|
<<
Cara Tatiana,
ho letto con grande interesse sia il libro della
Michaelis “L’età pericolosa” sia la recensione che ne hai fatto sullo
Zentralblatt. E’ davvero straordinario il personaggio di Elsie creato
dalla Michaelis! Questa donna che, al superamento del quarantaduesimo
compleanno (a cui allude “L’età pericolosa” del titolo) abbandona il
marito, in maniera improvvisa ed apparentemente immotivata, per
ritirarsi in un’isola deserta dove, su progetto di un suo amico
architetto Jorgen Malthe, ha fatto costruire una villa tutta per sé, è
un personaggio complesso e sfaccettato>>(Leo
G., Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi, 2008).
Questa citazione è tratta da un mio
libro di narrativa “Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi”. In
esso si parla di una serie di psicoanalisti, tutti morti suicidi, le
cui vite si intrecciano misteriosamente e…. ‘documentatamente’ tra di
loro. Tatiana è Tatiana Rosenthal, la prima donna psicoanalista che la
Russia abbia mai avuto, attivista politica durante la Rivoluzione
d’Ottobre, pioniera nel coniugare la psicoanalisi con le uniche ed
irripetibili esigenze educative che la nuova società sovietica
richiedeva. E’ morta suicida nel 1920. A scriverle questa lettera
immaginaria è un’altra psicoanalista russa della prima ora e sua
compagna di studi a Zurigo: Sabina Spielrein. Ma qual è il libro a cui
Sabina fa riferimento? E a cosa allude il titolo: “L’età pericolosa”?
Nel 1911 uscì sullo “Zentralblatt
für Psychoanalyse. Medizinische
Monatsschrift für Seelenkunde” una recensione scritta dalla Rosenthal
riguardante il libro di Karin Michaelis “L’età pericolosa” (Rosenthal,
1911). Più che una recensione era una rilettura in chiave
psicoanalitica di un’opera narrativa di successo della scrittrice
danese. Costei (1872-1950), quando pubblicò (nel 1910 a Copenaghen)
l’”Età pericolosa”, era all’apice del successo letterario.
Sinteticamente, l’opera narra, in forma diaristica ed epistolare, di
Elsie Lindtner che, in piena crisi della mezza età (l’”età pericolosa”
appunto) abbandona “inopinatamente” il marito per auto-esiliarsi in
un’isola disabitata. Lì il suo amico architetto Jorgen Malthe ha fatto
costruire per lei una confortevole villa. Mentre col passare dei
giorni la solitudine le diventa sempre più ardua da tollerare, la
protagonista comincia a vagheggiare un incontro con Jorgen, che un
tempo le parve volesse corteggiarla. Dopo una serie di missive
all’amico, finalmente l’incontro tanto atteso poté realizzarsi, ma si
rivelò un’autentica delusione: la lontananza tra i due aveva finito
per spegnere qualsiasi desiderio reciproco. In un tentativo di
annullare gli effetti delle sue azioni – e del tempo quindi – Elsie
finisce per invitare sull’isola persino il suo ex-marito, il quale
però declina l’invito, essendo alle prese con un nuovo matrimonio.
Elsie finirà dunque per restare sola sull’isola quasi completamente
deserta, accompagnata solo da due personaggi femminili (la cameriera e
la cuoca) su cui ella sembra proiettare lati oscuri di sé e rimpianti
mai completamente superati.
In questo mio intervento mi prefiggo
di delineare una sorta di “fenomenologia psichica evolutiva” della
crisi di mezza età alla luce dell’evoluzione psicologica del
personaggio letterario di Elsie. Vedremo come le vicissitudini
interiori del personaggio ideato dalla Michaelis sembrino ripercorrere
delle traiettorie evolutive abbastanza tipiche che ogni biografia, sia
che si tratti di uomo che di donna, incontra nel passare dalla
gioventù alla tarda maturità ed alla vecchiaia. Delineerò tre fasi
evolutive della mid-life crisis – separazione, liminalità e
reintegrazione – ad ognuna delle quali tenterò di associare una
specifica tipologia di vergogna.
Un accenno verrà fatto al dato,
scontato e banale, che neppure gli psicoanalisti, e le loro biografie,
sfuggono alle vicissitudini, spesso drammatiche, di questa età
transizionale, che in alcuni, per fortuna isolati casi, può sfociare
persino nel suicidio. E forse non è casuale l’interesse che Tatiana
Rosenthal, <<giovane (aveva 36 anni), dotata, attiva, felice nella sua
professione, madre di un bambino intelligente che amava teneramente>>(Neiditsch
S, 1921, cit. in Marti J., 1978) mostrava per l’età pericolosa di
Elsie se si suicidò proprio all’ingresso di questa età di bilanci e di
rimaneggiamenti interiori. L’analisi dell’opera letteraria della
Michaelis contiene forse la chiave per far luce sul misterioso
suicidio del suo recensore.
L’ETA’ PERICOLOSA
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita
Ah quanto a’ dir qual era è cosa dura
questa selva selvaggia ed aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura!
tanto è amara che poco è più morte
Dante
Se è vero che Dante è il primo
“fenomenologo” della mid-life crisis, questo ci deve far
pensare a quanto sia scorretto ritenere che essa, come asserisce
qualche sociologo, sia un prodotto storico della modernità (o della
“esistenza liquida” della post-modernità), ed in particolare sia
appannaggio di quella borghesia inurbata e colta che ha decretato il
successo di un’infinità di manualetti (in genere di editoria
anglo-americana) sul tema.
Ciò che Dante, pochi anni dopo essere
stato esiliato dalla sua Firenze, descrive in maniera allegorica sono
<<le sensazioni di paura e di abbandono>> (Schreiber H., 1978) con
cui, tra la metà della trentina e la metà della quarantina, <<si
annuncia la crisi della mezza età (…) un vago senso di crollo
interiore che non si spiega razionalmente e che solo raramente si
riconosce come paura di varcare quel confine tra la fine della
crescita e l’inizio della vecchiaia>> (Schreiber H., 1978, pag.15) .
E’ proprio nell’età in cui si cominciano a raccogliere i frutti delle
proprie aspirazioni sociali (Dante era da poco diventato consigliere
comunale, Tatiana aveva conseguito la direzione della clinica per
bambini minorati psichici presso l’”Istituto di ricerca per la
patologia cerebrale” di San Pietroburgo ), professionali, familiari
(Dante si era da poco sposato con una ricca fiorentina, Tatiana era
madre di un bambino in tenera età) che questi uomini <<negli anni
migliori in realtà vivono pericolosamente>> (Schreiber H., 1978, pag.
13). Anche l’esilio, reale nel caso di Dante e del personaggio
letterario di Elsie, metaforico nel caso di Tatiana, esiliata da
quella cultura russa che a partire dagli anni ’20 <<vedrà la
psicoanalisi sempre più criticata ed attaccata (…)>>(Leo G., 2007, pag.111),
e la migrazione costituiscono una potente immagine che si staglia
nello scenario psichico di chi si trova a fare i conti <<con le
vicissitudini, con le sofferenze e con le perdite>> (Grinberg L. & R.,
1986, pag. 237) che ogni esperienza della liminalità nello sviluppo
psichico comporta. Ma cosa è in crisi nella mezza età?
<<Negli anni della mezza età>>
scrive Robert Musil ne “L’uomo senza qualità” <<in
fondo pochi sanno come sono approdati a se stessi, ai loro
divertimenti, al loro modo di vedere, alla loro donna, al loro
carattere, professione ed ai loro successi, ma hanno la sensazione che
non si possa cambiare molto. Si potrebbe persino affermare che sono
stati ingannati, perché non riescono a trovare un motivo soddisfacente
per spiegare perché tutto è andato nel modo in cui è andato; avrebbe
anche potuto andare diversamente; gli avvenimenti raramente sono stati
provocati da loro stessi, ma piuttosto sono maggiormente dipesi da
tutta una serie di circostanze, dalla luna, dalla vita, dalla morte di
altre persone da cui poi ad un certo momento sono stati coinvolti>>.
Insomma, cosa è in gioco nello spingere
un banchiere all’apice della sua carriera a fuggire con la sua
segretaria di dieci anni più giovane, magari con la scusa di un anno
sabbatico, piantando in asso famiglia, posizione sociale e carriera?
Da un paio di anni era in cima, era arrivato. Ma non gli stava bene.
