Che cosa sente, cosa prova, cosa
pensa una persona che si occupa di psicoanalisi, in quanto la
frequenta, la professa, l’ama e la usa come dispositivo per
leggere quello che le capita nel quotidiano e nel sogno, nella
realtà e nella fantasia.
Ho accettato in questa prospettiva
di offrire la narrazione di alcune emozioni che mi hanno abitato
nell’essere presente alla rappresentazione
di
Pharmakos
a Forlì e
nell’osservare alcune pubblicazioni che i curatori
dell’iniziativa mi hanno
gentilmente fatto pervenire.
Non vorrei discutere con delle
teorie che, secondo Bion, inducono lo sbadiglio o la noia o il
pensare ad altre cose(1). Vorrei procedere con una serie di
sollecitazioni che si sono affollate nella mia mente.
Devo subito osservare che la cosa
che mi ha maggiormente colpito è stato lo spettacolo, per la
potenza delle immagini reali, per l’incisività della colonna
sonora e per la discussione che si è intessuta dopo lo spettacolo,
ascoltando le osservazioni, i pensieri, le positività e le
critiche del pubblico che numeroso si è fermato a discutere. Per
questo il mio punto di riferimento rimane la rappresentazione dal
vivo più delle riflessioni teoriche che molteplici hanno affollato
la palestra culturale del nostro tempo. Non si pensi che disprezzi
le teorie, al contrario le considero degli strumenti che a volte
vengono assolutizzati e non rispecchiano più la realtà. Ritengo
invece che sia la vita il nostro punto di riferimento e ogni
riflessione deve farne parte, ma soprattutto deve vibrare del
collegamento con tutta la nostra realtà e non solo con la
dimensione razionale.
Si
aprirebbe qui tutto un capitolo sulla differenza tra il virtuale e
il reale, tra la rappresentazione elettronica e il palcoscenico
vivo. Lo lascio a un’altra occasione perché ora mi preme
sottolineare alcuni pensieri che mi sembrano più significativi(2).
Ho parlato di pensieri perché in
fondo è difficile non pensare soprattutto quando si è in procinto
di scrivere un testo. Anzi credo sia impossibile non pensare, ma è
anche vero che c’è pensiero e pensiero.
C’è un pensiero colorato e un
pensiero meccanico, c’è un pensare creativo e un pensare
ripetitivo, c’è un pensiero calcolante – per usare una riflessione
di Heidegger – e un pensiero meditante(3).
Ma in tutti i casi il pensiero ci
costituisce, ci definisce. Nella cultura occidentale l’uomo è
stato definito come l’essere che pensa, o meglio, per usare la
espressione di Aristotele, l’uomo è l’essere attraversato
dal
logos.
Per cui da ogni parte lo si prenda questo pensiero diventa
preponderante, quasi invasivo e
permea tutta l’esistenza umana. Rimando alla fine una riflessione
sulla funzione del filosofo come essere pensante, quasi
professionista del pensiero.
Ma se
logos
lo
traduciamo non con pensiero ma con parola, operazione
più che legittima, allora l’uomo
non è più solo l’essere che pensa, anche nella solitudine più
profonda, ma l’uomo è l’essere che parla, o per essere più fini
nella traduzione, l’uomo è l’essere attraversato dalla parola.
Ma la parola esige per lo meno una
dualità, bisogna essere in due per parlare; solitamente , pena
l’essere ritenuti folli, si parla a un’altra persona.
Si introduce qui un elemento che,
nel mio modo di procedere è molto importante, si introduce la
RELAZIONE, che ritengo essere fondante lo stesso pensiero,
prodotto, interfaccia tra due esseri. La psicoanalisi, di
qualsiasi scuola, sottolinea che la funzione paterna o materna o
ambedue sono fondamentali nella costruzione del nostro apparato
psichico ed è solo rispecchiandosi nell’altro che io mi riconosco
e penso. È importante sottolineare come sia significativo questo
gioco e come sia importante la persona che mi fa da specchio,
perché influenza decisamente il mio essere come sono. È questo il
paradigma su cui si fonda la pratica psicoanalitica, nell’incontro
di due menti che pensano, che sentono, che soffrono e che
gioiscono. Ma uno spettacolo è pur sempre un incontro con un altro
che rappresenta qualcosa, che fa dei gesti, che si muove col suo
corpo immerso nella musica. C’è, infatti, specchio e specchio. C’è
uno specchio meccanico, che rimanda un’immagine meccanica e c’è
uno specchio umano che rimanda calore, colore, musica e ritmo(4).
