Presentation   News Events   Archives    Links   Sections Submit a     paper Mail

FRENIS  zero 

 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

  Home Frenis Zero

        

 

 

 

  "LA VERGOGNA E L'ETA' PERICOLOSA"

 

 

 

 di Giuseppe Leo

 

 

 

Relazione presentata al Convegno Internazionale “Non c’è più vergogna…/Il n’y a plus de honte…” (Roma, Istituto Svizzero di Roma, 18-19 settembre 2009)

 


 

<< Cara Tatiana,

ho letto con grande interesse sia il libro della Michaelis “L’età pericolosa” sia la recensione che ne hai fatto sullo Zentralblatt. E’ davvero straordinario il personaggio di Elsie creato dalla Michaelis! Questa donna che, al superamento del quarantaduesimo compleanno (a cui allude “L’età pericolosa” del titolo) abbandona il marito, in maniera improvvisa ed apparentemente immotivata, per ritirarsi in un’isola deserta dove, su progetto di un suo amico architetto Jorgen Malthe, ha fatto costruire una villa tutta per sé, è un personaggio complesso e sfaccettato>>(Leo G., Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi, 2008).

 

Questa citazione è tratta da un mio libro di narrativa “Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi”. In esso si parla di una serie di psicoanalisti, tutti morti suicidi, le cui vite si intrecciano misteriosamente e…. ‘documentatamente’ tra di loro. Tatiana è Tatiana Rosenthal, la prima donna psicoanalista che la Russia abbia mai avuto, attivista politica durante la Rivoluzione d’Ottobre, pioniera nel coniugare la psicoanalisi con le uniche ed irripetibili esigenze educative che la nuova società sovietica richiedeva. E’ morta suicida nel 1920. A scriverle questa lettera immaginaria è un’altra psicoanalista russa della prima ora e sua compagna di studi a Zurigo: Sabina Spielrein. Ma qual è il libro a cui Sabina fa riferimento? E a cosa allude il titolo: “L’età pericolosa”?

Nel 1911 uscì sullo “Zentralblatt für Psychoanalyse. Medizinische Monatsschrift für Seelenkunde” una recensione scritta dalla Rosenthal riguardante il libro di Karin Michaelis “L’età pericolosa” (Rosenthal, 1911). Più che una recensione era una rilettura in chiave psicoanalitica di un’opera narrativa di successo della scrittrice danese. Costei (1872-1950), quando pubblicò (nel 1910 a Copenaghen) l’”Età pericolosa”, era all’apice del successo letterario. Sinteticamente, l’opera narra, in forma diaristica ed epistolare, di Elsie Lindtner che, in piena crisi della mezza età (l’”età pericolosa” appunto)  abbandona “inopinatamente” il marito per auto-esiliarsi in un’isola disabitata. Lì il suo amico architetto Jorgen Malthe ha fatto costruire per lei  una confortevole villa. Mentre col passare dei giorni la solitudine le diventa sempre più ardua da tollerare, la protagonista comincia a vagheggiare un incontro con Jorgen, che un tempo le parve volesse corteggiarla. Dopo una serie di missive all’amico, finalmente l’incontro tanto atteso poté realizzarsi, ma si rivelò un’autentica delusione: la lontananza tra i due aveva finito per spegnere qualsiasi desiderio reciproco. In un tentativo di annullare gli effetti delle sue azioni – e del tempo quindi – Elsie finisce per invitare sull’isola persino il suo ex-marito, il quale però declina l’invito, essendo alle prese con un nuovo matrimonio. Elsie finirà dunque per restare sola sull’isola quasi completamente deserta, accompagnata solo da due personaggi femminili (la cameriera e la cuoca) su cui ella sembra proiettare lati oscuri di sé e rimpianti mai completamente superati.

In questo mio intervento mi prefiggo  di delineare una sorta di “fenomenologia psichica evolutiva” della crisi di mezza età alla luce dell’evoluzione psicologica del personaggio letterario di Elsie. Vedremo come le vicissitudini interiori del personaggio ideato dalla Michaelis sembrino ripercorrere delle traiettorie evolutive abbastanza tipiche che ogni biografia, sia che si tratti di uomo che di donna,  incontra nel passare dalla gioventù alla tarda maturità ed alla vecchiaia. Delineerò tre fasi evolutive della mid-life crisis – separazione, liminalità e reintegrazione – ad ognuna delle quali tenterò di associare una specifica tipologia di vergogna.

Un accenno verrà fatto al dato, scontato e banale, che neppure gli psicoanalisti, e le loro biografie, sfuggono alle vicissitudini, spesso drammatiche, di questa età transizionale, che in alcuni, per fortuna isolati casi, può sfociare persino nel suicidio. E forse non è casuale l’interesse che Tatiana Rosenthal, <<giovane (aveva 36 anni), dotata, attiva, felice nella sua professione, madre di un bambino intelligente che amava teneramente>>(Neiditsch S, 1921, cit. in Marti J., 1978) mostrava per l’età pericolosa di Elsie se si suicidò proprio all’ingresso di questa età di bilanci e di rimaneggiamenti interiori. L’analisi dell’opera letteraria della Michaelis contiene forse la chiave per far luce sul misterioso suicidio del suo recensore.

 

 

 

 

 

 

L’ETA’ PERICOLOSA

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura

ché la diritta via era smarrita

Ah quanto a’ dir qual era è cosa dura

questa selva selvaggia ed aspra e forte

che nel pensier rinnova la paura!

tanto è amara che poco è più morte

 

Dante

 

Se è vero che Dante è il primo “fenomenologo” della mid-life crisis, questo ci deve far pensare a quanto sia scorretto ritenere che essa, come asserisce qualche sociologo, sia un prodotto storico della modernità (o della “esistenza liquida” della post-modernità), ed in particolare sia appannaggio di quella borghesia inurbata e colta che ha decretato il successo di un’infinità di manualetti (in genere di editoria anglo-americana) sul tema.

