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Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

Recensioni Bibliografiche

 

  "LA FUNZIONE ANALITICA NEL CONFRONTO INTERCULTURALE"

 

 

  di Lidia Tarantini

  

 

 

Lidia Tarantini  è psicoanalista, membro dell'AIPA (Associazione Italiana di Psicologia Analitica), della SIPS (Società Italiana di Psicologia Scientifica) e dell'IAAP (International Association for Analytical Psychology). Fa parte di un gruppo di studio e di ricerca sul Gioco della Sabbia, applicato alla terapia analitica dell'adulto. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo i libri: Lo sguardo che ascolta. Immagine e parola nell'interpretazione analitica (1996); E' come se. Immagini e pensieri nella stanza analitica (Borla, Roma 2002). Collabora con numerose riviste specializzate, italiane ed estere, ed in particolare con la "Rivista di Psicologia Analitica" (per cui nel 2004 ha curato un numero speciale dedicato al dialogo della psicoanalisi con l'Islam) e con i "Cahiers Jungiens de Psychanalyse".

 


 

Nel settembre del 2002 mi fu proposto dall’IAAP (Associazione Internazionale di Psicologia Analitica) di seguire un gruppo di otto persone a Tunisi per una analisi personale, nell’eventualità di formare un primo nucleo di analisti junghiani tunisini allo scopo di fondare  una futura associazione. Era passato un anno esatto dalla tragedia delle Torri Gemelle e il rapporto con il mondo arabo stava diventando tragicamente imprescindibile. Era come se, improvvisamente, l’Occidente avesse scoperto nel peggiore dei modi l’esistenza di un mondo e di una cultura che, a parte  poche eccezioni, aveva come rimosso. Mi sembrava che mi si offrisse una possibilità, anche se limitata, di avvicinarmi in presa diretta a quel mondo che anche io conoscevo poco e per sentito dire. Ciò che mi veniva chiesto di fare però mi inquietava e mi poneva molte domande. Provo brevemente a riassumerle:

 

  1. 1) Gli strumenti tecnici di cui disponevo,  “il mio sapere” erano utilizzabili in un contesto così diverso e sconosciuto?
  2. 2) Quale doveva essere il mio assetto mentale per poter contattare quella che sentivo come una diversità radicale?
  3. 3) Correvo il rischio di fare inconsapevolmente una operazione di “colonizzazione psichica”, di riportare ciò che appariva così diverso all’identico, al noto, al conosciuto? In altre parole i miei concetti di normalità e patologia erano utilizzabili o rischiavano di diventare per me una sorta di cecità?
  4.  
  5. Riassumendo: è possibile per un’analista non arabo né musulmano analizzare una persona araba e musulmana?
  6. Ed ancora  la lingua…è possibile entrare in  contatto con gli aspetti più fondi della psiche utilizzando una lingua che non sia una “lingua madre”?

 

Era forse questa la domanda che più mi girava nella testa, quella che sentivo come più inquietante, ma che mi sembrava  mi potesse aiutare a trovare una qualche risposta.

Proprio pensando a quale lingua avremmo dovuto utilizzare, il francese ovviamente, mi è venuta in mente un’ovvietà: il francese sarebbe stata una lingua straniera per entrambi, per me e per il mio futuro paziente, e improvvisamente questa non mi è più sembrata solo una limitazione, ma un primo importante punto di vicinanza, una specie di terra di nessuno che avremmo dovuto abitare insieme, una terra neutra.

Questa parola spesso la usiamo in senso negativo: il neutro è l’indifferenziato, l’incapacità di impegno, l’equidistanza amorfa, la passività anaffettiva, il vuoto di pensieri e di sentimenti, mentre a me sembrava (proprio nell’accezione etimologica di 'neuter': né l’uno né l’altro) che definisse quel luogo dove è possibile trovare la radice comune a tutti gli esseri umani, quella radice che  può farli oggetto di curiosità e forse di amore, grazie a questa porzione comune neutra, ma anche sconosciuta e ignota che ci accomuna.