Io ritengo anche che la definizione
di essere parlante, più adeguata di essere pensante, si possa
anche affiancare a un’altra. Quella di essere simbolico: l’uomo è
sì un essere che pensa, che parla, ma soprattutto è un essere che
usa il simbolo, anzi è lui stesso un simbolo.
Merita qui di soffermarsi per
chiarire questa posizione. Io ritengo che la dimensione
maggiormente costitutiva dell’essere umano sia il simbolico, dove
per simbolo non intendo il segno che mi rimanda a qualcosa
d’altro, la bandiera, uno stemma... per simbolo io intendo la
relazione nella sua dimensione più profonda. Etimologicamente,
infatti, sappiamo che simbolo deriva da quella tavoletta che
veniva spezzata in due, un pezzo veniva dato a uno, l’altro pezzo
a un altro; si partiva per un viaggio e al ritorno, se tutto
andava bene, i due si ritrovavano e ricongiungevano la tavoletta.
Questa operazione di messa assieme, di relazionare un pezzetto con
un altro è l’operazione simbolica. Il simbolo
mette
assieme (syn
ballo)
mentre il separare (dia
ballo)
è l’operazione
contraria, è il diabolico per
eccellenza(5).
Questa riflessione sul simbolo è
importante per la prospettiva che voglio assumere nel descrivere
quello che ho provato e che ho pensato e che ora “parlo”. Si noti
come l’essere pensante diventa parlante, per prediligere poi il
simbolico, oppure proprio perché è tale (simbolo) può mettere
assieme il pensiero, farlo diventare parola e poi anche riposare
nel simbolo.
Infatti, mi vengono in aiuto due
persone molto importanti per la mia vita: RICOEUR e PANIKKAR.
Il primo
dice che il simbolo ci fa pensare (nous
donne à penser),
cosa che è profondamente vera
proprio perché il pensare è una potente e complicatissima
operazione di relazione a livello biologico, a livello psichico e
a livello culturale(6).
Ma Panikkar ci suggerisce che il
simbolo ci libera dal pensiero, ci permette di non pensare proprio
mentre esperimentiamo la realtà più profonda di noi stessi.
L’amore, infatti, ci può liberare anche dal pensiero e sarebbe ben
penoso fare i calcoli proprio mentre faccio l’amore(7).
Pharmakos
mi ha permesso di vivere questi due momenti, mi ha
liberato dai pensieri, rompendo i
codici interpretativi fissi e rigidi, mi ha indotto a
esperimentare un’emozione, che però non ha ucciso il pensiero,
dato che anche adesso lo sto usando per comunicare con chi leggerà
queste brevi note.
Che cosa c’entra il SACRO con tutto
questo? Bisogna intendersi su cosa si intende per sacro, rompendo
così una caratteristica del sacro stesso che non sopporta
definizioni. Perché la definizione appartiene all’apparire della
ragione che crea distinzioni, che delimita i significati, che
lavora col principio di non contraddizione(8).
Per me il sacro è l’ambivalente, il
non definibile, l’indifferenziato, il numinoso che eccede
l’esperienza normale. Non è il religioso anche se è parente, nel
senso che la religione ha cercato di contenere il sacro, di
codificarlo attraverso il rito. Tuttavia la somiglianza che più mi
colpisce e che io uso quando maneggio il sacro, almeno dal punto
di vista delle descrizioni, come anche adesso sto facendo, è il
parallelo con l’inconscio.