Aveva la sensazione di essere immobile, di non evolversi più, che
tutto era ripetitivo. Prima il suo lavoro lo affascinava, ultimamente
il più delle volte lo annoiava. Una noia, una sensazione di vuoto
interiore che lo ha fatto agire come un ragazzo scombinato, assetato
di libertà ed alla ricerca della “propria vita”. Ma poi il paragone
con l’adolescenza ed i suoi conflitti di identità è così
giustificato? Elliott Jaques (1978) afferma che << l’ingresso sulla
scena psicologica della realtà e dell’inevitabilità della nostra
scomparsa definitiva sia la caratteristica centrale e cruciale della
cosiddetta mezza età>>, un’età paradossalmente caratterizzata dal
fatto che <<si entra nel rigoglio della vita, nel periodo del
completamento, ma nello stesso tempo rigoglio e completamento hanno
una scadenza. La morte è subito dopo>> (Jaques, 1978). <<Ora la
morte>> aggiunge Jaques <<non è più, a livello conscio, un concetto
generico o l’esperienza della perdita di qualcun altro, ma è una
questione personale; è la nostra morte, la nostra reale ed effettiva
mortalità (Jaques, op.cit., pag. 63). Il compito dell’età di mezzo è
per Jaques quello di rilanciare e perfezionare, ossia elaborare in
maniera definitiva, la posizione depressiva infantile, passando per
l’adolescenza ed il suo “turmoil”. Come scrive acutamente Jeammet
(1998), il rapporto tra crisi della mezza età dei genitori e crisi
adolescenziale dei figli può essere tale per cui <<l’adolescente è
facilmente il sintomo della crisi dei genitori, testimoniando col suo
malessere la loro sofferenza e cercando, nei panni di un capro
espiatorio, di attirare l’attenzione sulle difficoltà dei suoi
genitori che lo angosciano tanto più che è lui stesso ambivalente nei
loro riguardi>> (Jeammet, 1998, pag.140). Jeammet, infatti, contesta
che si possa usare il termine di lutto quanto meno per l’adolescenza
“non patologica”, in quanto <<si può essere tentati di pensare che
questa nozione di lutto degli oggetti infantili sia un modo di vedere
abbastanza normativo degli adulti che vi proiettano le proprie
difficoltà di elaborare il loro confronto con la depressione>>
(Jeammet, 1998, pag. 132). In accordo con Jaques1, Jeammet
ammette che il processo di elaborazione del lutto si addica più alla
crisi della mezza età che non all’adolescenza, considerata più un
tentativo di regolazione e di uscita dalla posizione schizo-paranoide
che non un confronto con la posizione depressiva. Fondamentali sono
nel pensiero di Jaques i concetti di contemplazione e di
rassegnazione, da intendere rispettivamente come il termine medio e
quello ultimo del processo di specifica elaborazione della posizione
depressiva associata all’età di mezzo. <<Nello stadio precoce – da
intendersi come l’età giovanile adulta, N.d.R. - la
contemplazione2, il distacco, la rassegnazione3
non costituiscono i presupposti indispensabili del piacere, della
gioia, del successo>> (Jaques, op. cit., pag.73) dato che <<prima
dell’incontro di mezza età con la morte, una completa rielaborazione
della posizione depressiva non fa necessariamente parte ancora del
normale processo di sviluppo>> (Jaques, op.cit, pag. 66). La
concezione kleiniana, nonostante i suoi illuminanti contributi nella
comprensione delle dinamiche profonde, appare oggi superata se, quanto
meno, non viene integrata con la psicologia evolutiva, i cui studi
sull’età adulta si sono sempre più moltiplicati negli ultimi decenni.
(vedi Levinson e altri autori). <<(…) La vita adulta è “evolutiva”
altrettanto dell’infanzia e dell’adolescenza>> (Stein, 2004, op. cit.,
pagg. 12-13).
Ma finora la domanda cruciale è restata
inevasa: <<Cosa è in crisi nella età di mezzo?>> Ci sembra che con
Erikson la risposta non possa che essere: <<L’identità>>. E’ utile
perciò il riferimento all’approccio ‘psicosociale’ di Erikson tanto
riguardo alla definizione di ‘crisi evolutiva’ quanto nell’analizzare
le varie accezioni del termine ‘identità’3 (Miller, 1987;
Shonfeld, 1971). L’identità comporta, secondo Erikson, un chiaro senso
di definizione di sé, un impegno rispetto ai valori e alle convinzioni
personali, la considerazione dell’esistenza di identità alternative
personali, un certo grado di autoaccettazione, un senso di unicità
personale (“sameness”) e una fiducia nel proprio futuro: tutte
acquisizioni queste che non sono date una volta per tutte in modo
definitivo con il superamento delle tempeste adolescenziali, ma che
vengono più o meno messe in discussione con il “turmoil” dell’età di
mezzo. E ancora Erikson definisce l’identità come una <<configurazione
che gradualmente integra i dati costituzionali, i bisogni libidici
idiosincratici, le capacità, le identificazioni significative, le
difese effettive, le sublimazioni riuscite e i ruoli importanti>> (Erikson,
1959b). Le varie componenti dell’identità psicosociale sono state poi
analizzate da Shonfeld (1971) per cui ognuna di esse si identifica con
altrettante domande: a) <<A quale categoria appartengo?>>: identità
sociale; b) <<Cosa rappresento?>>: identità morale; c) <<Cosa sto
diventando?>>: identità proiettiva; d) <<Come mi intendo con gli
altri? Quali sono i miei rapporti con l’altro sesso?>>: identità
dell’Io che si situa sul piano dei rapporti interpersonali; e) <<Sono
in grado di bastare a me stesso?>>: identità attestante la capacità di
separazione e di autonomia; f)<<Che tipo di persona sono?>>: identità
di genere. A proposito di quest’ultima, Diamond (2004) ha studiato la
crisi della mezza età nei maschi come un’occasione irripetibile per
integrare le varie componenti dell’identità di genere in un tutto
quanto più armonico, coerente e maturo. Sarebbero utili ulteriori
ricerche tese a studiare come l’età di mezzo sia un appuntamento
ineludibile perché anche le altre componenti dell’identità
psicosociale, sia nei maschi che nelle femmine, possano approdare ad
un maggiore grado di integrazione. Il concetto eriksoniano di identità
ci sembra, infine, potersi avvicinare a quello di “Persona” di Jung (Stein,
2004)4. E’ nel rapporto tra “Persona” e “Ombra” che è
racchiusa tutta la fenomenologia della crisi della mezza età, laddove
la figura di Hermes rappresenta la liminalità o transizionalità
psicologica che permette, se la crisi viene ben superata, l’epifania
di un’identità più autentica cui Jung riserva il nome di
“individuazione”. <<Sotto il tumulto di questi stati d’animo, e spesso
della vaga minaccia di buchi e di vuoti che si aprono sotto i nostri
piedi, nella matrice intrapsichica della personalità si sta svolgendo
una vasta e profonda ristrutturazione; una ristrutturazione indicata
in primo luogo dai sogni ma anche da fenomeni psichici come visioni,
fantasie persistenti e intuizioni – tutti messaggi oscuri, e spesso
del tutto opachi, dell’inconscio>> (Stein, 2004, op. cit., pag. 34).
Anche Jung (1875-1961) sperimentò, proprio nell’età di mezzo, dapprima
quella relazione altamente drammatica con Sabina Spielrein (1980),
iniziata nel 1909, poi la relazione extraconiugale con Toni Wolff,
anch’essa iniziata come analisi nel 1910 e poi sconfinata fuori dai
limiti professionali nel 1911-1912, quindi la rottura con Freud e poi,
subito dopo, una vera e propria crisi psicotica - se dobbiamo prestar
fede alle testimonianze raccolte da Brome (1994) - che egli connotò
come “confronto con l’inconscio”(Jung, 1965).
La crisi della mezza età potrebbe anche
essere letta in termini di tensione tra i due poli del Falso Sé e del
Vero Sé, secondo la terminologia di Winnicott. Ed anche la biografia
di Winnicott (1896-1971) ebbe, con l’accesso alla mezza età, una serie
di eventi-sentinella: la fine dell’analisi con Strachey nel 1933, nel
1941 inizia una relazione extraconiugale con Clare Britton, i primi
attacchi di cuore che egli mette in relazione coi propri problemi di
aggressività. Per Winnicott l’incontro con Clare costituirà senza
dubbio un fattore fondamentale che contribuirà al successo con cui
egli supererà la crisi della mezza età: un successo che con queste
parole il suo biografo F. Robert Rodman (2004) sintetizza <<(…) Donald
era riuscito finalmente a combinare l’amore, la differenziazione
personale e una condizione della mente in cui, per usare le parole di
Marion Milner, poteva finalmente “spiccare il volo”>> (Rodman, 2004,
op. cit., pagg. 70-71).
