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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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Recensioni Bibliografiche

 

  "SUI LUOGHI NEL CINEMA"

 

 

  Intervista a Francesca Comencini a cura di Barbara Massimilla

  

 

  Questa intervista è stata pubblicata sul numero della "Rivista di Psicologia Analitica" (2009) dedicato a "L' anima dei luoghi", curato da Barbara Massimilla, che si ringrazia sentitamente per aver messo a disposizione di Frenis Zero il testo.

 


  Foto: Francesca Comencini

B.M. Vorrei che questo dialogo descriva quanto nel linguaggio del cinema i luoghi vissuti, ritrovati, immaginati possano incidere sull'identità individuale e collettiva. I luoghi intesi sia come spazio fisico, che come spazio all'interno del Sé. Nel corso della nostra esistenza è possibile interiorizzare gli spazi intimi dei luoghi dell'infanzia e della propria vita reale, è pure possibile secondo te interiorizzare un film come se fosse la rappresentazione di un proprio luogo dell’anima? La visione di quale film ti ha mosso un vissuto così coinvolgente? In quale film hai visto proiettato sullo schermo un frammento della tua vita interiore?

Penso anche che tu appartieni ad una cultura familiare fondata sul cinema...

 

 

 

F.C. A proposito di luoghi, potrei dire personalmente, di aver avuto molte vite in molti luoghi diversi… sono stata nel corso della mia esistenza un po’ una nomade. Sul film che ho trovato più coinvolgente in questa fase adulta della mia vita, mi viene immediatamente in mente In the mood for love di Wong Kar-Wai. E’ interessante tutto il suo cinema perché questo regista ha una capacità straordinaria di raccontare luoghi molto lontani dalla nostra cultura, come Shanghai, la Cina, in un modo potentissimo e farli diventare delle categorie dello spirito. Le immagini dei suoi film che potrebbero apparire estremamente esotiche sono fondamentali per capire la mia geografia interiore. Forse, proprio a causa della distanza culturale che intercorre tra la realtà che descrive e la mia realtà personale, sento la sua filmografia invece così familiare, e provo similitudini con un mio profondo modo di essere. In particolare In the mood for love nel quale c’è un lavoro straordinario sui luoghi, e dove Kar-Wai racconta una storia d’amore non avvenuta tra un uomo e una donna che convivono in uno stesso caseggiato. Non si capisce mai bene materialmente cosa costituisce la convivenza tra queste due persone, anche perché non si hanno chiavi d’accesso concrete per comprendere. Se osserviamo un palazzo romano, francese o tedesco sappiamo immediatamente che la gente vive in appartamenti stratificati e che s’incrocia forse nell’ascensore o sotto un portone… I due protagonisti del film sono coinquilini in una casa che è condivisa, come avviene in genere nelle case dei giovani dove ognuno occupa una singola stanza. Ci sono luoghi comuni nella casa e luoghi appena separati che sono le camere. Entrambi vittime di un tradimento, di un adulterio, vivono questo dramma separatamente ma non smettono d’incrociarsi dentro i corridoi-dedalo di questa casa in un modo che è unico nel cinema e che non ho mai visto raccontare. La casa cinese, piena di vecchie che cucinano per tutti gli inquilini e di uomini che giocano a mahjong, riunisce una comunità che risulta strana al nostro sguardo. All’interno di questa comunità, la geografia strutturale della casa che Kar-Wai filma è simile ad un labirinto.

 

 

 

 

 

 

 

 

B.M. Come se fosse uno spazio articolato/disarticolato della mente?

 


 

 

 

