, alla <<creazione immaginifica di un senso fino ad allora assente>>. Quindi non solo creare un nuovo ordine di causalità psichica, ma anche instaurare una nuova Weltanschaung relativa a ciò che si pensa o si vive. Racalbuto definisce l'obiettivo fondamentale dell'analisi come "presa di coscienza di un senso vivo" (più che di un sapere "intellettuale", come egli precisa).

Lucio Russo nel suo lavoro dal titolo "La soggettività dell'analista nella cura psicoanalitica. Autoanalisi del controtransfert, autoanalisi del transfert", dopo un breve excursus sull'esperienza dell'autoanalisi in Freud ("autoanalisi originaria"), propone il pensiero di analisti successivi (Fédida, Green, Winnicott, Bollas) sul rapporto tra controtransfert ed autoanalisi, intendendo quest'ultima come il metodo con cui l'analista autoanalizza il proprio funzionamento psichico in relazione con il funzionamento psichico dell'analizzando. Con particolare riferimento al trattamento analitico di pazienti borderline, per Russo <<autoanalizzare è la capacità dell'analista di mantenere il proprio ruolo e di conservare la propria identità professionale anche nelle relazioni con i propri pazienti borderline che regrediscono a stati di dipendenza confusiva>>. Questa capacità si pone in maniera differente nell'analisi di pazienti psiconevrotici, in cui per l'analista è più agevole distinguere il transfert dell'analizzando dai propri vissuti controtransferali. L'illustrazione di una vignetta clinica consente all'autore di esporre il proprio punto di vista al riguardo. L'analisi di pazienti borderline impone all'analista, avvalendosi dell'autoanalisi, un lavoro di riconoscimento dei propri pensieri, dei propri affetti, dei propri sogni, dei propri transfert rispetto a quelli dell'analizzando. Se questo lavoro si inceppa può accadere che l'analista sperimenti un'angoscia identitaria: << si è (analista e paziente)>> scrive Russo <<colti da una sensazione di mancanza di rappresentabilità, che, dal punto di vista soggettivo, si potrebbe definire un senso di vuoto, una "indifferenza dell'anima">>. Per Bollas, l'esperienza del perdersi nel mondo del paziente può essere affrontata dall'analista affidandosi ai suoi <<processi mentali interiori, che sono il materiale dell'esperienza soggettiva>> (cit. da Bollas, "L'ombra dell'oggetto", Borla, 1989). Attraverso il riferimento all'analisi con Maria, Russo descrive un sogno fatto dall'analista durante quel trattamento: "Ebrei e nazisti sono seduti nello scompartimento di un treno che viaggia verso l'ignoto. C'è una bambina ebrea ed io, che viaggio nello stesso scompartimento, temo che gli ebrei commettano qualche errore e si facciano scoprire dai nazisti, mettendo in pericolo la vita della bambina. La bambina si trova in braccio ad un adulto, che la coccola e la bacia. Ma la bambina è inerte, perché è morta, provo angoscia".

Lucio Russo ricorda come  il tema del bambino la cui vita dipende da un adulto abbia attraversato la propria analisi. Un ricordo personale ("un mito personale") è quello per cui la madre gli disse che la sua nascita era avvenuta il 26 luglio 1943 alle cinque del mattino, mentre il generale Badoglio annunciava la caduta del fascismo. In relazione alla paziente Maria, Russo scrive che <<l'angoscia di disintegrazione della paziente ha influenzato la mia mente e produce in me una crisi di angoscia che si collega per la prima volta al mio fantasma personale che non avevo mai sperimentato. Dalla registrazione dell'angoscia, che il mio sogno esprime, parte l'esperienza di autoanalisi>>. Dalla 'rimessa in moto' della propria autoanalisi, l'analista trova lo spunto per fare un'interpretazione alla paziente sull'adulto (il genitore, il fratello, lei stessa, l'analista) narcisista ed incapace di ascoltare la bambina, che rimette in moto il processo analitico. L'autoanalisi è, naturalmente, sempre legata all'analisi personale di formazione, ma anche alle analisi che l'analista conduce coi propri pazienti. <<Tuttavia>> aggiunge Russo <<l'autoanalisi viene a volte esercitata dall'analista anche su aspetti della propria vita affettiva in parte indipendenti dalle relazioni con i pazienti. Anche la vita di tutti i giorni può avere sulla mente dell'analista influenze simili ai transfert dei pazienti. <<Con l'autoanalisi l'analista si sdoppia:>> afferma Russo <<una propria parte si prende cura di sé, come se fosse un altro>>. L'autoanalisi va ovviamente finalizzata al lavoro analitico coi pazienti, altrimenti si corre il rischio di usarla <<magicamente e regressivamente come metodo intrapsichico pre-analitico, fondato sull'illusione coscienzialista di comprendere se stesso>> osserva Russo. Autoanalisi non è sinonimo di introspezione, perché quest'ultima  ha a che fare con l'Io cosciente, mentre l'autoanalisi con un Io diviso, <<che è formato da molteplici identificazioni inconsce>>. Concludendo il suo articolo, significativamente l'autore afferma che <<quando l'analista comincia a sentirsi troppo spesso il protagonista del lavoro analitico con i pazienti, è arrivato il momento che egli consideri seriamente la necessità di ricominciare la propria analisi personale>>.