Ciò che Dante, pochi anni dopo essere stato esiliato dalla sua Firenze, descrive in maniera allegorica sono <<le sensazioni di paura e di abbandono>> (Schreiber H., 1978) con cui, tra la metà della trentina e la metà della quarantina, <<si annuncia la crisi della mezza età (…) un vago senso  di crollo interiore che non si spiega razionalmente e che solo raramente si riconosce come paura di varcare quel confine tra la fine della crescita e l’inizio della vecchiaia>> (Schreiber H., 1978, pag.15) . E’ proprio nell’età in cui si cominciano a raccogliere i frutti delle proprie aspirazioni sociali (Dante era da poco diventato consigliere comunale, Tatiana aveva conseguito la direzione della clinica  per bambini minorati psichici presso l’”Istituto di ricerca per la patologia cerebrale” di San Pietroburgo  ), professionali, familiari (Dante si era da poco sposato con una ricca fiorentina, Tatiana era madre di un bambino in tenera età) che questi uomini <<negli anni migliori in realtà vivono pericolosamente>> (Schreiber H., 1978, pag. 13). Anche l’esilio, reale nel caso di Dante e del personaggio letterario di Elsie, metaforico nel caso di Tatiana, esiliata da quella cultura russa che a partire dagli anni ’20 <<vedrà la psicoanalisi sempre più criticata ed attaccata (…)>>(Leo G., 2007, pag.111), e la migrazione costituiscono una potente immagine che si staglia nello scenario psichico di chi si trova a fare i conti <<con le vicissitudini, con le sofferenze e con le perdite>> (Grinberg L. & R., 1986, pag. 237) che ogni esperienza della liminalità nello sviluppo psichico comporta. Ma cosa è in crisi nella mezza età?

 

<<Negli anni della mezza età>> scrive Robert Musil ne “L’uomo senza qualità” <<in fondo pochi sanno come sono approdati a se stessi, ai loro divertimenti, al loro modo di vedere, alla loro donna, al loro carattere, professione ed ai loro successi, ma hanno la sensazione che non si possa cambiare molto. Si potrebbe persino affermare che sono stati ingannati, perché non riescono a trovare un motivo soddisfacente per spiegare perché tutto è andato nel modo in cui è andato; avrebbe anche potuto andare diversamente; gli avvenimenti raramente sono stati provocati da loro stessi, ma piuttosto sono maggiormente dipesi da tutta una serie di circostanze, dalla luna, dalla vita, dalla morte di altre persone da cui poi ad un certo momento sono stati coinvolti>>.

 

Insomma, cosa è in gioco nello spingere un banchiere all’apice della sua carriera a fuggire con la sua segretaria di dieci anni più giovane, magari con la scusa di un anno sabbatico, piantando in asso famiglia, posizione sociale e carriera? Da un paio di anni era in cima, era arrivato. Ma non gli stava bene. Aveva la sensazione di essere immobile, di non evolversi più, che tutto era ripetitivo. Prima il suo lavoro lo affascinava, ultimamente il più delle volte lo annoiava. Una noia, una sensazione di vuoto interiore che lo ha fatto agire come un ragazzo scombinato, assetato di libertà ed alla ricerca della “propria vita”. Ma poi il paragone con l’adolescenza ed i suoi conflitti di identità è  così giustificato? Elliott Jaques (1978)  afferma che  << l’ingresso sulla scena psicologica della realtà e dell’inevitabilità della nostra scomparsa definitiva sia la caratteristica centrale  e cruciale della cosiddetta mezza età>>, un’età paradossalmente caratterizzata dal fatto che <<si entra nel rigoglio della vita, nel periodo del completamento, ma nello stesso tempo rigoglio e completamento hanno una scadenza. La morte è subito dopo>> (Jaques, 1978). <<Ora la morte>> aggiunge Jaques <<non è più, a livello conscio, un concetto generico o l’esperienza della perdita di qualcun altro, ma è una questione personale; è la nostra morte, la nostra reale ed effettiva mortalità (Jaques, op.cit., pag. 63).  Il compito dell’età di mezzo è per Jaques quello di rilanciare e perfezionare, ossia elaborare in maniera definitiva, la posizione depressiva infantile, passando per l’adolescenza ed il suo “turmoil”. Come scrive acutamente Jeammet (1998), il rapporto tra crisi della mezza età dei genitori e crisi adolescenziale dei figli può essere tale per cui <<l’adolescente è facilmente il sintomo della crisi dei genitori, testimoniando col suo malessere la loro sofferenza e cercando, nei panni di un capro espiatorio, di attirare l’attenzione sulle difficoltà dei suoi genitori che lo angosciano tanto più che è lui stesso ambivalente nei loro riguardi>> (Jeammet, 1998, pag.140). Jeammet, infatti, contesta che si possa usare il termine di lutto quanto meno per l’adolescenza “non patologica”, in quanto <<si può essere tentati di pensare che questa nozione di lutto degli oggetti infantili sia un modo di vedere abbastanza normativo degli adulti che vi proiettano le proprie difficoltà di elaborare il loro confronto con la depressione>> (Jeammet, 1998, pag. 132). In accordo con Jaques1, Jeammet ammette che il processo di elaborazione del lutto si addica più alla crisi della mezza età che non all’adolescenza, considerata più un tentativo di regolazione e di uscita dalla posizione schizo-paranoide che non un confronto con la posizione depressiva. Fondamentali sono nel pensiero di Jaques i concetti di contemplazione e di rassegnazione, da intendere rispettivamente come il termine medio e quello ultimo del processo di specifica elaborazione della posizione depressiva associata all’età di mezzo. <<Nello stadio precoce – da intendersi come l’età giovanile adulta, N.d.R. - la contemplazione2, il distacco, la rassegnazione3 non costituiscono i presupposti indispensabili del piacere, della gioia, del successo>> (Jaques, op. cit., pag.73) dato che <<prima dell’incontro di mezza età con la morte, una completa rielaborazione della posizione depressiva non fa necessariamente parte ancora del normale processo di sviluppo>> (Jaques, op.cit, pag. 66). La concezione kleiniana, nonostante i suoi illuminanti contributi nella comprensione delle dinamiche profonde, appare oggi superata se, quanto meno, non viene integrata con la psicologia evolutiva, i cui studi sull’età adulta si sono sempre più moltiplicati negli ultimi decenni. (vedi Levinson e altri autori). <<(…) La vita adulta è “evolutiva” altrettanto dell’infanzia e dell’adolescenza>> (Stein, 2004, op. cit., pagg. 12-13).