F.C. Esattamente, lo filma come se fosse solo uno spazio della mente. Spezza gli spazi e non ti da mai l’idea dell’interezza oggettiva della casa. Fa delle inquadrature meravigliose di una potenza assoluta, con i corridoi spesso filmati al rallentatore, e i due protagonisti che uscendo di casa li percorrono. Non si comprende mai l’origine delle diverse sequenze temporali che accadono nella casa, proprio perché il tempo è immerso in un dedalo continuo di spazi, nei quali i loro corpi si sfiorano. In questo sfiorarsi sulle note di una musica straordinaria, con la loro disperazione amorosa di essere stati traditi e di essere soli, elegantissimi entrambi, in queste atmosfere sospese, si incrociano. Kar-Wai filma le loro braccia che si toccano appena mentre percorrono il corridoio e tutta l’essenza di questo amore è narrata così… non fanno sesso e la loro intima contiguità è data solo dal luogo, perché non si conoscono, non hanno niente tranne questo labirinto meraviglioso e terribile che li contiene. Il caseggiato di Shanghai è narrato come un luogo della mente, metafora del labirinto interiore nel quale l’uomo e la donna si sono persi ma è anche il labirinto grazie al quale possono incontrarsi e sfiorarsi, grazie al quale ritrovano loro stessi. Un continuo smarrirsi e incontrarsi: la geografia del luogo è tirannica, l’unica storia del film è il luogo stesso. Non c’è storia né trama narrata, come d’altronde in tutti i film di Kar-Wai, ma ci sono i luoghi che raccontano e danno forma ad una storia. In modo geniale questo grandissimo regista visionario non racconta storie ma spezza i luoghi, li riduce a brandelli per metterli conseguentemente in forma di storia e in forma di mente dei suoi personaggi. Questo metodo si riflette anche nella scelta del titolo del film In the mood for love vuol dire appunto nella forma dell’amore, nell’attitudine dell’amore. Mi mancano chiavi d’accesso geografiche concrete rispetto a quell’epoca, credo siano gli anni ’50 in Cina, non saprei dire come vivesse la gente, certamente un modo di vivere che non potrei riconoscere. Proprio il fatto di non riconoscerlo nell’immediato, questa sorta di astrazione, fa sì che lo riconosca prepotentemente come la forma che ha sempre avuto dentro di me il labirinto del mio essere donna, della mia femminilità. Kar-Wai racconta la forma dell’incontro tra una donna e un uomo, costruisce il luogo dell’incontro amoroso nella sua estrema complessità. In tal senso, è il più bel film sull’amore, là dove l’amore non avviene: niente sesso, si danno del lei, si spiano, s’intravedono tra le porte nel continuo girovagare, sono due profughi che vivono in una casa da profughi, due esiliati. Kar-Wai metaforicamente dà forma alla casa dell’esilio universale che produce l’amore. Quel labirinto dal mio punto di vista soggettivo, è il luogo dell’esilio, nel quale ci si può trovare anche al risveglio nel proprio letto. Inaspettatamente ci si può sentire esiliati nella propria casa come ci si può innamorare da esiliati o essere esiliati nella propria mente. 

Ma in tutti i film di Kar-Wai si evince una relazione potente con i luoghi come in un altro suo capolavoro: Angeli perduti. La macchina da presa trasforma tutti gli ambienti, grazie anche ad un rapporto molto intenso che egli ha con i suoi collaboratori. Sui luoghi mi viene in mente pure Kieslowski in Non rubare la donna d’altri del Decalogo. In particolare la scena in cui il ragazzo sta spiando la donna dalla finestra. Il regista descrive la Polonia comunista dove si è costretti alla contiguità come nei caseggiati popolari di Kar-Wai. Gli spazi sono fortemente depersonalizzati. Ma da una finestrella il ragazzo riesce ad individuare l’altro, a dargli un volto e ad innamorarsene, per l’appunto in questo luogo tremendo, dove tutti sono anonimi, estranei. Sia Kieslowski che Kar-Wai sono star internazionali ed hanno realizzato film all’estero. A Parigi per Kieslowski, in America per Kar-Wai. Ma a mio avviso, non hanno ritrovato la loro essenza registica perché non erano nei loro luoghi.

 

 

 

B.M. Come dire che il luogo dove abiti ti costruisce rinforzando la tua identità?

F.C. I loro personaggi esistevano anche perché esistevano in dei luoghi estremamente caratterizzati. La Cina e la Polonia non erano luoghi facili. Kieslowski ha costruito il Decalogo nella Polonia comunista, nella quale evidentemente il regista soffriva.

In Tu mi ucciderai filma le case con una fotografia gialla, una architettura tipica che non è solo comunista, ma è quella di tutte le ideologie dittatoriali. Se noti, tutte le tirannie sviluppano sempre un’architettura, che in qualche modo si assomiglia e tenta di annullare l’individuo…

 

 

 

B.M. Regimi totalitari che tendono a  desimbolizzare i luoghi…

 

 

 

 

F.C. Kieslowski attraverso la geniale appropriazione dei 10 comandamenti e l’elaborazione dell’identità del cristianesimo che lui viveva intensamente come boa di salvezza in quella realtà, tentava di umanizzare e dare un volto a quei luoghi terribili. In qualche modo, proprio perché parliamo di grandi registi del cinema, quei caseggiati, diventano luoghi dell’anima, così come i labirinti della casa di Kar-Wai, assumono una valenza simbolica.

 

B.M. Un regista è colui che in senso animico è il creatore del film poiché dedica la sua ricerca alla costruzione sensibile di spazi, alla definizione dei confini, alle  geografie della memoria effetto del mutare e trasfigurarsi degli spazi. Per me un regista è “l’architetto” e l’anima di una storia narrata per immagini. Che ruolo ha il corpo in questa capacità di costruire gli spazi rappresentati? Quale influenza ha la psiche?

Vorrei capire come si declina nel fare cinema l’esperienza psico-fisica del luogo?

Che tipo di memoria sensoriale nella mente del regista attiva la costruzione di uno spazio-luogo nel cinema? Questa memoria è legata ad un déjà-vue o al qui e ora?

