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Prima d’ogni
sistema logico esiste il Lògos come Verbum, come
sostanza in movimento o, secondo Eraclito, sostanza e causa del
mondo.
“Gli uomini
sono ottusi nei confronti dell’essere del Lògos” dirà Eraclito.
Poi gli Stoici
vedranno nella ragione il principio attivo del mondo, che anima,
ordina e guida il principio passivo di esso che è la materia.
La materia
irrazionale o informe è già presenza viva nell’Essere d’una potenza
che in sé stessa è capace di modificare la forma, il contenuto e il
ritmo della materia. Si potrebbe pensare anche a un’aritmia (senza
movimento uniforme, asimmetria), o anche ad una dis-ritmia (disturbo
del ritmo), che acquista senso e continuità nel tempo e nello spazio
tramite un’esperienza di vita. Immagino che nell’irrazionale inconscio
abiti una dynamis sicuramente ondulatoria, che, come le onde
del mare e dei suoni, dispiega pluralità di ritmi. Il ritmo è la
manifestazione del tempo nello spazio. Nel ritmo c’è cadenza
simmetrica e pausa. La pausa è l’espressione spaziale del tempo. Il
ritmo è fondamento della vita, della vita d’ogni organismo che vibra e
di ogni movimento del cosmo. Penso che nell’universo come nella
dimensione inconscia dell’essere ci sia una pluralità di ritmi e di
sensi. Essendo il movimento e il ritmo in particolare, espressione di
vita organizzata, la musa del poeta d’ogni espressione creativa è
fondamentalmente musicale. Di fatto è la musica che fa onore alle
muse, all’arte per eccellenza, preservando nel suo nome l’aggettivo
femminile moysiké (da moysa, musa). Nel senso antico la
musica non era una scienza particolare ma comprendeva tutto ciò che si
riferiva alle muse, ossia ogni scienza ed arte. Quali sono i ritmi o
le aritmie o le dis-ritmie del sistema inconscio? Quando ho ascoltato
per la prima volta, nella mia adolescenza, la musica di Schoenberg e
di Alban Berg mi sono detto – già lettore di Freud e studente in
medicina e psicoanalisi – che l’inconscio viene sicuramente
orchestrato così. Parlando con un musicologo gli ho chiesto la
differenza tra musica dodecafonica e atonale. La prima è nata da una
necessità, quella di Schoenberg ed altri che avevano bisogno di
aumentare la scala tonale per contenere tanta diversità. L’atonalità
non è soltanto atonia ma molteplicità creativa di toni… Pare, secondo
il mio interlocutore musicologo, che nella musica moderna ci sia
spesso una combinazione tra toni, atonalità e strutture dodecafoniche.
L’essere, prima
di nascere (l’embrione, il feto), è già materia viva musicale, cioè
movimento, ritmo, potenza vegetativa e produttiva che non sarebbe
indifferente alla polifonia rumorosa del mondo circostante. Potrebbe
essere che una delle prime relazioni madre bambino (già intra-uterina)
sia di carattere musicale.
La dottrina del
lògos-musikè come ipostasi e realizzazione nel tempo verrà
formulata da Filone di Alessandria.
Plotino afferma:
“il lògos che agisce sulla materia è un principio attivo naturale,
non è pensiero né visione ma potenza (enérgheia), ritmo (con le sue
alternative) capace di modificare la materia. Il Lògos sarebbe una
potenza che non conosce (ma agisce per presenza), attua come il
sigillo che imprime la sua forma, o l’oggetto che riproduce il suo
riflesso ondulatorio (materno) nell’acqua”. Pochi giorni fa
durante l’incontro sull’autismo ho partecipato ad un gruppo
seminariale nel quale una giovane psicologa presentava il caso di un
bambino che quasi non parlava, che non giocava ma che riusciva a
disegnare su un foglio bianco uno scribble (scarabocchio). La
persona che presenta il caso, ispirata sicuramente da Winnicott, aggiunge
un proprio scribble. A questo punto ho chiesto al gruppo e alla
responsabile del seminario se si poteva chiedere alla persona che
presentava il caso di riprodurre alla lavagna i due scribbles.
Quello del bambino si caratterizzava per la sua modalità lineare,
verticale, vigorosa, e continua; il suo interlocutore, la psicologa
introduceva uno scribble ondulatorio, materno e continuo. Mi
pareva evidente che era necessario confrontarsi con la diversità
ritmica tra il bambino e la sua osservatrice terapeuta. Era ovvio che
il foglio mostrava un transfert fondato sulla diversità d’identità. In
termini ritmici, come in un elettrocardiogramma o
elettroencefalogramma, ciò che appariva era la diversità di forme
tonali; la presenza dell’alterità relazionale nel transfert. “Il
transfert comincia con la vita” dirà Melanie Klein.
Nella sua
diversità concettuale Anassagora di Clazomene espresse l’opinione che
esistesse una quantità infinita d’elementi primordiali, “semi delle
cose”, come egli li nominava (erano anche ritmi diversi); il più
fine e puro degli elementi era per lui il noos: la forza motrice
e creatrice dell’universo.
Nel mio
immaginario fantastico concepisco il noos primordiale come un
testimone inaspettato ma presente nel caos originario, un “piccolo
dio” che per presenza tacita, invisibile ma eloquente agisce
sull’insieme, dettando senso e ordine. L’insieme originario sarebbe
quindi già presente nel Caos primordiale. Il piccolo dio noos
riesce a concepire il Caos ed è testimone di come il disordine (Caos)
diventa ordine (Cosmos). La presenza del noos, per qualche
“ragione”, induce un certo ritmo nel disordine, nella dis-ritmia: così
sul fondo, sotto forma ondulatoria nasce l’abisso. Questo l’ho
imparato quando come studente di medicina facevo analisi di
laboratorio in un ospedale. Ricordo con che emozione vedevo nascere
l’abisso dall’insieme quando osservavo la centrifuga che conteneva
materia viva (urina) in movimento a spirale discendente: sul fondo
della spirale vi era un buco in movimento. Penso così che il Caos
trasformato in abisso introduca l’idea di spazio in movimento, di
vita, all’interno di un contenitore o ricettacolo. Nella sapienza
greca, il ricettacolo (ypodoché) è quello che contiene
tutto ciò che si genera" (Timeo 49 A 5-6). Lewis Conford, nella sua
geniale traduzione inglese della Repubblica, utilizza il
termine chòra: lo spazio, il luogo definito dove gli elementi
dell’universo sono contenuti, ricevuti. Possiamo subito osservare che
il termine chòra richiama l’idea di uno spazio interno: il
ricettacolo è, infatti, il luogo che contiene, che riceve, persino che
ospita, come madre nutrice.