Sarantis Thanopulos in "Lo spazio della cura analitica" sostiene la centralità del "fantasma" quando si cercano di definire i fattori terapeutici specifici della psicoanalisi. Il lavoro interpretativo mantiene <<un primato assoluto (...) ma la gestione di tale lavoro non è affatto semplice, perchè gli psicoanalisti si trovano a dover far fronte a una domanda di sostegno della soggettività, resa oggi più pressante e complicata>> scrive l'autore <<dall'aggravarsi del divario tra il soggetto e le condizioni oggettive della sua esistenza>>. Thanopulos passa quindi a trattare dell'estensione del concetto e dell'uso dell'interpretazione. Per l'autore tale estensione <<consiste essenzialmente nello sviluppo della capacità di riflettere nel discorso analitico un modo di esistere del paziente extraterritoriale rispetto alle modalità proprie dell'analista di significarlo e di comprenderlo>>. Tradotto in altri termini, ciò significa che l'analista, alle prese con un analizzando che non si sente di esistere come persona mentre vive un'esperienza, deve cercare non tanto un 'significato giusto', quanto  di cambiare il suo modo di pensare, <<accogliendo nella struttura del suo pensiero l'impronta di una maniera particolare del paziente di esistere>>. Rifacendosi a Winnicott e al suo resoconto di Frammento di un'analisi (1978), Thanopulos sottolinea la funzione di holding che può avere un'interpretazione ("Vorrei dire che un'interpretazione corretta al momento giusto è una sorta di contatto fisico" affermava Winnicott), nel senso che essa realizza metaforicamente <<ciò che il paziente propone concretamente sul piano di una relazione primaria>>.

 

  Foto: D. W. Winnicott

Il rimando alla relazione primaria tra madre e bambino, al ruolo della comprensione empatica, dal lato materno, e dell'emergenza del gesto spontaneo, dal lato del figlio, finisce per essere sviluppato al fine di stabilire il senso del 'gesto spontaneo' all'interno della cura analitica. La trasformazione (terapeutica) è possibile <<solo a partire dalla spinta di un gesto spontaneo che cerca di uscire da uno stato di sospensione, preclusione>> afferma Thanopulos. E' all'interno di una dialettica tra comprensione ed incomprensione che il gesto spontaneo può essere colto, perché l'incomprensione ha la funzione di destabilizzare la comprensione fino ad allora acquisita dall'analista, e quindi di riorganizzarla in una modalità nuova ed inedita. In un paragrafo successivo l'autore tratta della stratificazione di linguaggi che, secondo Thanopulos, necessariamente il discorso psicoanalitico deve riflettere. Essa corrisponde (secondo le parole dell'autore):

<< a) alla manifestazione di modi naturali e spontanei di essere, che nulla aspirano ad esprimere;

b) ai gesti che testimoniano l'esistenza di un modo privato nell'atto di esprimersi;

c) all'esigenza di configurare nel registro del secondario, seppure in maniera indiretta, il ritorno del rimosso.>>

Il caso clinico di Roberta viene allegato per illustrare i diversi livelli di comunicazione su cui deve poggiarsi il lavoro interpretativo. E' significativo che, partendo dal concetto di 'gesto spontaneo' di Winnicott, Thanopulos rimarchi il ruolo dell'incomprensione usata a fini terapeutici, in quanto, come il gesto spontaneo nel bambino è espressione <<di un esistere che non deve adoperarsi per trovare un appoggio in qualcosa o per ottenere un'approvazione>>, così il paziente in un dato momento può aver bisogno di una transitoria incomprensione dell'analista per potersi esprimere. Ciò si traduce in una sorta di 'imperativo deontologico' per l'analista: la necessità di non mettere l'analizzando nella condizione di far qualcosa per esistere in noi, di non usare le nostre parole in modo che esse <<diano conto di quel che lui ha fatto per attirare il nostro sguardo>> anziché adoperarle per accompagnare <<il suo modo di esistere come essere spontaneo ed espressivo>>.

 

                  Maitres à dispenser                                       Nella seconda sezione del libro dedicata ai "Fattori terapeutici specifici", il primo saggio è quello del curatore dell'intero libro, Giuseppe Berti Ceroni. In "Fattori terapeutici specifici comuni (FTSC) e psicoanalisi" lo psicoanalista bolognese si propone di dare una spiegazione personale al fenomeno degli esordi "privi di conflitti" di tanti trattamenti psicoanalitici. Il percorso di ricerca tracciato da Berti Ceroni è partito da una serie di colloqui con colleghi psichiatri, alcuni psicoanalisti ed altri in training. In alcune ricerche (Berti Ceroni e Vescovi, 2001; Berti Ceroni et al., 2002) emergeva che i medici di base, rispetto agli psichiatri che con essi collaboravano,  <<ricordassero assai meglio la storia del paziente e della sua famiglia, le loro spesso complesse vicende esistenziali, piuttosto che i fatti clinici e che quindi spesso trascurassero la possibilità di formulare una diagnosi psichiatrica, anche quando da un punto di vista specialistico ce n'era l'opportunità>>. Il ruolo del medico di base sembrava più quello di consulente familiare che non di specialista clinico. Questo non significa, per l'autore, tradire la funzione del medico, in quanto tutta una serie di studi basati su RCTs (Randomized clinical trials) hanno dimostrato la grande importanza, in psichiatria, dei fattori terapeutici insiti nella relazione col curante. Insieme a Vescovi (2001) Berti Ceroni ha proposto di chiamare come "fattori terapeutici specifici comuni" <<questi fattori che hanno a che fare con l'atteggiamento del medico e con la relazione medico-paziente>>. Quindi, l'autore preferisce parlare non di fattori 'aspecifici' , bensì  'comuni' dal momento che riguardano non solo la psicoanalisi e le psicoterapie, ma anche la relazione dei pazienti con gli psichiatri e coi medici di base.  Data  <<la regolarità e la rilevanza che assumono, nei trials come nella pratica clinica >>, definire 'aspecifici' questi fattori terapeutici sembrava all'autore negarne la 'specificità'.

