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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

Recensioni Bibliografiche

 

  "DAL CONFLITTO INTRAPSICHICO ALLA VIOLENZA RELAZIONALE: UNA PROSPETTIVA TEORICA"

 

 

  di Luca Mazzotta

  

 

  Luca Mazzotta è psicologo, psicoanalista in formazione presso l'Istituto di training dell'ASP (Associazione Studi Psicoanalitici, membro IFPS). Vive e lavora a Milano, dove esercita privatamente. E' socio fondatore del "Centro di Aiuto Psicologico ONLUS" ( www.aiutopsicologico.it ) di Inverno e Monteleone (PV). Il presente testo è quello dell'intervento fatto dall'autore il 19 settembre 2009 al 3° Congresso del Centro di Aiuto Psicologico "La società dei conflitti: dal disagio alla violenza - Prospettive, riflessioni, interventi".


 

La violenza ha molte facce. Dalla più sottile e subdola, alla più tragica ed eclatante.

In questo contributo cercherò di illustrare una prospettiva teorica psicoanalitica che possa gettare un ponte tra il disagio intrapsichico e le condotte aggressive e violente. Seguirò la tesi, infatti, che la condotta aggressiva, o addirittura violenta, è sempre causata da uno stato di disagio interno, differenziando, però la modalità relazionale aggressiva, dietro la quale vi è una corrispondente rappresentazione psichica della relazione, cui la relazione reale spesso si conforma, e l’agito violento, fisico, improvviso, dietro il quale a volte vi è un disagio più profondo che coinvolge l’integrità del Sé.

Prima di far questo, però, può essere utile ripercorrere in maniera molto veloce, la nascita ed i primi sviluppi del concetto di aggressività nel pensiero psicoanalitico.

 

 

 

 

 

Aggressività e psicoanalisi

 


 

 

Negli scritti di Freud il concetto di aggressività è comparso relativamente tardi ed è via via mutato col mutare della teoria della libido. In un primo tempo Freud intendeva l’aggressività come una componente delle pulsioni libidiche, e il sadismo ne era un esempio. L’aggressività aveva lo scopo di conquistare, vincere le resistenze e sottomettere l’oggetto d’amore. Il sadismo risultava essere la perversione di questo atteggiamento. La libido era l’unica spinta del mondo psichico e l’aggressività era semplicemente uno strumento al suo servizio.

Successivamente, con la formulazione del modello strutturale (Es, Io e Super-Io) l’aggressività è pensata come facente parte delle pulsioni dell’Io, poiché diretta al controllo del mondo esterno, attraverso l’attività motoria. Quindi mentre l’amore indica una relazione con l’oggetto in cui vi è piacere, l’odio e l’aggressività hanno ora a che fare con l’autoconservazione.

Quando ci si è occupati della melanconia, però, non era più possibile considerare l’aggressività come qualcosa che poteva essere diretta solo verso l’esterno: emerse dunque necessariamente il dualismo tra pulsioni di vita e pulsioni di morte. L’aggressività è dunque vista come una manifestazione della pulsione di morte quando questa è rivolta all’esterno invece che all’interno.

Con l’introduzione della pulsione di morte, che è al di là del principio di piacere, cioè prima di questo, si ha un meccanismo inerziale, semplice ed automatico che tende a ricondurre l’irrequietezza vitale all’immobilità dello stato inorganico. Si tratta così di un meccanismo responsabile della coazione a ripetere, un meccanismo che si pone sul piano psicologico come primario o riflesso, dominato dalla tendenza immediata alla scarica. La coazione a ripetere è ovviamente un tentativo destinato a fallire di scaricare la tensione del sistema psichico, o di evitare l’angoscia, secondo modelli primitivi di funzionamento.

Dopo Freud, con il prevalere dell’interesse per l’ambiente e per le cure materne, il concetto di pulsione di morte cade in discredito presso quasi tutti gli analisti, con l’eccezione dei kleininani. Nel pensiero kleiniano la pulsione di morte resta un concetto innato, sebbene psicologico e non biologico, ed ha a che fare con la fantasia, innata, di depredare l’oggetto buono.

Molti psicoanalisti hanno criticato profondamente questo concetto, portando dati clinici che evidenziavano la natura dell’aggressività non come istintuale ma come reazione secondaria e difensiva rispetto alla frustrazione proveniente dall’oggetto (interno o esterno).