Un’immagine di concavità e di rotondità proviene quindi dal paragonare
il ricettacolo con una nutrice (che per metonimia si identifica col
suo amorevole abbraccio) e con una madre (che fin dal neolitico è
tutta intera una parte di sé: l’utero e, per analogia, la terra
solcata che accoglie il seme).
L’introduzione della nozione di ricettacolo avviene nel momento in
cui Platone vuole mostrare, accanto all’azione d’intelligenza,
l’azione della necessità di un contenitore primordiale. Il momento o
l’istante del passaggio dall’intelligenza al sensibile (o viceversa
per me) configura l’idea di continuità nel ritmo trasformativo.
Platone parla di due principi fondamentali: le idee e il divenire.
Quest’ultimo moderato dal noos demiurgo. Il noos, il
piccolo dio, è concepito già come determinante in Platone.
Io ho sempre
pensato che l’uomo interiore fosse anche abisso carnale in movimento o
grotta viva. Anni fa una paziente schizofrenica, Mrs Cooper, riesce a
sognare e mi racconta un sogno strano: era in un grande teatro e di
fronte a lei si svolgeva una scena che le ricordava le sedute
psicoanalitiche ma, veniva colpita da enorme ansietà quando, guardando
giù verso la platea, scopriva che al suo posto c’era un vuoto, un
abisso infinito. Questo è stato un momento molto importante perché la
paziente aveva scoperto attraverso “il teatro del transfert”
che aldilà del suo mondo proiettivo delirante c’era, dentro al proprio
teatro interiore, uno spazio senza fondo. Io la vedo oggi come una
scoperta angosciosa di un suo spazio mentale in statu nascendi.
Si tratta forse di un’esperienza caotico-catastrofica in via di
strutturazione, di organizzazione. La scoperta onirica della sua vita
intima appare come spazio mentale senza fondo. Il sogno è un altro
campo rispetto a quello del transfert relazionale con lo
psicoanalista. Il sogno, segnala Freud, ha la sua propria skené:
“Eine andere Schauplatz”.
Martin Heidegger, nel suo scritto I
quatto stadi dell’accadere della verità (pag.45),
riprende il discorso della caverna in Platone cominciando con la
citazione: “Immaginate di vedere degli uomini in una dimora
sotterranea a forma di caverna. Il suo ingresso è in alto, rivolto al
chiarore del giorno e si estende lungo tutta la caverna. In questa
dimora gli uomini si trovano fin dall’infanzia, incatenati alle gambe
e al collo. Per questo essi rimangono allo stesso posto e guardano a
ciò che sta davanti a loro. A causa delle catene non sono in grado di
girare la testa. Ma un chiarore viene loro da dietro, da un fuoco che
brilla dall’alto e da lontano. Tra il fuoco e gli uomini incatenati,
alle loro spalle, corre in alto una via lungo la qualche immaginate
sia costruito un muretto simile agli schermi che i giocolieri erigono
davanti agli spettatori, e al di sopra dei quali mostrano i loro
giochi di prestigio…”. Gli incatenati vedono di fronte solo le ombre
di quello che succede fuori nel mondo e che si riflette sulla parete.
Ma la fantasia di uscire, di nascere, non manca. Come uscire dal buio
e andare verso la luce? “Supponete che le catene vengano sciolte”,
dice Platone, “e improvvisamente gli uomini possano girare il collo e
elevare lo sguardo verso la luce. Tutto questo solo soffrendo, ma non
sarebbero ancora in grado di vedere quelle cose di cui prima vedevano
le ombre.” Questo corrisponde al secondo stadio. Nel terzo c’è
l’autentica liberazione dell’uomo verso la luce originaria. Ciò che
succede è autentica realtà in sé stessa o si tratta della realtà di un
sogno? In questo stadio si tratta di un’uscita per me “immaginaria”
alla luce del giorno dove l’uomo si sente accecato dal chiarore.
“L’adattamento dello sguardo dal buio al chiaro si compie ora passando
attraverso ambiti diversi. L’autentica liberazione richiede
perseveranza, pazienza sufficiente a percorrere effettivamente i
singoli gradi del familiarizzarsi con la luce.” Si tratta di una vera
nascita, di una sveltezza, d’una rivelazione.
“Ma qual’è la
connessione fra idea e luce? E innanzitutto, cosa significa idea?”, si
chiede Heidegger.
“Quando si è
legati al quotidiano, uno è costretto ad affidarsi a ciò che è
corrente e in uso. Idea è ciò che si dà e che c’è, che si vede. Ma che
tipo di vedere è quello nel quale vediamo l’idea? Vedere con gli occhi
del corpo?” segnala Heidegger “ Vediamo l’ente in quanto qualcosa che
è. Io vedo la porta, con gli occhi naturalmente, non certo con le
orecchie.” Vediamo la porta o facciamo la porta con gli occhi?
Come concepire
l’uscita della caverna? Questo dipende dall’essere dentro o fuori da
un sogno. “Udiamo suoni e rumori (musica), vediamo colori, il bagliori
il brillare, lo scintillare, lo splendore, il chiaro e lo scuro.
Vediamo forme spaziali e sentiamo forse il passaggio del tempo”. Ma
come si capisce lo spazio venendo dall’infinito? Come si capisce il
tempo venendo dall’eternità? La luce è forse legata alla libertà. La
libertà propone l’angoscia ma anche la possibilità del vincolo, della
relazione. Tra libertà e poter essere, tra luce ed ombra, l’idea
sviluppa la sua capacità di simbolizzare e di avere progetti.
L’essenza della
verità in Heidegger sarebbe la sveltezza, ma qui dipende, secondo me e
secondo la mia preoccupazione per la presenza dell’Inconscio, da dove
deve essere situata la porta dell’uomo interiore. Quale è la sua
relazione con il profondo?
