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  "IL MITO". Mostra di Marc Quinn a Verona

 

 

 

 

Foto:"Selfish Gene" (2007), opera di Marc Quinn esposta nella Casa di Giulietta a Verona

 

 Dal 23 maggio al 27 settembre 2009 è in corso a Verona, nella Casa di Giulietta, la mostra "Il Mito" di Marc Quinn, evento collaterale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte "La Biennale di Venezia". Proponiamo in questa pagina l'intervista rilasciata dall'artista britannico a Jason Shulman. Le foto a corredo di questa pagina sono state scattate da Giuseppe Leo il 25.06.2009.


 

 

 

Jason Shulman: Perché l’idea di organizzare una mostra nella Casa di Giulietta ti attira molto di più di un’esposizione in un museo d’arte contemporanea?

Marc Quinn: I templi o i luoghi di culto mi hanno sempre interessato. Non esiste nulla di altrettanto straordinario che visitare, ad esempio, un tempio dell’India meridionale per vedere l’ultima civiltà classica rimasta in vita che funziona come mille anni fa.

Spesso pensiamo ormai di essere diversi, ma in realtà nell’uomo permane la necessità di trovare uno spazio sacro, persino nel nostro mondo secolarizzato. Al livello più banale, questo bisogno si concretizza, ad esempio, nei negozi, luoghi frequentati da migliaia di persone, oppure nelle folle che si assiepano per la prima di un film sognando di intravedere le star, come se fossero pellegrini hindu che sperano di contemplare il loro dio. Ciò che amo della Casa di Giulietta è che rappresenta un tempio vivente dedicato all’idea dell’amore. L’amore è una di quelle idee astratte con le quali modelliamo le nostre vite; quella di Giulietta ha subito un’evoluzione ed è diventata una sorta di santuario laico. Giulietta Capuleti è il personaggio di una tragedia di Shakespeare, forse basata su una persona realmente esistita, ma che non è quella rappresentata nell’opera del drammaturgo inglese. In ogni modo, nessuna delle due ha mai vissuto in quella casa. Si tratta di una casa scelta per diventare qualcos’altro. Quindi, quello che le persone vengono a visitare non è un luogo reale, bensì un luogo interiore. Penso che il mito, che è il sogno della società, sia analogo all’arte. Quindi la Casa di Giulietta diventa una sorta di stazione spaziale del sentimento. Un luogo reale, una casa, è in qualche modo diventata la rappresentazione di un’astrazione: la Casa di Giulietta che esiste solo nell’immaginazione.

Tutto ciò è strettamente collegato a Siren, nel modo in cui la vera Kate Moss e la sua immagine sono state separate e conducono vite diverse. La persona Kate è come la Casa di Giulietta: una persona reale, con una vita vera, e nello stesso tempo un’astrazione, “la persona più bella del mondo” o la perfezione, qualcosa che va oltre la vita. Il mito è ciò che consente al reale e all’irreale di coesistere, una sorta di collegamento situato nello spazio architettonico della sua struttura. Noi camminiamo letteralmente dentro questo spazio di sogno.

    Foto: "Siren" (2008)

JS: E i tuoi love paintings, che mi pare siano eseguiti in situ?

MQ: I graffiti all’ingresso della casa mi interessano molto perché hanno una purezza e un’ambizione straordinariamente toccanti. La Casa di Giulietta è un luogo sì immaginario, ma

nel quale è possibile esplorare i nostri veri sentimenti nei riguardi dell’idea di amore; ai miei occhi i graffiti sulle pareti dell’ingresso sono un autentico sogno a occhi aperti, immateriale, il che in un certo senso è proprio ciò che l’arte rappresenta. Ciò che è interessante è che di solito i graffiti sono scatologici e negativi o trasgressivi, mentre questi sono graffiti di sogni e aspirazioni. Un’illusione, stupenda, che ci svela aspetti del cuore umano.

Mi sono limitato a far disporre alcune tele sulle pareti nell’ingresso della casa; le persone che stavano eseguendo i graffiti non hanno notato alcuna differenza perché la tela era bianca e copriva la parete. Ciò che ne risulta sono dipinti bell’e fatti di emozione allo stato puro. Portandoli nuovamente nella casa viene a rovesciarsi la nostra percezione di ciò che è reale e del luogo dove i due si incontrano. In una certa misura, la Casa di Giulietta, Siren, le emozioni abitano tutti in uno spazio virtuale e, secondo me, i love paintings sono le finestre che danno su questo spazio. Ogniqualvolta li guardo, mi sembra di volare attraverso i pensieri e i sentimenti delle persone, mi sembra che siano senza peso, come i dipinti di paesaggi del mondo virtuale nel quale tutti abitiamo; non solo in Internet, ma anche nel primo spazio virtuale che ci accompagna dall’inizio della coscienza: la mente e il cuore dell’uomo.