E poi la parola neutro mi faceva anche pensare ad una sorta di contenitore, proprio come quello che io utilizzo nel Gioco della Sabbia. E’ questa una tecnica che, nata come una modalità di lavoro con i bambini, ha mostrato una grande potenzialità terapeutica nel lavoro con pazienti adulti. Non solo perchè l’uso di un “gioco” per un adulto significa accettare che il pensiero razionale e la parola non facciano più da padroni del campo analitico, ma anche perchè, spostando l’attenzione dalla parola al gesto che conduce il “gioco”, si lascia parlare l’inconscio senza l’intermediario del pensiero razionale. Ma quel che mi sembra importante sottolineare, rispetto al discorso che qui mi interessa, è il fatto che l’attenzione del terapeuta debba essere rivolta non solo a quello che il paziente sceglie di mettere dentro la sabbiera, cioè a quali oggetti scelga tra i molti che sono a sua disposizione (oggetti in miniatura che rappresentano il mondo animale, umano, vegetale, inanimato, ecc.), ma soprattutto al come li dispone , quali zone della sabbiera scelga, con quale sequenza, con quale ritmo, con quali priorità. Il contenitore permette, proprio per la sua funzione di circoscrivere uno spazio, di evidenziare il modo in cui, in quel momento, il giocatore si rapporta e si rappresenta la sua situazione inconscia. Non verbalizzandola, in quanto non conscia in quel momento, ma rappresentandola metaforicamente nelle sabbiera,  all’interno di un contenitore1.

 

Il contenitore potevo sentirlo come quell’aspetto universale la cui tenuta poteva forse corrispondere ad un’idea di sanità psichica non culturalmente connotata, così come la sofferenza o la patologia potevano rappresentare, al di là delle forme specifiche e, per così dire, degli “oggetti” in essa contenuti, una falla, una mancanza di tenuta. Quello che allora mi sembrava possibile provare a reintegrare non sarebbe stato il contenuto, perché questo varia con la soggettività e la cultura, ma proprio il contenitore. E forse questo  anche un’analista di cultura e religione diversa, può riuscire a farlo.

Infatti, mentre ciò che può essere re-integrato, restaurato o cambiato all’interno del contenitore  ha a che vedere con la cultura e con la storia personale di quella singola persona sofferente, il compito dell’analista dovrà invece essere quello di aiutare il paziente a riparare “l’apparato-contenitore”, nel rispetto di quello che egli vorrà poi mettere o non mettere dentro. Se, come analista non musulmano, mi lascerò intrappolare e sviare dalle mille incursioni e dai mille tentacoli che la religione infiltra nella vita quotidiana di un essere umano musulmano (preghiere, abluzioni, rituali, digiuni...),   arretrerò di fronte a qualcosa per me incomprensibile. Oppure cercherò di capire il valore profondamente emotivo che ha, ad esempio, il vissuto di “h’aram” (l’illecito) nei confronti della comunità familiare e sociale (la “umma”) paragonandolo al sentimento del peccato per la cultura cattolica. Ma così facendo avrò ricondotto il diverso all’identico, l’ignoto al noto, non avrò centrato il bersaglio e sicuramente non sarò stata in grado di ascoltare veramente chi ha portato in seduta questo particolare contenuto di sofferenza. Ciò che dovremmo invece cercare di fare è favorire  un processo di reintegrazione del senso di dignità e di autostima  che il vissuto di 'h’aram' ha messo in discussione o distrutto, nei modi e con i contenuti che al paziente sembrano adatti . E questo a prescindere da quanto siamo disposti, partendo dalla nostra visione culturale, a condividere le sue scelte re-integrative. Ma non è questo che dovremmo fare anche con chi è della nostra stessa cultura e religione?

   

Straniera: io straniera per i miei pazienti e loro  per me. Ma questa era proprio una condizione anomala o è un vissuto familiare, comunque, anche in patria? Ho pensato al luogo dell’analisi. Luogo di incontro tra due stranieri, o meglio luogo di intersezione e di transito, in cui ciò che era estraneo all’inizio (paziente e analista) tale ridiverrà alla fine.

E poi l’altro grande straniero con cui ci si confronta in analisi è  l’inconscio, irriducibile al noto, che può essere detto solo con una parola anch’essa straniera: l’interpretazione, infatti, rompendo abitudini e aspettative di comprensione, trans-ferisce un senso perduto in un altro, che accetti però e contenga la perdita. In questa inevitabile disattesa del rimpatrio si rivela la radicalità dell’esilio della parola dell’analista.

 Nel 1915 Freud nella Metapsicologia  dice una frase sorprendente “…una minima riflessione mostra che l’identità del ricordo comunicato con quello rimosso non è che apparente. Aver capito e aver vissuto sono due cose di natura psicologica del tutto diverse, anche se hanno un identico contenuto…”.