Ma finora la domanda cruciale è restata inevasa: <<Cosa è in crisi nella età di mezzo?>> Ci sembra che con Erikson la risposta non possa che essere: <<L’identità>>. E’ utile perciò il riferimento all’approccio ‘psicosociale’ di Erikson tanto riguardo alla definizione di ‘crisi evolutiva’ quanto nell’analizzare le varie accezioni del termine ‘identità’3 (Miller, 1987; Shonfeld, 1971). L’identità comporta, secondo Erikson, un chiaro senso di definizione di sé, un impegno rispetto ai valori e alle convinzioni personali, la considerazione dell’esistenza di identità alternative personali, un certo grado di autoaccettazione, un senso di unicità personale (“sameness”) e una fiducia nel proprio futuro: tutte acquisizioni queste che non sono date una volta per tutte in modo definitivo con il superamento delle tempeste adolescenziali, ma che vengono più o meno messe in discussione con il “turmoil” dell’età di mezzo. E ancora Erikson definisce l’identità come una <<configurazione che gradualmente integra i dati costituzionali, i bisogni libidici idiosincratici, le capacità, le identificazioni significative, le difese effettive, le sublimazioni riuscite e i ruoli importanti>> (Erikson, 1959b). Le varie componenti dell’identità psicosociale sono state poi analizzate da Shonfeld (1971) per cui ognuna di esse si identifica con altrettante domande: a) <<A quale categoria appartengo?>>: identità sociale; b) <<Cosa rappresento?>>: identità morale; c) <<Cosa sto diventando?>>: identità proiettiva; d) <<Come mi intendo con gli altri? Quali sono i miei rapporti con l’altro sesso?>>: identità dell’Io che si situa sul piano dei rapporti interpersonali; e) <<Sono in grado di bastare a me stesso?>>: identità attestante la capacità di separazione e di autonomia; f)<<Che tipo di persona sono?>>: identità di genere. A proposito di quest’ultima, Diamond (2004) ha studiato la crisi della mezza età nei maschi come un’occasione irripetibile per integrare le varie componenti dell’identità di genere in un tutto quanto più armonico, coerente e maturo. Sarebbero utili ulteriori ricerche tese a studiare come l’età di mezzo sia un appuntamento ineludibile perché anche le altre componenti dell’identità psicosociale, sia nei maschi che nelle femmine, possano approdare ad un maggiore grado di integrazione. Il concetto eriksoniano di identità ci sembra, infine, potersi avvicinare a quello di “Persona” di Jung (Stein, 2004)4. E’ nel rapporto tra “Persona” e “Ombra” che è racchiusa tutta la fenomenologia della crisi della mezza età, laddove la figura di Hermes rappresenta la liminalità o transizionalità psicologica che permette, se la crisi viene ben superata, l’epifania di un’identità più autentica cui Jung riserva il nome di “individuazione”. <<Sotto il tumulto di questi stati d’animo, e spesso della vaga minaccia di buchi e di vuoti che si aprono sotto i nostri piedi, nella matrice intrapsichica della personalità si sta svolgendo una vasta e profonda ristrutturazione; una ristrutturazione indicata in primo luogo dai sogni ma anche da fenomeni psichici come visioni, fantasie persistenti e intuizioni – tutti messaggi oscuri, e spesso del tutto opachi, dell’inconscio>> (Stein, 2004, op. cit., pag. 34). Anche Jung (1875-1961) sperimentò, proprio nell’età di mezzo, dapprima quella relazione altamente drammatica con Sabina Spielrein (1980), iniziata nel 1909, poi la relazione extraconiugale con Toni Wolff, anch’essa iniziata come analisi nel 1910 e poi sconfinata fuori dai limiti professionali nel 1911-1912, quindi la rottura con Freud e poi, subito dopo, una vera e propria crisi psicotica - se dobbiamo prestar fede alle testimonianze raccolte da Brome (1994) - che egli connotò come “confronto con l’inconscio”(Jung, 1965).