L'autore passa poi a definire quei requisiti generali dell'atteggiamento del medico e della relazione medico-paziente perché possano svilupparsi tali fattori:

1. il setting;

2. l' attenzione alla persona e non solo alla patologia;

3. la regolazione delle aspettative del paziente e del terapeuta;

4. la qualità della comunicazione;

5. la presenza nella memoria;

6. l'alleanza terapeutica.

Attraverso una tabella l'autore tratteggia quei fattori che contribuiscono a far evolvere il percorso dell'alleanza terapeutica su un versante virtuoso anziché perverso. Tali fattori vengono raggruppati secondo 4 dimensioni: valutazione diagnostica e caratterologica; impianto della relazione/prosecuzione; mantenimento e sviluppo/impasse e deterioramento; rivalutazione ed eventuale risoluzione/ liquidazione.

Un terzo paragrafo dell'articolo di Berti Ceroni è dedicato a rispondere alle domande <<Come si costituisce la dotazione di un atteggiamento mentale e relazionale adeguato a produrre FTSC (fattori terapeutici specifici comuni)?>> <<E' una qualità originaria, che deriva dal patrimonio genetico e da fortunate vicende evolutive?>> <<Oppure può anche essere appresa o comunque migliorata?>>. Una serie di evidenze tratte dalla letteratura ci autorizzano a pensare che essa possa essere appresa. Come polemicamente afferma Berti Ceroni, però, <<paradossalmente training in comunicazione medica e acquisizione di specifici skill non hanno mai riguardato, a mia conoscenza, corsi di specializzazione in psichiatria e psicologia, scuole di psicoterapia, psicologi e psichiatri stabilizzati, psicoanalisti; sono training in cui la componente cognitivo-comportamentale è superflua o inadatta a corsi di studio più approfonditi, dove la tecnica del colloquio e la competenza relazionale sono sviluppate nella personalità da altri momenti formativi, sempre che già non fossero presenti nei fruitori dei corsi in maniera eccelsa già dall'infanzia?>> <<Credo che in parte sia vero>>  scrive l'autore <<(...) e che in parte sia presente una certa dose di superbia e ottusità>>.

Passando ora a parlare più da vicino di psicoanalisi, essa si trova, per Berti Ceroni, alla prese con una doppia verità: da una parte, sin dalle sue origini essa si è occupata del riconoscimento dei fattori relazionali in gioco nel determinare i FTSC, dall'altra, però, essa deve riflettere sull'<<ineludibile aspecificità (...) di una parte importante del suo operare>>. Il ruolo del potere psicologico o psicoterapeutico del medico, dopo le prime formulazioni freudiane, fu successivamente ampiamente sviluppato da Balint, il quale operò una distinzione fondamentale tra psicoterapia e pratica medica usuale.

  Foto: M. Balint

          In seguito all'introduzione della riflessione teorica sul  transfert ad opera di Freud, la questione dei 'due transfert positivi' si è poi intrecciata, complicandosi, con il concetto di alleanza terapeutica, <<intendendola secondo il modello della relazione madre-bambino e il ripetersi in analisi di modalità relazionali positive delle prime fasi evolutive del bambino>> (Zetzel, 1956). Invece, Greenson (1965), seguendo Fenichel, nell'alleanza terapeutica ha dato spazio prima di tutto alla dimensione della relazione reale. Per Meissner (2001), alleanza, transfert e relazione reale sono tutte componenti della relazione terapeutica. La Greenacre (1954) ha poi introdotto il termine di "transfert di base", contrapposto a quello edipico positivo e negativo.  Parat (1991) ha ripreso nella psicoanalisi francese quest'ultima accezione del transfert. Berti Ceroni critica poi l'uso spesso disinvolto, e superficiale, che si fa dei concetti di 'empatia', e di 'attaccamento' nel tentare di costruire un fondamento epistemologico alla genesi dei FTSC, mentre il ricorrere all'intersoggettivismo, sempre per l'autore, determina un <<calibrare innovativamente l'aspetto "specifico" (...) della psicoanalisi, che certamente è in totale contrasto con la ipotesi di lavoro che sto sviluppando>>. In conclusione, il tema dei FTSC è nato con Freud e Balint, <<ma è stato poi disconosciuto a vantaggio dei temi propri dello "specifico" psicoanalitico; ci ritorna, a volte come approfondimento estremamente preciso dello specifico psicoanalitico, soprattutto dei casi più gravi (...), oppure dal campo più alieno, quello della medicina basata sulle evidenze>>. Riconoscere tali fattori non significa sminuire la portata della pratica psicoanalitica, ma ricontestualizzarla con tutte le altre pratiche mediche.

