FRENIS zero | ||||||||||||
Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte | ||||||||||||
Nel gennaio del 1960 la diva invoca il suo aiuto. Non è il gesto di una donna in crisi: di psicoanalisti, anzi psicoanaliste, M. M. ne ha già avute tre, tra cui Anna Freud, a Londra nel 1956, durante le riprese de "Il Principe e la ballerina". Si tratta piuttosto di una necessità materiale: le è impossibile, malgrado i sedativi e gli antidepressivi, affrontare il set del film "Facciamo l'amore" senza il sostegno di un terapeuta. O almeno così sembra, perché la relazione che comincia in un albergo di Beverly Hills, a tende tirate, è, nel racconto che Schneider ne fa, una passionale commedia degli equivoci e degli errori, in cui la parola morte è scritta fin dall'inizio.
Greenson perde la testa per l'attrice, ma non vuole portarsela a letto, il suo obiettivo è più ambizioso: vuole salvarla, o forse incorporarsi in lei. Marilyn, che è spesso disperata ma tutt'altro che svampita, è abituata a lasciare che gli analisti prendano completamente in mano la sua vita, fino al punto di gestire i suoi rapporti con i sarti, con i registi o con i produttori; così ha fatto con Marianne Kris, allieva di Anna Freud, nella strenua lotta per tenere allacciato il delicato filo che unisce l'attrice al lavoro e soprattutto alla vita. Marilyn invece più che alla vita è strettamente avvinghiata alla sua immagine: nei momenti di depressione estrema l'unica consolazione sono interminabili sedute fotografiche, che rimandano sulla sottile frontiera di una carta patinata la luce di una stella che è morta molto tempo prima, quando ventenne a Hollywood concedeva il suo corpo a chiunque le prestasse attenzione e la sua nudità a chiunque fosse in grado di pagarla, o forse già nell'infanzia abbandonata e abusata. Sedute fotografiche e sedute psicoanalitiche (nel testo francese, ottimamente tradotto da Fabrizio Ascari, il titolo è "Marilyn dernières séances") sono l'unico rifugio della bionda, mentre il matrimonio con Arthur Miller va in pezzi, gli amanti - da Yves Montand a Frank Sinatra - brillano rapidamente e si eclissano, e all'orizzonte, come ultime divinità mortifere, compaiono i fratelli Jack e Bob Kennedy con un seguito di spioni di diversa provenienza, dalla Cia alla mafia. Incompatibili ed inseparabili, Marilyn e il dottor Ralph si perdono ognuno nei sogni dell'altro - dopo la morte dell'attrice un'onda di melmoso discredito si abbatte sullo psicoanalista, che qualcuno addirittura accusa di esserne stato materialmente il killer - seducendosi a vicenda in un gioco dove ossessivamente scambiano la loro posta: l'immagine contro la parola, la parola contro l'immagine. Se Marilyn è una devota della psicoanalisi, e l'uomo che invoca più spesso è il dottor Freud, Greenson all'inconscio sembra preferire il cinema, e non solo perché è l'analista dei divi. Cinema e psicoanalisi: qui è la scena del dramma, e del crimine. Ma non per le teorie che a posteriori ne hanno ricostruito e indagato il legame. Nel romanzo di Schneider, dove i documenti sono trattati come reperti mnestici in un caso clinico, i cineasti e gli psicoanalisti sono creature in carne e ossa che un capriccio della storia ha riunito nella città degli angeli: negli anni del nazismo e della guerra, unita dalla cultura e spesso dalla lingua, una comunità di espatriati europei intreccia un legame intenso tra il divano e lo schermo, appunto tra la parola e l'immagine. Se Schneider non abbandona mai le quinte private della relazione Marilyn-Greenson - così che sulla strana coppia scenda una luce nuova, torva a volte ma mai convenzionale - mette anche in scena un collettivo transfert hollywoodiano, con una folla di figuranti dai nomi prestigiosi - da Wilder a Huston da Strasberg a Mankiewicz - in cerca dell'anima sfuggente della città delle apparenze in un incessante viavai tra gli Studios e gli studi, tra la verticalità del set e l'orizzontalità del divano. Le regole dell'ortodossia saltano travolte dalla irregolarità dell'entertainement, dall'imperiosità dello show che non deve fermarsi, e anche dal denaro che gioca un ruolo tutt'altro che insignificante. Così non ci sorprendiamo, persi nella fitta e affascinante trama allestita dallo scrittore francese che vira dal noir al poliziesco alla love story con frammenti porno, di ritrovare in una sorta di albero genealogico finale accoppiamenti più che tendenziosi, se Jacqueline Kennedy, sempre legata al glamour hollywoodiano, prende il posto già occupato da Marilyn sul divano di Marianne Kris dopo la morte del marito che era stato uno degli ultimi amanti della diva. O, ancora, quando seguiamo il passaggio - per lascito testamentario - dei proventi dei diritti dell'immagine di Marilyn, vorticosamente cresciuti post mortem, da Hollywood direttamente nelle casse del "Centro Anna Freud". Elisabetta Rasy
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