Eppure la seduzione di ridurre l’ignoto e lo straniero al noto e familiare è molto forte perché ci aiuta a vincere quel sentimento di spaesamento che ci coglie ogni volta che un essere umano sofferente e sconosciuto entra nel  nostro studio anche se è della nostra patria e parla la nostra lingua.

Mi viene in mente un piccolo libro di Jean Luc Nancy intitolato “L’intruso”, in cui l’autore, paragonando i riflessi psicologici legati alla tecnica dei trapianti d’organo con l’etica dell’ospitalità e del rapporto con lo straniero, dice che in tutti i casi la possibilità dell’incontro con l’altro si ottiene a condizione da un lato di rompere la cerchia dell’intimità e dell’identità e dall’altro a patto che lo straniero conservi i tratti dell’intruso e del  non assimilabile.

Ma torniamo alla questione di fondo: quale debba essere l’assetto interno dell’analista che potrà garantire un corretto rapporto con un paziente straniero. Credo che ci siano tre domande semplici ed essenziali che l’analista potrebbe porsi ogni volta che si confronta con un altro essere umano nella stanza di analisi: chi sono, dove sono e perché sono qui.

Jung in un modo più suggestivo parlava di “tensione etica alla forma”, intendendo con questa frase quell’atteggiamento avente per scopo quello di portare, nel corso del trattamento, al recupero progressivo della rotondità del simbolo, al recupero cioè degli  aspetti simbolici e formali che si muovono e si strutturano all’interno del rapporto analitico. Quello che io prima definivo il contenitore universale.

Alla domanda “chi sono” si dovrebbe aver chiaro innanzitutto ciò che “non sono” (per esempio detentore di Verità, scopritore di Sensi ultimi, indicatore di vie da seguire, ecc.).

Se alla domanda “chi sono” la risposta è “sono una figura come se, cioè sono una presenza metafora”, forse riuscirò a creare uno spazio tra il mio pensiero che tende a definire il noto, e la realtà psichica di quell’altro “intruso” che spero solo di aiutare a ricostruire il suo contenitore interno, rispettando e accettando l’inassimilabile, cioè l’alterità dei suoi contenuti. Potrò allora anche capire “dove sono”, capire cioè che anche il luogo dell’analisi è terra di esilio e tutto ciò che accade in questa terra è e non è al contempo ciò che sembra essere e questo mi permette una attenzione libera al processo e la costruzione di un livello possibile di attenzione più sintonico per quell’altro “intruso” che è venuto a cercarmi; e questo credo sia anche il perché dell’esser qui  dell’analista.

 

Queste e altre riflessioni, che sono andata facendo nel corso della mia lunga esperienza di analista straniera in terra straniera, mi hanno permesso di sentire che il mio esser-ci , di fronte a persone sofferenti, così diverse da me per cultura e religione, poteva avere una utilità e un senso. Il desiderio di comunicare e di capirci “nonostante tutto”, che ha motivato sia me che loro, ha reso i nostri incontri pieni di una intensità affettiva e di profonda complicità,  non sempre evidente in situazioni di analisi con pazienti italiani. La lingua comune, straniera per entrambe, il francese, ha concesso libertà di espressione a contenuti imbarazzanti e a volte proibiti nella lingua araba. Quello che sicuramente andava perso a livello di emozione e affettività nell’uso di una lingua non-madre, lo andavamo recuperando nella volontà e nel desiderio di esprimere sempre e comunque l’affetto, con tutti i mezzi possibili, dalla gestualità al tono della voce, dalla mimica al pianto. E poi l’inconscio ha fatto la sua parte: l’attività onirica non è mai stata così presente, viva, vivace e produttiva come con questi pazienti. Purtroppo, per motivi organizzativi, non ho potuto utilizzare  il Gioco della Sabbia, cosa di cui molto mi dispiaccio, ma che spero  mi sarà possibile in un prossimo futuro.

Da junghiana non mi ha stupito che le immagini che apparivano nei sogni, al di sotto di un primo livello, in cui si rappresentavano aspetti legati alla cultura e alle consuetudini locali e che come tali andavano letti, fossero immagini nelle quali era possibile ritrovare le grandi tematiche  fondanti dell’essere umano. Questi grandi temi dell’umano venivano rappresentati e vissuti con modalità assolutamente identiche a quelle a me note. E in esse i pazienti si riconoscevano spontaneamente e senza alcuna difficoltà o resistenza. I miei interventi, sempre rispettosi e interlocutori, cercavano di mettere in parole condivise quelle immagini con cui io, forse, avevo più familiarità. Mentre i pazienti mi permettevano di capire il significato di quelle altre immagini o situazioni oniriche che più attenevano al loro vissuto quotidiano e alle loro tradizioni. Così la sensazione è sempre stata quella di un autentico lavorare insieme, democraticamente condiviso, in cui l’analista proponeva, indicava, suggeriva sensi possibili di quelle immagini e il paziente condivideva, correggeva o indicava a volte una direzione a cui non avevo potuto pensare, per ignoranza.

