|
Nel 1949 fui fortunata a
trovare, o a essere trovata da (che a livello delirante è la stessa
cosa [Little, 1957b], uno psicoanalista che nei vent'anni precedenti
aveva avuto in trattamento pazienti psicotici.
Ebbi così la possibilità di
abbandonare gradualmente la mia onnipotenza e il mio sé falso, 'custode'
e, affidandomi al 'contenimento' da parte del mio analista, rivivere
la mia prima e seconda infanzia traumatiche. Alla fine,
nell'immaginazione, potei distruggerlo ed esserne distrutta (che era
di nuovo la stessa cosa) e dopo, scoprendo che eravamo entrambi
sopravvissuti, usarlo ed essere utile a lui (Winnicott, 1968, 1970b).
D.W. era consapevole fin dall'inizio
che la mia angoscia predominante riguardava la sopravvivenza e
l'identità, e allo stesso tempo che in altre aree avevo raggiunto un
sufficiente livello di maturità. Fu su questa consapevolezza che egli
basò la sua diagnosi e la sua decisione di intraprendere la mia
analisi.
Foto: D. W. Winnicott
Durante la prima seduta lo chiusi
fuori, nascondendomi sotto la coperta e non dicendo nulla, e alcuni
giorni dopo fuggii via dall'analisi in una relazione sessuale per la
quale non ero veramente pronta. Penso che questo fosse un tentativo
inconscio di evitare la disperazione, che cercai di fargli riconoscere
fracassando il vaso nel suo studio. D. W. non era ancora pronto ad
affrontare questo acting-out distruttivo e mi lasciò sola con
il caos che avevo provocato, e così il senso di inutilità e di
impotenza rimase.
Non molto tempo dopo questo episodio
ci fu una seduta in cui io presentai un'apparente ripetizione di
un'esperienza di nascita traumatica, confermando la sua osservazione
che mi trovavo in "uno stato estremamente infantile" (Winnicott,
1949a, b) e che, afinché si potesse realizzare uno sviluppo emotivo
normale, sarebbe stata necessaria una profonda regressione, forse
persino fino alla vita prenatale.
Sono arrivata a considerare questa
seduta, con i suoi ricorrenti spasmi di tensione fisica che arrivavano
a un culmine ed erano seguiti da sollievo, come una ripetizione
dell'esperienza prenatale piuttosto che di una nascita traumatica.
(Molti lavori recenti hanno confermato che l'apparato sensoriale è
alla nascita già pienamente sviluppato. Disturbi ripetuti nella vita
prenatale, dovuti a manifestazioni somatiche dell'angoscia della madre
- battito cardiaco o respirazione accelerati, movimenti intestinali
aumentati, ecc. - trasmessi attraverso il liquido amniotico, stimolano
reazioni nel feto - improvvisi risvegli dal sonno, movimenti, ecc.,
e sono apparentemente sperimentati come quello che potrebbe
essere chiamato 'annientamento'. Il processo della nascita
rappresenterebbe quindi una ripetizione a un livello più intenso
dell'annientamento e della discontinuità che sono già stati
sperimentati nella vita prenatale [Winnicott, 1949b]).
La mia vera nascita fu facile: mia
madre partorì da sola prima dell'arrivo del medico o dell'ostetrica.
Sospetto che avesse aspettato prima di farli chiamare, in parte per la
sua convinzione che "se non ci si pensa il dolore passa", e in parte
per il timore che l'ostetrica tenesse la testa del bambino
all'indietro. (Aveva sperimentato questo gesto come un atto di
'crudeltà' durante il suo parto precedente e non ne aveva mai capito
la necessità).
Mi raccontò che durante la sua terza
gravidanza era "quasi sull'orlo del suicidio" per l'angoscia.
Non è possibile considerare mia
madre come capace di un qualsiasi grado di 'preoccupazione materna
primaria'. Ciò non vuole affatto dire che il bambino che stava per
nascere non fosse importante per lei - soltanto che non poteva mai
pensarlo se non come parte di sé e che la sola idea della separatezza
le suscitava angoscia, in quanto per lei significava annientamento.
L'angoscia, durata per tutta la
vita, che rendeva mia madre 'caotica' e 'imprevedibile' (Winnicott,
1961) naturalmente continuava dopo il parto. Durante la mia prima
infanzia prese la forma di continui disturbi al mio stato ancora in
gran parte non integrato. Mi raccontò che, ogniqualvolta trovava una
bocca di bambino aperta, la chiudeva, e toglieva il pollice dalla
bocca che lo succhiava; se il bambino stava sdraiato sulla schiena o
sul fianco sinistro, lo voltava sul fianco destro "per evitare la
pressione sul cuore" (la gabbia toracica per lei non significava
nulla). Gli orifizi del corpo venivano continuamente esplorati; in
seguito di notte praticava dei clisteri ( e durante l'adolescenza
passava molto tempo a schiacciare 'punti neri' e comedoni). Come un
bambino piccolo, non poteva lasciar stare niente.
