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Nel settembre del 2002 mi fu proposto
dall’IAAP (Associazione Internazionale di Psicologia Analitica) di
seguire un gruppo di otto persone a Tunisi per una analisi personale,
nell’eventualità di formare un primo nucleo di analisti junghiani
tunisini allo scopo di fondare una futura associazione. Era passato
un anno esatto dalla tragedia delle Torri Gemelle e il rapporto con il
mondo arabo stava diventando tragicamente imprescindibile. Era come
se, improvvisamente, l’Occidente avesse scoperto nel peggiore dei modi
l’esistenza di un mondo e di una cultura che, a parte poche
eccezioni, aveva come rimosso. Mi sembrava che mi si offrisse una
possibilità, anche se limitata, di avvicinarmi in presa diretta a quel
mondo che anche io conoscevo poco e per sentito dire. Ciò che mi
veniva chiesto di fare però mi inquietava e mi poneva molte domande.
Provo brevemente a riassumerle:
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1) Gli strumenti tecnici di cui
disponevo, “il mio sapere” erano utilizzabili in un contesto così
diverso e sconosciuto?
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2)
Quale doveva essere il mio assetto
mentale per poter contattare quella che sentivo come una diversità
radicale?
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3) Correvo il rischio di fare
inconsapevolmente una operazione di “colonizzazione psichica”, di
riportare ciò che appariva così diverso all’identico, al noto, al
conosciuto? In altre parole i miei concetti di normalità e patologia
erano utilizzabili o rischiavano di diventare per me una sorta di
cecità?
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-
Riassumendo: è possibile per
un’analista non arabo né musulmano analizzare una persona araba e
musulmana?
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Ed ancora la lingua…è possibile
entrare in contatto con gli aspetti più fondi della psiche
utilizzando una lingua che non sia una “lingua madre”?
Era forse questa la domanda che più mi
girava nella testa, quella che sentivo come più inquietante, ma che mi
sembrava mi potesse aiutare a trovare una qualche risposta.
Proprio pensando a quale lingua avremmo
dovuto utilizzare, il francese ovviamente, mi è venuta in mente
un’ovvietà: il francese sarebbe stata una lingua straniera per
entrambi, per me e per il mio futuro paziente, e improvvisamente
questa non mi è più sembrata solo una limitazione, ma un primo
importante punto di vicinanza, una specie di terra di nessuno che
avremmo dovuto abitare insieme, una terra neutra.
Questa parola spesso la usiamo in senso
negativo: il neutro è l’indifferenziato, l’incapacità di impegno,
l’equidistanza amorfa, la passività anaffettiva, il vuoto di pensieri
e di sentimenti, mentre a me sembrava (proprio nell’accezione
etimologica di 'neuter': né l’uno né l’altro) che definisse
quel luogo dove è possibile trovare la radice comune a tutti gli
esseri umani, quella radice che può farli oggetto di curiosità e
forse di amore, grazie a questa porzione comune neutra, ma anche
sconosciuta e ignota che ci accomuna.
E poi la parola neutro mi faceva anche
pensare ad una sorta di contenitore, proprio come quello che io
utilizzo nel Gioco della Sabbia. E’ questa una tecnica che, nata come
una modalità di lavoro con i bambini, ha mostrato una grande
potenzialità terapeutica nel lavoro con pazienti adulti. Non solo
perchè l’uso di un “gioco” per un adulto significa accettare che il
pensiero razionale e la parola non facciano più da padroni del campo
analitico, ma anche perchè, spostando l’attenzione dalla parola al
gesto che conduce il “gioco”, si lascia parlare l’inconscio senza
l’intermediario del pensiero razionale. Ma quel che mi sembra
importante sottolineare, rispetto al discorso che qui mi interessa, è
il fatto che l’attenzione del terapeuta debba essere rivolta non solo
a quello che il paziente sceglie di mettere dentro la sabbiera, cioè a
quali oggetti scelga tra i molti che sono a sua disposizione (oggetti
in miniatura che rappresentano il mondo animale, umano, vegetale,
inanimato, ecc.), ma soprattutto al come li dispone , quali zone della
sabbiera scelga, con quale sequenza, con quale ritmo, con quali
priorità. Il contenitore permette, proprio per la sua funzione di
circoscrivere uno spazio, di evidenziare il modo in cui, in quel
momento, il giocatore si rapporta e si rappresenta la sua situazione
inconscia. Non verbalizzandola, in quanto non conscia in quel momento,
ma rappresentandola metaforicamente nelle sabbiera, all’interno di un
contenitore1.