La crisi della mezza età potrebbe anche essere letta in termini di tensione tra i due poli del Falso Sé e del Vero Sé, secondo la terminologia di Winnicott. Ed anche la biografia di Winnicott (1896-1971) ebbe, con l’accesso alla mezza età, una serie di eventi-sentinella: la fine dell’analisi con Strachey nel 1933, nel 1941 inizia una relazione extraconiugale con Clare Britton, i primi attacchi di cuore che egli mette in relazione coi propri problemi di aggressività. Per Winnicott l’incontro con Clare costituirà senza dubbio un fattore fondamentale che contribuirà al successo con cui egli supererà la crisi della mezza età: un successo che con queste parole il suo biografo F. Robert Rodman (2004) sintetizza <<(…) Donald era riuscito finalmente a combinare l’amore, la differenziazione personale e una condizione della mente in cui, per usare le parole di Marion Milner, poteva finalmente “spiccare il volo”>> (Rodman, 2004, op. cit., pagg. 70-71).

Jaques, nel lavoro citato, ha analizzato le svolte creative che l’età pericolosa ha fatto subire alle biografie di una serie di artisti. E’ ancora di là da venire uno studio sistematico sul contributo che la crisi della mezza età ha apportato alla creatività di un numero sufficientemente ampio di analisti. Tra le biografie di Freud è da segnalare il libro di Newton (1995), ma non ho rintracciato alcuno studio sistematico che prenda in considerazione le “vite de’ più eccellenti” di loro. Alexander Mitscherlich,  che in qualità di direttore a Francoforte del “Sigmund Freud Institut” promosse nel 1975 il “Progetto di mezza età”, in un’intervista a Schreiber (1978) così parlava della sua crisi di mezza età: <<Sì, l’ho avuta. (…) (…) ho dovuto di nuovo fare una scelta professionale per cui non ero nemmeno preparato. Dopo la guerra sono stato spinto dagli alleati a fare della politica attiva, e questo mi ha causato dei conflitti. Perché in fondo ero già felice della possibilità che avevo di fare della psicoanalisi. Invece avrei dovuto fare il politico. (…) sono passato da un matrimonio in un altro. Ho interrotto un rapporto vecchio che durava da quasi vent’anni e ne ho iniziato un altro per il resto della mia vita>> (Schreiber, 1978, op. cit., pag. 58).

 

 

LE FASI DELLA CRISI

 

Il materiale che presento, il diario della Sig.ra Elsie, è un’auto-analisi. L’ho seguita. Volevo procedere seguendo Freud, in modo da poter studiare l’infanzia e la giovinezza della Sig.ra Elsie. Inoltre trovai nel diario degli accenni certamente importanti, anche se non sufficienti come materiale. Mi rivolsi allora agli altri libri di Karin Michaelis ed ecco – si trova in diverse varianti e stadi di sviluppo  la stessa tipologia.  Le differenti forme di donna mostravano sorprendenti stereotipie nelle più importanti caratteristiche psicologiche.

Sappiamo che i tratti stereotipati nelle forme degli scrittori spesso sono da attribuire al fatto che certi impulsi inconsci nella vita mentale dell’artista lo obbligano a questi caratteri che ritornano sempre.

L’analisi di un’opera letteraria è strettamente connessa con l’analisi dello scrittore.  Certamente non si risalirà dal destino di un eroe dell’opera letteraria a quello dello scrittore:l’opera d’arte può sostituire al posto dello scrittore il corso  dei suoi conflitti psicologici inconsci.

L’opera d’arte di Karin Michaelis è un tutto unico, e mi sono trovata  autorizzata in base all’anamnesi di completamento a cercare le determinanti psicologiche individuali della crisi della Signora Elsie.

 

Tatiana Rosenthal, “Karin Michaelis: L’età pericolosa alla luce della Psicoanalisi” (op. cit., 1911), trad. italiana di Giuseppe Leo

 

Stein distingue tre fasi nel processo critico:

a)    la fase della separazione;

b)    la fase della liminalità o transizione;

c)    la fase della reintegrazione (in caso di esito positivo) o della regressione (nel caso di un esito nella patologia o in un funzionamento mentale più rigido)

 

Cerchiamo di seguire le tre fasi avvalendoci del “filo di Ariannna” che ci offre la Michaelis presentandoci le vicissitudini interiori di Elsie Lindtner.

 

LA SEPARAZIONE

 

 

Ma qual è il punto di partenza di questo movimento interiore che spinge Elsie a segregarsi dal mondo? La scrittrice afferma essere, apparentemente, quel complesso di modificazioni fisiche e psicologiche che accompagnano e preannunciano la menopausa: l'età pericolosa. E' pur vero che la crisi di mezza età può configurare quel definitivo superamento di quel lutto per la perdita degli oggetti ideali, e del Sé ideale, che, iniziato in adolescenza, trova, o meglio dovrebbe trovare,  in essa il suo compimento. E' questo il motivo per cui tante crisi adolescenziali nei figli sono concomitanti con fenomeni analoghi nei genitori. In Elsie  questo processo di lutto ha un'elaborazione così travagliata forse anche perché, non avendo figli, non può proiettare in essi le proprie angosce depressive al fine di ottenere sollievo.  Non può nemmeno proiettare in un figlio adolescente quelle parti di sé giovanili (idealizzate) per poterle proteggere dall'inesorabile avanzare degli anni. Forse il rapporto con Jorgen Malthe sembra assolvere questa seconda funzione, come è facile osservare in molte donne quarantenni che stabiliscono dei flirts con uomini ben più giovani.

(da G. Leo, “Vite soffiate”, op. cit., 2008, pag. 206)

 

Così la Spielrein prosegue nelle sue osservazioni dirette alla Rosenthal in questa corrispondenza immaginaria. Ma l’esigenza di separarsi dal mondo, di segregarsi da esso è, in senso reale o metaforico, il primus movens di ogni crisi della mezza età. Tre lettere di Elsie inaugurano il libro della Michaelis: una diretta all’amica Lili, una seconda all’ex marito Richardt, ed una terza all’amico architetto Jorgen. Tre lettere di commiato dal mondo di ieri. E poi il libro prosegue con il primo soliloquio, con la prima registrazione diaristica di questo angoscioso viaggio verso il nulla:

 

Sono approdata sulla mia isola, ho preso possesso della mia tana.