Jaques, nel lavoro citato, ha
analizzato le svolte creative che l’età pericolosa ha fatto subire
alle biografie di una serie di artisti. E’ ancora di là da venire uno
studio sistematico sul contributo che la crisi della mezza età ha
apportato alla creatività di un numero sufficientemente ampio di
analisti. Tra le biografie di Freud è da segnalare il libro di Newton
(1995), ma non ho rintracciato alcuno studio sistematico che prenda in
considerazione le “vite de’ più eccellenti” di loro. Alexander
Mitscherlich, che in qualità di direttore a Francoforte del “Sigmund
Freud Institut” promosse nel 1975 il “Progetto di mezza età”, in
un’intervista a Schreiber (1978) così parlava della sua crisi di mezza
età: <<Sì, l’ho avuta. (…) (…) ho dovuto di nuovo fare una scelta
professionale per cui non ero nemmeno preparato. Dopo la guerra sono
stato spinto dagli alleati a fare della politica attiva, e questo mi
ha causato dei conflitti. Perché in fondo ero già felice della
possibilità che avevo di fare della psicoanalisi. Invece avrei dovuto
fare il politico. (…) sono passato da un matrimonio in un altro. Ho
interrotto un rapporto vecchio che durava da quasi vent’anni e ne ho
iniziato un altro per il resto della mia vita>> (Schreiber, 1978, op.
cit., pag. 58).
LE FASI DELLA
CRISI
Il materiale che presento, il diario della Sig.ra
Elsie, è un’auto-analisi. L’ho seguita. Volevo procedere seguendo
Freud, in modo da poter studiare l’infanzia e la giovinezza della
Sig.ra Elsie. Inoltre trovai nel diario degli accenni certamente
importanti, anche se non sufficienti come materiale.
Mi rivolsi allora agli altri libri di Karin
Michaelis ed ecco – si trova in diverse varianti e stadi di sviluppo
la stessa tipologia. Le differenti forme di donna mostravano
sorprendenti stereotipie nelle più importanti caratteristiche
psicologiche.
Sappiamo che i tratti stereotipati
nelle forme degli scrittori spesso sono da attribuire al fatto che
certi impulsi inconsci nella vita mentale dell’artista lo obbligano a
questi caratteri che ritornano sempre.
L’analisi di un’opera letteraria è
strettamente connessa con l’analisi dello scrittore. Certamente non
si risalirà dal destino di un eroe dell’opera letteraria a quello
dello scrittore:l’opera d’arte può sostituire al posto dello scrittore
il corso dei suoi conflitti psicologici inconsci.
L’opera d’arte di Karin Michaelis è un
tutto unico, e mi sono trovata autorizzata in base all’anamnesi di
completamento a cercare le determinanti psicologiche individuali della
crisi della Signora Elsie.
Tatiana
Rosenthal, “Karin Michaelis: L’età pericolosa alla luce della
Psicoanalisi” (op. cit., 1911), trad. italiana di Giuseppe Leo
Stein distingue
tre fasi nel processo critico:
a)
la fase della separazione;
b)
la fase della liminalità o transizione;
c)
la fase della reintegrazione (in caso di esito
positivo) o della regressione (nel caso di un esito nella patologia o
in un funzionamento mentale più rigido)
Cerchiamo di seguire le tre fasi
avvalendoci del “filo di Ariannna” che ci offre la Michaelis
presentandoci le vicissitudini interiori di Elsie Lindtner.
LA SEPARAZIONE
Ma qual è il punto di partenza di
questo movimento interiore che spinge Elsie a segregarsi dal mondo? La
scrittrice afferma essere, apparentemente, quel complesso di
modificazioni fisiche e psicologiche che accompagnano e preannunciano
la menopausa: l'età pericolosa. E' pur vero che la crisi di mezza età
può configurare quel definitivo superamento di quel lutto per la
perdita degli oggetti ideali, e del Sé ideale, che, iniziato in
adolescenza, trova, o meglio dovrebbe trovare, in essa il suo
compimento. E' questo il motivo per cui tante crisi adolescenziali nei
figli sono concomitanti con fenomeni analoghi nei genitori. In Elsie
questo processo di lutto ha un'elaborazione così travagliata forse
anche perché, non avendo figli, non può proiettare in essi le proprie
angosce depressive al fine di ottenere sollievo. Non può nemmeno
proiettare in un figlio adolescente quelle parti di sé giovanili
(idealizzate) per poterle proteggere dall'inesorabile avanzare degli
anni. Forse il rapporto con Jorgen Malthe sembra assolvere questa
seconda funzione, come è facile osservare in molte donne quarantenni
che stabiliscono dei flirts con uomini ben più giovani.
(da G. Leo,
“Vite soffiate”, op. cit., 2008, pag. 206)
Così la Spielrein prosegue nelle sue
osservazioni dirette alla Rosenthal in questa corrispondenza
immaginaria. Ma l’esigenza di separarsi dal mondo, di segregarsi da
esso è, in senso reale o metaforico, il primus movens di ogni
crisi della mezza età. Tre lettere di Elsie inaugurano il libro della
Michaelis: una diretta all’amica Lili, una seconda all’ex marito
Richardt, ed una terza all’amico architetto Jorgen. Tre lettere di
commiato dal mondo di ieri. E poi il libro prosegue con il primo
soliloquio, con la prima registrazione diaristica di questo angoscioso
viaggio verso il nulla:
Sono approdata sulla mia isola, ho
preso possesso della mia tana.
Il primo giorno è passato. Che Dio mi
aiuti a sostenere quelli futuri!
(K. Michaelis, “L’età pericolosa”, pag.
27)
Se ad inaugurare la mid-life crisis
è la separazione, la domanda è: <<Separazione da cosa?>>. Come
“letterariamente” scrive la Spielrein, si tratta della separazione da
aspetti idealizzati di oggetti, di persone (disillusioni e delusioni
non mancano a quest’età di bilanci), ma anche del Sé - le fonti di
attaccamento sicuro sono in crisi, i propri genitori muoiono o
diventano dementi, i figli, non più dipendenti, coi loro movimenti
rappresentano una minaccia di cambiamento, di perdita di amore e delle
consolanti illusioni di onnipotenza. << (…) i sogni giovanili di
felicità e di realizzazione svaniscono o vanno brutalmente in
frantumi; serpeggia l’angoscia di morte, e di frequente si parla della
sensazione che il tempo scorra via prima che si cominci a “vivere
realmente”; fisicamente la persona inizia a mostrare qualche segno
d’invecchiamento, e così una precedente immagine di sé comincia ad
alterarsi e a incrinarsi>> (Stein, 2004, op. cit., pag.33).
Forse, il Dio che Elsie invoca ha le
sembianze e gli attributi di Hermes, il dio greco la cui immagine
veniva posta sulla soglia della casa come protettore dei confini e,
quindi, dei passaggi attraverso tali confini.
Ma l’accesso alla fase successiva,
quella della liminalità, richiede che la separazione passi attraverso
il seppellimento metaforico del mondo di ieri e quindi l’elaborazione
del lutto sul doppio versante del Sé e dell’oggetto. <<Prima di poter
andare oltre, è dunque necessario capire ed elaborare a fondo la
natura della perdita>> (Stein, 2004, op. cit., pag. 35).
E qui troviamo un primo punto di
“arresto evolutivo” nel diario di Elsie. Anziché “fare il lutto” di
ciò che è andato perduto, come le tre lettere sopra menzionate
lasciavano presagire, di fronte all’angosciosa solitudine che sente in
sé ed attorno a sé non riesce a “seppellire il cadavere”, ad elaborare
completamente la perdita: è ancora lì che rimpiange un amore non
ancora “sbocciato” con Jorgen Malthe.
Ma quale può essere la vergogna tipica
di questa fase? Ci sembra una vergogna connessa al senso di
inadeguatezza personale ad elaborare questo processo di lutto,
associata <<ad un’esperienza o alla consapevolezza più o meno inattesa
ma sempre dolorosa del nostro limite, della nostra impotenza o
vulnerabilità>> (Kaufman, 2007, pag. 7). La vergogna, emozione sociale
legata più della colpa all’essere visti, allo sguardo dell’altro, fa
sentire il Sé come ob-sceno, “fuori dalla scena”, e quindi bisognoso
di sottrarsi alla scena sociale, bisognoso di separazione. Il vissuto
di esposizione, in primis del proprio corpo che può già portare i
primi segni degli anni che passano, che è nella vergogna, ha a che
fare, quindi, con una minore o maggiore consapevolezza <<di aspetti
particolarmente sensibili, intimi e vulnerabili del sé>> ( Lynd
Merrell H., 1961, pag. 61) che in passato erano stati idealizzati.
Questo tipo di vergogna da inadeguatezza sembra quella più intimamente
connessa con l’ideale dell’Io nella tradizionale formulazione
freudiana. Come si evidenzia nel seguente passo del diario di Elsie.
La mia volontà è paralizzata dal
disgusto che provo per me stessa. Involontariamente tendo l’orecchio
in attesa del corriere, che a me non porta nulla (…)
Ci sono momenti in cui invidio tutti
gli esseri viventi che stanno insieme e che si accoppiano, sia pure
per odio o per abitudine. Io sono sola, esclusa. E non mi consola
dire: sono io che l’ho voluto!
