Contenuti
e contesto che riportano alla memoria uno dei più
tristemente noti momenti storici in cui la combinazione
letale di patologia politica e tecnica dell’informazione
creò non solo una diversa visione del “mondo nuovo” ma
scatenò una disastrosa guerra mondiale. Benché
ideologicamente opposti alla Rivoluzione russa, negli anni
trenta il fascismo italiano e quello tedesco ne imitarono
l’innovativa tecnica dell’agitprop, impadronendosi del
potere – e della realtà – tramite la manipolazione
fotografica, radiofonica e cinematografica. In una serie
di autorevoli saggi sul significato politico dei nuovi
mass media, Walter Benjamin giunse a tre punti critici
conclusivi che sono perfettamente in linea sia con la
mostra sia con la nostra condizione attuale:
• Lo storicismo che mostrava la realtà “così com’era
veramente” è stato il più forte narcotico del secolo.
• La storia si frantuma in immagini, non in storie.
• In tempi di terrore, quando ognuno diventa una specie di
cospiratore, ci troviamo nella situazione di dover giocare
al detective1.
Da allora è passato un secolo, e dopo l’11 settembre ne è
nato un altro, improntato all’estremismo teologico, al
fondamentalismo tecnologico, alla sovrabbondanza di
immagini violente. Per mettere insieme le cognizioni
necessarie e coordinare la macchina da guerra che, al
costo di diverse centinaia di migliaia di dollari, ha
ucciso tremila persone e causato danni per oltre
duecentocinquanta miliardi, i combattenti della Jihad
hanno usato Internet ed e-mail, telefoni cellulari e
simulatori di volo. Prima dell’11 settembre esisteva un
solo sito di Al Qaeda, dopo ne sono comparsi centinaia.
Per ritorsione gli Stati Uniti, volendo combattere in
Afghanistan e in Iraq una “guerra virtuosa”, high-tech e a
basso rischio, hanno messo in campo accanto alle forze
convenzionali i metodi della sorveglianza globale, la
comunicazione in rete, armi intelligenti, aerei
robotizzati, simulazioni in tempo reale e guerra
dell’informazione. Alla periferia delle guerre reali si è
sviluppato un campo di battaglia virtuale che ha preso la
forma di blog pieni di invettive cospiratorie, video
hip-hop prodotti col marchio “digihad” (Jihad digitale),
come “Dirty Kuffar” (sporco infedele), sciami mutanti di
attivismo contro la guerra e, nell’ombra, appaltatori
privati che mettevano in pratica nuove tecniche di
controllo e data-mining. Vecchi e nuovi media convergevano
così nell’identificazione di amici e nemici, amplificando
e moltiplicando la paura dell’altro. Ancora una volta la
realtà diventava un incubo dal quale sembravamo incapaci
di risvegliarci. Gli ammonimenti di Walter Benjamin
tornano a ossessionarci.
Portare alla luce, stigmatizzare, e tanto più sradicare
queste oscure espressioni del conflitto politico non è
compito facile. Le immagini sono portatrici di significati
multipli, anche quelle di guerra. La tentazione di
affibbiare titoli univoci a immagini polisemiche – di
ridurle alla loro singolare “realtà, così com’è veramente”
– è il potente, ma “non realistico” narcotico del Potere.
Non vi è Stato, o stato d’animo, in grado di esercitare
piena autorità sulla infosfera contemporanea; il che,
ovviamente, non impedisce a molti di provare a farlo. Con
l’emergere di nuovi, potenti attori in un mondo sempre più
eteropolare, la politica è soggetta a un inevitabile
processo di frattalizzazione e balcanizzazione. E mentre
lo spettacolo della guerra cede il passo alla guerra degli
spettacoli, la celebre massima di Clausewitz viene
pienamente e definitivamente invertita: la politica
diventa una continuazione della guerra con mezzi virtuali.
