FRENIS zero | ||||||||||||||||||||||||
Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte | ||||||||||||||||||||||||
Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853
Commento di Ambra Cusin al film "IL VENTO FA IL SUO GIRO"(2005), regia di Giorgi Diritti.
Il film di Diritti, e la storia che narra, si inserisce in una cornice ambientale che ritrae una natura apparentemente incontaminata e selvaggia. Le immagini dell'inverno sono assolutamente affascinanti. Ma credo che già questa "selvaggità" naturalistica, visiva, rimandi ad aspetti selvatici che abitano tutti noi e che nel film sono, a mio parere, i veri protagonisti. 1 - L'essere umano, nelle parti più intime e profonde, in quello che come psicoanalisti chiamiamo l'inconscio, è abitato da pulsioni, fonte inesauribile di vitalità e di creatività, che però, come le tigri, non sono facilmente addomesticabili. E questo film mette in scena già dai primi momenti, in cui un cane abbaia al nuovo venuto, come tutto ciò che è nuovo risvegli difese, abbaiamenti e innalzamenti di barriere volti a proteggere la possibilità di un cambiamento. Chi lavora con i gruppi, con le istituzioni, sa bene come tutto ciò che è nuovo ha il potere di modificare, nel vissuto in modo catastrofico, la cornice sicura in cui si vive. Così un bambino appena nato stravolge la tranquilla vita di una coppia, il nuovo collega modifica le relazioni e gli equilibri all'interno di un ufficio, le nuove idee portano all'abbattimento di muri e alla frammentazione, come abbiamo visto nel film "Le vite degli altri". E lo straniero, lo sconosciuto, porta la catastrofe nel gruppo, porta un cambiamento che se anche potrebbe migliorare la situazione della comunità, viene rifiutato ed espulso, anche ricorrendo alla malafede e alla violenza. Non c'è il tempo per analizzare a fondo questo tema dello straniero, che peraltro può essere considerata una delle più belle metafore dell'inconscio, né quello della sacralità del medesimo, ma è un tema portante del film e rimanda a tutta la violenza attorno alla stranierità, e quindi anche alla incapacità di accettare l'esistenza dell'inconscio, che sta avvelenando le relazioni umane nella nostra società. Lo straniero, l'estraneo, è il perturbante per eccellenza e per perturbante si intende l'inquietante, il non familiare che per qualche particolare, qualcosa di più del nuovo e dell'inconsueto, ci spaventa, come dice Freud ci turba appunto e ci inquieta. Perturbante non è solo inconsueto, è qualcosa di più. E, aggiunge Freud, perturbante, unheimilich in tedesco, nella lingua araba e in quella ebraica coincide con demoniaco, orrendo. In questo film, cosa lo straniero Philippe e la sua famiglia ha non solo di nuovo e di straniero, ma di orrendo, di demoniaco, che spaventa la comunità di Chersogno? O meglio: cosa di demoniaco, di estraneo, la comunità di Chersogno, non potendolo riconoscere come proprio, mette dentro, proietta, in Philippe e nella sua famiglia? (...)
2 - Io penso che ciò che abbia spaventato è che Philippe e la sua famiglia siano giovani, non nel senso dell'età, ma nel senso della capacità, del coraggio, della voglia di progettarsi, pro-gettarsi, di andare oltre al conosciuto, di mettersi in gioco di nuovo in un ambiente sconosciuto, di avere fantasia e creatività, capacità di adattamento. Credo che ciò che fa paura dei giovani è la loro potenzialità a cambiare, il loro desiderio di ribaltare il mondo e rifarlo migliore e nuovo. Noi adulti, più avanti con gli anni, come i vecchi abitanti di Chersogno, temiamo questo cambiamento perché preferiremmo restare nel rassicurante conosciuto. Nello stereotipo di una vita che si ripete uguale ad ogni stagione: d'estate tornano i turisti per 15 giorni, si dice nel film. Nello stereotipo che teme che qualcuno possa riuscire laddove noi abbiamo fallito e che quindi, come stereotipo è sempre uguale nel tempo e non si mette alla prova. E spesso noi, come la comunità di Chersogno, attacchiamo in vari modi la vitalità dei giovani, le loro potenzialità e la loro fantasia impedendo loro di evolvere, di innamorarsi di un partner, di progetti ed idee, di sentirsi pieni di desideri. E poi c'è la sessualità e la sensualità che viene ad abitare tra pareti morte, ammuffite, deteriorate e che porta vitalità. All'inizio tutti sembrano partecipare a questa rivitalizzazione, ma partecipano apparentemente, senza modificare veramente qualcosa dentro il gruppo, la comunità di Chersogno. Partecipano perché i loro leader, il sindaco e l'intellettuale musicista, li motivano a farlo. E' una partecipazione che viene imposta con la ragione, con la necessità, dietro, dell'illusione, la fantasia quasi, che questa famiglia possa assumere la forma di "salvatrice" di un paesino che sta andando verso l'estinzione dei suoi abitanti. Ma le forze della mentalità invidiosa e distruttiva hanno da subito il sopravvento. Anche sugli stessi leader. Credo che siete riusciti a cogliere come ci sono degli interessi personali, dei confini che rischiano di cadere, di essere travalicati laddove andrebbero difesi, o elevati laddove andrebbe invece lasciata libera circolazione dei pensieri.