Lettera di Malthe
(K. Michaelis, “L’età pericolosa”,
pagg. 43-44)
La fase della liminalità è sotto
l’egida dell’ambivalenza e della fluttuazione, ma anche della vergogna
che si prova per non avere più delle basi solide – ereditata dalla
fase precedente. In essa sta tutta la problematicità di una
navigazione in mare aperto senza alcuna possibilità di ormeggi nel Sé
precedente. Anzi, poiché questa condizione fa paura, l’individuo è
tentato di rinunciare tout court alla navigazione, al
superamento del confine. Si viene a trovare più che in una no man’s
land in una no self land, in un’<<incrinatura
nell’identità (…), fra “chi sento di essere adesso” e “chi apparivo,
ai miei stessi occhi e agli occhi degli altri, in passato”>> (Stein,
2004, op. cit., pag. 39). E <<gettare lo sguardo dentro questa fessura
può spaventare>>, tanto che è più rassicurante pensare di tornare
indietro, di riesumare (se sono stati mai sepolti) i cadaveri da cui
ci si deve separare, e vagheggiare fantasmaticamente (ed
onnipotentemente) un ricongiungimento con ciò che doveva essere
morto. E’ ciò che accade ad Elsie nel suo ondivago vagheggiare una
ri-unione con il “perduto” amore, dato che, non essendo riuscita
completamente la separazione, l’Io, non ancora liberato dalla sua
identificazione con la precedente Persona, per poter “fluttuare” in
questo periodo così ambiguo, è strappato dai suoi ormeggi e, incapace
di seppellire il passato, è sconvolto dalle onde di una nostalgia
piena di rimorsi>> (Stein, 2004, op. cit., pag. 40). Forse la chiave
per comprendere ciò che accade nella fase della liminalità ce la dà
Stein quando differenzia il “seppellire” dal “ricoprire” semplicemente
ciò non è stato veramente sepolto.
Riprendiamo il passaggio precedente del
diario di Elsie:
Lettera di Malthe.
No, non la aprirò, non voglio sapere
quel che mi scrive… E’ una lettera pesante…
(…)
Ho rabbrividito per questa mia
doppiezza. (…) Così deve soffrire chi, attraversando i mari, nulla sa
del paese verso il quale si dirige. Lo immagina simile alla sua patria
e invece arriva in una terra desolata da ravvivare con fatica e
nostalgia, da far rifiorire con desideri e sogni. E quando finalmente
quella terra desolata si è trasformata in una nuova patria, allora lo
straniero si accorge che ha consumato la sua vita.
Potessi decidermi a bruciare questa
lettera… La soppeso fra le mani, la passo dalla destra alla sinistra.
Il suo peso ora mi riempie di gioia, ora di paura. Sono le parole che
pesano o è soltanto la carta?
(K. Michaelis, op. cit., pagg. 44-45)
Il fenomeno dell’angoscia di morte si
può configurare in questa fase non tanto come un riflesso della
consapevolezza dei limiti effettivi della propria vita, ma quanto come
<<un riflesso di questo processo intrapsichico di liberazione e di
distacco dalle precedenti identificazioni>> (Stein, 2004, op. cit.,
pag. 50). E’, inoltre, in questa fase di liminalità che, se si sanno
leggere, si fanno più pressanti che mai i messaggi provenienti
dall’inconscio sotto forma di sogni, di fantasie, di acting out, di
sinestesie dal valore simbolico.
Un suono, un profumo ed ecco che un
essere, un luogo, un destino ci balzano vivi davanti. Spesso i
fantasmi suscitano esseri privi di qualsiasi interesse per me, il cui
destino mi è indifferente, ma si fanno avanti lo stesso, prepotenti,
inesorabili.(…) Ignoravo che il pensare potesse essere una sofferenza.
(K. Michaelis, op. cit, pagg. 47-48)
Ma alla fine Elsie, persuasa che <<i
legami con la vita sono talmente forti e la potenza dei ricordi è tale
che nessuno riuscirà mai a isolarsi del tutto>>, che quando <<si è
stati uniti a certe persone e si conoscono tante cose su di loro, non
ce ne liberiamo più>>(Michaelis, op. cit., pag. 47), decide di
concedersi una chance con Jorgen. Non apre la lettera, che oramai è
diventata un oggetto feticistico, quindi in una fase di profonda
depressione paralizzante (pagg. 68-69) finisce per bruciarla, per
poi, all’inizio del nuovo anno, riaccarezzare l’immagine del perduto
amore. Cosa accade dopo ce lo descrive, sempre “letterariamente”, la
Spielrein.
Dopo una serie di lettere inviate
all’amico, Elsie fissa il tanto atteso appuntamento con Jorgen: questi
la raggiungerà sull’isola.(…)
E’ possibile che l’esito deludente dell’incontro
con Malthe fosse già lasciato presagire da quel gesto pantoclasta
(la lettera bruciata e mai letta, mia
nota). La lontananza così a lungo
protratta tra Jorgen ed Elsie li ha resi l’uno estraneo all’altra.
Così Elsie, nel magico tentativo di annullare retroattivamente gli
effetti delle proprie azioni, finisce per invitare sull’isola persino
l’ex-marito, il quale però ha nel frattempo trovato una nuova compagna
che sta per sposare. Elsie finirà dunque per restare sola sull’isola
quasi completamente deserta, accompagnata solo da due personaggi
femminili (la cameriera e la cuoca) su cui ella sembra proiettare lati
oscuri di sé e rimpianti mai completamente superati.
(da G. Leo, “Vite soffiate”, pagg.
203-204)
Ma questa solitudine, forse una
elaborazione tardiva del lutto connessa alla fase precedente, finisce
per essere foriera di preziosi insights che però restano
frammentari e scissi, incapaci di approdare ad un’integrazione tra le
polarità opposte del Sé, degli oggetti e degli affetti che li
dovrebbero raccordare (Kernberg O., 2009). Con le parole “prestate”
alla Spielrein possiamo così sintetizzare:
(…)la comprensione che Elsie ha dei
propri stati emotivi e dei propri pensieri è, dall'inizio alla fine
del libro, frammentaria, scissa, non integrata, e non approda ad
alcuna sintesi, ad alcuna visione conciliata ed 'apaisée' del suo
rapporto con l'Altro. Si potrebbe dire che tali vicissitudini nel
rapporto dell'Io con l'Altro sono dominate da un'inesorabilità ( in
termini di "destino" pulsionale) dell'espansione delle assise
narcisistiche ad annettere fette di mondo (e di Altro) sempre più
grandi, in un vortice in cui l'Altro viene di volta in volta
disprezzato (come nel caso del marito di Elsie), idealizzato (come nel
caso dell'amato Jorgen Malthe), espulso (nel progetto di Elsie di
ritirarsi in eremitico isolamento), identificato proiettivamente con
parti inconsce distruttive di sè (come quando Elsie sostiene di
provare una voluttuosa amarezza al pensiero che Jorgen Malthe l'abbia
murata nella sua solitudine) fino al trionfo disprezzante ma anche
alienante della fuga 'psicotica' finale. In seguito alla delusione
tragica che il mondo non è rimasto fermo, rinchiuso nell'immobilità in
cui la mente di Elsie avrebbe voluto fino ad allora confinarlo,
l'Altro svela il proprio potere dinamico di essere desiderante (il
marito trova una nuova compagna più giovane, l'amato Jorgen non è più
quell'oggetto idealizzato d'amore che Elsie aveva costruito dentro di
sé) che spiazza la protagonista.
(…)
Ma
forse il punto di partenza deve essere cercato nelle prime relazioni
di Elsie con l’oggetto materno… inesistente. Verso la fine del libro,
infatti, Elsie afferma che la madre era morta mentre la dava alla
luce. Confinata alle cure di una domestica, sicuramente le sarà
mancato quello sguardo ‘adorante’ che tutte le mamme dirigono verso il
proprio neonato. Quello stesso sguardo che Elsie sembra ricercare
continuamente quando oramai è troppo tardi. Lo cerca da adolescente
nello specchio che diventò il suo “confidente”, l’unica gioia della
sua fanciullezza. Lo cerca nello sguardo di Jorgen Malthe. E poi il
peso della vergogna, che ha segnato la sua infanzia, dell’umiliazione
profonda che lei sentiva agire nell’unica figura genitoriale, il
padre. Il padre ridotto in miseria fa sì che per la piccola Elsie la
propria avvenenza fisica rappresenti quella moneta di scambio per
comprare gli uomini con tutta la ricchezza che essi portano seco. E’
paradossale che per fare i conti con questa vergogna di base,
originaria, Elsie abbia dovuto aspettare l’età pericolosa in cui
compare la vergogna per il proprio corpo che invecchia.