Il contenitore potevo sentirlo come
quell’aspetto universale la cui tenuta poteva forse corrispondere ad
un’idea di sanità psichica non culturalmente connotata, così come la
sofferenza o la patologia potevano rappresentare, al di là delle forme
specifiche e, per così dire, degli “oggetti” in essa contenuti, una
falla, una mancanza di tenuta. Quello che allora mi sembrava possibile
provare a reintegrare non sarebbe stato il contenuto, perché questo
varia con la soggettività e la cultura, ma proprio il contenitore. E
forse questo anche un’analista di cultura e religione diversa, può
riuscire a farlo.
Infatti, mentre ciò che può essere
re-integrato, restaurato o cambiato all’interno del contenitore ha a
che vedere con la cultura e con la storia personale di quella singola
persona sofferente, il compito dell’analista dovrà invece essere
quello di aiutare il paziente a riparare “l’apparato-contenitore”, nel
rispetto di quello che egli vorrà poi mettere o non mettere dentro.
Se, come analista non musulmano, mi lascerò intrappolare e sviare
dalle mille incursioni e dai mille tentacoli che la religione infiltra
nella vita quotidiana di un essere umano musulmano (preghiere,
abluzioni, rituali, digiuni...), arretrerò di fronte a qualcosa per me
incomprensibile. Oppure cercherò di capire il valore profondamente
emotivo che ha, ad esempio, il vissuto di “h’aram” (l’illecito) nei
confronti della comunità familiare e sociale (la “umma”) paragonandolo
al sentimento del peccato per la cultura cattolica. Ma così facendo
avrò ricondotto il diverso all’identico, l’ignoto al noto, non avrò
centrato il bersaglio e sicuramente non sarò stata in grado di
ascoltare veramente chi ha portato in seduta questo particolare
contenuto di sofferenza. Ciò che dovremmo invece cercare di fare è
favorire un processo di reintegrazione del senso di dignità e di
autostima che il vissuto di 'h’aram' ha messo in discussione o
distrutto, nei modi e con i contenuti che al paziente sembrano adatti
. E questo a prescindere da quanto siamo disposti, partendo dalla
nostra visione culturale, a condividere le sue scelte re-integrative.
Ma non è questo che dovremmo fare anche con chi è della nostra stessa
cultura e religione?
Straniera: io straniera per i miei
pazienti e loro per me. Ma questa era proprio una condizione anomala
o è un vissuto familiare, comunque, anche in patria? Ho pensato al
luogo dell’analisi. Luogo di incontro tra due stranieri, o meglio
luogo di intersezione e di transito, in cui ciò che era estraneo
all’inizio (paziente e analista) tale ridiverrà alla fine.
E poi l’altro grande straniero con cui
ci si confronta in analisi è l’inconscio, irriducibile al noto, che
può essere detto solo con una parola anch’essa straniera:
l’interpretazione, infatti, rompendo abitudini e aspettative di
comprensione, trans-ferisce un senso perduto in un altro, che accetti
però e contenga la perdita. In questa inevitabile disattesa del
rimpatrio si rivela la radicalità dell’esilio della parola
dell’analista.
Nel 1915 Freud nella Metapsicologia
dice una frase sorprendente “…una minima riflessione mostra che
l’identità del ricordo comunicato con quello rimosso non è che
apparente. Aver capito e aver vissuto sono due cose di natura
psicologica del tutto diverse, anche se hanno un identico contenuto…”.
Eppure la seduzione di ridurre l’ignoto
e lo straniero al noto e familiare è molto forte perché ci aiuta a
vincere quel sentimento di spaesamento che ci coglie ogni volta che un
essere umano sofferente e sconosciuto entra nel nostro studio anche
se è della nostra patria e parla la nostra lingua.
Mi viene in mente un piccolo libro di
Jean Luc Nancy intitolato “L’intruso”, in cui l’autore, paragonando i
riflessi psicologici legati alla tecnica dei trapianti d’organo con
l’etica dell’ospitalità e del rapporto con lo straniero, dice che in
tutti i casi la possibilità dell’incontro con l’altro si ottiene a
condizione da un lato di rompere la cerchia dell’intimità e
dell’identità e dall’altro a patto che lo straniero conservi i tratti
dell’intruso e del non assimilabile.