Anche l’inconscio è un po’
pre-umano, anche se fa parte costitutiva dell’uomo, anche
l’inconscio è indifferenziato, come il sogno mette assieme i
contrari, condensa realtà non razionalmente condensabili, eccede
la ragione. Si trastulla col mito, anzi può prevalentemente essere
capito solo col mito, che a sua volta usa il rito.
Ecco
allora l’affinità che io colgo nella rappresentazione di
Pharmakos
di Città di Ebla e il sogno di un
paziente che mi crea le stesse attitudini interpretative, nel
senso che mi fa pensare, ma che mi libera anche del pensiero
perché mi immette in un mondo, quello della follia o
dell’inconscio, in cui non si pensa ma si vive un’esperienza che
eccede il pensare.
È questa la caratteristica
dell’esperienza poetica là dove un termine fora il campo razionale
della sua corretta interpretazione per aprire altri orizzonti, più
liberi, più creativi, più... folli.
Ecco allora che in un primo momento
la reazione allo spettacolo è uno spaesamento, un non capire, ma
poi subentra uno spazio lasciato al vedere, al sentire, al gustare
il sapore di un movimento, di un corpo, di una musica. Entriamo in
una prospettiva che non tocca la ragione che continuamente insinua
la ricerca di un significato per giungere a un momento in cui il
significato non è più impellente e subentra l’emozione. Il
simbolico fa da padrone e si sintonizza con le nostre zone più
profonde, attivando la paura e la felicità, la tenerezza e
l’aggressività, l’amore e l’odio.
In questo
modo mi pare che
Pharmakos
realizzi molto bene
l’ambivalenza presente nel termine
stesso, proprio mentre cerca di rappresentarlo sul corpo, che è il
massimo del simbolismo, proprio mentre è il depositario principe
dell’inconscio.
Mi interessa qui riportare anche un
passaggio epistemico e metodologico che la pratica psicanalitica
ha iniziato. Prima si era molto attenti al quadro psicopatologico,
alla definizione precisa del quadro nosografico che guidava poi i
percorsi terapeutici, oggi si è passati dal quadro al percorso,
nel senso che la pratica quotidiana è diventata importante quanto
e più dell’inquadramento nosografico pur significativo.
Si è
realizzato quel passaggio dalla rigidità del
logos
alla libertà e alla
ricchezza del mito. Prediligendo il
sogno e la dimensione poetica si è accentuata l’importanza della
ricchezza dell’inconscio, che nel tempo si può mostrare con molte
facce e può arricchire così la possibilità di sintonizzazione.
Sintonia che avviene maggiormente col simbolico che con la
ragione. Si è abbandonato il rigore della causalità e dei nessi
causali per prediligere la ricchezza delle contiguità, delle
somiglianze, dei nessi creativi che a volte oltrepassano il rigore
della logica.
Mi piace qui ricordare un passaggio
del bel libro di Salomon Resnik, che incrocia il sacro e
l’inconscio in un capitolo che si intitola “L’oscurità labirintica
dell’inconscio”, dove già la messa assieme di oscurità e di
labirinto evoca pensieri e sensazioni molto ricche. «Lo
psicoanalista che si avventura a penetrare l’oscurità labirintica
dell’inconscio – dice Resnik – deve assumere con prudenza e
delicatezza la sua trasgressione di fronte a uno spazio in certo
modo sacro. L’intimità della cosa è sacra, fare luce o parlare
agli enigmi della notte è una forma di profanazione. Il termine
latino
fanum,
da cui deriva “profano” indica all’origine un luogo sacro,
il tempio. Il profano sarà dunque
colui che è escluso, fuori dal dominio del sacro: il “non
iniziato”. Ogni corpo ha dei confini sacri, ogni corpo è un
tempio. È in questo modo che lo psicoanalista ha anche bisogno di
riti di iniziazione adeguati, per permettergli di entrare in
contatto, di “profanare” lo spazio sacro dell’altro. Nella stessa
maniera, egli dovrà
preservare il proprio spazio sacro grazie al
setting.
E in entrambi i casi egli
dovrà sviluppare un’etica delle
frontiere che gli permetterà di preservarsi da una curiosità
eccitante e sterile»(9).