Antonio Di Benedetto in "Ricostruire il passato, partecipare al presente, costruire il futuro" parte dalle critiche che gli epistemologi hanno mosso ai concetti di 'empatia', di 'controtransfert', ma anche di 'attenzione fluttuante', di 'identificazione proiettiva', di 'reverie', di 'holding', di 'enactement', ed altri che sono centrali nella teoria e nella pratica psicoanalitica. I temi sviluppati dall'autore, in un'ottica secondo cui al centro dell'attenzione viene posto il sistema analista, <<come soggetto conoscitivo e strumento di cura>> e le variabili soggettive costituiscano un valido apporto al processo terapeutico, sono: la prossimità empatica, i vantaggi e svantaggi dell'empatia, la separatezza, la funzione gestativa dell'analisi, ed il "di più controtransferale". Non essendo possibile riassumere la complessità del discorso elaborato dall'autore, ci piace riportare le sue considerazioni conclusive: <<possiamo riassumere, dicendo che attraverso il transfert il paziente introduce il suo passato nella relazione analitica, per essere aiutato a sciogliere antichi nodi conflittuali e a rifondare su altre basi la sua vita di relazione. Grazie all'empatia il paziente avverte di non essere solo con i suoi problemi presenti. In virtù di interpretazioni fondate su un lavoro controtransferale, arriva infine a sentire che l'analista lo accompagna anche nella costruzione del futuro>>.

Amedeo Falci nell'articolo "Sulla definizione di fattori aspecifici nella terapia psicoanalitica" individua nei modelli terapeutici della psicoanalisi l'incrociarsi di due linee concettuali: il modello medico e quello evolutivo.  Il primo mira, secondo Falci, alla restitutio ad integrum dei funzionamenti psichici alterati, mentre il secondo ad una riorganizzazione continua dei processi di crescita e di trasformazione psichica. Dopo aver elencato una serie di mutamenti paradigmatici che la psicoanalisi ha visto succedersi fino ad oggi, l'autore si chiede <<se alcuni processi terapeutici non possano svolgersi al di là della rievocazione linguistica e della rielaborazione cosciente del paziente>>. In letteratura una serie di lavori (Kris, 1956; Kohut, 1984) avrebbero evidenziato che cambiamenti terapeutici non sempre comportano un soddisfacente insight. Questo interrogativo ci porta a considerare quei processi di ricategorizzazione continua che ritrascrivono le esperienze passate (sotto forma di memorie rappresentazionali inconsce) all'interno di nuovi frames relazionali e contestuali (Modell, 1990). Dopo un paragrafo intitolato "Comunicazione e interpretazione" , l'autore tratta dell'apporto che la ricerca empirica sull'infanzia ha dato al campo dell'azione terapeutica, elencando una serie di 'aree di lavoro' dell'infant research, che come background epistemologico sembra privilegiare un approccio costruzionista della mentalizzazione infantile: le emozioni come segnali, i processi di autoregolazione e di regolazione interattiva, i concetti di teoria della mente. Le possibili convergenze tra acquisizioni dell'infant research e psicoanalisi vengono trattate in un successivo paragrafo: esse sono andate focalizzando <<la costruzione del mondo rappresentazionale del bambino, l'intensa e precoce "vocazione" alla socialità, la conferma di pre-organizzatori del sé già attivi nelle primissime fasi ed orientati alla ricerca del contatto interumano>>. Una delle possibili ricadute di tali convergenze potrebbe consistere nel fatto che tutta una serie di concetti adoperati in clinica psicoanalitica, come quelli di individuazione, di stati simbiotici o fusionali, di separazione, di condivisione, di sintonizzazione, potrebbero essere meglio precisati grazie ai più recenti contributi dell'infant research. Un altro ambito di possibili ricadute potrebbe investire più direttamente la pratica clinica. <<Da alcuni filoni di ricerca (Sugarman, Nemiroff e Greenson, 1992), emerge come certi "stili" di transfert infantili in analizzandi adulti vadano ben oltre la dimensione libidico-oggettuale in senso stretto>> scrive l'autore <<dal momento che includono richieste di una profonda partecipazione intersoggettiva e il bisogno di negoziare/inter-pretare significati comuni.>> Tuttavia tali stili, non essendo ancora delle rappresentazioni, verrebbero registrati a livello di memoria procedurale, e non semantica, per cui in terapia <<tali schemi non potrebbero quindi subire una trasformazione rapida o diretta attraverso procedure interpretative linguistiche basate sul recupero della memoria semantica>>. Dopo aver illustrato alcuni interessanti e pertinenti riferimenti epistemologici, nelle conclusioni Falci precisa come l'a-specificità intende proporre <<la riproposizione nel trattamento psicoanalitico (...) di un profondo isomorfismo con sofisticati funzionamenti dei sistemi biologici e segnatamente dei sistemi mentali nelle loro procedure di ricerca di regolazione, sintonizzazione, intenzionalità interpretativa e trasformazione di stati emotivi-cognitivi>>. Quindi, la psicoanalisi anziché vedersi 'corrosa' da questi nuovi apporti, potrebbe beneficiarne in quanto usufruirebbe di una serie di contributi integrativi nei seguenti ambiti (cito l'autore):

