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  "ESPLORANDO LE ANGOSCE PSICOTICHE"

di Margaret  Little

 

 

 Dopo lo scorso numero monografico di "Frenis Zero" dedicato alle "autobiografie dell'inconscio", vi proponiamo un frammento del libro scritto da Margaret Little in cui raccoglie le proprie riflessioni sull'analisi intrapresa con Winnicott dal 1949 al 1957. Questo testo è tratto da "Il vero sé in azione. Un'analisi con Winnicott" (Astrolabio, 1993). Su "L'Indice" n. 3 del 1994 Anna Viacava (psicoanalista S.P.I. di Torino) presentava il libro con queste parole: <<Con grande coraggio Margaret Little descrive l'esperienza della sua terza analisi: esperienza straordinaria sia per l'analista che la ebbe in cura, Donald W. Winnicott, sia per la drammaticità della psicosi di transfert che l'autrice sviluppò e che l'analista seppe accompagnare e contenere. Ne deriva un documento dal vivo del lavoro clinico di Winnicott, del suo coraggio, fiducia, assenza di pregiudizi. Ma non si può non notare anche la capacità dell'autrice di affidarsi conservando l'attitudine a leggere criticamente ciò che avveniva per trarne insegnamento, anche passando attraverso la tempesta psicotica. Nella seconda parte del libro, più teorica, viene sottolineato il valore della regressione in analisi, considerata, in aperto contrasto con altre posizioni più prudenti, mezzo atto ad esplorare le aree in cui predominano le angosce psicotiche, in contatto con esperienze precoci. Certo la condivisione, da parte della coppia analitica, di una vera regressione a vissuti arcaici di non integrazione, è un'esperienza drammatica, come una navigazione in mari tempestosi e sconosciuti, in cui la competenza, la fermezza e il coraggio dell'analista sono essenziali ma lo sono anche l'intuito, la capacità di entrambi di sopportare angosce talvolta devastanti, perfino la fortuna. Vi sono momenti infatti in cui anche solo una malattia fisica o la rottura per qualunque ragione della continuità della presenza, materiale o mentale, dell'analista, espone il paziente al pericolo di fughe all'indietro, fino alla psicosi o al suicidio, o in avanti, in pseudoguarigioni ancora una volta a scapito della possibilità di sviluppo del suo vero sé. L'epilogo è un affettuoso omaggio a Winnicott, essere umano capace di sopportare il paradosso e la contraddizione, che non ci ha lasciato un corpus dottrinario coerente ma un lavoro ricco di stimoli ed evocativo, dove il lettore è un interlocutore attivo con cui interagire in un'esplorazione che non si chiude mai su se stessa>>.
 

 

 

  Foto Margaret Little

 

 


Nel 1949 fui fortunata a trovare, o a essere trovata da (che a livello delirante è la stessa cosa [Little, 1957b], uno psicoanalista che nei vent'anni precedenti aveva avuto in trattamento pazienti psicotici.

Ebbi così la possibilità di abbandonare gradualmente la mia onnipotenza e il mio sé falso, 'custode' e, affidandomi al 'contenimento' da parte del mio analista, rivivere la mia prima e seconda infanzia traumatiche. Alla fine, nell'immaginazione, potei distruggerlo ed esserne distrutta (che era di nuovo la stessa cosa) e dopo, scoprendo che eravamo entrambi sopravvissuti, usarlo ed essere utile a lui (Winnicott, 1968, 1970b).

D.W. era consapevole fin dall'inizio che la mia angoscia predominante riguardava la sopravvivenza e l'identità, e allo stesso tempo che in altre aree avevo raggiunto un sufficiente livello di maturità. Fu su questa consapevolezza che egli basò la sua diagnosi e la sua decisione di intraprendere la mia analisi.

  Foto: D. W. Winnicott

Durante la prima seduta lo chiusi fuori, nascondendomi sotto la coperta e non dicendo nulla, e alcuni giorni dopo fuggii via dall'analisi in una relazione sessuale per la quale non ero veramente pronta. Penso che questo fosse un tentativo inconscio di evitare la disperazione, che cercai di fargli riconoscere fracassando il vaso nel suo studio. D. W. non era ancora pronto ad affrontare questo acting-out distruttivo e mi lasciò sola con il caos che avevo provocato, e così il senso di inutilità e di impotenza rimase.