I tempi e i modi dei nostri incontri erano per necessità insoliti rispetto al “normale” ritmo delle sedute analitiche. Tre giorni ogni mese, durante i quali li incontravo due o tre volte di seguito.

Molto si potrebbe teorizzare su questa “anomalia” fino a concludere che non è stata analisi quella che ho fatto con i miei pazienti arabi. Può darsi. Quello di cui però sono certa è che, nel lavoro con loro, un ritmo c’è stato ed è stato rispettato direi con affettuoso rigore. Mai una seduta mancata, mai un ritardo. Era troppo prezioso quel tempo concesso e c’era la consapevolezza dello sforzo che la “straniera” faceva per andare fin lì. Quel lungo tempo che intercorreva tra un incontro e l’altro era come un grande respiro che ognuno di noi prendeva prima di immergersi nel lungo periodo di separazione. Ma c’era la certezza che sarei tornata. Diventavo, durante quel quasi-mese di separazione, una figura assente-presente che spesso compariva in varia forma nei sogni che nell’intervallo facevano e  che poi sapevano che mi avrebbero raccontato. Sapere che ne avremmo parlato insieme permetteva al nostro dialogo di non interrompersi, anche se io non ero presente... Tuttavia non c’ero e questa era anche una realtà con cui dovevano comunque fare i conti , era una sorta di esercizio quotidiano di accettazione del limite e della assenza, una figura di morte con cui credo ogni analisi, anche la più  ortodossa,  debba abituarci a convivere. Altrimenti il rischio è di diventare interminabile.

 

 

La storia di Fatima mi sembra possa considerarsi esemplare rispetto a quanto sono venuta dicendo fin qui ed è con grande commozione che la affido ai  lettori di questo articolo.

Fatima ha 40 anni quando la incontro la prima volta. E’ una donna piacevole di aspetto, ha tre figli, lavora come psicologa con bambini sordomuti in istituto. E’ nata nell’entroterra tunisino, in un piccolo villaggio vicino alla città di Sfax. E’ la prima di sei figli, quattro dei quali muoiono piccolissimi per denutrizione perchè la madre di Fatima, gravemente malata di mente, non li nutriva. Questa donna infelice era stata costretta a sposarsi a soli 16 anni con un uomo molto più grande di lei e costretta a sei gravidanze non volute.  Muore quando Fatima ha otto anni. Prima di morire la madre le aveva fatto giurare di non permettere a nessuno di seppellirla, perchè lei sarebbe risuscitata.... Qualche giorno prima Fatima aveva visto morire, tra le sue braccia, una sorellina più piccola a cui aveva sottratto i biscotti perchè anche lei affamata. Di questo gesto, e del non aver potuto impedire il seppellimento della madre, porterà a lungo la colpa, come pure del fatto che, dopo la morte della madre, ne avesse preso il posto nel letto del padre. Questo breve periodo di grande legame col padre viene bruscamente interrotto dalla entrata in scena della nuova moglie che odierà e di cui sarà molto gelosa. Va a studiare in città dove conosce un giovane collega universitario che sposa all’età di 20 anni per potersene andare definitivamente di casa. Non ne è innamorata, ma condivide con lui le idee e l’impegno politico. Entrerà a far parte dei gruppi femministi e militerà con il marito nel partito comunista anti-Bourghiba. Il marito muore dopo circa dieci anni di matrimonio in un incidente stradale, avvenuto dopo una lite con lei che si rifiutava di avere rapporti sessuali. Anche di questa morte Fatima si sentirà a lungo responsabile. Rimasta vedova si trasferisce con i figli a Tunisi e rompe ogni rapporto con la famiglia di origine.

Quando inizia il lavoro con me ha una serie di disturbi fisici: dolori alle ginocchia che le rendono difficile camminare, occlusione di un canale lacrimale che rischia di farle perdere la vista di un occhio, allergie al viso e vertigini.

Mi racconta che da quando sta a Tunisi, dove lavora, ha iniziato una relazione con un uomo sposato, relazione tormentata e morbosa, nella quale a volte entra anche la moglie del suo amante in incontri sessuali a tre.