Ma torniamo alla questione di fondo:
quale debba essere l’assetto interno dell’analista che potrà garantire
un corretto rapporto con un paziente straniero. Credo che ci siano tre
domande semplici ed essenziali che l’analista potrebbe porsi ogni
volta che si confronta con un altro essere umano nella stanza di
analisi: chi sono, dove sono e perché sono qui.
Jung in un modo più suggestivo parlava
di “tensione etica alla forma”, intendendo con questa frase quell’atteggiamento
avente per scopo quello di portare, nel corso del trattamento, al
recupero progressivo della rotondità del simbolo, al recupero cioè
degli aspetti simbolici e formali che si muovono e si strutturano
all’interno del rapporto analitico. Quello che io prima definivo il
contenitore universale.
Alla domanda “chi sono” si dovrebbe
aver chiaro innanzitutto ciò che “non sono” (per esempio detentore di
Verità, scopritore di Sensi ultimi, indicatore di vie da seguire,
ecc.).
Se alla domanda “chi sono” la risposta
è “sono una figura come se, cioè sono una presenza metafora”, forse
riuscirò a creare uno spazio tra il mio pensiero che tende a definire
il noto, e la realtà psichica di quell’altro “intruso” che spero solo
di aiutare a ricostruire il suo contenitore interno, rispettando e
accettando l’inassimilabile, cioè l’alterità dei suoi contenuti. Potrò
allora anche capire “dove sono”, capire cioè che anche il luogo
dell’analisi è terra di esilio e tutto ciò che accade in questa terra
è e non è al contempo ciò che sembra essere e questo mi permette una
attenzione libera al processo e la costruzione di un livello possibile
di attenzione più sintonico per quell’altro “intruso” che è venuto a
cercarmi; e questo credo sia anche il perché dell’esser qui
dell’analista.
Queste e altre riflessioni, che sono
andata facendo nel corso della mia lunga esperienza di analista
straniera in terra straniera, mi hanno permesso di sentire che il mio
esser-ci , di fronte a persone sofferenti, così diverse da me per
cultura e religione, poteva avere una utilità e un senso. Il desiderio
di comunicare e di capirci “nonostante tutto”, che ha motivato sia me
che loro, ha reso i nostri incontri pieni di una intensità affettiva e
di profonda complicità, non sempre evidente in situazioni di analisi
con pazienti italiani. La lingua comune, straniera per entrambe, il
francese, ha concesso libertà di espressione a contenuti imbarazzanti
e a volte proibiti nella lingua araba. Quello che sicuramente andava
perso a livello di emozione e affettività nell’uso di una lingua
non-madre, lo andavamo recuperando nella volontà e nel desiderio di
esprimere sempre e comunque l’affetto, con tutti i mezzi possibili,
dalla gestualità al tono della voce, dalla mimica al pianto. E poi
l’inconscio ha fatto la sua parte: l’attività onirica non è mai stata
così presente, viva, vivace e produttiva come con questi pazienti.
Purtroppo, per motivi organizzativi, non ho potuto utilizzare il
Gioco della Sabbia, cosa di cui molto mi dispiaccio, ma che spero mi
sarà possibile in un prossimo futuro.
Da junghiana non mi ha stupito che le
immagini che apparivano nei sogni, al di sotto di un primo livello, in
cui si rappresentavano aspetti legati alla cultura e alle consuetudini
locali e che come tali andavano letti, fossero immagini nelle quali
era possibile ritrovare le grandi tematiche fondanti dell’essere
umano. Questi grandi temi dell’umano venivano rappresentati e vissuti
con modalità assolutamente identiche a quelle a me note. E in esse i
pazienti si riconoscevano spontaneamente e senza alcuna difficoltà o
resistenza. I miei interventi, sempre rispettosi e interlocutori,
cercavano di mettere in parole condivise quelle immagini con cui io,
forse, avevo più familiarità. Mentre i pazienti mi permettevano di
capire il significato di quelle altre immagini o situazioni oniriche
che più attenevano al loro vissuto quotidiano e alle loro tradizioni.
Così la sensazione è sempre stata quella di un autentico lavorare
insieme, democraticamente condiviso, in cui l’analista proponeva,
indicava, suggeriva sensi possibili di quelle immagini e il paziente
condivideva, correggeva o indicava a volte una direzione a cui non
avevo potuto pensare, per ignoranza.