- un certo isomorfismo tra terapia e le condizioni di inferenza ed interazione comunicativa precoce, grazie all'attivazione regressiva;

- l'importanza dello studio dei processi evolutivi "normali";

- la forte emergenza della predisposizione all'interazione sociale;

- una maggiore integrazione di cognitivo/affettivo;

- la possibilità di flessibilità terapeutiche a categorie psicopatologiche non trattabili con il metodo classico;

- la negoziazione dei significati affettivi;

- la co-costruzione dei contesti interpretativi;

- l'efficacia del trattamento basata sul lavoro di alleanza terapeutica, sul mantenimento della continuità del processo e sulla riparazione costante delle rotture.

 

 

 

 

 

 

 

 

  Anna Maria Nicolò nel suo "Interpretare il legame nella coppia analitica" affronta il tema del rapporto tra cambiamento e fattori terapeutici (la qualità della relazione, l'interpretazione, ecc.). Lo spostamento dell'ottica dal mondo intrapsichico del paziente al gioco transfert-controtransfert fino ai recenti approcci intersoggettivi o interpersonali è qualcosa, secondo l'autrice, che per quanto possa essere << criticato, delimitato o addirittura rifiutato, non c'è analista che non ne sia influenzato o non ne tenga conto>>. Nel seguito, l'autrice delinea i cambiamenti avvenuti nella concezione del transfert-controtransfert, per poi passare a trattare il tema del "legame nella coppia" coniugale, e quindi del "legame nella coppia analitica". Una prima conclusione di questo vasto ed approfondito excursus dell'autrice consiste nell'affermare che <<occorre tenere conto dei due attori nel setting analitico, non solo per come si relazionano nell'intreccio transfero-controtransferenziale, ma anche per qualcosa d'altro che li unisce, che è stato naturalmente definito in modo differente a seconda dell'orientamento teorico>>. L'autrice prova a definire i caratteri di questo legame: parla di una presenza nella relazione che è inconoscibile e sconosciuta e che non si lascia trasformare in assenza né simbolizzare, ma a cui deve essere anche conferito uno statuto <<per certi versi indipendente da essi (i soggetti), ma tuttavia da essi prodotto e capace di condizionarli. Il legame, quindi, pur essendo costruito dai due partners della coppia in interazione, mantiene delle caratteristiche indipendenti da essi. Nelle conclusioni, la Nicolò sostiene l'utilità di un doppio punto di vista <<che ci permetta di comprendere sia i fenomeni che avvengono nel mondo interno, sia quelli che osserviamo nel mondo interpersonale (...)>>. Ed il legame che si crea tra analista ed analizzando, nel divario tra essi, <<nell'area di incontro-scontro tra la fantasia del soggetto ed il comportamento dell'altro, nell'area intersoggettiva che determina il reciproco plasmarsi dei due membri della coppia (...) può essere trasformativo ed è anche su questa base che potremmo dire che l'analisi di ogni paziente ci fa continuare la nostra analisi>>.

Lucia Pancheri e Franco Paparo nell'articolo "Il self-righting" trattano di un concetto che, mutuato dall'embriologia (Waddington, 1947), può trovare in psicoanalisi una fertile possibilità di concettualizzazione. In particolare, esistono psicoanalisti come Lichtenberg (1989) che utilizzano il concetto di << "Self-righting">> cito testualmente gli autori <<intendendo con questo termine sia una tendenza naturale a ristabilire l'equilibrio psicologico alterato che una tendenza al raggiungimento del proprio sviluppo ottimale, correggendone le distorsioni (...)>>

Gli autori strutturano il loro articolo dapprima con un excursus su quegli autori che hanno teorizzato su questo ambito ("Il concetto di self-righting e  la psicoanalisi"), quindi esaminando il "self-righting come fattore terapeutico comune" ed infine prendendolo in esame rispetto al problema dei fattori terapeutici specifici ed aspecifici in psicoanalisi.