 

 

 

F.C. A tutte e due. Tutta l’arte a mio avviso è fondata su questo. Mi piace la definizione di architetto, tra l’altro mio padre era architetto e poi è diventato regista.

Una volta mio padre mi disse, mentre passeggiavamo per Roma, e guardavamo dei palazzi orrendi - perché Roma ha la caratteristica di essere meravigliosa, ma appena si esce dal centro storico si trova una modernità architettonica dissennata - e allora lui mi disse: «Vedi, questi palazzi mi feriscono, mi fanno male, è come per uno scrittore leggere o camminare attraverso un libro di orribili parole. Perché noi non abbiamo diritto di dire che non vogliamo questa bruttezza? Che a me ferisce, che mi fa star male fisicamente sia come architetto che come regista». Infatti i suoi film sono sempre delle architetture perfette, perché le grandi commedie devono avere un equilibrio nella loro impalcatura generale, se manca solo un tassello nella struttura, lo si avverte.

I luoghi sono importanti per chi lavora con gli occhi, col visivo. Questo dire di mio padre intorno alla sofferenza provata nel vedere brutti luoghi, erano parole pronunciate da una persona che si professava un artigiano del cinema e non usava mai frasi altisonanti, né si fregiava d’essere artista… si esprimeva in modo autentico sulla realtà, dialogava con la propria figlia senza darsi un tono.

Nel momento in cui un regista inizia un film compie dei sopralluoghi, e già questi sono una lenta appropriazione del luogo dove si è deciso di girare il film. Nel cinema concretamente avviene sempre l’attivazione di una doppia corrente, il déjà-vue e il qui e ora, che scorrono insieme. Un luogo attiva con intensità diversa entrambi ed in particolare i déjà-vue: ogni luogo ha questo potenziale, dei luoghi più di altri, ma anche dei luoghi sconosciuti possono evocare questa doppia corrente all’interno di sé. Per ripetere quanto accennavo prima, se ci fai caso, è rarissimo, molto più che in letteratura, che un regista possa essere sottratto ai suoi luoghi. Come ti dicevo Kar-Wai e Kieslowski hanno avuto un crollo quando hanno realizzato film al di fuori della loro terra d’appartenenza. I grandi film sono di registi che fanno corpo con la loro terra. Rossellini è legato a  Roma, non avrebbe potuto fare i suoi film a New York. Ci sono anche casi come Polanski, un eterno esiliato, che ha realizzato diversi film americani. Il suo cinema è inevitabilmente cambiato, il passaggio a Hollywood ha prodotto dei capolavori come China Town ma gli ha fatto confezionare dei film con una forte matrice americana. Nella sua terra c’è dovuto tornare con Il pianista, un’opera della maturità, il film della sua vita.

 

 

B.M. Tu fai un discorso sulla coerenza e autenticità riguardo alle origini, all’infanzia. Se hai quel retaggio etnico e culturale non puoi trasfigurarlo più di tanto...

 

F.C. Lo spazio fisico nel cinema è tutto. Si può descrivere in maniera dialettica e anche in opposizione al tuo luogo di nascita. Non voglio dire che un regista può girare solo nella città in cui è nato, benché tutti i grandi registi italiani non sono mai andati in America. Fellini che sarebbe potuto andare in America non l’ha mai fatto. Cosa sarebbe Fellini senza Rimini, senza la reminiscenza dei suoi luoghi? Cosa sarebbe Nanni Moretti senza Roma? Senza addirittura il suo quartiere Monteverde e l’esplorazione di Roma? Così come tanti altri registi della commedia all’italiana senza l’humus italiano popolare, senza le strade dell’Italia popolare, della capitale come di altre città, pensa a Pasolini. Mi vengono in mente i Dardenne, come potrebbero fare i loro film fuori dal Belgio?

Il cinema non può prescindere dallo spazio fisico, dalla relazione profonda tra lo spazio fisico e il corpo, tra il luogo e gli umori interni del regista. Il regista deve far corpo col luogo e deve applicare al tempo stesso il rigore del qui e ora. Certamente ci sono diversi registi che sono espatriati per obbligo o per scelta, ma hanno fatto di sicuro molta fatica. Hanno perso parecchie cose e ne hanno avute altre, personalmente penso che hanno perduto aspetti preziosi del loro Sé…

 

 

 

B.M. Nel film “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck, il personaggio principale intercetta segretamente la vita di altri individui. A me sembra che in quel film sia descritto molto bene il processo d’immedesimazione totale con l’oggetto, quasi il perdersi in esso. Penso quanto quel personaggio racchiuda sia la figura dello spettatore ma anche quella del regista quando crea il film. Deve accadere qualcosa nel corpo del regista, come il risveglio di una sensorialità che gli permette di aderire completamente a quella immagine vs realtà che sta costruendo.