Dunque l’aggressività passa dall’essere una componente della libido, ad essere una spinta pulsionale autonoma, per poi essere vista come una reazione secondaria difensiva.

Rabbia, aggressività e violenza

 

É bene, a questo punto, chiarire di cosa realmente ci stiamo occupando. Innanzitutto dobbiamo stare attenti a non confondere rabbia, aggressività e violenza fisica. La rabbia è un segnale, che emerge in seguito ad una frustrazione, ad un dolore o ad un sentimento depressivo. L’affetto che spesso lega la rabbia ad un oggetto è l’odio.

L’aggressività è una modalità relazionale mediante la quale viene veicolata e comunicata la rabbia all’interno di un rapporto interpersonale.

La violenza fisica può essere vista come la forma estrema di aggressività, che mira a danneggiare o eliminare fisicamente e definitivamente un oggetto e in presenza della quale vi è ovviamente il fallimento di ogni processo mentale.

Nel congresso dell’anno scorso ci siamo occupati della depressione: abbiamo visto come questa possa essere concettualizzata come la reazione al dolore conseguente alla percezione di una discrepanza tra il Sé ideale ed il Sé reale. La rabbia può avere la funzione di attaccare in fantasia l’oggetto che rende evidente questa discrepanza, se rivolta all’esterno, oppure più frequentemente di aggredire il Sé reale se rivolta all’interno.

Ma la rabbia e l’aggressività sono evidentemente troppo pervasive per costituire una causa di attacco fisico, reale, al corpo di un’altra persona. La violenza fisica vera e propria, dunque, deve necessariamente presupporre un’ulteriore componente che predisponga gli individui ad agire sui corpi piuttosto che sulle menti.

Questo contributo cercherà di fornire una prospettiva entro cui comprendere alcuni agiti violenti e improvvisi, che sebbene possano originare anche da modalità relazionali aggressive, spesso sorprendono per la loro fulmineità, imprevedibilità, mancanza di premeditazione e per le loro non rare tragiche conseguenze.

Reazioni automatiche e difese psichiche

 

Il modello teorico di Joseph Sandler e di sua moglie Anne-Marie può essere d’aiuto nella comprensione della distinzione tra rabbia, aggressività e violenza agita fisicamente: i Sandler propongono due differenti dimensioni del mondo psichico inconscio. La prima, che chiamano inconscio passato, è una struttura, una modalità procedurale, implicita. Una modalità automatica di reazione agli stimoli (interni o esterni) formatasi quando il bambino, all’inizio della vita, non può che organizzarsi in modo procedurale. L’organizzazione dell’inconscio passato è profondamente diversa dall’attività psichica esplicita, rappresentazionale. Si tratta di un insieme di precoci strategie procedurali che si sviluppano sino a divenire urgenze perentorie, che funzionano esattamente come dei desideri.

  Foto: Joseph Sandler

La seconda modalità, chiamata inconscio presente è, a sua volta, profondamente e qualitativamente diversa dalla prima: non si tratta solo di una struttura, di una funzione psichica, ma è anche un insieme di rappresentazioni esplicite (sebbene inconsce) del Sé e dell’Altro in relazione tra loro, di fantasie che hanno la funzione di garantire l’equilibrio affettivo.

Le urgenze perentorie, le reazioni immediate, provenienti dall’inconscio passato, vengono per così dire accolte nell’inconscio presente, il quale le organizza in fantasie la cui funzione è quella di far riguadagnare un equilibrio, una omeostasi affettiva, tenendo conto delle richieste provenienti sia dall’interno che dal mondo esterno.

Dunque la funzione dell’inconscio presente è molto importante: uno stimolo doloroso che provoca frustrazione, è gestito in maniera differente nelle due modalità. L’inconscio passato fornisce una reazione immediata, automatica, derivante dalle precoci strategie sperimentate nelle prime fasi di vita. Questa reazione, tipica e appresa proceduralmente, diviene a sua volta una spinta motivazionale che viene processata, diciamo così, all’interno dell’inconscio presente, il quale provvede a fornire una rappresentazione in grado di ristabilire un equilibrio affettivo.