Secondo gli autori, partendo dal 'pessimismo' terapeutico di Freud in "Analisi terminabile ed interminabile", <<la psicoanalisi ha trascurato di valorizzare l'idea di una spinta naturale alla guarigione>>. Ma, nel corso della storia della psicoanalisi, non sono neppure mancate formulazioni come quella di Fenichel (1941) ("desiderio normale di guarigione"), di Greenson (1967) ("alleanza di lavoro"), di Friedman (1988) sui sentimenti di speranza nella terapia, di Frank (1973), anche se, in generale, gli autori sottolineano come <<nel modello psicoanalitico classico il concetto di alleanza terapeutica resta ambiguo (...)>>. Nella teoria dell'attaccamento le convergenze con il concetto di self-righting sono più coerenti con l'impianto generale di tipo evoluzionistico di essa. In Winnicott l'idea di una tendenza naturale alla guarigione ed alla maturazione è spesso presente, come anche nel suo allievo  Masud Khan. Searles nel suo libro sul controtransfert "Il paziente come terapeuta del suo analista" (1979) suggerisce l'idea che ogni essere umano possegga, a livello inconscio, le attitudini di uno psicoterapeuta. In particolare, l'individuo  può diventare psicotico in quanto, durante l'infanzia, ha dovuto differire la propria individuazione al fine di poter funzionare come 'terapeuta' per un altro membro della famiglia. Inoltre, Searles sottolinea più volte nei suoi scritti i casi in cui l'analista riceve dal paziente un certo supporto che, in maniera inconscia per entrambi, finisce per far uscire la situazione analitica da uno stallo. Kohut parla di "transfert di oggetto sé" come correlato di una tendenza naturale a riprendere lo sviluppo interrotto, essendo concepito il transfert non più solo in chiave ripetitiva, ma anche evolutiva, cercando il paziente le esperienze evolutive che gli sono mancate all'interno della relazione analitica. Nella Psicologia del Sé anche il sogno assolve a questa funzione evolutiva <<consistente nella risoluzione di problemi e nell'emergenza di nuove configurazioni psichiche>>. Anche gli enactments (comportamenti interattivi in cui l'analista si accorge a posteriori di aver agito nel rapporto col paziente delle dinamiche inconsce) possono essere interpretati in un'ottica di self-righting, in quanto potrebbero configurare <<uno sforzo inconscio del paziente non solo a comunicare qualcosa che forse non poteva essere detto in altro modo, ma anche una tendenza a cercare nell'interazione con l'analista esperienze "correttive" finalizzate al cambiamento >>. Lichtenberg in "La psicoanalisi e l'osservazione del bambino" (1983) ed in "Psychoanalysis and Motivation" (1989) assegna al self-righting un ruolo centrale in analisi, essendo esso uno dei due processi fondamentali che sono alla base del progresso terapeutico (l'altro essendo la riorganizzazione delle rappresentazioni simboliche). Per Lichtenberg il self-righting è promosso dalla comprensione empatica e dalla responsività dell'analista e ad esso vengono ricondotti fattori terapeutici come la catarsi o la reintegrazione delle rotture nella relazione analitica. Per Weiss e Sampson (1986) il paziente viene in analisi con un "piano" inconscio di guarigione. <<Questo piano consiste>> scrivono Pancheri e Paparo <<nel cercare di disconfermare le credenze patogene, sviluppate sulla base delle esperienze negative del passato, le quali sono alla base della patologia. A questo fine egli sottopone ripetutamente a "test" il terapeuta nel transfert>>. Ghent (1990), rifacendosi a Winnicott, sostiene che <<esiste una tendenza universale a trovare qualcosa nell'ambiente circostante che renda possibile l'abbandono del falso sé>>. Surrender è il termine utilizzato per designare l'abbandonarsi alle potenzialità della crescita, dell'essere riconosciuti. Nel successivo paragrafo dedicato a "Il self-righting come fattore terapeutico comune" gli autori discutono se si possa estendere alla psicologia un concetto importato dalla biologia come quello di "self-righting". Altro punto di discussione è cosa si possa intendere per sviluppo ottimale del sé. L'elaborazione di queste questioni da parte degli autori, per la verità, si riferisce  soprattutto alla seconda. E' chiaro che il concetto di "self-righting" viene formulato in maniera diversa a seconda della teoria dello sviluppo psicologico che è alla base di un dato approccio terapeutico. Nelle conclusioni gli autori così sintetizzano il tema: <<in quest'ottica il compito dei fattori specifici, in psicoanalisi come nelle altre terapie, comprese quelle mediche, è essenzialmente quello di innescare la capacità di cura e guarigione interna dell'individuo, utilizzando modalità specifiche di intervento. In questo modo viene a crearsi un diverso rapporto tra fattori terapeutici specifici e fattori terapeutici comuni, che in passato venivano contrapposti e ora appaiono lavorare in sinergia, potenziandosi a vicenda.>>

Mario Rossi Monti e Giovanni Foresti, in "L'ineludibile aspecificità tecnica degli strumenti di lavoro dello psicoanalista", iniziano il loro articolo  offrendo al lettore uno spunto schematico di organizzazione delle nozioni attinenti gli strumenti di lavoro dell'analista. Al centro di questo campo concettuale sta la coppia analitica e la coppia teorico-tecnica transfert/controtransfert, <<fattore dinamizzante centrale del processo analitico e vero motore psichico dello scambio intra - e inter-soggettivo>> scrivono gli autori. Ma gli autori enunciano subito qual è lo spirito della ricerca portato avanti da questo articolo: occuparsi non degli aspetti specifici, ma di quelli a-specifici della psicoanalisi. Ed anticipano la loro tesi: <<la psicoanalisi, anche se ha creato un suo preciso e specifico universo concettuale, si serve anche di categorie e strumenti che non sono esclusivamente e specificamente psicoanalitici>>. Gli autori pongono subito l'esempio delle interpretazioni che costituiscono anche degli interventi dialogici, <<che possono essere intesi dal paziente proprio perché fanno uso dei meccanismi e degli strumenti che strutturano la comunicazione umana ordinaria>>. Dopo l'introduzione di un caso clinico, gli autori si soffermano sull'intima intersecazione tra "meccanismi interpretativi e non interpretativi nel lavoro clinico". Un riferimento dovuto è a Stern et al. (1998) con il richiamo all'importanza di quelle fasi del cambiamento che non sembrano essere correlate con interventi interpretativi da parte dell'analista.