 

 

 

F.C. Non c’è film se non c’è questo. Nel regista non solo scatta un’immedesimazione totale con l’oggetto, per certi versi fisica, ma la deve necessariamente anche trasmettere a tutti i diversi componenti della troupe mentre sta girando il film. Questa trasmissione dal regista al gruppo avviene attraverso le parole e il linguaggio del corpo. Sul set con ogni gesto trasmetti qualcosa almeno per quanto attiene la mia maniera di lavorare.

Il regista dovrebbe trasmettere agli altri la sua specifica intensità fisica, il suo modo di stare sul set e di sentire interiormente la storia che sta narrando mentre la esprime per  immagini, ed ogni volta questa esperienza è diversa.  

Per una donna è ancora più particolare la relazione con la corporeità, le donne registe hanno col corpo un rapporto diverso, basti pensare per loro quanto è importante anche il modo di apparire all’altro, noi donne ci specchiamo, ci osserviamo… più dell’uomo. A me interessa sempre vedere la fisicità delle registe donne e sta cominciando solo ora ad apparire una fisiognomica della regista. Fino adesso le nostre registe madri, bravissime, si sono dovute un pò travestire da maschi, si notava nelle loro posture, quasi una violenza fatta al proprio corpo quella di agire delle modalità maschili. Il corpo cambia ad ogni film, questo è l’elemento interessante, cambia la tua apparenza. Quando rivedo le mie foto sul set, non mi riconosco perché sono completamente un’altra persona da un film all’altro. Gli amici mi dicono: ma com’eri diversa, cambia il tuo modo di muoverti. Questa dinamica di introiettare l’altro mi è apparsa chiaramente ne Lo spazio bianco guardando l’interpretazione di Margherita (Buy). Lei ha finito per parlare, muoversi, camminare come me, quasi identica a me essendo invece totalmente diversa da me. Questa cosa non si verbalizza mai, ma avviene. Avviene perché tu continuamente col corpo sei il film che stai vivendo in quel momento.

 

B.M. Rileggevo l’intervento di Bertolucci in una tavola rotonda sul cinema. Se la premessa necessaria è che l’opera finita è reale ma ciò che vediamo sullo schermo è l’ombra dell’oggetto, il suo fantasma, vorrei tanto che tu potessi descrivermi l’origine della rappresentazione filmica, il set come luogo di un sogno collettivo, come spazio dove prende forma l’inatteso, il “galleggiare sulla superficie di una realtà”. Mi piacerebbe che tu raccontassi l’esperienza di come si declina la “realtà” nel set cinematografico… lo stare insieme in uno spazio uniti dalla creazione di un film.

La creazione di una realtà condivisa, di un’opera collettiva.

 

 

 

 

F.C. Trovo interessante questa domanda perché di questo non si parla mai. Il set è un luogo, è un luogo a sé. Esiste una doppia declinazione, c’è un luogo nel quale noi giriamo, per esempio nel caso del mio ultimo film, è Napoli. E dentro questo luogo si ricrea una sacca, un utero, un altro luogo che è il set, nel quale noi stiamo. Uno dei luoghi più prepotenti e potenti nella sua struttura che io abbia mai conosciuto. Lo assimilerei a quanto affermava Artaud sul teatro come la peste e come esperienza esistenziale: l’attore è scosso in tutto il suo corpo, è scosso dalla testa ai piedi mentre prova e cerca il personaggio, è sfigurato, sembra essere contaminato da una malattia, eppure appena fuori dal teatro le sue parole non esistono, non servono a niente, è un’esperienza che non può nulla e che in qualche modo non serve a nulla. La dinamica che descrive Artaud è la stessa che avviene nel set. Il set è lì, noi viviamo là dentro, in un circolo che è come chiuso, per riprendere il tema del mio film, è come una gigantesca sala parto, nella quale possono entrare solo gli addetti ai lavori. Quando tu stesso ne esci è un’esperienza che si è conclusa, anzi esattamente come avviene per i parti tendi a dimenticartela. Proprio perché la natura fa bene la sua opera, immediatamente dopo vuoi ricominciare con un altro progetto. Se ti  tornasse in mente  tutta la violenza degli scambi accaduti dentro il set, forse non torneresti a girare un film. Michael Cimino diceva: «Il regista è l’unica persona al mondo che si batte per poter tornare in guerra un’altra volta».