Per fare un esempio: una separazione provoca la perdita della vicinanza in una relazione di attaccamento, e perciò una tipica reazione immediata è la protesta (non l’unica possibile, ovviamente). Questa reazione è stata appresa in un’epoca molto precoce, e probabilmente a quell’epoca era anche accettabile, utile, sintonica: raggiungeva lo scopo di mantenere la vicinanza.

Successivamente questa reazione alla separazione è possibile che divenga distonica, e quindi grazie all’inconscio presente, la reazione immediata di protesta in risposta ad una separazione deve essere “gestita psichicamente” poiché, ad esempio, il soggetto non tollera l’immagine di sé come qualcuno che protesta o che soffre per la perdita della vicinanza  dell’altro. Questa reazione, quindi, viene modificata all’interno di una fantasia che renda accettabile l’affetto: ad esempio una situazione di separazione, magari necessaria, inevitabile o anche desiderata dal soggetto, è inglobata in una fantasia in cui l’altro è visto come disattento rispetto ai propri bisogni. In questo modo si renderanno disponibili strategie psichiche più evolute in grado di far affiorare l’affetto primitivo in un modo più accettabile. Si può svalutare l’altro, il proprio bisogno dell’altro, si può proiettare sull’altro il proprio affetto ecc. La protesta emerge, ma in relazione a qualcosa di diverso rispetto alla sofferenza che si prova nella separazione, ad esempio in relazione al comportamento indotto nell’altro.

In definitiva quello che chiamiamo conflitto può essere originato sia da due affetti differenti ed in contrasto tra loro, ma anche da due modalità differenti di trattare lo stesso affetto: una più immediata e tendente alla scarica, come direbbe Freud, ed una più evoluta, inglobata in una rappresentazione psichica. Segue di conseguenza, e questo ha una importanza fondamentale nelle applicazioni cliniche del modello, che il materiale dell’inconscio presente è più facilmente accessibile e più adeguato all’interpretazione di quanto non lo sia la reazione immediata e primitiva dell’inconscio passato.

Io credo che con questo modello sia possibile riuscire a distinguere meglio la differenza tra l’agito violento, impulsivo ed improvviso, diretto al corpo, dall’espressione della rabbia come affetto che accompagna una rappresentazione fantasmatica della relazione tra Sé e l’Altro.

Nel primo caso, dell’attacco fisico, siamo di fronte ad una modalità di reazione immediata, per la quale nessuna interpretazione potrebbe essere utile.

Nel secondo caso, invece, cioè l’essere arrabbiati ed il comunicarlo in vari modi, anche aggressivi, siamo di fronte ad una rappresentazione che è stata elaborata dall’inconscio presente allo scopo di fronteggiare un affetto sentito come inaccettabile.

La stessa Anne-Marie, Sandler in un seminario tenuto a Ravenna pochi mesi fa, ha precisato che, nel momento in cui emerge una reazione immediata da parte del paziente, il fornirgli un’interpretazione sarebbe ai suoi occhi come l’attribuirgli dei “piani” che egli, in quel momento, davvero non ha: egli, ad esempio con l’aggressione, tenta solo di liberarsi di uno stato spiacevole, purtroppo con modalità che di psichico hanno ben poco.

Foto: Anne-Marie Sandler

La violenza come assenza di mentalizzazione

 

Questo, a mio avviso, è perfettamente in linea con la teoria della mentalizzazione di Fonagy: la mentalizzazione è definibile come la capacità di prestare attenzione agli stati della mente presenti in noi stessi e negli altri. Se una delle funzioni dell’inconscio presente è quella di dare un senso e di trovare soluzioni “mentali” all’emergere di stati affettivi disturbanti, in assenza di questa capacità, l’inconscio presente non è in grado di svolgere adeguatamente la propria funzione e l’unica alternativa possibile resta quella di liberarsi in qualche modo (il più veloce possibile) dell’affetto disturbante. Ciò può avvenire solo mediante quelle modalità implicite e procedurali tipiche dell’inconscio passato. Se la funzione mentale in particolari momenti manca del tutto, non resta che l’azione, fisica.

Dunque, la rabbia, la rappresentazione di una relazione con l’Altro come persecutoria, è una vera e propria difesa psichica, una fantasia che viene messa in atto con modalità relazionali ostili, provocatorie e conflittuali.