Foto: Paolo Ventura, "Iraq"(2008) |
Con i lavori della sua ultima serie fotografica, Paolo Ventura si confronta con la rappresentazione della recente guerra in Iraq diffusa dai media occidentali. Le foto dell'artista non mostrano direttamente azioni di conflitto ma immagini parziali o contenenti solo riferimenti indiretti, a partire dai quali l'osservatore può formulare una possibile ipotesi sullo svolgimento dei fatti.Manca alle immagini l'accompagnamento della consueta cronaca giornalistica, che spiega il contenuto dello scatto e lo situa in un determinato contesto di eventi. All'osservatore le immagini di Ventura risultano note, quasi familiari. Si ha come l'impressione di averle già viste, poiché condensano in sé i soggetti, le prospettive e lo stile fotografico a cui siamo in un certo senso abituati attraverso, ad esempio, le fotografie fornite dai giornalisti al seguito delle truppe. Ma l'iniziale impressione di riconoscere stile e soggetti lascia posto ben presto al dubbio sull'autenticità della rappresentazione. Diversi elementi suscitano la sensazione di una certa artificialità dell'immagine, sebbene si mantenga un effetto forte di realismo che potremmo definire quasi tattile. In realtà le fotografie di Ventura non sono state scattate in Iraq, bensì nel suo atelier di New York. I soldati non sono altro che manichini costruiti dall'artista; il mondo che li circonda è un modello preparato e costruito artigianalmente. Le installazioni di Ventura sono una sorta di visione sintetica di tutte le immagini della guerra legate alla memoria collettiva. |
Poi
però, nelle strade di Fallujah e nella provincia di Al
Anbar è accaduto qualcosa: il principio di realtà della
guerra è violentemente ricomparso nella forma di cadaveri
che di virtuale non avevano proprio niente. La campagna
“shock and awe” (terrore e sgomento) ha ceduto il posto al
contro-terrorismo e alla controinsurrezione e il problema
di rendere il senso della violenza – catturarne il
significato in un titolo – non è certo scomparso: anzi, si
è ulteriormente amplificato. Il “terrorismo” ha cominciato
a manifestarsi in forme e modi plurimi, diventando a tutti
gli effetti la pornografia politica della modernità. Che
sia messo in atto tramite ordigni esplosivi improvvisati o
in forma di attacchi aerei a sorpresa, nel nome di Allah o
come atto di “guerra giusta”, il terrorismo non ha potuto
più essere definito né distinto dalla guerra: lo si
conosce solo quando lo si vede. Tuttavia, a causa
della moltiplicazione degli attori e della profusione dei
media, non tutti lo guardano allo stesso modo, e ciò rende
ancora più difficile condannare o giustificare una forma
di violenza rispetto a un’altra. O, per citare ancora una
volta le parole di Benjamin: “Gli aspetti più
violentemente disastrosi della guerra imperialista sono in
parte il risultato dell’enorme discrepanza tra il
gigantesco potere della tecnologia e l’insignificante
illuminazione morale che questo procura”2.
Se Benjamin ci ha indicato la direzione giusta, è pur vero
che non ha vissuto abbastanza per assistere – in epoca
post-Olocausto, post-Hiroshima e, ora che la vendita di
videogiochi supera quella dei botteghini cinematografici,
post-Hollywood – alla formazione di una scellerata
alleanza di tante nuove tecnologie, così distruttive e
seducenti.
Oggi che l’immagine tremolante dei cinegiornali è stata
sostituita dall’onnipresente YouTube e le voci
intermittenti delle trasmissioni radiofoniche hanno ceduto
il passo agli aggiornamenti istantanei di Twitter, abbiamo
bisogno di nuove guide per uscire dal labirinto creato
dalla rete militare, industriale, mediatica e
dell’entertainment (MIME-NET). Altri hanno raccolto la
sfida. Per evadere dalla gabbia di una società dello
spettacolo in cui “tutto ciò che prima veniva vissuto in
maniera diretta è stato trasformato in una
rappresentazione”, Guy Debord ha proposto il potere
sovversivo della “deriva psicogeografica”, il metodo
preferito dai situazionisti per studiare gli effetti
patologici di un ambiente geografico, sui suoi abitanti
come sull’osservatore di passaggio3. Per
contrastare i pericoli dei simulacri Jean Baudrillard ha
messo in guardia contro un gruppo “che vagheggia una
miracolosa corrispondenza del reale ai propri modelli e
pertanto una manipolazione assoluta”4. E per
evitare di diventare un’altra vittima della “guerra delle
immagini”, Paul Virilio ha proclamato che “vincere oggi,
si tratti di un mercato o di una battaglia, significa
semplicemente non perdere di vista se stessi”5.