Mi piacerebbe nel corso della nostra intervista poter trasmettere l’intensità di questi vissuti, perché secondo me è una cosa che sarebbe importante analizzare anche da un punto di vista psicoanalitico. Alcuni film hanno descritto il set, il lavoro del cinema, il più famoso che mi viene in mente è Effetto notte, un bellissimo film, però non corrisponde completamente al mio sentire, proprio perché forse sono donna, perché il cinema oggi non si fa più così. Il cinema d’autore molto spesso in Italia è un lavoro di resistenza ed è un lavoro fine a se stesso. Ai giorni nostri dal punto di vista del mercato non lo vuole più nessuno. Anche quando fa milioni di euro, anche quando come Gomorra fa dieci milioni di euro. I film di Garrone mi auguro continuino ad avere quel successo, ma non cambia la natura del suo lavoro o del lavoro di ognuno. E’ un lavoro residuale importantissimo, ma la cui importanza sembra che la sappiamo solo noi. Nessuno di noi del cinema sembra scalfito da questa condizione di residualità. Siamo consapevoli che tutto intorno c’è una realtà economica, di mercato, di esercenti, culturale, politica e anche molto più vasta, che del cinema vorrebbe fare a meno o fa a meno. In qualche modo siamo soldati di una guerra persa e questo rende le cose molto diverse. Ad esempio la storia di Effetto notte di Truffaut, somiglia molto ai racconti dei set dei film di mio padre, che io ho frequentato, erano dei set in cui il cinema dominava la scena. In quel modo di fare cinema il regista imperava, i rapporti erano diversi. Noi che oggi facciamo questo lavoro, che continuiamo a partecipare a questa guerra persa, sappiamo invece intimamente che è una guerra vinta. Sappiamo che questo lavoro va fatto non solo per noi registi perché è il nostro lavoro, ma che ha una sua funzione anche per le vite degli altri. Il valore economico commerciale che viene dato ai film non scalfisce affatto la nostra passione e la cosa impressionante è che non scalfisce affatto nessuno della troupe. Vorrei che questo fosse noto. Le troupe con le quali io lavoro sono composte da persone completamente diverse da quelle raccontate dal vecchio cinema. Sono troupe nelle quali le cosiddette maestranze, gli assistenti, sono tutti giovanissimi e sono completamente distanti dall’idea dei cinematografari romani che hanno costituito una grande tradizione ma obbedivano a delle regole gerarchiche. Diversamente oggi la troupe è un’entità coesa, esiste una sproporzione totale tra il proprio guadagno, gli incassi del film e l’impegno che mettiamo. L’impegno di un qualunque elettricista, di un qualunque assistente, è incredibile. A Napoli, nel mio film Lo spazio bianco siamo riusciti a bloccare un’arteria stradale come via Foria, una cosa che normalmente per farla ci voleva un set alla Fellini. Sarebbero stati necessari un centinaio di assistenti mentre nel nostro caso è stata bloccata dalle sarte, dalle costumiste. Si sviluppa all’interno di questo circolo chiuso un’intensità mostruosa, perché non esiste il regista che sa qualcosa che gli altri non sanno. Se il regista sa qualcosa in più è di carattere artistico, però la natura del lavoro che stiamo facendo la condividiamo tutti. Stiamo facendo un lavoro residuale che per noi è simbolicamente una questione di vita o di morte per tutti quelli che lo fanno, dagli assistenti fino al regista. Lavoriamo in condizioni d’inimmaginabile difficoltà, che non vogliamo neanche raccontare perché sono la nostra fierezza e non ci lamentiamo. Queste premesse creano uno stato al limite di follia collettiva, perché la fatica che mettiamo in ogni singola inquadratura e il grado d’esigenza che vi trasferiamo è veramente al limite della follia, e meno soldi ci danno e più ce lo mettiamo. E’ come Totò in Miseria e nobiltà, che vuol fare il principe ma non ha neppure i soldi per mangiare. Noi siamo così, questo crea delle dinamiche relazionali molto intense eppure molto tese e fonda uno statuto diverso del ruolo di regista, perché egli non è più un master and commander dell’evento. E’ colui che tutti seguono per una scelta comune d’intenti, perché non conviene più a nessuno fare il cinema, andar dietro ad un sogno. Quindi la sua autorità deve essere semmai di continuo ribadita, in quanto non è più stabilita per gerarchie. Il set tende a metterti in crisi, il regista sta sul set come una nave che pencola da tutte le parti, non ha mai entrambi i piedi appoggiati, ha sempre paura, come nel romanzo di Melville Benito Cereno quando l’uomo nero sopraffà il comandante. Siamo su una nave che si agita moltissimo e dobbiamo riaffermare continuamente la nostra autorevolezza. Si creano rapporti che non possono più avvenire per comando, che non sono più asimmetrici ma, prendendo in prestito un termine della psicoanalisi, accadono per transfert. Simile alla stanza dell’analisi il set è un gigantesco utero, in cui si compie un patto che somiglia al contratto analitico, l’altro potrebbe sempre interrompere e andarsene, come può fare un paziente col suo analista. Un patto dunque fondato su una scelta collettiva, il regista deve impegnarsi a creare un legame con l’altro e il suo corpo è un catalizzatore. In certe situazioni è necessario comunicare la qualità intrinseca dell’oggetto che stai narrando solo attraverso l’espressione corporea, i silenzi e l’ascolto. Talvolta si scatena un’intensa aggressività, si litiga anche per la specifica sensazione del sentirsi esiliati dalla realtà, come si percepisce nei labirinti del film di Kar-Wai. Alla fine di questo viaggio, simile ad un parto, si tende a non rivedersi più, proprio perché le relazioni sono state troppo intense. Credo che l’analisi delle modalità di lavoro sia importante perché il modo di lavorare della gente è cambiato ovunque. Analizzare le dinamiche del set potrebbe essere interessante, ad esempio nessuno racconta in particolare dell’erotismo che circola per il fatto di creare insieme, ci guardiamo tutti alla presenza dei nostri corpi, ci desideriamo e ci odiamo…