L’interpretazione del mito della caverna invita il nostro mondo
immaginario a cogliere le proprie preoccupazioni ontologiche. Io, qui,
mi interesso del significato metaforico del mito e della sua luce e
delle sue ombre. L’occhio che vede, che ascolta, che sente, mette in
atto l’inevitabile trasformazione della nostra percezione. Venire al
mondo è sentirsi gettato fuori nel mondo: Geborfenheit.
La grotta-corpo
materno introduce la storia della nascita. L’avventura di nascere è
sicuramente diversa in ognuno. Scoprire il cielo, la terra e l’acqua,
la pluralità del paesaggio, gli oggetti animati e inanimati, è
un’esperienza di svelamento e allo stesso tempo di minaccia. Il
bambino non è sempre preparato a tale rito di passaggio. Ha bisogno
del rituale dell’aiuto e della comprensione; di capire anche che la
vita è movimento e che l’acqua scorre e che il vento soffia. Il
respiro è un atto fondamentale e forse già un’esperienza depressiva
basilare: abbandonare il parassitismo intrauterino, l’ossigeno materno
e introiettare e proiettare l’aria (O. Fenichel parla già di
introiezione respiratoria come esperienza fondante). Ma dove nasce la
fantasia e quindi la fenomenologia? L’uomo che fugge la caverna e
scopre l’acqua nella secca scopre lo specchio e quindi la fantasia
che è l’idea che si rispecchia nell’acqua. Se l’acqua scorre come il
tempo, nel fiume, la fantasia si trasforma continuamente e ciò che
appare, il phanestai è in continuo stato di rivolgimento
alchemico.
Penso alla nuova
vita, all’atto di nascere al mondo e al feto prigioniero della sua
matrice. Il feto, persona a-venire, porta già con sé le sue ombre…
ontologiche e filogenetiche.
Che cosa succede
ancora quando la creatura si guarda nell’acqua come in uno specchio?
Là c’è una scoperta, una trasformazione: le ombre-fantasmi che porta
con sé si confronteranno con il suo riflesso nel mondo. Quando
Heidegger, seguendo Platone, parla di gioco, ha sicuramente in mente il
fatto che a Platone piaceva il Teatro delle Ombre che aveva con sé
come cosa preziosa. Si tratta anche per me di giocare con le ombre e i
riflessi delle mie idee sulla realtà quotidiana per concepire la vita
come un’esperienza magica. Tale scoperta fa parte della dimensione
poetica e avventurosa dell’esistenza. Non dimenticando il mio essere
bambino e il mio amore per l’inatteso, per il surrealismo, ho trovato in un
mercato di Londra una vecchia lanterna magica e me la sono comperata.
Mi sarebbe piaciuto avere anche un teatro di ombre…
Veniamo tutti
dalla caverna. Veniamo tutti dall’occulto, dalla notte, la notte che
parla sotto forma di enigmi, ragione d’essere del mistero.
Il mistero e il
mito, figli del caos originario, dispiegano e rivelano al buon
osservatore i loro enigmi anche nel segreto talvolta visibile, che
acceca.
Le parole
segrete (myo) e il Lògos hanno un’esistenza latente a
priori della nostra coscienza. Così segnala il mio grande maestro e
amico, il filosofo italiano Rodolfo Mondolfo.
L’occulto, che
fugge la ragione fredda e che eccede la ragione logico-meccanica, è
illimitato, si espande al di là dei propri limiti… Talvolta per
timidezza rimane all’interno dei limiti corporei: la caverna. Si
tratta di una realtà sempre presente e pregnante. Lo stato di
solitudine originaria esige un interlocutore nella sua odissea di
nascere. Il neonato viene al mondo richiedendo solidarietà dal
sensibile. La donna primipara, solitaria nella sua prima esperienza,
dovrà andare all’incontro con un altro essere solitario. Così nasce il
conflitto e poi la solidarietà madre bambino.
L’inconscio, che
è il soggetto del mio discorso di oggi, è un’esperienza a priori,
viene dall’occulto o da un visibile accecante ed enigmatico.
L’inconscio in Freud è una verità del corpo (1923). L’Io è per Freud
realtà corporea che impara a parlare il linguaggio che in parte porta
con sé (linguaggio inconscio) e che dovrà confrontarsi con il dire del
paesaggio del mondo. L’inconscio è realtà linguistica, modo di
sentire, di ascoltare, di dire. L’inconscio è linguaggio fondante che
agisce, che disvela e illumina la coscienza lucida. Ma la coscienza è
limitata come il corpo stesso dell’uomo che ha forma, cioè i suoi
limiti, i suoi confini. Gli enigmi (il termine significa “la notte
parla”) richiedono un lettore, un traduttore ispirato, non un
epistemologo razionale e freddo. Ci vuole il transfert, il sentire
dell’altro e del proprio essere. Il transfert nasce con la vita (Melanie
Klein) come già detto e forse anche prima, nella grotta materna.
L’inconscio
nasce con il bambino e fa parte della natura ontogenetica e
filogenetica dell’essere. Per uscire al mondo dovrà imparare a
respirare e a contemplare l’aspetto affascinante e incomprensibile e
traumaticamente doloroso di ogni esperienza percettiva. Percepire è
già ferita inevitabile, che fa parte della memoria dolente, delle
tracce che le sensazioni lasciano nella materia inconsciamente umana.
COME SI ACCEDE
ALL’INCONSCIO?
Le vie d’accesso
alla nostra realtà inconscia sono multiple e io dovrò fare una scelta.
Anni fa ho letto
un libro di Aldous Huxley intitolato Le porte della percezione.
Mi è venuto adesso alla mente come un’ombra viva, un’impronta
incarnata nei miei ricordi. Aldous, il grande scrittore, prova tramite
la mediazione forse della mescalina, la porta per entrare in contatto
col fondo della sua caverna (il suo inconscio). Scopre così che oltre
la sua coscienza razionale esiste un’altra “ragione”, un profondo
sentire, un immaginario oniroide immenso, “materia e realtà” che
meraviglia ed angoscia, ma che lo affascina.