  Foto: Daniel Stern

Stern et al. (1998) in un articolo sull'"International Journal of Psycho-Analysis" dal titolo "Non-interpretative mechanisms in psychoanalytic therapy" schematizzarono il processo attraverso una progressione delle seguenti fasi: 1) present moment, 2) now-moment, 3) moment of meeting (per i dettagli si legga l'articolo sopra citato). Questa scansione di fasi trae la sua base teorica dagli studi sull'interazione madre-bambino condotti da Stern, permettendo un'integrazione tra i "modelli della dinamica non-lineare" e modelli tratti dalla teoria psicoanalitica. Il now-moment è rappresentato dall'esperienza del paziente di vivere un improvviso cambiamento qualitativo della sua relazione col terapeuta ("special moments of authentic person-to-person connection") . La sua evoluzione verso il moment of meeting <<diviene un punto di svolta nella storia del trattamento poiché modifica sostanzialmente l'andamento dei fenomeni regolatori che costituiscono lo sfondo interazionale, inter-personale e pre-verbale dello scambio dialogico della diade>>. Il now moment evolverebbe attraverso tre fasi: a) una fase gestazionale ( pregnancy phase), una di straniamento ( weird phase) ed una decisionale ( decision phase). Quest'ultima fase può far sì che il now-moment resti implicito oppure che approdi ad un'esplicita consapevolezza dello scambio affettivo avuto con il terapeuta, conducendo al moment of meeting. Per far ciò, Rossi Monti e Foresti sostengono che <<occorre però che l'analista riconosca che è in gioco qualcosa che lo concerne direttamente come persona: che accetti cioè di interagire col paziente nella situazione emotiva che si è creata, impiegando something more than interpretation, qualcosa di più che un'interpretazione>>.

Tuttavia, per gli autori dell'articolo le concettualizzazioni del gruppo di Boston, pur convincenti, non riescono a dar conto del tutto della complessità dei fattori di trasformazione in gioco, specifici ed aspecifici. Gli autori ritornano a fare riferimento al caso clinico prima presentato ed a una disamina di possibili fattori che hanno svolto un ruolo terapeutico (non è possibile qui fare una sintesi perché essa presupporebbe una esposizione della presentazione clinica). Nelle considerazioni conclusive gli autori, nel tentativo di metter ordine al 'dedalo' concettuale della psicoanalisi, citano Waelder (1962) il quale indicava sei livelli concettuali:

1. il livello dei dati osservabili nella situazione analitica ( observation );

2. quello dell'interpretazione clinica ( clinical interpretation );

3. quello della generalizzazione clinica ( clinical generalization );

4. quello della teoria clinica ( clinical theory );

5. quello della metapsicologia ( metapsychology );

6. quello delle basi filosofiche e degli assunti speculativi di Freud ( Freud's covert and defining philosophy ).

In base a questo schema, Rossi Monti e Foresti dichiarano essersi mossi, nel presente articolo, tra il secondo ed il terzo livello concettuale, e nelle conclusioni hanno cercato di formulare delle ipotesi che si spingono fino al livello superiore, quello della teoria clinica.

<<Il dialogo e l'interazione fra l'analista e il paziente>> scrivono gli autori <<si avvalgono di meccanismi comunicativi che organizzano una dialettica analisi/sintesi/analisi, la quale costituisce un ciclo in continuo sviluppo, in cui viene insieme organizzato provvisoriamente e poi anche ripetutamente rilanciato il lavoro del pensiero>>. Questa alternanza di differenze e di progressive integrazioni non è specifica della psicoanalisi, ma è insita in ogni procedimento conoscitivo, in cui le fasi di analisi/astrazione si alternano a quelle di sintesi/concretizzazione. L'interpretazione dell'analista, in questa prospettiva, può essere vista come una sintesi provvisoria del pensiero dell'analista, capace di mettere in moto anche i processi conoscitivi dell'analizzando secondo il ciclo analisi/sintesi/analisi, in un movimento complementare a quello dell'analista. Questa dialettica comunicativa, sin dall'antichità intuita dai filosofi, <<a seconda  della concettualizzazione prescelta (il livello cinque di Waelder, quello dei modelli metapsicologici) (...) può essere ricondotta alla triangolazione edipica, alla defusione e rifusione dell'impasto pulsionale, all'oscillazione PS - D, al rapporto di determinazione reciproca fra contenitore e contenuto, alla metabolizzazione degli elementi beta da parte della funzione alfa, ecc.>>. A prescindere dal quadro teorico di riferimento, l'intervento non interpretativo fa riferimento a quella sintonia di conoscenza condivisa e preconscia dei due partners, di cui parla Stern, capace di creare una conoscenza implicita relativa alla relazione che muta il modo di essere in relazione con l'altro. D'altro canto, negli studi catamnestici si vede spesso come ciò che il paziente ricorda a posteriori come fortemente mutativo spesso non ha a che fare con un'interpretazione  da lui ricordata, ma riguarda un cambiamento qualitativo della modalità di incontro, un now-moment. In conclusione, per gli autori <<la specificità della nostra professione consiste nel saper accompagnare i nostri pazienti attraverso i tortuosi e penosi sentieri che costituiranno i prerequisiti psichici della loro nuova conoscenza/esperienza di sé.  Per accompagnarli in questo compito, non possiamo che fondare la nostra funzione terapeutica su quegli elementi a-specifici che (direbbero i filosofi, ma anche i biologi!) sono "sempre-già" a nostra disposizione, perché fanno parte delle premesse, dei vincoli strutturanti, che rendono possibile sia l'organizzazione che la trasformazione della nostra vita psichica>>.