3 - Il terzo punto rigurda proprio il confine (...). La comunità di Chersogno che difende strenuamente i propri confini, si esprime attraverso un'anziana signora che agisce l'espulsione, strutturandosi come un'emergente, il portavoce, del gruppo (e il regista sceglie per questo ruolo proprio una donna, anello debole di una catena, come spesso succede, che agisce con estrema violenza, nonostante certe ideologie affermino che la donna non sappia essere violenta... proprio lei diviene la portatrice dell'intera violenza di un gruppo in cui prevalgono gli uomini). L'anziana dirà "Là ci sono i miei prati" ed attaccherà con la malafede e l'imbroglio Philippe (si rompe le dita pur di attuare il progetto della comunità ... quanto noi ci danneggiamo pur di espellere l'altro?) proteggendo un gruppo, che in un silenzio omertoso poi ucciderà le due capre (che Giorgio Voghera in Quaderni di Israele, ed. La Biblioteca del Piccolo, descrive così: "gli uomini costretti a dedicarsi alla pastorizia più povera, in arcigni e impervi borghi montani, quella delle 'maledette' capre, uno degli animali più simpatici che esistono e più provvidenziali per il povero..."(p. 159). E' interessante anche notare come questa comunità, che difende strenuamente i confini dei terreni in cui far pascolare gli animali non conosce i confini dell'intimità familiare. Con diverse scuse infatti più volte gli abitanti irrompono nella vita della famiglia di Philippe, apparentemente con validi e generosi motivi, ma in realtà per curiosare, per intrudere. Sembra questa una comunità simbiotica dove non c'è confine tra i membri, dove non sono tollerate le differenziazioni e l'intimità. Dove al posto dell'io, del tu e del noi c'è solo un noi imperante, che nega le diversità e le emargina. Ecco, qui il confine tra la comunità e la famiglia di Philippe è un confine psichico che si fa sociale: il confine è una mentalità, un topos della mente che, in questo caso, serve a mantenere la rigidità, una sorta di autarchia mentale dove non c'è possibilità di un confronto. Eppure il nuovo, portato da Philippe, contagia due persone: il figlio un po' strano della postina che grazie a questa famiglia comincia a vivere delle relazioni sociali in cui sentirsi accettato e non solo tollerato ("non mi piace il termine tolleranza" ci dice Philippe "se devi tollerare qualcosa non c'è il senso di uguaglianza") e che senza Philippe vedrà perduta per sempre ogni possibilità di riscatto scegliendo così di manifestare la sua identità diversa e libera, separandosi dal gruppo simbiotico della comunità di Chersogno, nell'unico modo possibile per lui: il suicidio. Ed il suicidio è la metafora, l'immagine dell'obiettivo latente, nascosto, di questa comunità, incapace di progredire, di accogliere il nuovo. Diversamente l'altro ragazzo, che ha più potenzialità emotive, sembra raccogliere invece le briciole di vitalità, le braci coperte della comunità, riattizzando un fuoco e dando a noi la speranza, nonostante tutto, di una possibilità di rivitalizzazione per questo gruppo sociale gravemente patologico. Il ragazzo che riaccende il fuoco può far vivere "il cadavere"! Infine il quarto punto che voglio sottolineare è che Philippe è uno che "ripara" le cose vecchie, che dà valore alla storia, che non ristruttura, ma sa adattarsi valorizzando ciò che trova. Le case di Chersogno hanno un loro valore intrinseco, le loro pareti sono abitate dalle emozioni che si sono vissute al loro interno (che vengono solo dette a parole, senza più sentimento, dal vecchio abitante recuperato per l'intervista a fine film e che parla del rueido, del senso della comunità in cui si è uniti, ci si aiuta, ma che a Chersogno è tutta una finzione, una recita ammantata di nostalgia che lascia spazio all'odio, alla violenza mascherata di un'accoglienza fasulla!) e Philippe rispetta tutto questo, a differenza del musicista... che invece ha ristrutturato la sua casa, rimasta uguale di fuori ma divenuta qualcosa di moderno e diverso al suo interno. E il musicista non ha vitalità né creatività, è annoiato, non sa vivere le emozioni. Appare vuoto e bisognoso di nutrirsi, come un vampiro, della vitalità della moglie di Philippe, che seduce e insidia. Quanto ci dice tutto questo del nostro attuale rapporto con gli stranieri?
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