Non molto tempo dopo questo episodio ci fu una seduta in cui io presentai un'apparente ripetizione di un'esperienza di nascita traumatica, confermando la sua osservazione che mi trovavo in "uno stato estremamente infantile" (Winnicott, 1949a, b) e che, afinché si potesse realizzare uno sviluppo emotivo normale, sarebbe stata necessaria una profonda regressione, forse persino fino alla vita prenatale.

Sono arrivata a considerare questa seduta, con i suoi ricorrenti spasmi di tensione fisica che arrivavano a un culmine ed erano seguiti da sollievo, come una ripetizione dell'esperienza prenatale piuttosto che di una nascita traumatica. (Molti lavori recenti hanno confermato che l'apparato sensoriale è alla nascita già pienamente sviluppato. Disturbi ripetuti nella vita prenatale, dovuti a manifestazioni somatiche dell'angoscia della madre - battito cardiaco o respirazione accelerati, movimenti intestinali aumentati, ecc. - trasmessi attraverso il liquido amniotico, stimolano reazioni nel feto - improvvisi risvegli dal sonno, movimenti, ecc.,  e sono apparentemente sperimentati come quello che potrebbe  essere chiamato 'annientamento'. Il processo della nascita rappresenterebbe quindi una ripetizione a un livello più intenso dell'annientamento e della discontinuità che sono già stati sperimentati nella vita prenatale [Winnicott, 1949b]).

La mia vera nascita fu facile: mia madre partorì da sola prima dell'arrivo del medico o dell'ostetrica. Sospetto che avesse aspettato prima di farli chiamare, in parte per la sua convinzione che "se non ci si pensa il dolore passa", e in parte per il timore che l'ostetrica tenesse la testa del bambino all'indietro. (Aveva sperimentato questo gesto come un atto di 'crudeltà' durante il suo parto precedente e non ne aveva mai capito la necessità).

Mi raccontò che durante la sua terza gravidanza era "quasi sull'orlo del suicidio" per l'angoscia.

Non è possibile considerare mia madre come capace di un qualsiasi grado di 'preoccupazione materna primaria'. Ciò non vuole affatto dire che il bambino che stava per nascere non fosse importante per lei - soltanto che non poteva mai pensarlo se non come parte di sé e che la sola idea della separatezza le suscitava angoscia, in quanto per lei significava annientamento.

L'angoscia, durata per tutta la vita, che rendeva mia madre 'caotica' e 'imprevedibile' (Winnicott, 1961) naturalmente continuava dopo il parto. Durante la mia prima infanzia prese la forma di continui disturbi al mio stato ancora in gran parte non integrato. Mi raccontò che, ogniqualvolta trovava una bocca di bambino aperta, la chiudeva, e toglieva il pollice dalla bocca che lo succhiava; se il bambino stava sdraiato sulla schiena o sul fianco sinistro, lo voltava sul fianco destro "per evitare la pressione sul cuore" (la gabbia toracica per lei non significava nulla). Gli orifizi del corpo venivano continuamente esplorati; in seguito di notte praticava dei clisteri ( e durante l'adolescenza passava molto tempo a schiacciare 'punti neri' e comedoni). Come un bambino piccolo, non poteva lasciar stare niente.

I fraintendimenti, come la sua paura dell'ostetrica, portarono a disastri, sia per lei che per la sua famiglia, e così il caos era sempre incombente. Mi sgridava perché ero 'una bambina' o 'troppo suscettibile' se facevo delle 'storie' quando ero spaventata, e me ne potevo difendere soltanto ritirandomi, contenendomi da sola (Winnicott, 1954a) (come nella mia prima seduta con D.W.), oppure identificandomi con lei e condividendo il delirio primario di fusione con lei: il delirio che si era manifestato nel mio transfert con D. W.