Anni fa in
Argentina alcuni psicoanalisti che ho apprezzato moltissimo e ricordo
con affetto, utilizzavano in certi casi clinici l’acido lisergico,
soprattutto con pazienti molto bloccati. A me la mia analista disse
che non ne avevo bisogno e ho capito così che le porte delle mie
percezioni interne erano aperte all’inconscio. Devo scegliere alcune
porte, o crearle, per penetrare con voi nella caverna dell’ignoto o
del già conosciuto senza saperlo del tutto.
LA NASCITA E
PRESENZA DEL BAMBINO
Poiché il mio
libro Biographie de l’inconscient è anche un autoritratto o
un’autobiografia dei miei percorsi psicoanalitici, comincerò
dall’infanzia, con l’intenzionalità ludica che ho sempre coltivato.
Penso alla capacità di giocare, in Winnicott, e al senso dello
humour che felicemente mi accompagna. Penso al senso dello humour e
della vocazione artistica di mio padre come funzione guida. Penso
anche alla funzione paterna di alcuni miei analisti, e al tentativo di
assumere la paternità della mia vita e dei miei pensieri.
Alcuni giorni fa
una paziente, che chiamerò Astrid, mi ha raccontato un sogno che dice
così: “Ero in un grande spazio, una specie di stanza in disordine.
Alcuni settori non erano del tutto definiti… Tutto in movimento e in
sottofondo un rumore infernale.” Io ho guardato il suo corpo:
era incinta e le ho detto: “Questo non è un sogno suo”. “Come non è
mio?” mi chiede la paziente, e io rispondo: “E’ il sogno di un
feto impaurito”. La paziente sorride e io aggiungo: “Il sogno parla
forse di un tentativo di dialogo e delle discordie tra il suo Io
fetale e il suo bambino a venire”.
Il transfert
ludico è fondamentale in psicoanalisi e nella vita.
La stessa
paziente associa in un’altra occasione col suo piccolo bambino di 4
anni, François, un po’ eccitato e apparentemente contento di aspettare
un fratellino. Egli dice: “Sono contento di aspettare il mio
fratellino e so che devo crescere, diventare grande”. “Sì –risponde la
mamma- ma tu hai sempre il succhiotto”. A questo punto il bambino
risponde che avrebbe buttato nella pattumiera il succhiotto e il suo
vecchio bambolotto (oggetto transazionale).
Prendendo la
mamma per la mano, il piccolo François le chiede di accompagnarlo in
cucina: là, in modo rituale e sacro, apre la pattumiera e sacrifica i
suoi due valenti talismani. Ambedue rimangono in silenzio, in uno
stato di tensione, di fronte alla cerimonia: si trattava di un rituale
doloroso. “Io”, dice la mamma, “in contatto con il mio feto-bambino,
sono rimasta sorpresa ed emozionata”.
Ho pensato ai
riti sacrificali della vita, quando uno deve abbandonare un luogo, un
paese, un oggetto o una relazione preziosa. Penso anche ai riti di
iniziazione presenti in tutte le culture. Il libro I riti di
passaggio di Van Gennepp (1908) è sempre sotto gli occhi della mia
coscienza lucida. L’ho letto quando ero a Londra e facevo gli studi di
antropologia sociale.
Ho continuato in
seduta a guardare Astrid, la mia paziente, anche attraverso il suo
piccolo François, che risveglia nella sua mamma le discordanze e i
sacrifici che il suo proprio Io fetale dovrà assumere. Tra amore e
litigio l’io fetale di Astrid e il suo feto dovranno confrontarsi,
accordare le sue discordanze.
Naturalmente ho
ricordato che in tutte le donne incinte, incontrate nella mia
esperienza di vita professionale, ritrovo momenti di crisi
equivalenti. Forse Eraclito aveva ragione quando parlava della guerra
(Polemos) come metafora viva presente in noi, forse prima della
nascita. Non c’è guerra senza pace né pace senza guerra, Eros e
Thanatos sono fratelli inseparabili: si tratta di trovare un ritmo,
un’armonia. Per Melanie Klein l’energia è, in gran parte, figlia di
Thanatos. Ci vuole una certa violenza interiore per svezzarsi e per
cominciare a camminare, quindi un sacrificio.
Ho pensato
molto, in questa seduta, al mio caro, vecchio bambino Samuel Beckett e
ho detto a me stesso ad alta voce; “come il piccolo Clov, in Finale
di partita, François butta simbolicamente nella pattumiera, i suoi
genitori".
I personaggi di
Beckett, parlano dal profondo della sua caverna intima diventata
pattumiera. Egli duplica tale immagine per svezzare o buttare
sadicamente nelle pattumiere i suoi genitori mutilati e separati tra
di loro. La Klein ci fa sempre ricordare la ferocia istintiva e
irrazionale dell’inconscio del bambino nei primi mesi e anni di vita.
I primi anni di vita sono anni di guerra, di guerra per sopravvivere.
Lei ci parla anche di un Super-Io boia, torturatore, come il vecchio
padrone (forse James Joyce) che occupa espansivamente il centro del
suo mondo, e del quale il suo segretario-assistente vuole sbarazzarsi
per diventare un vero Samuel Beckett. Poi quale bambino non avrebbe
voluto separare i suoi genitori, mutilati o meno, mettendoli ognuno
nella sua pattumiera-locus?
Ma in ogni
bambino che abita nell’adulto coesistono colpa e nostalgia. Così il
piccolo Clov che abita nel suo corpo adulto ha bisogno, ogni tanto, di
aprire il coperchio delle pattumiere, per ascoltare le voci dolenti
del papà e della mamma.
Apparentemente
Beckett avrebbe lasciato la sua madre “persecutrice” in Irlanda, ma è
andato a Londra, alla Tavistock Clinic, per ritrovare un padre che lo
aiuti nella sua depressione: ritrova Wilfred Bion.
Ma occupato con
Samuel Beckett, dove ho lasciato la mia paziente Astrid? in quale
spazzatura l’ho buttata?
Sento nostalgia
e colpa in piena seduta, colpa di dissociare liberamente. O forse non
del tutto, perché mi tranquillizzo pensando che è importante ritornare
al transfert, ma il viaggio di andata e ritorno è stato chiarificante.