Ho usato questa lunga citazione
perché mi sembra importante per esprimere quello che ho provato
nella visione dello spettacolo, proprio mentre ne osservavo le
affinità con una dimensione psicoanalitica che ora voglio
riprendere per punti.
Valentina, la protagonista della
scena, rappresenta simbolicamente la dimensione labirintica
dell’inconscio e del sacro. Labirinto perché le entrate e le
uscite non sono lineari, labirintico perché non c’è principio di
non contraddizione in atto, labirinto perché il vero non è
codificato, ma va ricercato nel percorso di tutto lo spettacolo.
Spettacolo che non chiude il codice del vero e del falso, ma che
lascia aperto il linguaggio del mistero. In questo senso siamo in
presenza dell’oscurità che non è negativa, come una certa ragione
ci può far pensare, ma che costituisce proprio l’otre dell’essere.
È l’oscurità ricca che alla base della realtà si è tentato più
volte di dimenticare, di uccidere o di svilire attraverso lo
svelamento, ritenuto uno degli elementi importante di verità.
Mi piace qui ricordare una duplice
accezione di verità, quella
collegata ad
aletheia
(mondo greco), che spinge a togliere il velo, a
svelare
qualcosa che è sotteso e nascosto
nelle pieghe del drappo simbolico, con tutto quello che questa
impostazione sottintende. Una verità che c’è già e che va
scoperta, piano piano, lungo un percorso che potrebbe essere
collegato con un esodo di biblica memoria, come cammino e
passaggio dalla schiavitù alla libertà.
E poi c’è
una verità
emet
(mondo ebraico) che invece si fa, deve
essere costruita con la vita, non
tanto con la ragione, ma con le opere in una concretezza che
rimanda, sempre in campo biblico, alla ricchezza simbolica della
cultura ebraica. Notiamo per inciso come la prima accezione è
soprattutto greca e la seconda ebraica, con le diverse
antropologie che l’accompagnano(10).
Mi pare
che questo possa aiutare a leggere il linguaggio di
Pharmakos,
che può aver bisogno di uno
svelamento e che tuttavia è costruito anche come un’azione che
costruisce un percorso, diverso dalla pura ragione ma più
orientato al sacro, come codice espressivo ricco di ambivalenza.
Ma tutto questo va assunto con
prudenza perché siamo in presenza di un sacro, tremendo e numinoso,
che spaventa e che esige una ragione che lo imbrigli.
Si passa qui alla dimensione sacra
del corpo, ritenuto un tempio che non si deve profanare e che deve
essere accostato con delicatezza e con prudenza per non
vanificarne il mistero. Mi pare qui particolarmente appropriata la
riflessione che mi è venuta spontanea applicare allo spettatore,
ma anche ai confezionatori dell’opera che hanno usato, a mio
parere, questa delicatezza pur nella durezza di alcune scene. Si
sono accostati al mistero con un linguaggio sacro, mantenendo
palpabile l’ambivalenza del farmaco nella sua dimensione di
medicamento e di veleno. Il tutto in un’attitudine di cura che mi
pare rispondere all’esigenza
etica
ricordata da Resnik nella rigorosa accettazione del
setting,
che
psicoanaliticamente è il quadro
indispensabile per l’azione terapeutica e che, dal punto di vista
dello spettacolo, è la cornice in cui tutto viene vissuto e
mostrato.
Vorrei concludere con la
sollecitazione introdotta da una problematica
importante che vede in atto il rapporto tra
logos
e mito, tra ragione e
poesia, tra rigore logico e
immaginazione.
Mi pare un punto che viene a essere
collegato con la fruizione di uno spettacolo come quello che siamo
trattando.
Tutto si concentra sul simbolo come
capacità di unire e non come funzione differenziante. Tutto si
fonda sulla sottolineatura della RELAZIONE come elemento fondante
il simbolo stesso che è relazione.
Si tratta allora di funzionare non
in O/O ma in E/E, attraverso un uso della ragione che non viene
assolutizzata, ma che si affianca all’immaginazione, al mito e
alla poesia.