L’angoscia della morte nel senso del disfacimento sia fisico che
psichico diventa un aspetto centrale nell’età pericolosa: il corpo che
invecchia diventa osceno, cioè fuori dalla scena e non resta altro che
<<vivere da sola>> dice Elsie <<tutta sola per me, con me>>. <<Io sono
vecchia, già vecchia. Fra pochi anni sarò così vecchia che vi
chiederete come possa esservi stato un tempo in cui mi consideravate
l’”unica”>> scrive Elsie a Jorgen.
(G. Leo, op.
cit., 2008, pagg. 207-209)
La vergogna tipica della fase di
separazione, innescata dalla perdita di un’immagine idealizzata del
proprio corpo e del Sé le cui basi narcisistiche sono avvertite come
precarie, associata in Elsie all’esperienza dell’essere “oscena”, non
degna di essere vista, finisce quindi, in questa fase di liminalità,
per riattivare un’esperienza a lungo rimossa che viene a riaffiorare
proprio nel “turmoil” di questa fase: se oggi Elsie si sottrae
volontariamente allo sguardo dell’altro, se oggi la vergogna così
massiccia comporta l’esclusione di ogni sguardo altrui è perché un
tempo, da piccola, non ha incontrato uno sguardo ‘rispecchiante’ nella
madre, uno sguardo capace di rimandarle quello “scintillio
nell’occhio materno” di cui parla Kohut* (1971), che è la forma
iniziale, primaria di vergogna (Mollon, 2006). D’altro canto gli
odierni studi di “infant research” hanno evidenziato che la vergogna
<<può nascere nell’esperienza precoce con la madre quando questa
diventa un’’estranea’ per il bambino>> (Broucek, 1991, cit.da Mollon,
2006, op. cit., pag. 36). Gli esperimenti di Tronick (1978, cit. da
Mollon) hanno mostrato che bambini, di fronte al viso amimico ed
immobile della madre, reagivano dapprima cercando di riattivare il
dialogo mimico con lei e poi, non riuscendoci, finivano per piangere
disperati oppure reagivano afflosciandosi, abbassando la testa e
distogliendo lo sguardo dalla madre. Se la figura, che nell’infanzia
del bambino è quella che dispensa le cure, viene a morire
prematuramente, <<è probabile che il bambino si chiuda in sé,
congelando le proprie emozioni senza dare grandi segni esterni della
propria devastazione interiore. Gli adulti che osservano tutto ciò
possono concludere con un certo sollievo che non sembra troppo
colpito. La realtà emotiva è invece che il bambino è stato strappato
via dalla matrice empatica e ora si sente in mezzo a un mondo freddo e
ostile. Quello che succede in questi casi, a quanto pare, è che
crescerà avendo interiorizzato l’assenza d’una risposta empatica,
esattamente sotto forma di presenza d’un oggetto interno
incapace di empatia>> (Mollon, 2006, pagg. 41-42)5.
La
vergogna tipica della liminalità non è più associata al sentimento
dell’inadeguatezza, ma alla reviviscenza dei fantasmi primitivi che
erano stati sepolti nella vita anteriore alla crisi: <<Si può chiudere
la porta in faccia a gente in carne e ossa, ma si è sempre costretti a
ricevere i fantasmi e a parlare con loro senza evasività o reticenze>>
scrive Elsie (Michaelis, op. cit., pag. 47). E’ questa condizione
liminale che può inaugurare un autentico dialogo con quelle parti
antiche del Sé che, sentite come vergognose, erano state tanto a
lungo confinate in un’isola psichica altrettanto deserta di quella in
cui ora vive Elsie. Un senso di apparente coazione accompagna il
riaffiorare di tali fantasmi:<<(…) sono loro schiava: i fantasmi
arrivano senza essere stati invitati>> (ibidem, pag. 48) e di
sofferenza per la propria vulnerabilità di essere pensante - <<(…)
ignoravo che il pensare potesse essere una sofferenza>> (ibidem, pag.
48) che può far acuire la vergogna di inadeguatezza della fase
iniziale.
REINTEGRAZIONE, REGRESSIONE O
DISINTEGRAZIONE ?
|
Dopo il superamento del lutto della
fase della separazione e dopo quello della fase della liminalità,
con le relative vergogne tipiche, la fase successiva può apportare
un’effettiva reintegrazione di aspetti fino ad allora scissi,
rimossi o conflittuali del sé, conducendo a quell’approdo riuscito
che consiste nella conoscenza dei propri limiti personali e nella
convinzione di un futuro compito nella vita (Stein, op. cit.,
2004) all’insegna del Vero Sé. Il seppellimento di aspetti della
personalità precedenti la crisi (fase della separazione) e la
fluttuazione in una terra di morti (fase della liminalità)
inaugurano, in caso di successo, <<lo stadio successivo,
l’integrazione della personalità attorno ad un nuovo nucleo>> (Stein,
op. cit., 2004, pag. 95). La vergogna tipica di questa terza fase
mi sembra quella legata alla consapevolezza del Falso Sé (Mollon,
op. cit., 2006), delle tante maschere fino ad allora indossate
dall’individuo per assolvere a proprie idiosincratiche esigenze
identitarie. <<La vergogna legata all’uscita da una posizione di
falso sé ha a che fare con l’aspettativa che i sentimenti e i
desideri più autentici (il ‘vero sé’) non siano riconosciuti,
compresi o accettati. E’ come togliersi la maschera, spogliarsi
d’un costume, o rivelarsi come un imbroglione e un impostore>> (Mollon,
op. cit., 2006, pagg. 27-28). La vergogna “evolutiva”, cioè legata
ad un successo di questa crisi della mezza età, consiste nel
timore che questo svelamento di parti più autentiche di sé
<<provochi all’altro uno shock imbarazzante>> (Mollon, op. cit.,
2006, pag. 28): la vergogna nascerà dalle <<fratture stridenti fra
l’aspettativa dell’altro e i propri reali comportamenti e
sentimenti>> (Mollon, ibidem).
Dal libro della Michaelis
non ci è dato conoscere l’esito della crisi della mezza età di
Elsie. O meglio: nutriamo seri dubbi che essa venga superata con
successo. Elsie sembra fermarsi sul limine, nell’incompiutezza di
una trasformazione interiore contrastata da altre forze che ad
essa tenacemente si oppongono. << Quella
maschera che con odio Elsie ha riconosciuto come falsa costruzione
di sé, dopo averne introiettato tutti gli aspetti ambivalenti e
distruttivi ed essersi svuotata di ogni emozione genuina, finisce
per essere ripudiata ed Elsie sente che non è morta affatto in lei
quella partecipazione ‘panica’ alla natura che i bambini esprimono
con le loro pareidolie, con le loro illusioni creative>>
(Leo, 2008, pag. 207). Elsie però non porta a
compimento la propria “auto-analisi” che la fase della separazione
aveva preparato. Grazie al desiderio amoroso per Jorgen, costui si
installa nella sua mente non si sa più se come un corrispondente
immaginario, un altro da sé (oggetto idealizzato) con cui
articolare un dialogo interiore foriero di movimenti evolutivi,
oppure come una parte di Sé idealizzata (oggetto-Sé) a cui non
riesce a rinunciare… e che non riesce a seppellire. La confusione
della fase della liminalità non è riuscita per lei a farle venire
a capo di un paradosso: come rinunciare proprio a colui che le
permette un accesso se non ad una nuova individuazione, quanto
meno il riconoscimento delle maschere, dei travestimenti (falso
Sé) di cui si è dovuta ammantare in tutti questi anni per ottenere
quello che sin da piccola aveva bramato? Il mio corpo contro il
denaro dell’altro, <<questa è la cruda verità>> (pag. 73). Se è
solo in un rapporto di relazione amorosa con un altro, Jorgen, che
Elsie ha potuto trovare la forza di denudarsi, vergognandosene
immensamente, dei suoi travestimenti sentimentali, come potrà
ucciderlo dentro di sé e seppellirlo? Si fa strada, la Michaelis
ce lo fa intuire, una possibilità patologica, in cui predominano i
meccanismi di identificazione proiettiva. “Non sono io ad aver
lasciato lui per paura di essere abbandonata, che l’amato finisca
per stancarsi di me, che mi trovi banale e vecchia” sembra dire a
se stessa Elsie “ma è lui che mi ha murata viva nella mia
solitudine” (cfr. pag. 110). Un ultimo empito di desiderio finisce
per indurre Elsie a concedersi un ultima chance con Jorgen. Ma
l’incontro diventa spaventosamente freddo, rievocandole la
vergogna primaria di chi non ha mai incontrato uno sguardo
empatico da piccola. Anche l’ultimo travestimento, l’ultima
maschera indossata da Elsie che, disperatamente, tenta di sedurre
l’ex-marito e da cui viene respinta, finisce per riattivare
l’invidia (nei confronti del marito che ha trovato una compagna
molto più giovane), e non certo sembra inaugurare una fase di
reintegrazione. Anzi, le ultime parole del libro lasciano
presagire un percorso contrario, verso una soluzione patologica di
perdita, anziché di reintegrazione del Sé.