L’attacco fisico violento e spesso improvviso, invece, ha tutte le caratteristiche di una reazione immediata ad uno stato interno disturbante.

Shapiro, esponente della Psicologia dell’Io, non a caso definisce la personalità dell’impulsivo come caratterizzata da reazioni immediate e processi mentali inefficaci. Si tratta di persone che mancano di obiettivi e progettazione a lungo termine. Cioè mancano di una elaborazione psichica rappresentazionale di alto livello. Hanno un inconscio presente “inefficace” nelle sue funzioni.

Aggressività come protezione della rappresentazione del Sé

 

In questa sede seguirò l’idea di Fonagy, secondo il quale l’aggressività può avere non solo il significato di difesa da uno stato affettivo spiacevole, ma a volte, quando emerge in modo perentorio ed in particolare sotto forma di violenza fisica, assume più che altro un ruolo difensivo nella protezione dell’integrità del Sé.

  Foto: Peter Fonagy

Nella nascita della rappresentazione del Sé è fondamentale l’interiorizzazione dell’immagine che il genitore ha del bambino in quanto essere dotato di intenzioni. Se questa immagine sarà accurata, la rappresentazione che il bambino avrà del proprio Sé sarà fedele alla sua esperienza primaria.

La funzione principale delle prime relazioni oggettuali consiste nel fornire al bambino una sensazione di sicurezza in ambienti che inducono paura; si tratta dei concetti di contenimento di Bion, dell’holding di Winnicott, di Oggetti-Sé secondo Kohut e del background di sicurezza di Sandler.

La capacità riflessiva, cioè la capacità di restituire al bambino i pensieri relativi al suo stato affettivo, si sviluppa all’interno di una relazione nella quale il bambino impara a pensare, per identificazione, con il pensiero del caregiver. Il caregiver riflette al bambino l’esperienza che egli ha del neonato, traducendola in azioni e linguaggio a lui comprensibili. Il neonato a sua volta beneficia di questa prospettiva organizzante e la interiorizza gradualmente, acquisendo un’esperienza mentale di sé ampia, variegata e organizzata. Conoscere la propria mente significa compiere un processo di internalizzazione della mente degli altri che pensano a noi come esseri dotati di una mente.

Se il caregiver è incapace di una efficace attività riflessiva, quello che il bambino internalizza è una rappresentazione di Sé che sentirà estranea, aliena, non concordante con la sua percezione primaria.

Il suo senso del Sé sarà dunque minacciato e incomprensibile. Non interiorizzando la capacità di mentalizzare, le uniche difese psichiche cui potrà accedere saranno primitive e infantili, quali la negazione, l’evitamento e l’aggressività. La minaccia è costituita da uno stato angoscioso in cui il Sé non è rappresentabile unitariamente e coerentemente.

In che modo possono avvenire questi scambi interattivi in cui la capacità riflessiva del caregiver è inefficace?

Il bambino, come si sa, ha una gamma di comportamenti e di espressione molto limitata: a volte i suoi comportamenti e le sue richieste possono essere fraintese e confuse proprio con l’aggressività. Questo accade più facilmente quando il caregiver ha a sua volta notevoli difficoltà nel rappresentarsi correttamente gli stati mentali altrui. Quando questa confusione avviene frequentemente e ripetutamente, il bambino introietterà un’immagine di sé aggressiva, sicuramente non coincidente con ciò che sarebbe stato meglio esprimergli come la sua “intenzionalità”, il suo bisogno di raggiungere un obiettivo. In queste situazioni per il bambino può essere pericoloso addirittura pensare ai pensieri che il caregiver ha su di lui. Pensieri che possono includere rappresentazioni di un bambino cattivo o anche minaccioso, se non addirittura pensieri che includono il desiderio di fargli del male.

Ciò che il bambino interiorizza, in questi casi, è la rappresentazione di Sé come cattivo e pericoloso. Rappresentazione che, invece di attribuire un senso coerente alle sue sensazioni, ai suoi elementi beta direbbe Bion, provoca un senso di incoerenza, caos e frattura del Sé. I bambini organizzano il loro mondo mentale grazie all’innata predisposizione per il riconoscimento di contingenze. In questo caso non vi sarà alcuna contingenza tra il proprio stato interno e la rappresentazione restituitagli dal caregiver; al posto di una efficace regolazione interattiva degli stati affettivi, il pensiero del caregiver provoca una ulteriore disregolazione affettiva e disorganizzazione.