I fraintendimenti, come la sua paura
dell'ostetrica, portarono a disastri, sia per lei che per la sua
famiglia, e così il caos era sempre incombente. Mi sgridava perché ero
'una bambina' o 'troppo suscettibile' se facevo delle 'storie' quando
ero spaventata, e me ne potevo difendere soltanto ritirandomi,
contenendomi da sola (Winnicott, 1954a) (come nella mia prima seduta
con D.W.), oppure identificandomi con lei e condividendo il delirio
primario di fusione con lei: il delirio che si era manifestato nel mio
transfert con D. W.
Foto: D. W. Winnicott
Per me D. W. non rappresentava mia
madre. Nel mio delirio di transfert era realmente mia madre (Winnicott,
1954b) e, siccome nella realtà c'è una continuità tra madre e feto,
genetica e fisica (attraverso le membrane e la placenta), così per me
le sue mani erano il cordone ombelicale, il suo lettino la placenta, e
la coperta le membrane, tutto molto al di sotto di qualsiasi livello
conscio fino a una fase molto avanzata dell'analisi. Il delirio non fu
mai nominato - lo riconobbi molto più tardi da sola - ma con il suo
comportamento egli tacitamente lo accettò, venendomi incontro a quel
livello ma, allo stesso tempo, mantenendo la propria maturità e
realtà.
Attraverso il suo affidabile 'contenimento'
(Winnicott, 1952b) e l'accettazione di un rapporto diretto, cominciai
ad aver fiducia in D. W. e a trovare una continuità e una sorta di
'reciproca situazione di nutrimento' (Winnicott, 1970b). Una simile
situazione era stata attivamente evitata durante la mia infanzia,
perché io venni allattata con il biberon, fasciata strettamente in uno
scialle in modo da rendere impossibile qualsiasi movimento. Il foro
della tettarella era così stretto che potevo succhiare il latte solo a
costo di un grande sforzo, e non appena il foro si allargava la
tettarella veniva sostituita con una nuova. (Vidi fare la stessa cosa
dieci anni dopo, quando i miei fratelli erano bambini, e ancora molto
tempo dopo rimasi stupita sentendo un pediatra del Great Ormond Street
Hospital consigliare di permettere un passaggio libero del latte
attraverso un ampio foro della tettarella, e di vederlo dimostrare
praticamente questo sistema).
Simili interferenze
nell'allattamento portarono a un fallimento della comunicazione tra
mia madre e me; molto precocemente mi impedì i dondolii e i movimenti
ritmici (Winnicott, 1956a), ma li incoraggiò nel periodo dei primi
passi. Ci fu un'importante forma di comunicazione attraverso le
canzoni che mi cantava, specialmente quando facevo il bagno: aveva una
bella voce da soprano e le piaceva cantare canzoni per bambini,
filastrocche, brani d'opera, ecc. Questa comunicazione, insieme al suo
senso dell'umorismo e all'amore per il giardinaggio, costituì un
durevole legame positivo con lei e, insieme alla stabilità di mio
padre, probabilmente mi impedì di diventare completamente pazza. Ma
mancarono altri sviluppi nel nostro rapporto.
La sua interferenza si alternava
alla trascuratezza, e l'attenzione eccessiva al 'lasciar perdere',
perché veniva continuamente distratta. Ciò che era importante in un
dato momento diventava totalmente trascurabile nel momento successivo,
e ciò che era importante per me doveva esser messo da parte. Questo
rimane come legame negativo; perché quando sono preoccupata sperimento
tuttora qualsiasi disturbo come se ancora una volta mia madre stesse
impadronendosi di me. Mi riprendo, ma ci vuole del tempo!
La comunicazione con D. W. divenne
possibile attraverso i lunghi silenzi, e questa inconscia corrente nei
due sensi in seguito mi indusse a scrivere i miei articoli e portò un
certo sviluppo nel suo lavoro. Ma persino durante le sedute
analitiche c'erano delle interferenze. In quei momenti di silenzio D.
W. diventava sonnolento, si addormentava, e 'chiudeva l'interruttore',
e io reagivo apertamente con rabbia, come mi ero spesso arrabbiata
interiormente contro mia madre. Più seriamente, il caos incombeva in
occasione dei suoi due infarti, della sua depressione, del divorzio e
del nuovo matrimonio, e del cambiamento di casa.