  Foto: D. W. Winnicott

Per me D. W. non rappresentava mia madre. Nel mio delirio di transfert era realmente mia madre (Winnicott, 1954b) e, siccome nella realtà c'è una continuità tra madre e feto, genetica e fisica (attraverso le membrane e la placenta), così per me le sue mani erano il cordone ombelicale, il suo lettino la placenta, e la coperta le membrane, tutto molto al di sotto di qualsiasi livello conscio fino a una fase molto avanzata dell'analisi. Il delirio non fu mai nominato - lo riconobbi molto più tardi da sola - ma con il suo comportamento egli tacitamente lo accettò, venendomi incontro a quel livello ma, allo stesso tempo, mantenendo la propria maturità e realtà.

Attraverso il suo affidabile 'contenimento' (Winnicott, 1952b) e l'accettazione di un rapporto diretto, cominciai ad aver fiducia in D. W. e a trovare una continuità e una sorta di 'reciproca situazione di nutrimento' (Winnicott, 1970b). Una simile situazione era stata attivamente evitata durante la mia infanzia, perché io venni allattata con il biberon, fasciata strettamente in uno scialle in modo da rendere impossibile qualsiasi movimento. Il foro della tettarella era così stretto che potevo succhiare il latte solo a costo di un grande sforzo, e non appena il foro si allargava la tettarella veniva sostituita con una nuova. (Vidi fare la stessa cosa dieci anni dopo, quando i miei fratelli erano bambini, e ancora molto tempo dopo rimasi stupita sentendo un pediatra del Great Ormond Street Hospital consigliare di permettere un passaggio libero del latte attraverso un ampio foro della tettarella, e di vederlo dimostrare praticamente questo sistema).

Simili interferenze nell'allattamento portarono a un fallimento della comunicazione tra mia madre e me; molto precocemente mi impedì i dondolii e i movimenti ritmici (Winnicott, 1956a), ma li incoraggiò nel periodo dei primi passi. Ci fu un'importante forma di comunicazione attraverso le canzoni che mi cantava, specialmente quando facevo il bagno: aveva una bella voce da soprano e le piaceva cantare canzoni per bambini, filastrocche, brani d'opera, ecc. Questa comunicazione, insieme al suo senso dell'umorismo e all'amore per il giardinaggio, costituì un durevole legame positivo con lei e, insieme alla stabilità di mio padre, probabilmente mi impedì di diventare completamente pazza. Ma mancarono altri sviluppi nel nostro rapporto.

La sua interferenza si alternava alla trascuratezza, e l'attenzione eccessiva al 'lasciar perdere', perché veniva continuamente distratta. Ciò che era importante in un dato momento diventava totalmente trascurabile nel momento successivo, e ciò che era importante per me doveva esser messo da parte. Questo rimane come legame negativo; perché quando sono preoccupata sperimento tuttora qualsiasi disturbo come se ancora una volta mia madre stesse impadronendosi di me. Mi riprendo, ma ci vuole del tempo!

La comunicazione con D. W. divenne possibile attraverso i lunghi silenzi, e questa inconscia corrente nei due sensi in seguito mi indusse a scrivere i miei articoli e portò un certo sviluppo nel suo lavoro.  Ma persino durante le sedute analitiche c'erano delle interferenze. In quei momenti di silenzio D. W. diventava sonnolento, si addormentava, e 'chiudeva l'interruttore', e io reagivo apertamente con rabbia, come mi ero spesso arrabbiata interiormente contro mia madre. Più seriamente, il caos incombeva in occasione dei suoi due infarti, della sua depressione, del divorzio e del nuovo matrimonio, e del cambiamento di casa.

Il caos era sempre in agguato dietro l'angolo, durante il susseguirsi delle mie terapie. Il mio primo terapeuta (il dottor X.) rispondeva ripetutamente alle telefonate durante le mie sedute; la malattia cardiaca di Ella Sharpe rappresentava una costante minaccia, e il caos in effetti sopravvenne alla sua morte.

  Foto: un ritratto di Ella Freeman Sharpe

Marion Milner, alla quale allora mi rivolsi, mi aiutò a recuperare una certa stabilità e io ricostruii le mie difese, ma il nuovo cambiamento da lei a D. W. rappresentò un'altra minaccia. La mia difesa fu quella di fuggire, ma ben presto crollò.