Lo stesso Winnicott diceva che se il bambino non riesce a trovare riflesso nella madre il proprio stato, finirà con l’interiorizzare lo stato della madre come parte della propria struttura del Sé.

  Foto: D. W. Winnicott

Si ha dunque la formazione di quello che Fonagy definisce il Sé alieno, cioè l’internalizzazione, come parte della rappresentazione del Sé, dell’immagine non congruente restituitagli dal caregiver. Ciò è fonte di notevole disorganizzazione ed angoscia ed a questo punto l’unico modo per cercare di riguadagnare una coerenza del Sé resta l’esternalizzazione del sé alieno.

Il Sé alieno è vissuto come una parte del Sé, ma una volta esternalizzato è percepito nell’altro.

Quello che disturba è l’immagine di sé come “cattivo” ed è perciò necessario che questa immagine del Sé resti confinata nell’altro.

I veri problemi, in grado di portare all’agito fisico e violento, possono iniziare proprio quando l’esternalizzazione del Sé alieno rischia di ritornare indietro, ad esempio perché l’altro si sottrae al ruolo di contenitore di questa rappresentazione. In questo caso l’unica soluzione per impedire il “ritorno” di quanto esternalizzato, è distruggerlo insieme al suo contenitore, fisicamente.

Comprendere questo processo è molto importante da un punto di vista clinico poiché, a differenza di quanto avviene nelle nevrosi, non vi è una proiezione di un affetto motivata dalle pressioni del Super-io, ma una esternalizzazione di una parte del Sé motivata dal bisogno più arcaico di stabilire una continuità di base nell’esperienza del Sé.

In altri termini l’immagine di sé come cattivo è nei pensieri dell’altro, dunque basta confinare e, se necessario, distruggere questa rappresentazione: in questo modo l’illusione è che la propria rappresentazione del Sé resti integra e coerente.

L’aggressione fisica, in questo caso, che avrà poco a che fare con la difesa da un sentimento depressivo, ma avrà una funzione ben più specifica e vitale: evitare la minaccia di vedere rientrare delle parti del Sé aliene che possono distruggerlo.

La rabbia nello sviluppo normale

 

Nello sviluppo normale, la rabbia, come ogni emozione, ha la funzione di segnale. A partire dal secondo anno di vita (e forse anche prima) serve anche per mantenere l’integrità della rappresentazione del Sé (si pensi alla fase dei “no” di Spitz come ultimo organizzatore della vita psichica). Dunque non si tratta solo di una richiesta di protezione ma anche di una risposta automatica (procedurale) nei confronti dell’insensibilità del genitore, percepita come una minaccia. Normalmente questa reazione provoca a sua volta l’immediata intensificazione delle cure. Questo pattern è facilmente riscontrabile nell’attaccamento di tipo ansioso.

Tuttavia la normale reazione di rabbia si trasforma in aggressività quando l’insensibilità all’interno delle relazioni primarie è pervasiva o la rappresentazione di Sé che viene restituita al bambino non permette una adeguata regolazione affettiva: ad esempio se il genitore reagisce a ciò che egli interpreta come aggressività del bambino con la sua propria aggressività.

In questi casi la risposta oppositiva è intensificata ed è utilizzata così spesso che si ritrova a essere integrata nella struttura del Sé del bambino. Il bisogno di affermazione di Sé provoca immediatamente aggressività, la quale non viene mentalizzata: Sé e aggressività diventano la stessa cosa.

L’aggressività in questi casi non è più una difesa ma diventa parte dell’esperienza di sé, l’unica possibile. Non vi è una frustrazione in ballo, ma il rischio di non riuscire a “contenersi”, a non sentirsi.

Dalla modalità relazionale aggressiva alla violenza fisica

 

Sebbene vi possa essere un legame tra attaccamento ansioso e aggressività, si deve però tenere presente che la maggior parte dei bambini ha un attaccamento ansioso senza che la maggior parte di essa diventi violenta. L’attaccamento ansioso è una strategia interpersonale stabile, che presuppone una certa dose di aggressività, ma non ha molto a che fare con il comportamento violento.