Il primo giorno è passato. Che Dio mi aiuti a sostenere quelli futuri!

(K. Michaelis, “L’età pericolosa”, pag. 27)

 

Se ad inaugurare la mid-life crisis è la separazione, la domanda è: <<Separazione da cosa?>>. Come “letterariamente” scrive la Spielrein, si tratta della separazione da aspetti idealizzati di oggetti, di persone (disillusioni e delusioni non mancano a quest’età di bilanci), ma anche del Sé -  le fonti di attaccamento sicuro sono in crisi, i propri genitori muoiono o diventano dementi, i figli, non più dipendenti, coi loro movimenti rappresentano una minaccia di cambiamento, di perdita di amore e delle consolanti illusioni di onnipotenza. << (…) i sogni giovanili di felicità e di realizzazione svaniscono o vanno brutalmente in frantumi; serpeggia l’angoscia di morte, e di frequente si parla della sensazione che il tempo scorra via prima che si cominci a “vivere realmente”; fisicamente la persona inizia a mostrare qualche segno d’invecchiamento, e così una precedente immagine di sé comincia ad alterarsi e a incrinarsi>> (Stein, 2004, op. cit., pag.33).

Forse, il Dio che Elsie invoca ha le sembianze e gli attributi di Hermes, il dio greco la cui immagine veniva posta sulla soglia della casa come protettore dei confini e, quindi, dei passaggi attraverso tali confini.

Ma l’accesso alla fase successiva, quella della liminalità, richiede che la separazione passi attraverso il seppellimento metaforico del mondo di ieri e quindi l’elaborazione del lutto sul doppio versante del Sé e dell’oggetto. <<Prima di poter andare oltre, è dunque necessario capire ed elaborare a fondo la natura della perdita>> (Stein, 2004, op. cit., pag. 35).

E qui troviamo un primo punto di “arresto evolutivo” nel diario di Elsie. Anziché “fare il lutto” di ciò che è andato perduto, come le tre lettere sopra menzionate lasciavano presagire, di fronte all’angosciosa solitudine che sente in sé ed attorno a sé non riesce a “seppellire il cadavere”, ad elaborare completamente la perdita: è ancora lì che rimpiange un amore non ancora “sbocciato” con Jorgen Malthe.

Ma quale può essere la vergogna tipica di questa fase? Ci sembra una vergogna connessa al senso di inadeguatezza personale ad elaborare questo processo di lutto, associata <<ad un’esperienza o alla consapevolezza più o meno inattesa ma sempre dolorosa del nostro limite, della nostra impotenza o vulnerabilità>> (Kaufman, 2007, pag. 7). La vergogna, emozione sociale legata più della colpa all’essere visti, allo sguardo dell’altro, fa sentire il Sé come ob-sceno, “fuori dalla scena”, e quindi bisognoso di sottrarsi alla scena sociale, bisognoso di separazione. Il vissuto di esposizione, in primis del proprio corpo che può già portare i primi segni degli anni che passano, che è nella vergogna, ha a che fare, quindi, con una minore o maggiore consapevolezza <<di aspetti particolarmente sensibili, intimi e vulnerabili del sé>> (  Lynd Merrell H., 1961, pag. 61) che in passato erano stati idealizzati. Questo tipo di vergogna da inadeguatezza sembra quella più intimamente connessa con l’ideale dell’Io nella tradizionale formulazione freudiana. Come si evidenzia nel seguente passo del diario di Elsie.

 

            

 

LA LIMINALITA’

 

                    

 

La mia volontà è paralizzata dal disgusto che provo per me stessa. Involontariamente tendo l’orecchio in attesa del corriere, che a me non porta nulla (…)

Ci sono momenti in cui invidio tutti gli esseri viventi che stanno insieme e che si accoppiano, sia pure per odio o per abitudine. Io sono sola, esclusa. E non mi consola dire: sono io che l’ho voluto!

Lettera di Malthe

(K. Michaelis, “L’età pericolosa”, pagg. 43-44)

 

La fase della liminalità è sotto l’egida dell’ambivalenza e della fluttuazione, ma anche della vergogna che si prova per non avere più delle basi solide – ereditata dalla fase precedente. In essa sta tutta la problematicità di una navigazione in mare aperto senza alcuna possibilità di ormeggi nel Sé precedente. Anzi, poiché questa condizione fa paura, l’individuo è tentato di rinunciare tout court alla navigazione, al superamento del confine. Si viene a trovare più che in una no man’s land  in una no self land, in un’<<incrinatura nell’identità (…), fra “chi sento di essere adesso” e “chi apparivo, ai miei stessi occhi e agli occhi degli altri, in passato”>> (Stein, 2004, op. cit., pag. 39). E <<gettare lo sguardo dentro questa fessura può spaventare>>, tanto che è più rassicurante pensare di tornare indietro, di riesumare (se sono stati mai sepolti) i cadaveri da cui ci si deve separare, e vagheggiare fantasmaticamente (ed onnipotentemente) un ricongiungimento  con ciò che doveva essere morto. E’ ciò che accade ad Elsie nel suo ondivago vagheggiare una ri-unione  con il “perduto” amore, dato che, non essendo riuscita completamente la separazione, l’Io, non ancora liberato dalla sua identificazione con la precedente Persona, per poter “fluttuare” in questo periodo così ambiguo, è strappato dai suoi ormeggi e, incapace di seppellire il passato, è sconvolto dalle onde di una nostalgia piena di rimorsi>> (Stein, 2004, op. cit., pag. 40). Forse la chiave per comprendere ciò che accade nella fase della liminalità ce la dà Stein quando differenzia il “seppellire” dal “ricoprire” semplicemente ciò non è stato veramente sepolto.