All'articolo di Rossi Monti e Foresti fa seguito un commento di Giovanni Hautmann in cui questi si chiede  <<se questa area di sovrapposizione analizzando-analista, di sintonizzazione reciproca, non vada vista come un evento relazionale che si verifica per il venire meno nel processo analitico di condizioni che nel processo di sviluppo hanno disturbato o impedito la acquisizione di quelle strutture alla base di funzioni mentali complesse; acquisizione che normalmente avviene appunto in modo inconsapevole e ininfluenzabile da conoscenze esplicite o da spiegazioni razionali>>. Hautmann sembra rispondere affermativamente. Inoltre sottolinea alcuni punti del lavoro di Rossi Monti e Foresti: il now-moment come espressione "macro-fenomenica" di un continuum "micro-fenomenico" proprio del contatto necessario al percorso ascolto --> interpretazione, l'intreccio osservazione-trasgressione del setting implicato nella formazione del pensiero e della differenziazione Io-Oggetto, il ruolo dell'intervento verbale dell'analista come differenziazione rispetto al clima fusionale del now-moment (aspetto della terzietà). Hautmann si chiede, poi, <<se non si possa fare una lettura ricostruttiva della situazione analitica dagli autori raccontata che metta a fuoco "l'ineludibile specificità della psicoanalisi", individuandola nella complessità integrazionale dei movimenti intersoggettivi ed intrasoggettivi che avvengono nell'intera situazione analitica esemplificata>>. E per risposta egli tenta di fornire una concettualizzazione riconducibile alle nozioni bioniane di cambiamento catastrofico e di trasformazioni in "O" e in "K".

 

Nella terza sezione del libro, quella dedicata alle Aree specifiche di cura, il primo saggio è quello di Franco De Masi intitolato "Considerazioni su pensiero intuitivo e sul pensiero delirante: implicazioni nel lavoro clinico con i pazienti psicotici". Partendo dal materiale clinico fornito dalle sedute con un paziente psicotico, De Masi mette in evidenza le difficoltà che si incontrano quando in analisi il pensiero intuitivo cede il passo a quello delirante. L'autore dimostra anche l'importanza, anzi la necessità egli afferma, di rivivere in analisi l'episodio psicotico insieme al paziente, e ciò con il preciso scopo di facilitare nel paziente un'elaborazione <<man mano che si sviluppa il pensiero intuitivo>>.  Fondamentale appare nel lavoro di De Masi la distinzione tra il sogno-pensiero (le immaginazioni positive necessarie a tenere aperto il futuro o a costruire condivisioni di nuove realtà) ed il sogno-delirio: quest'ultimo, pur derivando dall'immaginazione, finisce per "uccidere" l'immaginazione intuitiva, sostituendosi ad essa. Uno speciale spazio viene dedicato al tema del transfert nell'analisi del paziente psicotico. Il transfert viene considerato, secondo le parole dell'autore, come<<l'indicatore della permanenza del conflitto o dell'azione di una fantasia inconscia patogena>>.

Il contributo collettivo di Maria Rosa De Zordo, Irenea Olivotto, Vlasta Polojaz e Guglielmina Sartori ha per titolo "Azione, gioco, parole e cura nella relazione analitica con bambini e adolescenti". Per motivi di spazio, riporto testualmente le conclusioni delle autrici : <<in esso (nel loro contributo) si accenna al movimento progressivo che, nell'analisi infantile e dell'adolescente, partendo dall'azione, porta, attraverso il gioco, all'acquisizione del livello simbolico nella parola. L'altro aspetto, non più spaziale, ma temporale, che emerge dalle esemplificazioni cliniche riportate, è dato dalla coesistenza di modalità comunicative diverse che intessono la relazione. In questi passaggi è presente una costante, cioé la cura, la presenza dell'analista e l'uso che il paziente ne fa. Se a livello teorico è opportuno da parte nostra considerare, discutere e sviluppare diversi orientamenti (...), nella realtà clinica è il paziente ad usare l'analista, con modalità diverse anche nel corso della stessa seduta. Dipende dalla duttilità dell'analista corrispondere ai bisogni del paziente nel cammino della sua evoluzione, riconoscere i suoi desideri e diventarne l'interprete>>.