Il caos era sempre in agguato dietro
l'angolo, durante il susseguirsi delle mie terapie. Il mio primo
terapeuta (il dottor X.) rispondeva ripetutamente alle telefonate
durante le mie sedute; la malattia cardiaca di Ella Sharpe
rappresentava una costante minaccia, e il caos in effetti sopravvenne
alla sua morte.
Foto:
un ritratto di Ella Freeman Sharpe
Marion Milner, alla quale allora mi
rivolsi, mi aiutò a recuperare una certa stabilità e io ricostruii le
mie difese, ma il nuovo cambiamento da lei a D. W. rappresentò
un'altra minaccia. La mia difesa fu quella di fuggire, ma ben presto
crollò.
Il caos ritornò quando mia madre,
dopo la mia 'esplosione' contro di lei nel 1952, su un argomento del
tutto banale, tornò a rivolgermi una richiesta che, ancora una volta,
faceva capire che io e tutto quello che avevo - il mio corpo, i miei
vestiti, il denaro, ecc. - erano suoi e ne poteva disporre come
desiderava, come se fossero suoi.
La mia reazione fu di rabbia, che
poi scaricai contro il mio corpo, come se fosse stato il suo. Ebbi un
incidente che diede luogo a un lungo periodo di immobilità, seguito da
un prolungato stato confusionale - in pratica un disturbo regressivo -
culminato nel ricovero durante le vacanze estive di D. W. nel 1953. La
mia unica alternativa se non avessi accettato il ricovero sarebbe
stata quella di interrompere l'analisi, ma in quel momento ero troppo
consapevole del mio bisogno di aiuto per poterlo rifiutare, e dopo una
violenta protesta lo accettai.
Ancora una volta il mio tentativo di
restare non integrata per un certo periodo in ospedale fu sconfitto;
una serie di interruzioni (tutte ben intenzionate) fu per me una
ripetizione dei traumi originari, pre- e post-natali. Fui sopraffatta
da sensazioni caotiche, che liberai in un'orgia di distruzione. Ma si
trattava di un luogo in cui potevo reagire violentemente senza
realmente distruggere o essere distrutta. Nel reparto chiuso dove fui
trasferita potevo essere non integrata, e quindi trovare la continuità
sia in me stessa che nel mondo esterno. Alla fine decisi di vivere.
Non ero più dipendente in modo delirante dalla continuità fisica o
dall'identità di D. W.; potevo finalmente restare separata da mia
madre e scoprire che la mia salute era più forte della malattia, che
in origine era la sua e con la quale mi ero identificata (Little,
1957b).
Mi sono spesso chiesta ( e non sono
la sola a farlo) se in qualche modo sarebbe stato possibile evitare di
ricoverarmi, e ora so che sarebbe stato impossibile. Ma lo si può
comprendere soltanto tenendo in considerazione tutte le circostanze e
il tipo di cure che ho ricevuto in ospedale e dallo stesso D. W.
Avevo già cinquantadue anni, e la
mia attività come psicoanalista non era ancora del tutto consolidata.
Il mio stato mentale era profondamente regredito durante ogni seduta,
e soltanto dopo ritornava lentamente integrato. I miei appunti di quel
periodo rivelano l'intensità della mia angoscia e le mie reazioni
estremamente intense a ogni interferenza. Avevo bisogno di essere non
integrata durante le vacanze, e in particolare di essere protetta da
qualsiasi possibile interruzione da parte di mia madre, che era ancora
una vera fonte di potenziale pericolo per la propria vita e per la
mia. ( Purtroppo morì sei mesi dopo; fece un movimento sbagliato nello
scendere le scale, mia sorella non riuscì a trattenerla e lei cadde,
fratturandosi il femore. Fu operata, ma morì poco dopo per
insufficienza renale).
D.W. aveva quasi sessant'anni; era
già stato colpito da due ischemie coronariche ed era sempre a rischio
di un nuovo attacco. Le sue vacanze erano assolutamente necessarie.
L'analisi in cui era profondamente 'impegnato' (Fordham, 1960) lo
poneva sotto pressione da tutti i punti di vista - tempo, energia,
angoscia, emozioni; era già durata quattro anni e apparentemente
poteva continuare all'infinito.
Fu un momento di crisi,
letteralmente una questione di vita o di morte, sia per me che per D.
W. Se non sopravviveva, neppure io sarei potuta sopravvivere, almeno
psichicamente. Eravamo non separabili, nella stessa misura di una
madre e del suo bambino (Winnicott, 1952b).