In queste
disquisizioni ho ritrovato ricordi e metafore vive.
Astrid mi
aspetta e mi racconterà nella prossima seduta un altro sogno: “Ho
sognato una casa con due stanze simmetriche, separate da un muro a
metà. Nel muro c’erano due fori con due spioncini. Sono abituata –
dice Astrid- a questi fori, che devo fare talvolta nella mia
professione di architetto.”
Poi c’è una
pausa, siamo ambedue distesi e pensiamo, quasi allo stesso tempo, che
questo sogno era una continuazione del precedente. Si tratta di una
guerra tra due feti? il feto-bambino e l’io fetale dell’adulto-madre?
Bisogna accettare che è difficile per ogni Io-bambino, anche il
bambino madre, dividere il proprio spazio corporeo con uno
sconosciuto: il bambino a-venire. Nel sogno, madre e bambino hanno
ognuno un loro spazio diviso da un muro, ma ognuno deve vigilare
l’altro forse con diffidenza infantile nella fantasia onirica della
madre attraverso l’occhio del muro: si tratta di ribadire il
territorio dell’uno e dell’altro e di condividere lo spazio di vita:
ognuno nel proprio ruolo.
L’altro, il
nuovo altro, è un nemico-amico o un futuro bambino-amico, col quale
dividere il mondo, il grande campo di gioco. Non dobbiamo confonderci
tra di noi, pare dire Astrid nel suo secondo sogno; questa volta,
dobbiamo evitare la guerra. Preservare l’amicizia madre-feto o tra due
feti (dimenticare le divergenze) è un modo di convivere insieme fin
dalla nascita: poi si vedrà. In questo secondo sogno, Astrid dovrà
guardare di tanto in tanto con i suoi occhi o mirini esterni, che cosa
succede tra guerra e pace, tra lei e il suo bambino. Così la funzione
materna di preservare la vita del bambino dovrà dialogare
“logicamente” tra sentimenti opposti e trovare qualche soluzione.
Forse nascere
insieme un’altra volta come madre è una nuova esperienza. Questa
seconda volta il problema si pone ancora ma in un altro modo: come
convivere con due bambini e dividere ancora il campo di gioco.
TRA GIOCO, SOGNI
E DELIRI (altre porte della percezione dell’inconscio)
Melanie Klein
apre la porta dei giochi e introduce giocattoli da dividere col
bambino per entrare in contatto con le sue intenzioni inconsce. Io,
curioso di questi giochi fondanti, quando il bambino comincia ad
imparare a giocare, ho chiesto alla Klein di avere in supervisione un
bambino piccolo. Così re-inizio la mia formazione di psicoanalista
infantile a Londra. La Klein non voleva offrirmi supervisione perché
preferiva darla agli allievi in formazione (io già ero psicoanalista).
Quando le ho detto che ero disposto a re-iniziare la mia formazione, mi
ha consigliato di farla con Mrs. Bick. Melanie Klein stessa mi ha
inviato il bambino Clive che aveva 15 mesi. Clive era molto depresso e
preoccupato (come Astrid) per la nascita della sua sorellina. Comincia
a piangere di notte, è triste di giorno e non vuole giocare con la
mamma. Là è dove inizio io il mio contatto con lui. Ma su questo caso
ho già parlato in altre occasioni, incluso il mio libro sui sogni. È
proprio in questo libro che riferisco il primo sogno del piccolo Clive.
Durante una
seduta Clive guarda la mia mano e le dice: “io ti ho visto ieri”.
“Come tu mi hai visto ieri?”. “Si” risponde Clive. Mi prende per mano
e mi porta verso un angolo della stanza dove c’è un lavandino. Mette
la mia mano nel lavandino, apre il rubinetto dell’acqua, prende vari
oggetti e li getta dentro, dicendo: “con la tua mano prendi tutto
quello che trovi”.
Clive usa la mia
mano come strumento da sommergere nell’inconscio del sogno, e mi fa
raccogliere dentro l’acqua pezzetti di legno e alcune bambole mentre
lui vi spezzetta dentro un cartoncino. Il gioco consiste nel mettere
la mia mano, e qualche volta la sua, nell’acqua, per tirare fuori gli
oggetti sommersi.
“Cosa sta
succedendo?” gli chiedo io. “Erano bambini” risponde.
Io ho pensato
che si trattava del primo sogno raccontato a me da Clive e che il
cartoncino a pezzi era un modo sadico e inconscio di spezzettare
l’immagine perturbante della sua sorellina neonata, alla quale, allo
stesso tempo, era affezionato. Per tale ragione egli si sentiva triste
e depresso, responsabile inconsciamente dei suoi attacchi: posizione
depressiva. Quando gli chiedo “dove hai visto tutto questo?”. Egli
risponde “nella mia stanza a letto, di notte.”. “Quando hai chiuso gli
occhi?” gli chiedo. La mia mano poteva rappresentare anche il padre
guida che lo aiuterà a capire il messaggio del suo inconscio.
Il gioco dentro
e fuori dal sogno introduce il piccolo Clive alla porta della
percezione delle zone oscure della sua piccola caverna in movimento.
L’INCONSCIO NEL DELIRIO E LE SUE
LOGICHE
I. Matte
Blanco cita l’esempio del Professor Bumke. Un paziente psicotico è
morso da un cane e si dirige rapidamente all’ospedale locale e sceglie
il reparto di odontoiatria. Ciò che pare strano ha la sua logica, una
logica analogica. Egli evidentemente stabilisce una relazione
simmetrica tra denti che mordono e i segni del morso canino. Si
potrebbe così costruire una logica sillogistica delirante seguendo il
modello aristotelico: tutti coloro che hanno problemi dentali devono
andare dal dentista, io sono stato morso (da un cane), quindi devo
andare rapidamente in un reparto di odontoiatria. Un altro sillogismo
delirante potrebbe essere: io sono stato morso da un cane quindi devo
andare in un servizio odontoiatrico veterinario. Questo sarebbe un
pensiero analogico più specifico ma sempre fuori dalla norma quindi
delirante.
Nel
caso citato e nelle sue variazioni sillogistiche domina un principio
analogico fondato sul concetto di simmetria.