Perché si sviluppi una modalità stabile di comportamento che sfoci nella violenza fisica è necessario supporre una totale assenza di mentalizzazione in particolari circostanze o relazioni. Ciò è rinvenibile nei casi di maltrattamento e abuso. Il maltrattamento spinge i bambini a ritirarsi dal mondo mentale, perché inaccessibile e disorganizzante.

Il pericolo normalmente attiva il sistema di attaccamento, il quale a sua volta stimola le cure del genitore che portano ad una positiva regolazione affettiva.

Il maltrattamento del genitore invece provoca una iperattivazione del sistema di attaccamento, paradossalmente proprio nei confronti della persona che abusa del bambino. Ciò costituisce, come è noto, il nucleo dell’attaccamento disorganizzato.

Nell’attaccamento disorganizzato la regolazione affettiva all’interno delle relazioni significative è impossibile. In assenza di una buona regolazione affettiva non è possibile sviluppare la capacità di pensare e riflettere sugli stati mentali.

Nei bambini maltrattati vi è l’interiorizzazione di un’immagine abusante, unica identificazione possibile con il genitore. Il bambino non internalizza più una rappresentazione del Sé incongruente con quella vissuta, ma interiorizza interamente lo stato affettivo, l’ostilità e la modalità violenta del genitore. Questa rappresentazione, che viene sentita come interna al Sé deve essere espulsa per due motivi: non combacia con il Sé o meglio con l’esperienza primaria del Sé, e soprattutto perché è continuamente e terribilmente persecutoria.

L’individuo, dunque, ha bisogno dell’altro, e del controllo su di lui, per poter esternalizzare; quando si trova da solo si sente poco sicuro a causa di una rappresentazione torturante da cui non può scappare poiché è sperimentata come interna al Sé. Questi individui manipolano la relazione in modo da generare nell’altro l’immagine persecutoria di loro stessi come “cattivi” della quale non vedono l’ora di liberarsi. E finiscono spesso con il ricorrere alla violenza, in particolare quando una spinta all’autonomizzazione dell’altro minaccia questo processo di esteriorizzazione; in questi momenti agiscono con violenza mossi dal terrore che la coerenza del Sé venga distrutta dal ritorno di ciò che era stato esteriorizzato.

Le accuse degli uomini violenti nei confronti delle loro compagne ne sono un buon esempio: ad esempio incolpano spesso le partner di infedeltà, cioè di umiliarli. Ora la rappresentazione persecutoria del Sé è finalmente all’esterno, ed anche controllabile, e la coerenza del Sé è riguadagnata. Ma se il partner rifiuta questo ruolo e si autonomizza, allora c’è il ritorno dell’esteriorizzato, minaccioso per l’integrità del Sé. Quante volte assistiamo a violenze, in particolare sulle donne, proprio nel momento in cui queste modificano le loro modalità relazionali virando verso una maggiore autonomia e indipendenza? Le successive suppliche di perdono degli abusanti hanno la funzione di mantenere una relazione per loro vitale, entro cui esternalizzare. I delitti spesso sono il gesto che segue la presa di consapevolezza che il partner non è più disposto a mantenere in vita la relazione. Ciò è estremamente minacciante l’integrità del Sé.

Non siamo propriamente nel campo del sadismo, poiché il sadismo implica il riconoscimento della sofferenza altrui. Nel caso del comportamento violento l’inibizione dei processi di mentalizzazione impedisce la rappresentazione degli stati mentali altrui, e dunque anche della loro eventuale sofferenza. È ciò che comunemente sentiamo definire come assenza di empatia.

La modalità relazionale è di tipo sado-masochistico ma, a differenza di questa, manca l’attività rappresentazionale, l’attualizzazione di una fantasia inconscia: tutto quello che in uno scontro fisico violento è possibile osservare è la necessità, la perentorietà di disfarsi di uno stato affettivo devastante. L’altro non è un attore necessario alla propria recita, ma una tomba in cui seppellire l’immagine di Sé disturbante. Una relazione sado-masochistica di livello nevrotico difficilmente sfocia in violenza esplicita, agita fisicamente e fino alle estreme conseguenze, poiché il fine ultimo è recitare un copione e non disfarsi di una minaccia. A volte, invece, relazioni che non hanno apparentemente le caratteristiche proprie e a lungo termine delle relazioni sado-masochistiche, si tramutano improvvisamente in conflitti violenti e delittuosi.