JS: Le tue sculture spesso rappresentano persone realmente esistenti, come Kate Moss, Alison Lapper, Thomas Beatie, tua moglie, tuo figlio e così via. Vuoi ritrarre i soggetti come veramente sono o simboleggiano un’idea astratta?

MQ: Non è solo Kate Moss a essere sia una persona reale che un’immagine, anche ognuno di noi presenta entrambe le qualità. Potrebbero non essere espresse pubblicamente, ma in un certo senso il mio lavoro è quello di trovare persone che possano rappresentare idee ed emozioni che abbiano un senso nella mia arte: essere sé stessi e in qualche modo rifrangere qualcosa del mondo come io lo vedo.

Per esempio Thomas Beatie, il “pregnant man”, è la scultura di una persona che ha iniziato la propria vita come donna e poi, con l’aiuto della chirurgia e assumendo il testosterone, è diventata uomo. Lui/lei ha deciso che voleva un bambino quindi ha smesso di prendere il testosterone ed è rimasto/a incinto/a. Questa è la storia vera della persona Thomas Beatie. Per me questa scultura è un’immagine che riflette le incertezze e le contraddizioni del tempo nel quale viviamo, dove tutto ciò che sembra sicuro si sta spostando, una sorta di mondo a specchi.

 

Eppure l’immagine che Beatie fornisce è di speranza e positività, perché contiene il grande mistero della creazione della vita all’interno del suo ventre e l’emozione reale con la quale egli contempla tutto ciò.

La scultura di Alison Lapper nasce da una serie di opere che per me costituiscono un punto d’incrocio. In origine l’idea era di tipo concettuale: mi trovavo al British Museum e al Louvre e guardavo le persone che ammiravano la scultura classica frammentata, in particolare nel caso di Alison, la Venere di Milo. Ho pensato che se nella sala fosse entrata una persona reale, il cui corpo avesse avuto la stessa forma delle sculture, il pubblico avrebbe avuto una reazione esattamente opposta. Sembrava che ci fosse un divario tra ciò che era accettabile nell’arte ma non nella vita, e questo concetto mi è parso degno di essere esplorato a fondo. Poi, quando ho iniziato a realizzare queste sculture – Peter Hull è stata la prima – sono diventate immediatamente celebrazioni delle persone reali che ne costituivano i modelli; esse sono quindi sia la rappresentazione reale sia quella concettuale; dipende dalla persona, da quanto l’immagine è lontana dalla persona reale. Per esempio, nel caso di Kate Moss direi che l’immagine ha una vita completamente autonoma e complessa.

JS: Quindi Siren è una continuazione di questa idea di rappresentare le persone e le loro immagini?

MQ: Sì, la continuazione e il limite estremo. Questa è una delle ragioni per le quali doveva essere in questa mostra, poiché, come ho già detto, la Casa di Giulietta è una manifestazione architettonica della stessa idea: ha una vita reale come casa e una vita come l’idea “Casa di Giulietta”.

 

 

JS: Negli ultimi anni hai realizzato una serie di sculture di Kate Moss che sembrano culminare in Siren.

MQ: Sì, presumo perché questa immagine poteva essere qualsiasi cosa, plasmata dai nostri meccanismi collettivi ma che a sua volta ci plasma; è stato molto interessante esplorarla a fondo. Per esempio, in Laocoon Kate l’immagine è ingarbugliata, non con serpenti che cercano di divorarla – come nella scultura classica esposta in Vaticano e che porta lo stesso nome –, ma su se stessa, nelle sue braccia e nelle sue gambe; è replica e riflessione senza controllo.

Poi in Golden Road to Enlightenment abbiamo l’altra punta estrema dell’ascetismo, dove il corpo sta sfiorendo ma il viso non cambia, quell’idea che le persone vivono nella quarta dimensione temporale e le immagini sono fuori del tempo. Nella storia della vita di Buddha c’è una parte nella quale egli deve unirsi a un gruppo di asceti e rinuncia al cibo quasi fino a morire, ma poi rifiuta tutto ciò come via verso l’illuminazione e sceglie la via di mezzo.

La mia scultura si basa su quella di un leggendario periodo Gandharan, con lo stesso soggetto, che si trova al museo di Lahore. Tuttavia, nel mondo moderno quell’impulso ascetico è stato corrotto ed è diventato l’ossessione di essere magri che sfocia nell’anoressia, un’assuefazione da controllare veramente. Naturalmente i nostri corpi e le nostre vite sono completamente senza controllo, al punto tale che non possiamo fermare il tempo, dobbiamo correre con esso.

[…]

 

JS: In un certo senso, anche la scultura Selfish Gene rientra in questo quadro.