Un
paziente schizofrenico specializzato in logica, è riuscito ad avere un
dottorato e poiché ha intuito che io mi interesso delle logiche
dell’inconscio, mi ha detto: “Per noi schizofrenici il principio di
contraddizione aristotelico non viene accettato”. Tale affermazione mi
ha convinto ancor di più della necessità ideologica, nella psicosi
dissociativa, di pensare linearmente in parallelo. Confrontare l’opposizionismo
e quindi l’alterità a livello del pensiero, crea ansietà, bellicosità,
guerra e quindi pericolo di crisi. La convinzione delirante è dura ed
“inébralable” come sostiene la psichiatria classica francese. Il
dubbio mette in evidenza la fragilità di base dell’essere frantumato o
in pericolo di disfarsi. Nell’incontro sull’autismo qui a Venezia e a
proposito della mia riflessione sul ripiego autistico e le psicosi è
venuta fuori da altri colleghi l’immagine della sabbia. Io avevo
lavorato molti anni fa con la sabbia con bambini autistici e ho potuto
capire soprattutto adesso che aprirsi al mondo in questi pazienti è
sinonimo di sciogliersi. Di là la paura di aprirsi, di provare a
comunicare. Tale tentativo sarebbe equivalente ad un’esperienza
catastrofica o crisi acuta. D’altra parte il passaggio dallo stato
autistico alla psicosi o lo psicotico stesso con tratti autistici
potrebbe sperimentare l’apertura al dialogo come uno sciogliersi e
sparire. Qui si pone il problema della materia o tessitura dell’io
corporeo o del self vissuta in certi casi come di natura
granulare o corpuscolare come la sabbia stessa. Talvolta appare il
sentimento di liquefazione. In un caso di catatonia quasi letale
citato da me in Persona e Psicosi un giovane paziente
schizofrenico grave in stato di mutismo e negativismo ha aperto la
bocca per dirmi dopo la pioggia, mentre ascoltavamo tutti e due il
rumore dell’acqua raccolta da una infermiera: “Quell’acqua sono io.”
“Quindi” ho risposto “noi due dobbiamo raccogliere il te stesso
trasformato in liquido”. Mi ha sempre interessato quella materia viva
che è l’inconscio-conscio corporeizzato ed investigare la sua natura
in ogni caso. Così ho potuto constatare che in certe alienazioni della
natura corporea il paziente può identificarsi con il legno (Pinocchio
è un legno che parla), con la pietra nella pietrificazione dell’essere
oppure liquefarsi, trasformarsi in fumo come un fantasma o diventare
invisibile. Poco tempo fa un mio paziente, Samuele, mi ha confuso con
la propria ombra. Era seduto nel caffé all’angolo vicino al mio studio
della rue Bonaparte a Parigi dove spesso iniziava le sedute con me in
modo allucinatorio. Un giorno dirigendomi al mio studio l’ho visto
seduto che parlava. Mi sono avvicinato e lui mi ha guardato come se
non esistessi corporalmente e fossi la sua ombra. Quando gli ho
parlato, mi ha chiesto: “Lei è africano?” “Non sono la tua ombra nera,
sono il dottor Resnik e ti propongo di venire con me a lavorare
insieme”. Samuele si risvegliò dalla sua estasi delirante e camminando
con lui ho capito che il campo analitico della seduta era più vasto
(in espansione) rispetto ai pazienti nevrotici.
Pochi giorni fa ho preso in analisi una giovane paziente schizofrenica
di diciotto anni. Non parlava, veniva accompagnata da sua madre che
era americana e che aveva abitato con la figlia in Italia e adesso in
Francia. La madre mi ha detto che la figlia poteva parlare le tre
lingue. Poiché rimaneva muta le ho avvicinato fogli di carta ed anche
matite e lei ha disegnato una forma simmetrica molto particolare. Le
ho chiesto di che cosa si trattasse e mi ha detto in italiano: “E’ la
forma di una palestra di cui ho sognato. C’erano due squadre di
ragazze come me che si sfidavano a pallavolo.” Dopo una pausa le
segnalo che c’è una lotta tra due squadre nella sua testa. Due insiemi
di idee che sono in concorrenza, che non si mettono d’accordo.
Intuitivamente completo il disegno della palestra con un contorno che
la trasforma in volto che lei si occupa di completare mettendo gli
occhi, il naso e la bocca.
Lo guardiamo
insieme e ambedue riconosciamo il volto e il taglio di capelli di sua
mamma. E’ stata una scoperta per noi due che nella sua mente
dissociata, trasformata in palestra c’era un opposizionismo di idee ed
una sfida, sfida che lei non poteva assumere nella sua testa e che
veniva proiettata in sua madre e forse in me (transfert materno).
Le piace il
gioco e decide di fare altri disegni; fa un’ala, un fiore con i petali
chiusi che ricorda l’esperienza di Jung con il mandala, che significa
circolo in sanscrito, poi un piccolo spettro bambino. Lo spettro
rappresenta la bambina impaurita chiusa dentro se stessa (una serie di
circoli concentrici-il fiore) e l’ala di cui avrebbe bisogno per
prendere il volo ed uscire dalla depressione. Poi disegna un volto
bizzarro con un fiocco in testa come per collegare la sua Spaltung e
occhi grandi stile manga giapponese secondo lei. La bocca è avida e si
completa con il disegno di una zucca dalla quale emerge
la metafora infantile “succhiare”: grande bisogno orale. Poi disegna
ancora un altro fiore con i petali aperti. La sua chiusura autistica si
sta aprendo ma è piena di spine per difendersi da un mondo minaccioso.
Dentro al fiore trova figure di uccelli ed il marchio Citroen.
Nella seduta seguente fa una figura secondo lei di un ragazzo triste
con i capelli in disordine e scrive la parola “Medhi” che è il nome
dell’amico che ha disegnato. Io le segnalo che si tratta di se stessa
e che dalla sua testa esce un desiderio: “m’aide?” Lei sorride ed io
aggiungo “Je vais t’aider si tu m’aides à t’aider.” In questo modo di
comunicare emerge una logica dell’inconscio della paziente e mia
che ci permette di costruire un linguaggio comune: un dialogo. In
un’altra seduta costruisce un cubo che chiama scatola trasparente e
aggiunge di sentirsi spesso così. Io completo dicendo che il suo corpo
è un contenitore, una scatola di un essere che ha bisogno talvolta di
diventare invisibile.