B.M. Sono stata sul set del tuo film “Lo Spazio Bianco” proprio quando hai girato la scena della protagonista che attraversa da sola una Napoli vuota per recarsi in ospedale e sapere se la sua bambina prematura vivrà…

E’ stato entusiasmante nonostante carrelli, camere, obiettivi, il clima che si crea è onirico, si è proprio sospesi in un sogno ma al tempo stesso molto, molto carnale.

Nel tuo film si parla dell’essere tra la vita e la morte e a parte il libro della Parrella (1), forse una cornice come quella di Napoli era davvero il luogo adatto per descrivere una vicenda così sospesa. Una Napoli attuale, un luogo bello e dannato, oggetto da diversi anni dell’attenzione della cronaca, dei media e dell’arte per vicende di ogni genere. Città in qualche modo materna per la sua vicinanza al mare, ma anche teatro di guerra, luogo immerso in una provincia dove si consumano lotte fratricide.

Cosa ha rappresentato per te questo luogo così contraddittorio?

 

F.C. Vorrei tornare proprio sulle scene del film in cui tu sei stata presente. Quelle scene in cui abbiamo desertificato Napoli sono state proprio uno dei successi del lavoro di gruppo a cui ho appena accennato. E’ stata una scommessa per la troupe e non pensavamo di riuscirci mai. Pensavamo di combattere una battaglia persa, era simbolicamente una questione di vita o di morte per la buona riuscita del film e tutti l’hanno capito ed hanno agito di conseguenza. Abbiamo vissuto un momento d’euforia ed entusiasmo nel prendere quella strada come se metaforicamente prendessimo un corpo. Napoli per l’appunto è una città materna, un immenso utero, l’utero dell’Italia, non solo per la presenza del mare, per il vulcano, per la sua costituzione geofisica o a causa della costruzione della città aggrappata in altezza intorno al mare, ma anche per il flusso della vita che circola nelle strade. Napoli è una delle rare città, per motivi che andrebbero analizzati, che non è stata svuotata dal suo humus. Possiamo constatare che tutti i centri storici delle grandi città sono diventati dei musei, non hanno più vita, sono luoghi per gente milionaria come Parigi, Londra, Roma. Napoli no, perché pullula del suo humus. Una città non è solo le pietre ma le vite che la abitano, nel bene o nel male, basti ad esempio pensare ai quartieri spagnoli situati nel centro a piazza Plebiscito dove lì dentro avvengono forme estreme di vita e sono anche sottoposti al controllo della criminalità. Diciamo che Napoli è la madre delle città, la regina, per me doppiamente è una città materna perché è la città di mia madre. Io sono frutto di un padre lombardo e di una madre napoletana. Per questo motivo da un punto di vista biografico Napoli è il materno. Inoltre questa città riassume nel suo inconscio delle caratteristiche di tutta l’Italia. L’assimilo ad un utero perché nell’utero è presente la vita in essere nella sua sintesi massima e poi nell’istante della nascita la vita dilaga all’esterno. Napoli ha delle caratteristiche che sono compresse al suo interno e che conseguentemente dilagano su tutta l’Italia e riflettono tratti specifici degli italiani, che io amo moltissimo. Per esempio è una città che è stata abbandonata da molti ma non dai suoi artisti. Napoli pullula di scrittori. La nuova letteratura italiana parte da lì, così la musica, il teatro.

Un teatro contemporaneo che non ha nulla a che vedere con quello caratteristico napoletano, ma è moderno come quello di Emma Dante a Palermo. Napoli come Palermo sono città apparentemente abbandonate dai ben pensanti ed altamente problematiche, però non sono stati luoghi abbandonati dai loro artisti. A Napoli esiste una vena creativa molto forte e girando il mio film ho provato sintonia col luogo e un grande senso di libertà. E’ stato facile ritrovare un nesso tra la città e la storia del film: la lotta per la sopravvivenza della piccola bimba nata prematura.