<<La questione del nome è un
gran problema: come mi chiamerò d’ora in poi? Elsbeth Bugge mi fa
l’effetto di una tomba abbandonata, invasa dalle erbacce>>. (Michaelis,
op. cit., pag. 124).
Se Elsie sembrava aver accettato
l’impossibilità di realizzare il proprio amore con Jorgen, se
sembrava “rassegnata” al fatto che il matrimonio con lui non
avrebbe rappresentato altro che una nuova catena, un’altra
coercizione, il desiderio di cambiare nome sembra nascondere
movimenti interiori tutt’altro che coerenti con un processo di
re-integrazione tra oggetti e parti del Sé fino ad allora esperiti
come inconciliabili. La vergogna sembra farsi più radicale ed
investire l’intero suo essere, nome compreso6.
|
LA VERGOGNA E L’ETA’ PERICOLOSA: UN’IPOTESI SUL
SUICIDIO DI TATIANA ROSENTHAL7 |
Sara Neiditsch (1921) ci informa di
uno degli ultimi interventi scientifici tenuti dalla Rosenthal in
occasione del primo Congresso panrusso per il trattamento dei
bambini minorati psichici, svoltosi a Mosca nel 1920: <<Le
discussioni su questa relazione furono molto vivaci e questo in
un’atmosfera di assenso. Una risoluzione proposta dalla dottoressa
Rosenthal esprimeva l’augurio che tutti coloro che si occupavano
di educazione, medici o pedagoghi, si familiarizzassero con la
psicoanalisi. Ma per motivi sconosciuti questa mozione non fu mai
messa ai voti>>.
Jean Marti ha commentato quest’ultima
nota, alquanto amara, della Neiditsch come un segnale di iniziale
emarginazione a cui sarebbe stata sottoposta la Rosenthal, in
seguito a (da lui ipotizzate) <<pressioni esterne per bloccare
questo orientamento che avrebbe potuto avere delle incidenze su
tutta la politica educativa del potere>> (Marti, 1978). Sta forse
in questo episodio, come lascia credere Marti, un ‘sintomo’ di
quella tendenza che negli anni ’20 prenderà corpo nella cultura
russa, che vedrà la psicoanalisi sempre più criticata ed attaccata
e che porterà Tatiana Rosenthal ad intuirne tutta la portata
distruttiva nei confronti di ciò a cui ella aveva consacrato
l’intera vita? Possiamo pensare che il suicidio di una giovane
donna, apparentemente all’apice della sua carriera e madre di un
bambino in tenera età, sia stato determinato esclusivamente da una
<<reazione esasperata e disillusa in una personalità dall’alta
tensione ideale>> (Accerboni, 1989)? Oppure possiamo concepire in
Tatiana la presenza di una vera e propria “malattia
dell’idealità”, secondo il termine coniato dalla
Chasseguet-Smirgel, un attaccamento narcisistico ad un’idea di Sé
incompatibile coi mille compromessi che la complessa e caotica
realtà sociale russa contemporanea sembrava richiedere? Ed ancora
ci chiediamo: di fronte alla lacunosità dei documenti sulla sua
vita, quanto possiamo desumere dai suoi (pochi) scritti in nostro
possesso sulla sua personalità, ed in particolare sulle
motivazioni psicodinamiche del suo suicidio? Il suo interesse per
l’’età pericolosa’, ossia per la crisi di mezza età, può dirci
qualcosa sulla sua crisi esistenziale maturata, apparentemente,
all’età di 36 anni? Troppo scarse sono le informazioni di cui
disponiamo sul suo conto, ma forse – è un’ipotesi come un’altra
quella che avanzo – nella crisi di Elsie Tatiana sembra
rispecchiarsi. La mia idea è che l’opera di Karin Michaelis
contenesse già, prima ancora che qualsiasi psicoanalista vi
posasse lo sguardo, delle intuizioni sorprendentemente profonde
sulla conflittualità inconscia insita in personalità che oggi
definiremmo ‘narcisistiche’, e che tale testo abbia attratto a tal
punto la Rosenthal in quanto in esso ella trovava artisticamente
rappresentate dinamiche psichiche analoghe a quelle che
riconosceva in se stessa. La creazione letteraria ha il potere,
infatti, di accostare, di giustapporre frammenti ideativi
apparentemente slegati e senza nesso tra di loro: ma basta leggere
alcuni brani de “L’età pericolosa” per accorgersi di come la
Michaelis avesse anticipato temi riguardanti il narcisismo che
solo dopo molti anni la letteratura psicoanalitica compiutamente
avrebbe tematizzato. Certamente le vicissitudini storiche e
sociali che si sviluppavano attorno a Tatiana ebbero un certo
ruolo nel favorire il tragico epilogo della sua breve vita, ma non
possiamo assolutizzarne la portata. Certamente, per uno storico
alle prese con un personaggio così enigmatico, gli eventi
‘esterni’ sono i dati più immediati ed ‘obiettivi’ coi quali
costruire un’ipotesi interpretativa per rispondere alla domanda:
perché questo suicidio? Ma accostare il suicidio della
Rosenthal, a quello di altri celebri rivoluzionari (ad es.
Majakovskij), anche vicini alla psicoanalisi (come Ioffé)8,
oppure dei tanti che, secondo la testimonianza di Victor Serge,
posero fine ai loro giorni tra il 1925 ed il 1926, ponendo
l’accento solo sulle dinamiche politico-sociali, e non
sufficientemente sul legame tra queste ultime e la biografia
individuale costituisce, a mio parere, uno dei limiti delle
argomentazioni portate da Jean Marti in questo lavoro
interpretativo. Gli eventi storici, il clima politico-sociale si
deve semmai concepire come lo sfondo di una scena teatrale su cui
il personaggio recita tutta la complessità dei propri conflitti
interni, non sappiamo in che misura consci a se stesso. Entrare
nel dramma interiore del personaggio Tatiana Rosenthal per
comprenderne le movenze alla base del gesto suicidario può essere
un compito così arduo da mozzare il respiro, da far tremare i
polsi, e la penna, a chiunque si accinga ad esso: ma forse, in
attesa del ritrovamento di altri suoi scritti, di altri relitti
che possano agevolarci in tale impresa, possiamo cercare negli
oscuri abissi dei pochi testi che abbiamo a disposizione quei
significanti in grado di farci avanzare in questo lavoro
interpretativo.
L’interesse di Tatiana per il
lavoro di Karin Michaelis può forse aiutarci in tal senso. Il tema
della vergogna è davvero centrale nella ‘biografia’ di
Elsie Lindtner, la protagonista de “L’età pericolosa”: l’assenza
della madre, morta proprio mentre lei nasceva, l’onta
subita dal padre che <<si consumava nella sua vergogna>>(Michaelis,
op. cit., pag. 102), la vergogna di dover essere sin da piccola
<<abbandonata alle cure di una domestica>>(Michaelis, ibidem) in
ristrettezze economiche condussero l’adolescente Elsie ad
investire, in maniera totalizzante ed esclusiva, l’unica parte del
Sé capace di avere un valore ‘economico’ agli occhi degli altri:
il proprio corpo. <<Lo specchio diventò il mio confidente, l’unica
gioia della mia fanciullezza. (…) Spesso mi assaliva l’angoscia di
perdere ciò che valeva più dell’oro zecchino>>(Michaelis, ibidem).
Questa strutturazione degli investimenti narcisistici polarizzati
con tale esclusività sul corpo conduce Elsie, da giovane adulta,
all’incapacità di stabilire autentiche relazioni amorose, ed a
vivere esclusivamente su un piano fantastico un innamoramento per
Malthe che si rivelerà, alla fine del libro, illusorio. La crisi
della mezza età porterà tutti i nodi al pettine: il proprio corpo,
che non avrà più l’avvenenza di un tempo, si trasforma in quella
<<maledizione che l’età scaglia sulle donne>>(Michaelis, op. cit.,
pag. 101), da sottrarre allo sguardo impietoso del tempo. Da corpo
idealizzato, ap-prezzato ed invidiato si trasforma in corpo
dis-prezzato, in ricettacolo finale di quel sentimento di vergogna
che già da tempo si materializzava in allucinazioni dispregiative.
E dopo che gli ultimi tentativi a disposizione di negare (in senso
maniacale) la perdita di quel corpo idealizzato sono falliti
(l’incontro sull’isola con Malthe è di una freddezza desolante e
l’ex-marito si sta per risposare con una diciannovenne), allora ad
Elsie non resta altro che annunciare la propria sparizione, non
solo semplicemente dal consorzio umano, ma in senso più radicale
come persona, cancellando persino il proprio nome.