L’abuso infantile, tuttavia, non è condizione necessaria per il futuro agito violento. Vi sono anche alcuni pazienti violenti per i quali non si è verificata alcuna esperienza di abuso: in questi casi si è comunque sviluppato un pattern di violenza apparentemente insensata fatta di umiliazioni, svalutazioni, incuria. Spesso la sottile violenza subita emerge solo in un rapporto interpersonale molto intenso come il trattamento psicoanalitico, con tutto il suo dolore ed il portato disorganizzante.

In ogni caso è sempre l’incapacità di pensare (mentalizzazione) che costringe l’individuo a gestire sul piano fisico pensieri, sentimenti e desideri. La ridotta capacità di mentalizzare, a sua volta, riduce l’inibizione dell’aggressività: la vittima è senza pensieri e quindi incapace di sofferenza. É così possibile distruggere la vittima ed illudersi di distruggere insieme ad essa la rappresentazione di Sé disorganizzante.

In definitiva, la rabbia è un segnale normale che emerge in seguito ad una frustrazione, e spesso è difensivo rispetto ad un vissuto doloroso. É infatti meglio sentirsi arrabbiati che addolorati.

L’aggressività è una modalità relazionale psichicamente difensiva, derivante dall’attività rappresentazionale dell’inconscio presente. All’estremo dell’aggressività vi è anche il comportamento delittuoso premeditato o delirante. L’identificazione con l’aggressore, ad esempio, resta comunque una difesa psichica che si sviluppa in particolari circostanze e con la quale la rappresentazione di Sé viene modificata in modo da contenere e controllare aspetti minacciosi appartenenti al mondo esterno. Siamo comunque sempre nell’ambito dell’inconscio presente, dell’attività rappresentazionale.

L’agito violento improvviso e diretto al corpo, il cosiddetto “raptus”, invece, è una reazione immediata e repentina, una risposta procedurale che non ha avuto la possibilità di essere gestita sul piano psichico. Lo scopo dell’agito violento non è più l’attualizzazione di una fantasia ma semplicemente quello di liberarsi di uno stato che minaccia l’integrità del Sé. Ciò, in assenza di una adeguata mentalizzazione, non può che avvenire sul piano puramente fisico, dell’azione.

Il ruolo del padre, l’Edipo e l’adolescenza

 

Abbiamo tanto parlato della relazione madre-bambino, ovviamente quando diciamo caregiver solitamente pensiamo alla madre. Ma qual è il ruolo che gioca la figura paterna nel processo che porta alla mancata acquisizione della mentalizzazione? Sicuramente se la madre non svolge adeguatamente la sua funzione riflessiva, il padre potrebbe farlo rappresentando nella sua mente proprio la relazione madre-bambino, e restituendola a questi comprensibile e dotata di un senso, seppur spesso doloroso. Infatti in questo senso, rispetto alla madre, il ruolo del padre ha una dimensione in più: in esso il bambino non vede solo se stesso come entità psicologica, ma vede anche se stesso in relazione alla madre. Se il padre è disattento o assente, il bambino ha la conferma che egli è, in certo senso, “cattivo o inadeguato” e che dunque la sua relazione con la madre è fonte di delusioni. A questo punto possiamo immaginare che il desiderio di uccidere il padre non avrà più lo scopo di eliminare un rivale ma un testimone dell’impossibilità della fantasia edipica.

Dunque in casi del genere l’edipizzazione (insieme all’acquisizione della mentalizzazione) non può essere raggiunta e pertanto il livello di funzionamento psichico e le relative difese resteranno più arcaici. Questo spiega l’assenza di sensi di colpa, del Super-Io, che dovrebbe essere l’erede del complesso edipico, in soggetti impulsivamente violenti.

Dall’Edipo all’adolescenza il passo è breve. In questa fase, che segue quella di latenza, i vecchi nodi vengono al pettine, con la possibilità di essere risolti oppure di sfociare nella patologia.

Nell’adolescenza vi sono due spinte che mettono il giovane sotto pressione, più di quanto non lo sia stato sino a quel momento, e che aumentano la complessità del suo mondo mentale: l’accesso al pensiero operatorio formale e la spinta (sociale) alla separazione dai genitori.