 Racconta un sogno: ”Sto a letto con mio padre (che nella realtà è morto da molti anni) e facciamo l’amore. Ma quando si alza dal letto e si allontana lo vedo brutto e ripugnante.”

La rivedo il mese dopo e c’è un altro sogno: “Una grande casa disordinata e sporca: Cerco di mettere ordine, ma nel giardino vedo che la recinzione è in fiamme. Sono presa del panico e cerco dell’acqua. Chiamo mia sorella Amel ('Amel' in arabo vuol dire “speranza”) per farmi aiutare. Dalle fiamme esce una donna con un bambino in braccio, capisco che è lei che ha appiccato il fuoco. Con Amel fuggo dalla porta di dietro della casa.”

Associa al sogno il ricordo di un parto della madre a cui lei ha  assistito e ai sensi di colpa per la morte della sorellina. Sta sempre peggio, ma per la prima volta si rende conto che la relazione con il suo amante è distruttiva perchè la porta a rivivere un Edipo colpevole nei confronti di sua madre morta e la morbosità di fantasie sessuali infantili in cui lei era in mezzo tra il padre amato e la sua nuova compagna. Capisce anche che le sue idee femministe e spregiudicate la hanno condotta a una scissione tra  la sua parte razionale, forte e determinata e una affettività fragile, infantile, impaurita, timorosa della vendetta di un femminile materno portatore di morte. Le è chiaro che mentre affermava di non tenere in nessun conto i giudizi della sua famiglia e della comunità, che consideravano 'h’aram' il suo comportamento sessuale, il suo corpo  e i suoi sogni raccontavano un’altra storia. Le sue ginocchia doloranti dicevano che qualcosa le impediva di procedere, che doveva fermarsi, le vertigini  che aveva perso l’equilibrio, e i suoi occhi che, se non fosse riuscita a piangere, avrebbe perso la vista. Sul suo viso arrossato dalle allergie appariva una vergogna negata, che la deturpava. Tuttavia questa consapevolezza, questo aver capito non sembrava la aiutassero a cambiare né la sua sofferenza né i suoi comportamenti. Si sentiva bloccata.

L’analista pensa ed è sempre più convinta   che il contenitore di Fatima sia andato in pezzi, come la recinzione in fiamme del sogno.

Quale poteva essere allora la sua funzione? Senza entrare nel merito e nei contenuti delle sue scelte, ma con la sua presenza, costanza, ritmo delle sedute, con la sua disponibilità, accoglienza e desiderio di ascoltarla, l’analista si è collocata non sul versante della ragione, ma su quello “vuoto” del materno, accanto alla fragilità negata e al contenitore  frantumato.  Piano piano, raccontando e ri-raccontando la sua storia, Fatima si rendeva conto che il potere colpevolizzante dell’'h’aram' non era tale in quanto giudizio esterno del collettivo (della 'umma'), che lei da sempre contestava, ma in quanto espressione di una posizione interna di autosvalutazione che le faceva pensare che lei, in fondo, non meritasse niente di meglio di un uomo come il suo amante perverso, e che dovesse continuare a pagare per le sue antiche colpe.

L’analisi in questa situazione ha funzionato come una sorta di polo attrattore delle parti non svalutate e non auto-distruttive, che la sorella Amel del sogno e l’analista nella realtà rappresentavano. Queste sue parti miracolosamente ancora “speranzose” la avevano aiutata a sfuggire all’’incendio distruttivo appiccato da una madre portatrice di morte. Le sedute e il parlare con l’analista straniera, avevano potuto rappresentare per Fatima una sorta di luogo neutro, luogo di deposito della memoria di un’altra Fatima che si andava creando, seduta dopo seduta e che cercava di costruire una immagine  di sé più accettabile e vivibile.

Anche i sogni cominciavano a cambiare: sogna sua madre giovane e bella che la pettina e le parla, sogna donne serene che vanno dal parrucchiere e finalmente sogna il marito  che torna per vedere il figlio piccolo che aveva solo due anni  quando lui era morto.

Così pure i rapporti reali di Fatima subiscono una trasformazione: lascia finalmente e definitivamente l’amante perverso, conosce Nadir, un collega di lavoro, libero e gentile, che comincia a frequentare poco prima che il nostro rapporto si concluda.

 

 

 Nota dell'Autrice:

 

(1) Per il Gioco della Sabbia vedi il libro di Lidia Tarantini, "Lo sguardo che ascolta",  Magi Edizioni 2006.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

        

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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