Riprendiamo il passaggio precedente del diario di Elsie:

 

Lettera di Malthe.

No, non la aprirò, non voglio sapere quel che mi scrive… E’ una lettera pesante…

(…)

Ho rabbrividito per questa mia doppiezza. (…) Così deve soffrire chi, attraversando i mari, nulla sa del paese verso il quale si dirige. Lo immagina simile alla sua patria e invece arriva in una terra desolata da ravvivare con fatica e nostalgia, da far rifiorire con desideri e sogni. E quando finalmente quella terra desolata si è trasformata in una nuova patria, allora lo straniero si accorge che ha consumato la sua vita.

Potessi decidermi a bruciare questa lettera… La soppeso fra le mani, la passo dalla destra alla sinistra. Il suo peso ora mi riempie di gioia, ora di paura. Sono le parole che pesano o è soltanto la carta?

(K. Michaelis, op. cit., pagg. 44-45)

 

Il fenomeno dell’angoscia di morte si può configurare in questa fase non tanto come un riflesso della consapevolezza dei limiti effettivi della propria vita, ma quanto come <<un riflesso di questo processo intrapsichico di liberazione e di distacco dalle precedenti identificazioni>> (Stein, 2004, op. cit., pag. 50). E’, inoltre, in questa fase di liminalità che, se si sanno leggere, si fanno più pressanti che mai i messaggi provenienti dall’inconscio sotto forma di sogni, di fantasie, di acting out, di sinestesie dal valore simbolico.

 

Un suono, un profumo ed ecco che un essere, un luogo, un destino ci balzano vivi davanti. Spesso i fantasmi suscitano esseri privi di qualsiasi interesse per me, il cui destino mi è indifferente, ma si fanno avanti lo stesso, prepotenti, inesorabili.(…) Ignoravo che il pensare potesse essere una sofferenza.

(K. Michaelis, op. cit, pagg. 47-48)

 

Ma alla fine Elsie, persuasa che <<i legami con la vita sono talmente forti e la potenza dei ricordi è tale che nessuno riuscirà mai a isolarsi del tutto>>, che quando <<si è stati uniti a certe persone e si conoscono tante cose su di loro, non ce ne liberiamo più>>(Michaelis, op. cit., pag. 47), decide di concedersi una chance con Jorgen. Non apre la lettera, che oramai è diventata un oggetto feticistico, quindi in una fase di profonda depressione paralizzante (pagg. 68-69) finisce per bruciarla,  per poi, all’inizio del nuovo anno, riaccarezzare l’immagine del perduto amore. Cosa accade dopo ce lo descrive, sempre “letterariamente”, la Spielrein.

 

 

Dopo una serie di lettere inviate all’amico, Elsie fissa il tanto atteso appuntamento con Jorgen: questi la raggiungerà sull’isola.(…)

E’ possibile che l’esito deludente dell’incontro con Malthe fosse già lasciato presagire da quel gesto pantoclasta (la lettera bruciata e mai letta, mia nota). La lontananza così a lungo protratta tra Jorgen ed Elsie li ha resi l’uno estraneo all’altra. Così Elsie, nel magico tentativo di annullare retroattivamente gli effetti delle proprie azioni, finisce per invitare sull’isola persino l’ex-marito, il quale però ha nel frattempo trovato una nuova compagna che sta per sposare. Elsie finirà dunque per restare sola sull’isola quasi completamente deserta, accompagnata solo da due personaggi femminili (la cameriera e la cuoca) su cui ella sembra proiettare lati oscuri di sé e rimpianti mai completamente superati.

(da G. Leo, “Vite soffiate”, pagg. 203-204)

 

Ma questa solitudine, forse una elaborazione tardiva del lutto connessa alla fase precedente, finisce per essere foriera di preziosi insights che però restano frammentari e scissi, incapaci di approdare ad un’integrazione tra le polarità opposte del Sé, degli oggetti e degli affetti che li dovrebbero raccordare (Kernberg O., 2009). Con le parole “prestate” alla Spielrein possiamo così sintetizzare:

 

(…)la comprensione che Elsie ha dei propri stati emotivi e dei propri pensieri è, dall'inizio alla fine del libro, frammentaria, scissa, non integrata, e non approda ad alcuna sintesi, ad alcuna visione conciliata ed 'apaisée' del suo rapporto con l'Altro. Si potrebbe dire che tali vicissitudini nel rapporto dell'Io con l'Altro sono dominate da un'inesorabilità ( in termini di "destino" pulsionale) dell'espansione delle assise narcisistiche ad annettere fette di mondo (e di Altro) sempre più grandi, in un vortice in cui l'Altro viene di volta in volta disprezzato (come nel caso del marito di Elsie), idealizzato (come nel caso dell'amato Jorgen Malthe), espulso (nel progetto di Elsie di ritirarsi in eremitico isolamento), identificato proiettivamente con parti inconsce distruttive di sè (come quando Elsie sostiene di provare una voluttuosa amarezza al pensiero che Jorgen Malthe l'abbia murata nella sua solitudine) fino al trionfo disprezzante ma anche alienante della fuga 'psicotica' finale. In seguito alla delusione tragica che il mondo non è rimasto fermo, rinchiuso nell'immobilità in cui la mente di Elsie avrebbe voluto fino ad allora confinarlo, l'Altro svela il proprio potere dinamico di essere desiderante (il marito trova una nuova compagna più giovane, l'amato Jorgen non è più quell'oggetto idealizzato d'amore che Elsie aveva costruito dentro di sé) che spiazza la protagonista.