A Napoli non esiste solo una questione di sopravvivenza, ma è presente una certa qualità della solitudine, diversa da quella che si potrebbe vivere in altri luoghi. Nel film tratto il tema delle donne avanti negli anni che vivono da sole la maternità. Le donne che invecchiano da sole scompaiono, è come se avessero il velo in faccia e non sanno più qual è il loro posto nel mondo. E’ come se fossero trasparenti e non esistessero più. Essere in solitudine a Napoli è diverso, perciò mi è venuto in mente di girare la scena in cui la protagonista guarda dalla funicolare di Monte Santo e mentre sale sfiora quasi le case che sono lungo il percorso. Lei è sola ma guarda queste scene di vita: gente che mangia, una donna che sbuccia le patate, un vecchio che gioca a carte, bambini che giocano… Ritornando alla topografia dei luoghi di Wong Kar-Wai, la funicolare di Monte Santo come tutta Napoli, ha qualcosa dei caseggiati cinesi, labirinti in cui ti sembra sempre di essere nelle stanze della gente, all’interno delle loro finestre. Anche se non vuoi guardare vieni risucchiato dentro. L’idea di girare quella scena mi proviene dal libro di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, quando afferma: «Chi è solo tende a vedere tutti coloro che lo circondano “sistemati”, e ognuno gli appare provvisto di un piccolo sistema pratico e affettivo di legami, dal quale si sente escluso, e verso il quale prova un sentimento ambiguo di invidia e di derisione». Anche chi è solo a Napoli non può non essere bagnato dalla vita che sta intorno. Non puoi isolarti, sei comunque coinvolto. Per le caratteristiche di questa città a me pare che la qualità della solitudine sia meno tremenda, perché è impossibile chiudersi in un alveo separato.

 

B.M. Se posso dire quale scena nel film “Lo spazio bianco” mi ha emozionato di più è quella che mostra allo spettatore un volto indimenticabile di Maria quando avvolta dalla luce bianca e azzurra del cielo e del mare scruta immobile le ombre delle immagini ecografiche della sua gravidanza. Lo  stesso sguardo sospeso, velato di stupore e paura, sfiora i contorni del piccolo essere racchiuso nel guscio bianco dell’incubatrice, ne misura l’improbabile esistenza attraverso le onde delle funzioni vitali e il pulsare del cuore sul monitor. Sarà il gruppo solidale delle madri, unite dallo stesso destino, l’affetto sincero degli amici, l’umanità e la gratitudine dei suoi allievi a riscaldare quello sguardo - a permetterle di costruire nella sua interiorità quel grembo psichico che fa crescere in lei la capacità di diventare una buona madre in grado di riaccogliere dentro di sé la figlia fino al momento della nascita dall’incubatrice. Il viaggio psichico di Maria nel campo della maternità è un viaggio che si nutre di contatti visivi, è con gli occhi che la donna impara a conoscere ed accettare la propria bambina e ad amarla, a condividere, attraverso uno sguardo interiore e gli scambi emotivi con gli altri la sua vicenda umana. Alla fine del libro come del film, lo spazio bianco non ha più il significato di un vuoto privo d’immagini e pensieri ma diventa uno spazio reale simile all’albedo alchemica, la possibilità di far nascere e di donare forme infinite alla vita. Era tua intenzione far riflettere lo spettatore sulla nascita di una visione interiore premessa indispensabile per poter maturare una maternità profonda e consapevole? Per costruire uno spazio femminile all’interno del Sé?

 

 

 