Non sappiamo
se l’interesse di Tatiana Rosenthal per l’”età pericolosa”
nascondesse il sentimento di vicissitudini auto-biografiche
analoghe a quelle di Elsie. Quell’investimento così marcato in
adolescenza per quelle parti di Sé idealizzate e strutturanti
un’identità basata su progetti salvifici di giustizia sociale ci
fa però pensare ad una personalità in cui esse coesistevano con
altre parti del Sé sentite come precarie, minacciate da una
distruttività incomprensibile ed enigmatica. Quando le vicende
auto-biografiche (ed i desideri di auto-realizzazione di quelle
parti idealizzate del Sé) sembrarono procedere in maniera
discordante rispetto alle vicende storico-politiche
(l’emarginazione graduale degli psicoanalisti), la crisi della
mezza età, di per sé fruttuosa fase di elaborazione della
posizione depressiva, cioè del lutto della perdita del Sé
idealizzato maturato sin dall’adolescenza, finì per tingersi del
funesto sentimento di essere condannata ad un’inappellabile
solitudine che, anziché confinarsi come per Elsie in una lussuosa
villa su un isola inospitale, non riusciva a confinarsi in alcun
dove. Forse, come Elsie aveva difeso i propri sentimenti più
intimi dalla vergogna, anche Tatiana avrà come lei pensato:<<Non
posso permettere a nessuno di penetrare nel profondo dei miei
pensieri>>(Michaelis, op.cit., pag. 23) ed avrà confidato le
proprie intime pene ad un diario. E forse, anche lei, mettendo
fine alla sua giovane vita, avrà pensato di cancellare il proprio
nome per sempre dalla storia della psicoanalisi. |
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Sappiamo oggi, dopo gli studi di
Elliott Jaques (1978), quanto la crisi di mezza età parta e
rilanci un lavoro psichico che è cominciato con un’altra crisi,
quella adolescenziale.
L’età di mezzo è pervasa da
interrogativi del tipo: <<Cosa ho fatto finora della mia vita?>>,
<<Quali progetti ho realizzato?>>, <<In cosa ho fallito?>>,
<<Troverò mai la forza di realizzare quello che ancora resta
incompiuto?>>, <<Sono progetti per me realizzabili oppure sono
solo ambizioni poco realistiche?>>. Ma questi inevitabilmente
finiscono per passare dall’identità sociale ed interpersonale a
quella psichica, e quindi vertere intorno a quella domanda
cruciale che viene ripresa a partire dalle soluzioni a cui si era
arrivati in adolescenza: <<Chi sono io?>>. Tutte le soluzioni
parziali o lasciate in sospeso con cui si era concluso il lavoro
psichico adolescenziale diventano come delle cambiali che il
nostro Sé vuole riscuotere con urgenza nell’età di mezzo. Il
sentimento di un iniziale declino fisico (se non addirittura
psichico) può costituire il ‘trigger’ di un’angoscia di non avere
abbastanza tempo davanti a sé per essere quello che si desiderava
essere. Il tempo vissuto può assumere i connotati di una
proiezione maniacale verso il futuro, in un’affannosa e bulimica
consumazione di esperienze prima che sia troppo tardi, oppure può
avere i toni del ripiegamento depressivo su un passato che non
ritornerà mai più in quanto per sempre perduto. Le dorate promesse
con cui si era conclusa la crisi adolescenziale si sono rivelate
degli illusori abbagli, e può essere consolante rifugiarsi nella
nostalgia di un passato che conserva il fascino della gioventù. La
crisi di mezza età, in fin dei conti, ha come compito il misurarsi
con la finitezza della vita umana ed il far i conti con la morte.
Attraverso la “vignetta
clinica” di Elsie Lindtner ho cercato di illustrare le varie fasi
di sviluppo della crisi della mezza età e ho ipotizzato tre tipi
basilari di vergogna, ciascuno associato alla particolare fase in
cui l’individuo si viene a trovare alle prese con questa sua
personale nekya, questa discesa agli Inferi che può
inaugurare un processo finale di riuscita individuazione. |
|
Bibliografia:
Accerboni
Anna Maria (1989), “Tatjana Rosenthal. Una breve stagione analitica”,
in Giornale Storico di Psicologia Dinamica,
vol. XIII, gennaio 1989, fascicolo 25, pagg. 61-80.
Brome Vincent,
“Vita di Jung”, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.
Broucek A.H., « Shame and the Self »,
Guilford, New York, 1991 (citato da Mollon, op. cit., 2006).
Chasseguet-Smirgel J.,
“La maladie d’idéalité”, Paris, Ed. Universitaires, 1990.
Diamond Michael J., Accessing
the multitude
within: A psychoanalytic perspective on the transformation of
masculinity at mid-life,
in Int.J.Psychoanal. 2004; 85:45-64.
Erikson Erik, Identity and the life
cycle, in “Psychological Issues”, Monograph 1, International
Universities Press, New York, 1959a.
Erikson Erik
(1959b), “Il giovane Lutero”, trad.it. Armando, Roma, 1979.
Erikson Erik, “Childhood and Society”
(2nd edition revised and enlarged), Norton, New York, 1963.
Giaconia
G., Pellizzari G., Rossi P., Uno sguardo psicoanalitico sulla crisi
d’identità, in “Psiche”, n.2, 2008, pagg.137-147.
Grinberg Leòn & Rebeca, “Psychanalyse
du migrant et de l’exilé”, Césura Lyon Editions, Lyon, 1986.
Jaques
Elliott, Morte e crisi di mezza età, in “Lavoro, creatività e
giustizia sociale”, Boringhieri, Torino, 1978.
Articolo originale: “Death and the
Midlife Crisis”, in International Journal of Psychoanalysis, vol.46,
part IV, october 1965, pp.50.
Jeammet
Philippe, “Dipendenza e depressione”, in A. Braconnier, C. Chiland, M.
Choquet, R. Pomarede (a cura di) “La depressione negli adolescenti”,
Borla, Roma, 1998.
Jervis
Giovanni, voce Identità, in AA.VV. “Dizionario storico di
psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze”, Einaudi, Torino,
2006.
Jung Carl G.,
“Ricordi, sogni, riflessioni”, Il Saggiatore, Milano, 1965.
Kaufman Gianni,
Vergogna: l’emozione del limite, in AA.VV., “La vergogna”,
Rivista del Centro Italiano di Psicologia Analitica, Vivarium, Milano,
2007.
Kernberg Otto
F., “Psicoanalisi: principi, partigianeria ed evoluzione personale” in
G. Leo (a cura di), La psicoanalisi e i suoi confini,
Astrolabio, Roma, 2009.
Kohut H.(1971),
“Narcisismo e analisi del Sé”, ed. italiana Boringhieri, Torino,
1976.
Leo Giuseppe,
“Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi”, Edizioni Frenis Zero,
Lecce, 2008.
Leo Giuseppe,
Auto-emancipazione e psicoanalisi. Il percorso umano di Tatiana
Rosenthal, in Setting, Franco Angeli, Milano, n.24/2007, pagg.
99-116.
Lynd Merrell Helen, “On Shame and the
Search for Identity”, Science Editions, New York, 1961.
Michaelis Karin,
(1910) “L’età pericolosa”, edizione italiana: Giunti, Firenze, 1989.
Miller Patricia
H., “Teorie dello sviluppo psicologico”, Il Mulino, Bologna, 1987.
Mollon
Phil, “Vergogna e gelosia.
Tumulti segreti”, Astrolabio, Roma, 2006.
Neiditsch Sara (1921), <<Dr. Tatiana
Rosenthal. Petersburg>>, Internationale Zeitschrift fur
Psychoanalyse, VII, 1921, pp. 384-85.
Newton Peter M., “Freud. From youthful
dream to mid-life crisis“, Guilford Press, New York, 1995.
Resnik Salomon,
“Persona e psicosi”, Einaudi, Torino, 1975.
Resnik Salomon, “Biographie de
l’inconscient”, Dunod, Paris, 2006.
Resnik Salomon,
« Il teatro del sogno », Bollati Boringhieri, Torino, 2007.
Resnik Salomon,
“Ferite, cicatrici e memorie”, Borla, Roma, 2008.
Resnik Salomon,
“Il significato di trattamento in psicoanalisi, con particolare
riferimento alla psicosi”, in G. Leo (a cura di) La psicoanalisi e
i suoi confini, Astrolabio, Roma, 2009.
Rodman Robert
F., “Winnicott. Vita e opere”, Raffaello Cortina, Milano, 2004.
Rosenthal Tatiana (1911),“Karin
Michaelis: ,,Das gefährliche Alter’’ im Lichte der Psychoanalyse“,”
Zentralblatt für Psychoanalyse. Medizinische Monatsschrift für
Seelenkunde“, I, pagg.277-294.
Rosenthal
Tatiana (1920), "Sofferenza e creazione in Dostojevskij.
Analisi psicogenetica", traduzione
italiana di Patrizia Sechi, pubblicato in
Giornale Storico di Psicologia Dinamica,
Vol.