(…)

 

Ma  forse il punto di partenza deve essere cercato nelle prime relazioni di Elsie con l’oggetto materno… inesistente. Verso la fine del libro, infatti, Elsie afferma che la madre era morta mentre la dava alla luce. Confinata alle cure di una domestica, sicuramente le sarà mancato quello sguardo ‘adorante’ che tutte le mamme dirigono verso il proprio neonato. Quello stesso  sguardo che Elsie sembra ricercare continuamente quando oramai è troppo tardi. Lo cerca da adolescente nello specchio che diventò il suo “confidente”, l’unica gioia della sua fanciullezza. Lo cerca nello sguardo di Jorgen Malthe. E poi il peso della vergogna, che ha segnato la sua infanzia, dell’umiliazione profonda che lei sentiva agire nell’unica figura genitoriale, il padre. Il padre ridotto in miseria fa sì che per la piccola Elsie la propria avvenenza fisica rappresenti quella moneta di scambio per comprare gli uomini con tutta la ricchezza che essi portano seco. E’ paradossale che per fare i conti con questa  vergogna di base, originaria, Elsie abbia dovuto aspettare l’età pericolosa in cui compare la vergogna per il proprio corpo che invecchia.

L’angoscia della morte nel senso del disfacimento sia  fisico che psichico diventa un aspetto centrale nell’età pericolosa: il corpo che invecchia diventa osceno, cioè fuori dalla scena e non resta altro che <<vivere da sola>> dice Elsie <<tutta sola per me, con me>>. <<Io sono vecchia, già vecchia. Fra pochi anni sarò così vecchia che vi chiederete come possa esservi stato un tempo in cui mi consideravate l’”unica”>> scrive Elsie a Jorgen.

          (G. Leo, op. cit., 2008, pagg. 207-209)

 

La vergogna tipica della fase di separazione,  innescata dalla  perdita di un’immagine idealizzata del proprio corpo e del Sé le cui basi narcisistiche sono avvertite come precarie, associata in Elsie all’esperienza dell’essere “oscena”, non degna di essere vista, finisce quindi, in questa fase di liminalità,  per riattivare un’esperienza a lungo rimossa che viene a riaffiorare proprio nel “turmoil” di questa fase: se oggi Elsie si sottrae volontariamente allo sguardo dell’altro, se oggi la vergogna così massiccia comporta l’esclusione di ogni  sguardo altrui è perché un tempo, da piccola, non ha incontrato uno sguardo ‘rispecchiante’ nella madre, uno sguardo capace di  rimandarle quello “scintillio nell’occhio materno” di cui parla Kohut* (1971),  che è la forma iniziale, primaria di vergogna (Mollon, 2006). D’altro canto gli odierni studi di “infant research” hanno evidenziato che la vergogna <<può nascere nell’esperienza precoce con la madre quando questa diventa un’’estranea’ per il bambino>> (Broucek, 1991, cit.da Mollon, 2006, op. cit., pag. 36). Gli esperimenti di Tronick (1978, cit. da Mollon) hanno mostrato che bambini, di fronte al viso amimico ed immobile della madre, reagivano dapprima cercando di riattivare il dialogo mimico con lei e poi, non riuscendoci, finivano per piangere disperati oppure reagivano afflosciandosi, abbassando la testa e distogliendo lo sguardo dalla madre. Se la figura, che nell’infanzia del bambino è quella che dispensa le cure, viene a morire prematuramente, <<è probabile che il bambino si chiuda in sé, congelando le proprie emozioni senza dare grandi segni esterni della propria devastazione interiore. Gli adulti che osservano tutto ciò possono concludere con un certo sollievo che non sembra troppo colpito. La realtà emotiva è invece che il bambino è stato strappato via dalla matrice empatica e ora si sente in mezzo a un mondo freddo e ostile. Quello che succede in questi casi, a quanto pare, è che crescerà avendo interiorizzato l’assenza d’una risposta empatica, esattamente sotto forma di presenza d’un oggetto interno incapace di empatia>> (Mollon, 2006, pagg. 41-42)5.

La vergogna tipica della liminalità non è più associata al sentimento dell’inadeguatezza, ma alla reviviscenza dei fantasmi primitivi che erano stati sepolti nella vita anteriore alla crisi: <<Si può chiudere la porta in faccia a gente in carne e ossa, ma si è sempre costretti a ricevere i fantasmi e a parlare con loro senza evasività o reticenze>> scrive Elsie (Michaelis, op. cit., pag. 47). E’ questa condizione liminale che può inaugurare un autentico dialogo con quelle parti antiche del Sé che, sentite come vergognose,  erano state tanto a lungo confinate in un’isola psichica altrettanto deserta di quella in cui ora vive Elsie. Un senso di apparente coazione accompagna il riaffiorare di tali fantasmi:<<(…) sono loro schiava: i fantasmi arrivano senza essere stati invitati>> (ibidem, pag. 48) e di sofferenza per la propria vulnerabilità di essere pensante - <<(…) ignoravo che il pensare potesse essere una sofferenza>> (ibidem, pag. 48) che può far acuire la vergogna di  inadeguatezza della fase iniziale.

REINTEGRAZIONE, REGRESSIONE O DISINTEGRAZIONE ?