DISCUSSIONE
I. Matte
Blanco cita Freud dicendo: “Non è infrequente che certe associazioni
libere possano nascere non solo da un centro ma da diversi spunti,
alcuni contraddittori ed anche antitetici.” Secondo me Matte Blanco
trae ispirazione dal libro di K. Abel Ueber den Gegensinn der
Urworte (1884) per scrivere un saggio del 1909 con lo stesso
titolo Sul significato antitetico delle voci primordiali. Vale
la pena a questo punto di riprendere alcuni concetti di Freud pertinenti
al mio discorso di oggi. Per esempio Freud segnala che le categorie
dei contrari, o elementi contraddittori, cercano di combinarsi nel
processo onirico per costituire una unità che rappresenta ambedue
talvolta in stato di tensione o di lotta come nel caso della mia
paziente citata. Secondo Freud il negativo, il no, non esiste nei
sogni. Nei vecchi interpreti dei sogni, gli oniromanti, un elemento
del sogno può rappresentare anche il suo opposto.
Abel e Freud,
come più tardi Matte Blanco, si familiarizzano con il concetto di
pensieri simmetrici, concetto che il professor Pietro Bria svilupperà
nella sua introduzione al libro di Matte Blanco The unconscious as
infinite sets. Qualche mese fa dovevo intervenire in una
discussione su una radio francese, France Culture, sul tema
della schizofrenia. Dovevo dire al gruppo che la seduta seguente
sarebbe coincisa con un mio intervento alla radio. Ho anticipato di un
giorno la seduta con il gruppo. Tutti sono venuti meno Otis, un
giovane pittore che ha avuto diverse crisi acute per le quali è stato
ricoverato ma che abitualmente era sempre presente. Il gruppo
preoccupato mi ha chiesto di telefonargli ed egli ha risposto dicendo:
“Sapevo che lei doveva parlare alla radio il martedì ma questo non
impedisce di fare la seduta alla stessa ora.” Io racconto al gruppo la
risposta di Otis ed Ellis, un fisico atomico che soffre anche lui di
schizofrenia, ha risposto: “Forse Otis ha in parte ragione, per un atomo
questo è possibile.” Questa coincidenza e giustapposizione di tempi
diversi nello stesso spazi è compatibile con alcuni concetti sulla
logica dell’inconscio in Matte Blanco. Sembra infatti che per Ellis la
concezione di Matte Blanco funzioni bene. Ellis non è solo interessato
ad aspetti qualitativi ma anche a fenomeni atomici quantitativi. Di
fatto lui ha inventato una macchina che conta gli atomi. Credo che la
metafora dell’atomo metafisico che pensa e che parla il linguaggio
bi-logico di Matte Blanco corrisponda ad una delle tante forme, forse
infinite secondo Matte, del pensiero inconscio. Ho trovato utile il
libro di Remo Bodei su Le logiche del delirio (editore Laterza)
ma soprattutto di grande valore il libro Unconscious Logic di
Eric Rayner (Routledge 1995) dove vi è anche una grande apertura
rispetto alle logiche dell’inconscio e il tentativo dell’autore di
confrontare il pensiero di Matte-Blanco con quello di Bion, Piaget,
Bateson e di Edelman nelle neuroscienze.
CONCLUSIONE
Il mio
contributo è un accenno ad un problema molto complesso che
richiede di essere approfondito e completato in un’altra occasione.
Ciò che ho provato a fare è di dare alcuni esempi per giustificare il
mio approccio sul tema “Logiche dell’inconscio” sul quale sto
lavorando per un’edizione inglese. Secondo la mia natura io
preferisco partire dalla pluralità di punti vista suggerita anche dai
miei pazienti che durante tutti questi anni di lavoro e di ricerca mi
hanno aperto tante porte e tanti interrogativi.
Volevo
aggiungere che non posso identificarmi totalmente con ogni tentativo
di dare una spiegazione logico-matematica o di categorizzare in modo
sintetico quello che per me richiede uno sforzo per comprendere, per
comunicare, per trasmettere. La diversità logico concettuale di ogni
sogno, di ogni delirio, di ogni modo di essere nel transfert mi
propone alternative diverse: per esempio creare un linguaggio fenomenologico capace di trasmettere in ogni situazione diversa il
funzionamento di quello che noi nominiamo inconscio. La griglia di
Bion dà sicurezza ad alcuni colleghi perché permette di contenere e
ridurre lo sconosciuto in categorie logico-matematiche chiare. Questo
non mi soddisfa e non piaceva nemmeno a Bion stesso quando si trattava
di entrare in contatto con il vissuto del transfert e di aiutarmi a
capire i miei pazienti, durante le supervisioni. Il professor Ignacio
Matte-Blanco era un uomo pieno di umanità ed emozione, mio grande
amico. Egli è riuscito a suo modo a trovare una formulazione
logico-matematica comprensibile per alcuni ma non per tutti. Io,
personalmente, secondo la mia natura ho difficoltà qualche volta nel
capire le sue formulazioni, soprattutto quando si tratta di ciò che
egli chiama generalizzazione. Sono convinto che anche nel caso di Bion
ogni elemento alfa è diverso da un altro elemento alfa o beta. La mia
vocazione fenomenologica tende a scoprire e a trovare la metafora utile
per trasmettere un’esperienza al paziente o a me stesso. Ricordo che Bion stesso mi diceva che la psicoanalisi dovrebbe trovare il proprio
linguaggio scientifico e liberarsi dalle scienze formali e dalle
classificazioni delle scienze di Bacon. Trovare o inventare il proprio
linguaggio “scientifico”, il proprio sistema di valori e il modo
personale per comunicarlo è un’esperienza sui generis. Secondo me
bisogna che ogni analista ritrovi o inventi il proprio stile e ritrovi
la propria identità professionale senza trasformarla in scuola: ognuno
dovrà trovare il proprio modo di lavorare, quello che si avvicina di
più alla propria natura. Mi riferisco al principio di spontaneità e
all’intuizione.