MQ: Sì, Selfish Gene, i due scheletri che fanno sesso, mostra come siamo schiavi di impulsi invisibili ai quali diamo sfogo, anche fino alla morte. Siamo esseri importanti dotati di libero arbitrio, ma da un altro punto di vista siamo solo robot vittime dei nostri geni, la cui volontà di riprodursi è come la volontà della pianta che cresce o del neonato che succhia, qualcosa di irresistibile e inconscio. È’ ironico, ma anche una celebrazione del nostro lato animalesco.

JS: Nel locale più ampio hai esposto una serie di flower paintings e alcune sculture floreali di bronzo in colori brillanti. Come si conciliano con la tua idea della mostra?

MQ: Beh, in un certo senso, il mio interesse per un corpo e la sua immagine che si separa è iniziato quando ho realizzato le sculture di fiori congelati, per esempio il giardino congelato (Garden, 2000) che ho realizzato alla Fondazione Prada, a Milano.

Si prende un fiore, lo si immerge in un serbatoio di silicone congelato dove immediatamente si congela e muore, mantenendo però il suo aspetto di fiore fresco. Così, da un fiore fresco improvvisamente si ricava una scultura di un fiore fatto con gli stessi atomi del fiore fresco, ma in qualche modo riconfigurato per essere un’immagine di quel fiore. In un certo senso, si tratta di una decostruzione della creazione di un’opera d’arte da un modello vivente. Partendo da questi, ho realizzato grandi sculture per esterni che rappresentano l’immagine pura e semplice di un fiore. Sono piatte, come un’immagine, e con dimensioni illimitate. Raggiungono i dodici metri di altezza, sono visitatori del nostro mondo in 3D, provenienti da un mondo virtuale piatto. Ciò che mi piace è che se le fotografi in situ la fotografia che si ottiene sembra sia stata fatta con Photoshop. Sono una letteralizzazione dello spazio virtuale del computer o della mente.

Successivamente ho realizzato sculture di bronzo di piante in fiore fuse dal vivo. Per anni, i fonditori e i tecnici mi avevano detto che non era possibile eseguire una gettata in bronzo di un fiore con lo spessore reale. Ma dopo aver lavorato molto e duramente, dopo aver fatto prove ed errori con le persone con le quali collaboro, abbiamo trovato il modo di farlo.

Gettando ogni fiore e ogni parte separatamente, sono riuscito a mettere assieme piante irreali totalmente realistiche. Questo si ricollega anche al mio interesse per il DNA e per la manipolazione genetica.

Nel caso di queste sculture dipinte, (la serie “The Chromatic Nurseries of Eldorado”) il colore è quello che chiamerei spostamento. È scorporato da parti specifiche delle piante e giace sulla superficie come una sorta di ectoplasma. È quasi come se fossimo testimoni del momento della trasformazione di qualcosa che si muove dal reale nel regno dell’arte.

Come nella Casa di Giulietta e in Siren, si avverte la tensione tra il reale e l’immagine. In questo caso, il reale proviene dalle forme gettate e l’immagine dalla vernice colorata saturata. […]

 

 JS: GGGTDDAAGTTDAAGTATG è una scultura di tuo figlio Sky, che cammina in un paesaggio arido pieno di dinosauri morti, indossando una fascia di perline che è la struttura della molecola del DNA. Come è nata quest’opera?

Foto: "GGGTDDAAGTTDAAGTATG"(2009)

MQ: Ho un amico che ha una collezione straordinaria di opere d’arte provenienti dal Sudest asiatico, e da lui ho imparato che molte sculture in origine erano ornate con gioielli: collane, orecchini e fasce. Trovavo quindi interessante il fatto che su una scultura vi fossero due strati, una sorta di carne e scheletro. La pietra è durata e durerà migliaia di anni, ma molti gioielli sono andati perduti, anche se su alcune sculture i gioielli sono rimasti.

Di solito le sculture in pietra sopravvivono all’uomo, ma con queste parti contingenti si dà loro una vulnerabilità e una bellezza con le quali possiamo identificarci. Sono anche portate nel mondo di Mamon perché di questi gioielli non ne sono rimasti molti; sono stati fusi e utilizzati per altri scopi.

Nel caso di GGGTDDAAGTTDAAGTATG, la figura del ragazzo è la forma creata dal percorso delle informazioni contenute nel DNA che attraversano una macchina biologica (la madre).

La fascia è un’astrazione, una sorta di equivalente della struttura della molecola, come la scultura figurativa è l’equivalente del corpo umano. Quindi in questa scultura, abbiamo l’aspetto astratto e quello figurativo che descrivono la stessa cosa. È una sorta di celebrazione ottimistica del futuro della razza umana, della sua capacità di sopravvivenza.

JS: Da dove hai tratto il titolo?

MQ: È una sezione casuale della sequenza del DNA. Un’altra cosa che mi è piaciuta è che suona come la parlata di un bambino, l’inizio del linguaggio, della comunicazione e della scoperta.

 

 

 

 

 

 

             

 

 

                    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

        

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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