Foto: Beate Gütschow, "S#10"(2005) |
Le opere di Beate Gütschow appartenenti al ciclo "S"("Stadt", città) sono fotografie in bianco e nero di architetture e di paesaggi urbani, di luoghi che a volte recano tracce di devastazione o che appaiono parzialmente incompiuti. L'allarmante, assoluta staticità degli scenari, in cui non è visibile alcuna traccia di vita, provoca nell'osservatore un senso di oppressione. E' un'atmosfera sospesa, rarefatta, quasi apocalittica quella che regna su queste immagini, un'atmosfera che conosciamo dai reportage fotografici realizzati in zone di guerra. (...) Queste immagini sono il risultato di un lungo lavoro di elaborazione digitale delle fotografie di varie città, assemblate a formare una nuova veduta unitaria. nei suoi collage digitali, Beate Gütschow costruisce delle scene urbane a partire da un'insieme eterogeneo di soggetti da lei stessa fotografati, da motivi prelevati da libri o da immagini d'archivio.(...) Le fotografie della Gütschow mostrano paesaggi urbani in realtà inesistenti: il suo lavoro diviene simile a quello di un pittore di paesaggio che parte dall'osservazione della realtà ma che, nel proprio studio, giunge all'opera finale operando una sintesi tra realtà e memoria. |
Per non perdere di vista se stessi è necessario essere
disposti a riconoscere lo sguardo dell’altro, a rendersi
conto che l’identità non esiste senza la differenza. Altro
compito non facile, quando il settore della difesa insieme
alle industrie dell’informazione e dello spettacolo,
attraverso giochi di guerra, mediatici e linguistici,
predispongono non certo il riconoscimento, ma, al
contrario, la cancellazione dell’altro. Qualsiasi
alternativa di pace, simile alla luce che viene
risucchiata in un buco nero, scompare nel grande Triangolo
della Simulazione formato dal Pentagono, da Hollywood e
dalla Silicon Valley. Diventa dunque comprensibile il
motivo per cui accettiamo una seducente simulazione
rispetto a una realtà inaridita, la mappa rispetto al
paesaggio. Ma che cosa accade quando, come nella celebre
mappa dell’impero di Borges, l’immagine si fa veramente
globale, una mappa senza confini? Dove andranno allora i
mostri?
Foto: Andreas Gefeller, "Ohne Titel (Sieberei)", (2003) |
Con le sue grandi immagini ricche di dettagli, Andreas Gefeller mira a elaborare un modo nuovo di guardare la realtà.(...). Il titolo della serie "Supervision" contiene già un riferimento alla prospettiva prescelta. Soggetto delle immagini sono gli interni disabitati delle case popolari costruite in serie, tipiche dei paesi dell'Est. I singoli appartamenti, tutti identici per planimetria, sono deserti ma recano tracce dell'arredamento e della presenza dei loro ex abitanti. La particolarità di queste immagini sta nella prospettiva dall'alto, che ci mostra le stanze come se fossero prive di soffitto. Si viene così a creare una visione irrealistica e quasi straniante, in conflitto con il comune modo di vedere un luogo: la macchina fotografica sembra essersi mossa come un satellite sopra gli oggetti e gli spazi ritratti, di cui fornisce una sorta di sorprendente mappatura. Le opere di Gefeller non sono ottenute tramite un'unica ripresa. Le immagini sono il risultato di un lungo processo di studio dello spazio che l'artista intende fotografare, che percorre passo per passo, sezione per sezione. La macchina viene posizionata a due metri di altezza dal suolo e, fissata al corpo dell'artista tramite un'asta, scatta ogni singola posizione, come a scansionare il luogo, per poi ricomporlo al computer in un fotocollage digitale. (...) Il gesto continuamente ripetuto dello scatto fotografico contiene in sé un aspetto che potremmo quasi definire meditativo. La ripetizione della stessa operazione, la fisicità e la corporeità di questo processo costituiscono un elemento di cesura rispetto alla tradizionale distanza che caratterizza l'intervento del fotografo. In alcune delle immagini si possono addirittura notare le tracce che l'artista ha lasciato con il suo avanzare nell'ambiente; in "Sieberei" (lett. impianto di vagliatura), per esempio, vediamo le orme impresse nella polvere di carbone, che diventano testimonianza della dimensione temporale che interviene direttamente nel suo lavoro. |
I partecipanti a questa mostra offrono alcune risposte
problematiche, quand’anche incomplete. A loro va il merito
di essersi avventurati là dove studiosi e policy maker non
osano avventurarsi, con una reazione storicamente
sensibile, politicamente informata ed esteticamente
affascinante all’era dell’info-terrore. Contrapponendo
alla miopia della politica l’ossiopia dell’arte, ci
costringono a rivolgere nuovamente lo sguardo alle
macchine belliche e mediatiche e a immaginare modi
migliori di risolvere il conflitto politico. Iniettando
una dose omeopatica di cattivi umori nel corpo malato
della politica, questi artisti possono farci guarire dal
male che ci sta uccidendo.
Note:
1 Walter Benjamin, Das Passagen-Werk, Suhrkamp
Verlag, Frankfurt 1982 e Charles Baudelaire: Ein
Lyriker im Zeitalter des Hochkapitalismus,
Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1955.
2 Jeffrey Mehlman, Walter Benjamin for Children: An
Essay on His Radio Years, University of Chicago
Press, Chicago 1993. 3 Guy Debord, La société du
spectacle, Editions Buchet-Chastel, Paris 1967.
4 Jean Baudrillard, Simulacres et Simulation,
Galilée, Paris 1981.
5 Paul Virilio in “Block 14”, autunno 1988.