L’ultima cosa che posso dire è che nel modo di comunicare è implicito
il concetto di arte e di artigianato. La psicoanalisi è una techné
personale che richiede una formazione approfondita con maestri che
stimolino a trovare la propria idiosincrasia professionale. Ho avuto
il privilegio di aver trovato maestri che hanno suscitato tale
sentimento in me. E’ quello che io stesso come maestro ho provato a
realizzare con tutti quelli che mi sono stati vicini. A loro che ora
sono i miei amici i miei ringraziamenti.
Salomon Resnik nasce a Buenos
Aires, l'1 aprile 1920, da genitori russo-ebraici emigrati in
Argentina.
Si laurea alla Facoltà di Medicina
di Buenos Aires discutendo la tesi sulla "Sindrome di Cotard".
Diventa nel 1954 membro associato dell’Associazione Psicoanalitica
Argentina e membro titolare nel 1957. Si interessa, verso la fine
degli anni ’50, di deliquenza giovanile e di psicoanalisi
infantile, poi del trattamento psicoanalitico della psicosi in
bambini e adulti.
Pioniere nell’applicazione della
psicoanalisi nell’autismo infantile e nel trattamento della
schizofrenia in Argentina, allievo e collaboratore del suo maestro
Dr. Enrique Pichon-Riviere, anche lui interessato al mondo della
cultura, si occupa dell’applicazione della psicoanalisi nel
sociale: psicoterapia di gruppo e dinamica istituzionale.
Già nel 1950, in collaborazione
con il Dr. Usandivares e il Dr. Morgan, inizia la prima esperienza
terapeutica in gruppo istituzionale di pazienti psicotici cronici.
Salomon Resnik vive le
vicissitudini della cultura della Buenos Aires dell’epoca. Legato
a Jorge Luis Borges e a Aldo Pellegrini, medico anch’egli e noto
critico di arte moderna. Vive il milieu che lo stimola ad
interessarsi alle scienze umane, all’arte e alla letteratura.
Collabora al gruppo surrealista di Buenos Aires e contribuisce
alla rivista Ciclo, di arte ed avanguardia.
Nel 1953 scrive un lavoro
interdisciplinare inerente la musica e la psicoanalisi.
Nel 1955 conosce a Ginevra, al
Congresso Internazionale di Psicoanalisi, Melanie Klein, dalla
quale rimane molto colpito. Da questo incontro nasce il progetto
di continuare la sua formazione a Londra proprio con la Klein.
Dal 1957 vive in Europa, prima a
Parigi per un anno, dove studia con Roger Bastide, Levi-Strauss,
Maurice Merleau-Ponty e Gurvitch. Continua le sue ricerche sulla
schizofrenia nell'Ospedale Saint Anne e nel servizio di ammissione
del Dr. Daumezon.
Nel 1958 prende contatto con il Dr.
Francis Tosquelles, il Dr. Jean Oury e Roger Gentis promotori
della psicoterapia istituzionale che giocherà un ruolo importante
nello sviluppo dell'applicazione della psicoanalisi al sociale.
Alla fine del 1958 realizza il suo
sogno di arrivare a Londra e assiste ai seminari di M. Klein, Bion
e altri. Viene analizzato da Herbert Rosenfeld per oltre dieci
anni. A Londra, con l'appoggio del prof. Morris Carstairs (che
esercita a Londra e a Edimburgo) e del Dr. Winnicott, lavora
nell'ospedale psichiatrico Netherne Hospital nel Surrey con
l'incarico di una comunità terapeutica di psicotici giovani.
Nel 1959 collaborerà con il Cassel
Hospital a Richmond con Thomas F.Main, creatore del termine
"Comunità Terapeutica". Collabora con il Dr. Maxwell Jones all'Henderson
Hospital a Belmont e con il Dr. Foulkes a Londra. Lavora in una
Child Guidance Clinique a Guilford e approfondisce i suoi studi
sugli stati precoci della vita del bambino con M. Klein e E. Bick.
Realizza gli studi di Antropologia Sociale nel 1963
all'University College di Londra e collaborerà al Dipartimento di
Psicologia Sociale dela London School of Economics. A Londra, alla
fine degli anni 60, prende contatto con Italo Calvino, che è
interessato ai suoi scritti e lo invita a pubblicare le sue opere
presso la casa editrice Einaudi. Prende così contatto con gli
intellettuali italiani.
Nel 1970 è in Francia dove lavora con gli
intellettuali francesi e i suoi colleghi psichiatri e
psicoanalisti con vocazione umanistica. "Maitre de Conference" in
Psichiatria alla facoltà di Medicina di Lione e presso la Sorbonne
a Parigi, collabora come professore a contratto tenendo corsi per
post graduati nella Facoltà di Medicina dell'Università Cattolica
di Roma, alla cattedra di Psichiatria di Ancona e quella di
Napoli.
A Venezia, dove comincia ad essere presente
regolarmente collabora con la fondazione Cini, su invito dei
professori Vittorio Branca e Carlo Ossola, per un periodo di vent’anni,
nel campo della pittura, della letteratura e delle scienze
dell’uomo.
Nel campo psichiatrico – psicoanalitico collabora
alla formazione di psicoterapeuti e di bambini ed adulti presso
una associazione fondata a Venezia, il
C.I.S.P.P. (direttore E. Levis).
Nei corsi di questa scuola si includono sempre partecipazioni di
filosofi e esponenti della cultura come Aldo Gargani, Renzo Mulato,
Alberto Panza, Edmundo Gomez Mango di Parigi.
Contribuisce alla fondazione dell’ASVEGRA, una scuola
di formazione in psichiatria e in psicoterapia con indirizzo
individuale, gruppale e sociale (istituzionale).
Attualmente vive e lavora a Parigi, mensilmente tiene
seminari e gruppi a Venezia; continua ad occuparsi di formazione a
Venezia presso il CISPP.
Ha collaborato con colleghi in formazione in Ucraina,
promuovendo lo scambio culturale con colleghi psichiatri e
psicoanalisti attraverso congressi e gruppi di lavoro che hanno
coinvolto anche psichiatri e psicoanalisti italiani.
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