XIII gennaio 1989 fascicolo 25, pagg. 33-60.
Schreiber
Hermann, “La mezza età: viverla senza problemi”, SugarCo Edizioni,
Milano, 1978.
Shonfeld W.A., La psychiatrie
de l’adolescent, un défi pour tous les psychiatres,
« Confrontations Psychiatriques », Specia Edit., 1971, n.71, p. 9-36,
cit.in Mazet Ph. & Houzel D., « Psychiatrie de l’enfant et de
l’adolescent », Maloine, Paris, 1993, pag. 454.
Schore Allan
N., “La regolazione degli affetti e la riparazione del sé”,
Astrolabio, Roma, 2008.
Spielrein
Sabina, “Diario di una segreta simmetria”, a cura di A. Carotenuto,
Astrolabio, Roma, 1980.
Spielrein
Sabina , “ Comprensione della schizofrenia e altri scritti”, Liguori,
Napoli, 1986.
Stein Murray,
“Nel mezzo della vita”, Moretti e Vitali, Bergamo, 2004.
Note
dell'Autore:
(1)
Jaques (op.cit., pag. 61) afferma infatti:
<<Nell’adolescenza, l’esito di un grave esaurimento è nella
maggioranza dei casi la schizofrenia, mentre nella mezza età è la
depressione oppure ogni conseguenza all’impiego di difese contro
l’angoscia depressiva quali le difese maniacali, l’ipocondria, i
meccanismi ossessivi, la superficialità, il deterioramento del
carattere>>.
(2)
Sulla contemplazione della propria morte: <<Proprio
come nel bambino, e qui ci rifacciamo nuovamente alla Klein (“Il
lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi”,
1940), “lo stabilirsi di rapporti soddisfacenti con altri dipende
dalla sua vittoria contro il caos interno (posizione depressiva) e
dalla salda instaurazione di oggetti buoni interni”, così nella
mezza età un soddisfacente adattamento alla contemplazione conscia
della propria morte dipende dallo stesso processo; in caso
contrario la morte è equiparata al caos depressivo, alla
confusione e alla persecuzione, proprio come nell’infanzia>>(op.cit.,
pag.74). Sulla rassegnazione Jaques scrive: <<A livello inconscio,
per poter raggiungere una tale visione, occorre la capacità di
conservare l’oggetto buono interno e la capacità di assumere un
atteggiamento rassegnato alle manchevolezze e agli impulsi
distruttivi propri e alle imperfezioni dello stesso oggetto buono
interno>> (op.cit., pag. 72), e più oltre <<Per rassegnazione si
intende l’accettazione, a livello conscio e inconscio, delle
frustrazioni inevitabili nel corso di un’esistenza intera>> (op.cit.,
pag. 80).
(3)
Con
il termine ‘identità’ ci si riferisce a <<un senso consapevole
dell’identità individuale (…) uno sforzo inconscio verso la
continuità di un carattere personale (…) un criterio per il
silenzioso agire della sintesi dell’Io (…) il mantenimento di una
solidarietà interiore con gli ideali e l’identità del gruppo>> (Erikson,
1959a). Cfr. quello che scrive Jervis (2006) alla voce
Identità: <<(…) il comune sentimento di identità si presenta
modulato in due dimensioni diverse, ancorché connesse: da un lato,
come l’esperienza individuale dell’esser persona dotata di una
riconoscibilità ben differenziata da ogni altra possibile;
dall’altro, invece, come appartenenza a una collettività omogenea
dotata anch’essa di caratteri riconoscibili, i membri della quale
costruiscono rassicuranti certezze di autodefinizione
collettiva>>. Paul Ricoeur(“Sé come un altro”, Jaca Book, 1990),
come scrivono Giaconia et al. (2008), <<distingue due forme di
identità. C’è l’identità “idem” che risponde alla domanda: “che
cosa” sono io? Questa domanda definisce gli elementi fissi
dell’identità, le invarianti che appunto la distinguono e
definiscono come una “cosa”, un’entità oggettivabile. E c’è
l’identità “ipse”, che risponde invece alla domanda: “chi” sono
io? Domanda che esprime una tensione e una ricerca che si
realizza nel consumarsi del tempo e aspira,
più che a una risposta definitoria, a un riconoscimento che solo
l’altro può offrire>> (Giaconia et al., 2008, pag. 144).
(4)
Anche psicoanalisti non junghiani hanno prodotto concetti molto
affini a quello di Persona. Si veda ad es. Resnik con i suoi
concetti di “maschera” e di “personaggio” nell’esplorazione
psicoanalitica del mondo psicotico sin da “Persona e
psicosi”(Resnik, 1975) fino alle sue ultime opere (Resnik,
2006; 2007; 2008; 2009).
(5)
Mollon così continua: <<Questa figura priva d’empatia infine
proiettata sull’analista, cosicché il paziente si aspetta
da lui mancanza di comprensione e di risposta: il paziente teme di
sentirsi addosso lo sguardo di un altro che lo guarda non con
empatia ma con incomprensione>> (pag. 42, op. cit.).
(6)
In realtà è dato conoscere quello che è il destino
di Elsie Lindtner grazie ad un secondo libro di Karin Michaelis,
che è il seguito ideale de “L’età pericolosa”. Come scrive
Donatella Ziliotto nella prefazione all’edizione Giunti de “L’età
pericolosa”, il romanzo “Elsie Lindtner” <<si apre su Elsie che, a
Montecarlo, dilapida tutto il suo denaro e che solo con un
provvidenziale prestito del marito riesce a ricostituire il suo
capitale, col quale parte per una crociera nel Mediterraneo. Qui,
mentre la camerierina si estasia di fronte ai monumenti della
civiltà greca, Elsie, per nulla interessata, comincia a intuire la
propria povertà interiore. In Jeanne si delinea quindi una
vocazione artistica, che approfondirà recandosi a Parigi, mentre
Elsie partirà per l’America. A Parigi il feuilleton si fa sempre
più carico: Jeanne conosce Malthe, il grande amore di Elsie,
aspetta un figlio da lui, si sposa e si separa. L’amica di Elsie,
Lili, intanto si suicida con la complicità della stessa Elsie. (…)
Nella metropolitana di New York Elsie incontra un piccolo
vagabondo ubriaco, “con spiccata personalità criminale”, come lo
giudicherà un medico. Ma per la prima volta nella vita Elsie sente
nascere un interesse vero per qualcosa o qualcuno; decide di
adottare il bambino e di portarlo a “Villa Bianca”; con la sua
amica Magna avvia un’azienda agricola dove il piccolo Kelly, a
contatto con i figli di Magna, maturerà e si normalizzerà>> (pag.
7).
(7)
Questa parte del lavoro è una rielaborazione del
paragrafo “L’età pericolosa ed il suicidio. Un’ipotesi
psicogenetica” del mio articolo “Auto-emancipazione e
psicoanalisi: il percorso umano di Tatiana Rosenthal” (2007) a cui
si rinvia il lettore per più complete notizie biografiche sulla
Rosenthal.
(8)
Ioffé era medico ed aveva fatto l’analisi personale
con Adler tra il 1908 ed il 1912. Fu collaboratore di Trotskij
durante gli anni dell’emigrazione (prima della Rivoluzione),
nonché pubblicò sulla rivista russa Psychotherapia (n. 4
del 1913) un articolo intitolato <<Contributo alla questione
dell’inconscio nella vita dell’individuo>>. Morì suicida nel 1927,
secondo quanto scrive Jean Marti nell’op. cit.
(*) Questa la citazione letterale da Kohut, “Narcisisismo
e analisi del sé”( Boringhieri, 1976): <<(…) la traslazione
speculare è il ristabilimento terapeutico di quella
fase evolutiva normale del Sé grandioso in cui la luce nell’occhio
della madre, che rispecchia lo sfoggio esibizionistico del
bambino, e altre forme di partecipazione e di risposta materna al
piacere narcisistico-esibizionistico del bambino rafforzano la sua
autostima e, attraverso una selettività gradualmente crescente di
queste risposte, cominciano a incanalarla in direzioni
realistiche>>(pag. 119). Ed il rapporto tra transfert speculare e
fase ‘normale’ del Sé grandioso viene chiarito alla pag.127:<<Bisogna
riconoscere che anche le forme più pure di traslazione speculare
nel senso stretto del termine, che s’incontrano nell’analisi dei
disturbi narcisistici della personalità, non sono repliche dirette
di una fase evolutiva normale. Anch’esse sono infatti edizioni
alterate in via regressiva delle richieste di attenzione e di
approvazione del bambino e di un’eco che confermi la sua presenza,
e contengono sempre tratti tirannici e iperpossessivi che
tradiscono un aumento di elementi pulsionali sadico-orali e
sadico-anali, prodotto da intense frustrazioni e delusioni>>.
|
|