Il caos ritornò quando mia madre, dopo la mia 'esplosione' contro di lei nel 1952, su un argomento del tutto banale, tornò a rivolgermi una richiesta che, ancora una volta, faceva capire che io e tutto quello che avevo - il mio corpo, i miei vestiti, il denaro, ecc. - erano suoi e ne poteva disporre come desiderava, come se fossero suoi.

La mia reazione fu di rabbia, che poi scaricai contro il mio corpo, come se fosse stato il suo. Ebbi un incidente che diede luogo a un lungo periodo di immobilità, seguito da un prolungato stato confusionale - in pratica un disturbo regressivo - culminato nel ricovero durante le vacanze estive di D. W. nel 1953. La mia unica alternativa se non avessi accettato il ricovero sarebbe stata quella di interrompere l'analisi, ma in quel momento ero troppo consapevole del mio bisogno di aiuto per poterlo rifiutare, e dopo una violenta protesta lo accettai.

Ancora una volta il mio tentativo di restare non integrata per un certo periodo in ospedale fu sconfitto; una serie di interruzioni (tutte ben intenzionate) fu per me una ripetizione dei traumi originari, pre- e post-natali. Fui sopraffatta da sensazioni caotiche, che liberai in un'orgia di distruzione. Ma si trattava di un luogo in cui potevo reagire violentemente senza realmente distruggere o essere distrutta. Nel reparto chiuso dove fui trasferita potevo essere non integrata, e quindi trovare la continuità sia in me stessa che nel mondo esterno. Alla fine decisi di vivere. Non ero più dipendente in modo delirante dalla continuità fisica o dall'identità di D. W.; potevo finalmente restare separata da mia madre e scoprire che la mia salute era più forte della malattia, che in origine era la sua e con la quale mi ero identificata (Little, 1957b).

Mi sono spesso chiesta ( e non sono la sola a farlo) se in qualche modo sarebbe stato possibile evitare di ricoverarmi, e ora so che sarebbe stato impossibile. Ma lo si può comprendere soltanto tenendo in considerazione tutte le circostanze e il tipo di cure che ho ricevuto in ospedale e dallo stesso D. W.

Avevo già cinquantadue anni, e la mia attività come psicoanalista non era ancora del tutto consolidata. Il mio stato mentale era profondamente regredito durante ogni seduta, e soltanto dopo ritornava lentamente integrato. I miei appunti di quel periodo rivelano l'intensità della mia angoscia e le mie reazioni estremamente intense a ogni interferenza. Avevo bisogno di essere non integrata durante le vacanze, e in particolare di essere protetta da qualsiasi possibile interruzione da parte di mia madre, che era ancora una vera fonte di potenziale pericolo per la propria vita e per la mia. ( Purtroppo morì sei mesi dopo; fece un movimento sbagliato nello scendere le scale, mia sorella non riuscì a trattenerla e lei cadde, fratturandosi il femore. Fu operata, ma morì poco dopo per insufficienza renale).

D.W. aveva quasi sessant'anni; era già stato colpito da due ischemie coronariche ed era sempre a rischio di un nuovo attacco. Le sue vacanze erano assolutamente necessarie.  L'analisi in cui era profondamente 'impegnato' (Fordham, 1960) lo poneva sotto pressione da tutti i punti di vista - tempo, energia, angoscia, emozioni; era già durata quattro anni e apparentemente poteva continuare all'infinito.

Fu un momento di crisi, letteralmente una questione di vita o di morte, sia per me che per D. W. Se non sopravviveva, neppure io sarei potuta sopravvivere, almeno psichicamente. Eravamo non separabili, nella stessa misura di una madre e del suo bambino (Winnicott, 1952b).

D. W. scelse l'ospedale con molta cura; consultò prima il direttore sanitario, che conosceva, e fu dispiaciuto di scoprire che era partito per le vacanze quando venne il momento del ricovero. Mi accompagnò personalmente e lasciò indicazioni esaurienti per il vicedirettore. Durante le cinque settimane del mio ricovero telefonò all'ospedale e mi scrisse a intervalli di pochi giorni. Fece in modo che non mi arrivassero lettere da parte di mia madre. E, alla fine, mi riportò a casa.