 F.C. La mia intenzione era di raccontare come accogliere un figlio e diventare madre sia un percorso che non si esaurisce mai e si rinnova continuamente. Nel corso della vita la donna non smette di partorire mentalmente i figli e di modellare la posizione materna. Non si è madre una volta per tutte, si diventa ogni giorno madre dei propri figli, e li si lascia andare e li si partorisce al mondo ogni giorno. Maria nel film fa un percorso graduale che la porta al primo stadio dell’essere madre e del pensare di potercela fare, mentre all’inizio quando si scopre incinta nella scena che citavi, lei non vorrebbe essere madre, non ne ha ancora maturato il desiderio. La mia intenzione era che lo spazio interiore per la figlia glielo restituisse l’esterno. Lo spazio psichico necessario al divenire madre, ma anche necessario al vivere, non può essere trovato in un percorso solitario, scisso dall’esterno, al contrario è effetto diretto dell’interiorizzazione dello scambio con l’altro. Il racconto di Maria l’ho costruito come una partita a ping pong con l’esterno. Il sociale ha la sua importanza anche in un discorso che potrebbe apparire così chiuso al sociale come quello della gravidanza e della maternità. Entrambe condizioni d’isolamento, la donna vive nella diade madre-bambino e non s’interessa più al mondo; anche per questo ho voluto rendere il conquistato desiderio di maternità con l’immagine di una città deserta nell’attimo in cui Maria scopre il valore profondo dell’essere madre. Ancor di più esiste isolamento in un reparto di terapia intensiva dove il mondo non può proprio entrare. Da uno spazio così non si esce se non sei aperta ad uno scambio con l’altro e col mondo. Lo stesso scambio ti restituisce una funzione sociale. A mio avviso se le donne non occupano un posto nel mondo non potranno mai avere un posto nella loro casa interiore. Quando Maria osserva l’esterno e si apre a delle visioni - perché le facce degli altri sono anche delle visioni oltre che dei rapporti - può vedere il volto dell’altro senza restarne accecata, e questa esperienza le consente d’immaginare il volto di tua figlia. Mi piacerebbe restituire un’attenzione specifica all’evento della maternità e aprire una casa delle madri. Ricordo quando avevo i miei figli piccoli a Parigi mi sentivo tagliata fuori dal mondo. In passato esisteva un modello diverso dell’essere in famiglia, dell’essere nei luoghi … è importante l’incontro con l’esterno perché ti permette di avere un contatto interiore con tuo figlio. Riflettendo su storie che sentiamo, di madri che annegano ad un certo punto nell’ambivalenza ed hanno l’idea di non farcela, dovremmo tener presente che l’inadeguatezza è insita nel materno, non ce l’hanno solo le cattive madri, ce l’abbiamo tutte. Come ha scritto mirabilmente Winnicott, la madre non è perfetta, è al meglio delle ipotesi sufficientemente buona. Il contatto primario con l’esterno dovrebbe essere anche garantito dal padre del bambino, che ti salva, perché è il legame col mondo. Io non penso che le madri possano cavarsela in assenza del padre. E’ un pericolo estremo per la madre e per il figlio nei film come nella vita. Non ho mai pensato che il mio film costituisca un paradigma di come le donne possano farcela da sole. Di fatto moltissime donne ce la devono fare da sole perché non hanno a fianco un compagno. Nella mia testa mi sono costruita un romanzo familiare del film nel quale i suoi allievi prediletti sono un pò il padre e la madre di Maria, e Fabrizio il suo migliore amico è un  pò il suo uomo, il padre simbolico. All’interno della solitudine nella quale molte donne si trovano a dover essere madri - solitudine pericolosa proprio perché il padre dovrebbe esserci, ma non essendoci a volte - è importante che si creino delle figure per loro stesse e per i loro figli, figure che di fatto costituiscono dei cordoni ombelicali con il mondo. Altrimenti si è votati al vortice dal quale non possono cavarsela. Maria sta in uno spazio bianco come ci stiamo tutte, quando un bambino ha tre giorni e se sbagli un gesto potrebbe cadere e morire, ogni giorno nel prenderti cura di lui senti che può precipitare e tu precipitare con lui. E’ impossibile farcela se non sei legato al mondo e se non c’è qualcuno a dirti: «Da questo luogo tra la vita e la morte nel quale ti trovi ti voglio levare e ti voglio riportare nel mondo dove è giusto che tu stia insieme al tuo bambino per poter vivere». Se manca un padre naturale che ricomincia a desiderarti come donna e ti vuole nel mondo con lui, bisogna riuscire a farcela ricreandosi dei legami che lo sostituiscano e riempiano la sua assenza. La forza di Maria è trovare tanti piccoli padri: portando sua figlia con sé nella sua realtà, tra i suoi allievi, nel contatto con le altre madri, nel mantenere un rapporto determinante d’amicizia con un uomo.

Riguardo la scena che ti ha colpito, stavo sulla nave con Margherita (Buy), per fortuna quel giorno c’erano delle onde lunghe nel mare mosso. Avevo solo un giorno per girare la scena e per creare la sensazione che volevo, poteva capitarmi qualunque mare. Sono stata fortunata e la fortuna così com’è importante per la vita, lo è anche per il cinema. Brillava una luce invernale meravigliosa, faceva freddo e c’era un’onda gigantesca ma essendo lunga appunto non sembrava che il mare fosse mosso, perché l’ondeggiamento era molto dolce. Questo movimento del mare l’ho amplificato al rallenti ma non si percepisce perché lei è immobile, si intuisce solo dal vento che le muove i capelli lentamente; ed anche dal beccheggiare della nave che si alza e riscende.

Come se avessi creato con l’immagine del mare, con un luogo d’acqua, lo stato embrionale  della sua gestazione interna…

Per me era fondamentale che scoprisse il suo evento sull’acqua. La potenza dell’immagine è data proprio da quella tipologia di movimento. Riflette quanto accade nell’animo della protagonista, è un’onda che ti prende allo stomaco.

La scoperta della gravidanza è costruita proprio sull’ondeggiamento della nave.

Fra l’altro, feci fermare la nave, la scena è girata a motori spenti, per dare il senso che lei è immobile in mezzo al mare, preda di questa nuova realtà, non domina più nulla, la nave non va più, è la metafora dell’attesa... Sarebbe stato impossibile non usare questa metafora in una storia che tratta di maternità e in una città di mare come Napoli.

 

 

 

 

 

 

NOTA:

 

(1) V.Parrella, Lo Spazio bianco, Einaudi, Torino, 2008.

 

 

        

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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