Mi sembra utile ricordare un passo
del grande Leopardi nello
Zibaldone
il quale
dice: «Chi non ha o non ha mai avuto immaginazione,
sentimento, capacità di entusiasmo,
di eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni,
chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non
sente, o non ha mai letto e sentito i poeti, non può assolutamente
essere un grande vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se
non un filosofo dimezzato, di corta vista, di colpo d’occhio assai
debole, di penetrazione scarsa, per diligente, paziente, e
sottile, e dialettico e matematico ch’ei possa essere; non
conoscerà mai il vero, si persuaderà e proverà colla possibile
evidenza cose falsissime… Non già perché il cuore e la fantasia
dicano sovente più vero della fredda ragione, come si afferma, ...
ma perché la stessa freddissima ragione ha bisogno di conoscere
tutte queste cose, se vuol penetrare nel sistema della natura e
svilupparlo. L’analisi delle idee, dell’uomo, del sistema
universale degli esseri, deve necessariamente cadere in
grandissima e principalissima parte, sull’immaginazione, sulle
illusioni naturali, sul bello, sulle passioni su tutto ciò che vi
ha di poetico nell’intero sistema della natura». Leopardi poi
prosegue con un’ulteriore considerazione sulla natura: «Chi non
conosce la natura, non sa nulla e non può ragionare, per
ragionevole ch’egli sia. Ora colui che ignora il poetico della
natura, ignora una grandissima parte della natura, anzi non
conosce assolutamente la natura, perché non conosce il suo modo di
essere.» (G.
Leopardi,
Zibaldone,
4 ottobre 1821).
Si noti come attraverso il concetto
ampio di natura Leopardi ci dica dell’importanza del poetico che
per noi è il linguaggio delle immagini, ma ci dica anche come è
importante la ragione, il tutto deve essere messo
assieme
attraverso quella operazione del
syn ballo
che abbiamo cercato di evidenziare e che la
rappresentazione di
Pharmakos
ha ben messo in
luce. Luce è un altro dei tanti
elementi che compongono il mosaico, luce è anche una metafora che
voglio usare per azzardare un’interpretazione, che come ogni
interpretazione non è altro che una mia lettura della realtà, ma
che come ogni interpretazione è potente se incrocia il sentire di
altri e crea una risonanza, una sintonia.
Mi pare che la visione di questo
“spettacolo” possa creare una nuova luce che ingenera un
cambiamento nel nostro modo di pensare, di essere e di vivere. Un
cambiamento che è una nuova nascita a una nuova luce, quella della
considerazione dell’uomo come essere simbolico e delle ricchezze
del simbolo come otre, in cui vivere le profonde esperienze della
nostra esistenza misteriosa, ma pur anche bella.
Note
dell'Autore:
(1) W.
Bion,
Memoria del futuro. L’alba dell’oblio,
trad. it., Raffaello Cortina, Milano
2007.
(2) G.
Palo,
La
Comunicazione nel mondo contemporaneo,
in
«Bioetica e cultura», VIII,
2 (1999).
(3) M.
Heidegger,
L’abbandono,
trad.
it., Il Melangolo, Genova 1988.
(4) G.
Palo,
Psicosi un problema di metodo,
Psicomotricità, Milano 2003.
(5) G.
Palo,
L’arte del pensare. Sensibilità estetica e stato adulto della
mente,
Tirrenia
Stampatori, Torino 2007.
(6) P.
Ricoeur,
La
memoria, la storia, l’oblio,
trad. it., Raffaello Cortina, Milano 2003.
(7) R.
Panikkar,
La
porta stretta della conoscenza,
trad. it., Rizzoli, Milano 2005.
(8) U.
Galimberti,
Il
tramonto dell’Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers,
Feltrinelli, Milano 2005.
(9) S.
Resnik,
Biografie dell’inconscio,
trad. it., Borla, Roma 2008.
(10)
G. Palo, in AA.VV.,
La
mente dell’anima. Incontri al confine tra esperienza del sacro
e psicoanalisi,
Aracne, Roma 2008.
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