D. W. scelse l'ospedale con molta
cura; consultò prima il direttore sanitario, che conosceva, e fu
dispiaciuto di scoprire che era partito per le vacanze quando venne il
momento del ricovero. Mi accompagnò personalmente e lasciò indicazioni
esaurienti per il vicedirettore. Durante le cinque settimane del mio
ricovero telefonò all'ospedale e mi scrisse a intervalli di pochi
giorni. Fece in modo che non mi arrivassero lettere da parte di mia
madre. E, alla fine, mi riportò a casa.
Ho parlato diffusamente
dell'ospedale nella Prima parte. Era un luogo in cui si potevano
liberare le pressioni interne più sicuramente che nello studio,
durante le sedute analitiche. L'ambiente diverso e il personale
diverso mi davano l'opportunità di stabilire rapporti 'transizionali'
(Winnicott, 1951), mentre il costante contatto con D. W. forniva la
necessaria continuità nel rapporto di transfert con lui.
Ebbi la possibilità di vivere una
prima e una seconda infanzia mie, diverse dal vivere o rivivere
l'infanzia di mia madre al posto di lei. Raggiungendo i livelli
più precoci di quella che talvolta è chiamata la 'posizione
schizo-paranoide' in un setting controllato, sicuro, non vendicativo e
ragionevolmente solido, arrivai a un nuovo punto di partenza dal quale
potei svilupparmi fino allo 'stadio della preoccupazione', e in
seguito fino alla situazione edipica - infine, fino alla mia maturità
cronologica. Le mie aree psicotiche e non psicotiche erano ora
solidamente unite.
Le ultime fasi dell'analisi, che
durò ancora quattro anni, furono sicuramente molto più brevi di quanto
altrimenti non sarebbero state. Le angosce riguardanti la
sopravvivenza e l'identità non erano più rilevanti; il carattere delle
sedute era diverso; ora affrontavano a livello verbale l'angoscia
depressiva, e in seguito edipica.
Avendo avuto questa esperienza, ora
potevo sapere qualcosa della malattia mentale dall'interno, e il
rafforzamento portato da questa esperienza era incommensurabile.
Potevo scoprire un mio modo personale di soddisfare alcuni bisogni dei
miei pazienti. Potevo affrontare i fallimenti senza esserne distrutta,
e i successi senza diventare onnipotente. Questo per me era un
ulteriore vantaggio.
Per Winnicott, il vantaggio fu
rappresentato dall'accrescimento della sua conoscenza di se stesso,
attraverso la continua autoanalisi; la sua comprensione della psicosi,
già sviluppata, si allargò e ricevette nuove conferme. Trovò materiale
sul quale mettere alla prova idee già esistenti e fondarne di nuove
(imparando da me [Winnicott, 1971b, Dedica]), e in seguito lo
utilizzò ampiamente scrivendo e parlando, in Inghilterra e altrove, a
molti uditori diversi, ai quali pure fu di grande utilità.
Fordham, M. (1960), "Countertransference symposium",
British Journal of Medical Psychology, 33:1-8.
Little, M. (1957b), "On delusional transference (transference
psychosis)". In Transference Neurosis and Transference Psychosis:
Toward Basic Unity, pp. 51-80. New York: Jason Aronson, 1981.
Winnicott, D.W. (1949a), "L'intelletto e il suo
rapporto con lo psiche-soma", in Dalla pediatria alla psicoanalisi,
Martinelli, Firenze, 1975.
Winnicott, D.W. (1949b), "Ricordi della nascita, trauma
della nascita e angoscia", in Dalla pediatria alla psicoanalisi,
Martinelli, Firenze, 1975.
Winnicott, D. W. (1951), "Oggetti transizionali e
fenomeni transizionali", in Dalla pediatria alla psicoanalisi,
Martinelli, Firenze, 1975.
Winnicott, D. W. (1952b), "L'angoscia associata
all'insicurezza", in Dalla pediatria alla psicoanalisi,
Martinelli, Firenze, 1975.
Winnicott, D. W. (1954a), "Ritiro e regressione", in
Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.
Winnicott, D. W. (1954b), "Aspetti metapsicologici e
clinici della regressione nell'ambito della situazione analitica", in
Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.
Winnicott, D. W. (1956a), "La preoccupazione materna
primaria", in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli,
Firenze, 1975.
Winnicott, D. W. (1961), "The effects of psychotic
parents on the emotional development of the child", British Journal
of Psychiatric Social Work, 6:12-20.
Winnicott, D.W. (1968), "L'uso di un oggetto e
l'entrare in rapporto attraverso identificazioni", in Gioco e
realtà, Armando, Roma, 1974.
Winnicott, D.W. (1970b), "The mother-infant experience
of mutuality", in Parenthood, a cura di J. Anthony e T. Benedek,
pp. 245-256. New York : Little, Brown and Company.
Winnicott, D. W. (1971b), Gioco e realtà,
Armando, Roma, 1974. |