I tempi e i modi dei nostri incontri
erano per necessità insoliti rispetto al “normale” ritmo delle sedute
analitiche. Tre giorni ogni mese, durante i quali li incontravo due o
tre volte di seguito.
Molto si potrebbe teorizzare su questa
“anomalia” fino a concludere che non è stata analisi quella che ho
fatto con i miei pazienti arabi. Può darsi. Quello di cui però sono
certa è che, nel lavoro con loro, un ritmo c’è stato ed è stato
rispettato direi con affettuoso rigore. Mai una seduta mancata, mai un
ritardo. Era troppo prezioso quel tempo concesso e c’era la
consapevolezza dello sforzo che la “straniera” faceva per andare fin
lì. Quel lungo tempo che intercorreva tra un incontro e l’altro era
come un grande respiro che ognuno di noi prendeva prima di immergersi
nel lungo periodo di separazione. Ma c’era la certezza che sarei
tornata. Diventavo, durante quel quasi-mese di separazione, una figura
assente-presente che spesso compariva in varia forma nei sogni che
nell’intervallo facevano e che poi sapevano che mi avrebbero raccontato.
Sapere che ne avremmo parlato insieme permetteva al nostro dialogo di
non interrompersi, anche se io non ero presente... Tuttavia non c’ero e
questa era anche una realtà con cui dovevano comunque fare i conti ,
era una sorta di esercizio quotidiano di accettazione del limite e
della assenza, una figura di morte con cui credo ogni analisi, anche
la più ortodossa, debba abituarci a convivere. Altrimenti il rischio
è di diventare interminabile.
La storia di Fatima mi sembra possa
considerarsi esemplare rispetto a quanto sono venuta dicendo fin qui
ed è con grande commozione che la affido ai lettori di questo
articolo.
Fatima ha 40 anni quando la incontro la
prima volta. E’ una donna piacevole di aspetto, ha tre figli, lavora
come psicologa con bambini sordomuti in istituto. E’ nata
nell’entroterra tunisino, in un piccolo villaggio vicino alla città di
Sfax. E’ la prima di sei figli, quattro dei quali muoiono
piccolissimi per denutrizione perchè la madre di Fatima, gravemente
malata di mente, non li nutriva. Questa donna infelice era stata
costretta a sposarsi a soli 16 anni con un uomo molto più grande di
lei e costretta a sei gravidanze non volute. Muore quando Fatima ha
otto anni. Prima di morire la madre le aveva fatto giurare di non
permettere a nessuno di seppellirla, perchè lei sarebbe
risuscitata.... Qualche giorno prima Fatima aveva visto morire, tra le
sue braccia, una sorellina più piccola a cui aveva sottratto i
biscotti perchè anche lei affamata. Di questo gesto, e del non aver
potuto impedire il seppellimento della madre, porterà a lungo la
colpa, come pure del fatto che, dopo la morte della madre, ne avesse
preso il posto nel letto del padre. Questo breve periodo di grande
legame col padre viene bruscamente interrotto dalla entrata in scena
della nuova moglie che odierà e di cui sarà molto gelosa. Va a
studiare in città dove conosce un giovane collega universitario che
sposa all’età di 20 anni per potersene andare definitivamente di casa.
Non ne è innamorata, ma condivide con lui le idee e l’impegno
politico. Entrerà a far parte dei gruppi femministi e militerà con il
marito nel partito comunista anti-Bourghiba. Il marito muore dopo
circa dieci anni di matrimonio in un incidente stradale, avvenuto dopo
una lite con lei che si rifiutava di avere rapporti sessuali. Anche di
questa morte Fatima si sentirà a lungo responsabile. Rimasta vedova si
trasferisce con i figli a Tunisi e rompe ogni rapporto con la famiglia
di origine.
Quando inizia il lavoro con me ha una
serie di disturbi fisici: dolori alle ginocchia che le rendono
difficile camminare, occlusione di un canale lacrimale che rischia di
farle perdere la vista di un occhio, allergie al viso e vertigini.
Mi racconta che da quando sta a Tunisi,
dove lavora, ha iniziato una relazione con un uomo sposato, relazione
tormentata e morbosa, nella quale a volte entra anche la moglie del
suo amante in incontri sessuali a tre.
Racconta un sogno: ”Sto a letto con
mio padre (che nella realtà è morto da molti anni) e facciamo l’amore.
Ma quando si alza dal letto e si allontana lo vedo brutto e
ripugnante.”