Ho parlato diffusamente dell'ospedale nella Prima parte. Era un luogo in cui si potevano liberare le pressioni interne più sicuramente che nello studio, durante le sedute analitiche. L'ambiente diverso e il personale diverso mi davano l'opportunità di stabilire rapporti 'transizionali' (Winnicott, 1951), mentre il costante contatto con D. W. forniva la necessaria continuità nel rapporto di transfert con lui.

Ebbi la possibilità di vivere una prima e una seconda infanzia mie, diverse dal vivere o rivivere l'infanzia di mia madre al posto di lei.  Raggiungendo i livelli più precoci di quella che talvolta è chiamata la 'posizione schizo-paranoide' in un setting controllato, sicuro, non vendicativo e ragionevolmente solido, arrivai a un nuovo punto di partenza dal quale potei svilupparmi fino allo 'stadio della preoccupazione', e in seguito fino alla situazione edipica - infine, fino alla mia maturità cronologica. Le mie aree psicotiche e non psicotiche erano ora solidamente unite.

Le ultime fasi dell'analisi, che durò ancora quattro anni, furono sicuramente molto più brevi di quanto altrimenti non sarebbero state. Le angosce riguardanti la sopravvivenza e l'identità non erano più rilevanti; il carattere delle sedute era diverso; ora affrontavano a livello verbale l'angoscia depressiva, e in seguito edipica.

Avendo avuto questa esperienza, ora potevo sapere qualcosa della malattia mentale dall'interno, e il rafforzamento portato da questa esperienza era incommensurabile. Potevo scoprire un mio modo personale di soddisfare alcuni bisogni dei miei pazienti. Potevo affrontare i fallimenti senza esserne distrutta, e i successi senza diventare onnipotente. Questo per me era un ulteriore vantaggio.

Per Winnicott, il vantaggio fu rappresentato dall'accrescimento della sua conoscenza di se stesso, attraverso la continua autoanalisi; la sua comprensione della psicosi, già sviluppata, si allargò e ricevette nuove conferme. Trovò materiale sul quale mettere alla prova idee già esistenti e fondarne di nuove (imparando da me [Winnicott, 1971b, Dedica]),  e in seguito lo utilizzò ampiamente scrivendo e parlando, in Inghilterra e altrove, a molti uditori diversi, ai quali pure fu di grande utilità.

                

 

                    

 

 

Bibliografia

Fordham, M. (1960), "Countertransference symposium", British Journal of Medical Psychology, 33:1-8.

Little, M. (1957b), "On delusional transference (transference psychosis)". In Transference Neurosis and Transference Psychosis: Toward Basic Unity, pp. 51-80. New York: Jason Aronson, 1981.

Winnicott, D.W. (1949a), "L'intelletto e il suo rapporto con lo psiche-soma", in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.

Winnicott, D.W. (1949b), "Ricordi della nascita, trauma della nascita e angoscia", in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.

Winnicott, D. W. (1951), "Oggetti transizionali e fenomeni transizionali", in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.

Winnicott, D. W. (1952b), "L'angoscia associata all'insicurezza", in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.

Winnicott, D. W. (1954a), "Ritiro e regressione", in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.

Winnicott, D. W. (1954b), "Aspetti metapsicologici e clinici della regressione nell'ambito della situazione analitica", in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.

Winnicott, D. W. (1956a), "La preoccupazione materna primaria", in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.

Winnicott, D. W. (1961), "The effects of psychotic parents on the emotional development of the child", British Journal of Psychiatric Social Work, 6:12-20.

Winnicott, D.W. (1968), "L'uso di un oggetto e l'entrare in rapporto attraverso identificazioni", in Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974.

Winnicott, D.W. (1970b), "The mother-infant experience of mutuality", in Parenthood, a cura di J. Anthony e T. Benedek, pp. 245-256. New York : Little, Brown and Company.

Winnicott, D. W. (1971b), Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974.

        

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 
 

 
 

 

 

 

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