Con il pensiero operatorio formale il mondo mentale acquisisce definitivamente una nuova dimensione. La fantasia non è più direttamente collegata alla realtà e con essa apre delle possibilità sino a quel momento inesplorabili, inebrianti ma anche spaventose, spesso in grado di condurre all’angoscia. L’adolescente può, in conseguenza dell’angoscia sperimentata, regredire ed indebolire o inibire la mentalizzazione.

In secondo luogo, più che la spinta pulsionale, fisica, ormonale, è la spinta sociale alla separazione dai genitori che rappresenta per l’adolescente una sfida minacciosa. Egli infatti da un lato è portato ad affrancarsi dai genitori ma dall’altro il progressivo distanziamento da loro finisce con il porlo dinanzi al problema di non poter più esternalizzare le sue parti aliene.

L’adolescente sicuro non ha problemi nel tollerare la separazione fisica mentre un adolescente che ha la necessità di proiettare le parti del sé aliene, ha la necessità della vicinanza fisica del genitore, che deve necessariamente sentire differente da sé. Se il genitore è sentito come differente, allora significa che la proiezione delle parti di sé aliene è andata a buon fine. Una separazione, però, espone il giovane al pericolo del “ritorno” delle parti proiettate: egli quindi tenderebbe a rispondere difensivamente alla spinta alla separazione con una esagerata rivendicazione della propria differenza dal genitore. La sfida adolescenziale non è tanto quella di accettare la differenza, ma la similarità.

In assenza di un partner su cui esternalizzare stabilmente ed efficacemente, l’integrità del Sé è fortemente a rischio, e le condotte violente in assenza di mentalizzazione diventano quasi necessarie.

Alcuni aspetti tecnici

 

Cosa accade in analisi con quei pazienti che sono costretti a liberarsi perentoriamente delle parti di Sé aliene?

Quando il paziente, la cui integrità del Sé è fortemente minacciata, riesce finalmente ad esteriorizzare le sue parti aliene persecutorie può, a quel punto, anche tentare di interrompere il trattamento; in effetti in quel caso si sente meglio. Il Sé è più coerente e può avere la speranza di lasciare nella stanza dell’analista le sue parti aliene. Una specie di “assassinio” dell’analisi che, nella speranza del paziente, dovrebbe portare con sé nella tomba le parti aliene di cui si è liberato e l’immagine di Sé come cattivo (“è l’analista che mi vede cattivo, non io”).

È proprio nei momenti in cui il paziente riesce ad esternalizzare efficacemente sull’analista, che il suo Sé riguadagna coerenza, quindi si sente meglio ed è anche in grado di riflettere. Purtroppo questi sono spesso i momenti in cui l’analista cessa di funzionare da analista. In queste occasioni risulta evidente quanto sia importante, e allo stesso tempo difficile, mantenere una scissione “controllata” all’interno della mente analitica, cioè permettere l’esternalizzazione del paziente - che significa accettare realmente e pienamente la rappresentazione del paziente come “cattivo” - riuscendo contemporaneamente a non vedere solo questo aspetto del paziente.

É di fondamentale importanza per l‘analista verificare ed evitare i propri tentativi inconsci di disidentificazione con l’aggressore: ad esempio l’analista potrebbe inconsciamente non accettare la propria reazione aggressiva e di rabbia verso il paziente, intensificando reattivamente atteggiamenti amorevoli e comprensivi, il cui scopo, però è quello di difendere l’analista stesso dalla possibilità di confrontarsi con la propria rabbia. In tali situazioni l’esternalizzazione del paziente non può avvenire, e la pressione che egli sente non potrà che essere incrementata, escludendo così a sua volta ogni residua capacità di mentalizzare.

Durante i tentativi di esternalizzazione, più che interpretare è necessario riflettere continuamente lo stato mentale del paziente in quel momento, aprendo così una prospettiva, uno spazio in cui è possibile pensare ai pensieri, a quelli del paziente ma anche e soprattutto a quelli dell’analista circa il paziente. Che, similmente alla funzione riflessiva, potranno in seguito essere internalizzati portando all’acquisizione della capacità di mentalizzare.

 

 

 

 

Principali riferimenti bibliografici

 

 

 

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