La rivedo il mese dopo e c’è un altro
sogno: “Una grande casa disordinata e sporca: Cerco di mettere ordine,
ma nel giardino vedo che la recinzione è in fiamme. Sono presa del
panico e cerco dell’acqua. Chiamo mia sorella Amel ('Amel' in arabo
vuol dire “speranza”) per farmi aiutare. Dalle fiamme esce una donna
con un bambino in braccio, capisco che è lei che ha appiccato il
fuoco. Con Amel fuggo dalla porta di dietro della casa.”
Associa al sogno il ricordo di un parto
della madre a cui lei ha assistito e ai sensi di colpa per la morte
della sorellina. Sta sempre peggio, ma per la prima volta si rende
conto che la relazione con il suo amante è distruttiva perchè la porta
a rivivere un Edipo colpevole nei confronti di sua madre morta e la
morbosità di fantasie sessuali infantili in cui lei era in mezzo tra
il padre amato e la sua nuova compagna. Capisce anche che le sue idee
femministe e spregiudicate la hanno condotta a una scissione tra la
sua parte razionale, forte e determinata e una affettività fragile,
infantile, impaurita, timorosa della vendetta di un femminile materno
portatore di morte. Le è chiaro che mentre affermava di non tenere in
nessun conto i giudizi della sua famiglia e della comunità, che
consideravano 'h’aram' il suo comportamento sessuale, il suo corpo e i
suoi sogni raccontavano un’altra storia. Le sue ginocchia doloranti
dicevano che qualcosa le impediva di procedere, che doveva fermarsi,
le vertigini che aveva perso l’equilibrio, e i suoi occhi che, se non
fosse riuscita a piangere, avrebbe perso la vista. Sul suo viso
arrossato dalle allergie appariva una vergogna negata, che la
deturpava. Tuttavia questa consapevolezza, questo aver capito non
sembrava la aiutassero a cambiare né la sua sofferenza né i suoi
comportamenti. Si sentiva bloccata.
L’analista pensa ed è sempre più
convinta che il contenitore di Fatima sia andato in pezzi, come la
recinzione in fiamme del sogno.
Quale poteva essere allora la sua
funzione? Senza entrare nel merito e nei contenuti delle sue scelte,
ma con la sua presenza, costanza, ritmo delle sedute, con la sua
disponibilità, accoglienza e desiderio di ascoltarla, l’analista si è
collocata non sul versante della ragione, ma su quello “vuoto” del
materno, accanto alla fragilità negata e al contenitore frantumato.
Piano piano, raccontando e ri-raccontando la sua storia, Fatima si
rendeva conto che il potere colpevolizzante dell’'h’aram' non era tale in
quanto giudizio esterno del collettivo (della 'umma'), che lei da sempre
contestava, ma in quanto espressione di una posizione interna di autosvalutazione che le faceva pensare che lei, in fondo, non
meritasse niente di meglio di un uomo come il suo amante perverso, e
che dovesse continuare a pagare per le sue antiche colpe.
L’analisi in questa situazione ha
funzionato come una sorta di polo attrattore delle parti non svalutate
e non auto-distruttive, che la sorella Amel del sogno e l’analista
nella realtà rappresentavano. Queste sue parti miracolosamente ancora
“speranzose” la avevano aiutata a sfuggire all’’incendio distruttivo
appiccato da una madre portatrice di morte. Le sedute e il parlare con
l’analista straniera, avevano potuto rappresentare per Fatima una sorta
di luogo neutro, luogo di deposito della memoria di un’altra Fatima
che si andava creando, seduta dopo seduta e che cercava di costruire
una immagine di sé più accettabile e vivibile.
Anche i sogni cominciavano a cambiare:
sogna sua madre giovane e bella che la pettina e le parla, sogna donne
serene che vanno dal parrucchiere e finalmente sogna il marito che
torna per vedere il figlio piccolo che aveva solo due anni quando lui
era morto.
Così pure i rapporti reali di Fatima
subiscono una trasformazione: lascia finalmente e definitivamente
l’amante perverso, conosce Nadir, un collega di lavoro, libero e
gentile, che comincia a frequentare poco prima che il nostro rapporto
si concluda.
Nota
dell'Autrice:
(1) Per il Gioco della Sabbia vedi
il libro di Lidia Tarantini, "Lo sguardo che ascolta", Magi
Edizioni 2006.
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