 

 

 

Dopo il superamento del lutto della fase della separazione e dopo quello della fase della liminalità, con le relative vergogne tipiche, la fase successiva può apportare un’effettiva reintegrazione di aspetti fino ad allora scissi, rimossi o conflittuali del sé, conducendo a quell’approdo riuscito che consiste nella conoscenza dei propri limiti personali e nella convinzione di un futuro compito nella vita (Stein, op. cit., 2004) all’insegna del Vero Sé. Il seppellimento di aspetti della personalità precedenti la crisi (fase della separazione) e la fluttuazione in una terra di morti (fase della liminalità) inaugurano, in caso di successo, <<lo stadio successivo, l’integrazione della personalità attorno ad un nuovo nucleo>> (Stein, op. cit., 2004, pag. 95). La vergogna tipica di questa terza fase mi sembra quella legata alla consapevolezza del Falso Sé (Mollon, op. cit., 2006), delle tante maschere fino ad allora indossate dall’individuo per assolvere a proprie idiosincratiche esigenze identitarie. <<La vergogna legata all’uscita da una posizione di falso sé ha a che fare con l’aspettativa che i sentimenti e i desideri più autentici (il ‘vero sé’) non siano riconosciuti, compresi o accettati. E’ come togliersi la maschera, spogliarsi d’un costume, o rivelarsi come un imbroglione e un impostore>> (Mollon, op. cit., 2006, pagg. 27-28). La vergogna “evolutiva”, cioè legata ad un successo di questa crisi della mezza età, consiste nel timore che questo svelamento di parti più autentiche di sé <<provochi all’altro uno shock imbarazzante>> (Mollon, op. cit., 2006, pag. 28): la vergogna nascerà dalle <<fratture stridenti fra l’aspettativa dell’altro e i propri reali comportamenti e sentimenti>> (Mollon, ibidem).

Dal libro della Michaelis non ci è dato conoscere l’esito della crisi della mezza età di Elsie. O meglio: nutriamo seri dubbi che essa venga superata con successo. Elsie sembra  fermarsi sul limine, nell’incompiutezza di una trasformazione interiore contrastata da altre forze che ad essa tenacemente si oppongono. << Quella maschera che con odio Elsie ha riconosciuto come falsa costruzione di sé, dopo averne introiettato tutti gli aspetti ambivalenti e distruttivi ed essersi svuotata di ogni emozione genuina, finisce per essere ripudiata ed Elsie sente che non è morta affatto in lei quella partecipazione ‘panica’ alla natura che i bambini esprimono con le loro pareidolie, con le loro illusioni creative>> (Leo, 2008, pag. 207). Elsie però non porta a compimento la propria “auto-analisi” che la fase della separazione aveva preparato. Grazie al desiderio amoroso per Jorgen, costui si installa nella sua mente non si sa più se come un corrispondente immaginario, un altro  da sé (oggetto idealizzato) con cui articolare un dialogo interiore foriero di movimenti evolutivi, oppure come una parte di Sé idealizzata (oggetto-Sé) a cui non riesce a rinunciare… e che non riesce a seppellire. La confusione della fase della liminalità non è riuscita per lei a farle venire a capo di un paradosso: come rinunciare  proprio a colui che le  permette un accesso se non ad una nuova individuazione,  quanto meno il riconoscimento delle maschere, dei travestimenti (falso Sé) di cui si è dovuta ammantare in tutti questi anni per ottenere quello che sin da piccola aveva bramato? Il mio corpo contro il denaro dell’altro, <<questa è la cruda verità>> (pag. 73). Se è solo in un rapporto di relazione amorosa con un altro, Jorgen, che Elsie ha potuto trovare la forza di denudarsi, vergognandosene immensamente, dei suoi travestimenti sentimentali, come potrà ucciderlo dentro di sé e seppellirlo? Si fa strada, la Michaelis ce lo fa intuire, una possibilità patologica, in cui predominano i meccanismi di identificazione proiettiva. “Non sono io ad aver lasciato lui per paura di essere abbandonata, che l’amato finisca per stancarsi di me, che mi trovi banale e vecchia” sembra dire a se stessa Elsie “ma è lui che mi ha murata viva nella mia solitudine” (cfr. pag. 110). Un ultimo empito di desiderio finisce per indurre Elsie a concedersi un ultima chance con Jorgen. Ma l’incontro diventa spaventosamente freddo, rievocandole la vergogna primaria di chi non ha mai incontrato uno sguardo empatico da piccola. Anche l’ultimo travestimento, l’ultima maschera indossata da Elsie che, disperatamente, tenta di sedurre l’ex-marito e da cui viene respinta, finisce per riattivare l’invidia (nei confronti del marito che ha trovato una compagna molto più giovane), e non certo sembra inaugurare una fase di reintegrazione. Anzi, le ultime parole del libro lasciano presagire un percorso contrario, verso una soluzione patologica di perdita, anziché di reintegrazione del Sé.

<<La questione del nome è un gran problema: come mi chiamerò d’ora in poi? Elsbeth Bugge mi fa l’effetto di una tomba abbandonata, invasa dalle erbacce>>. (Michaelis, op. cit., pag. 124).

Se Elsie sembrava aver accettato l’impossibilità di realizzare il proprio amore con Jorgen, se sembrava “rassegnata” al fatto che il matrimonio con lui non avrebbe rappresentato altro che una nuova catena, un’altra coercizione, il desiderio di cambiare nome sembra nascondere movimenti interiori tutt’altro che coerenti con un processo di re-integrazione tra oggetti e parti del Sé fino ad allora esperiti come inconciliabili. La vergogna sembra farsi più radicale ed investire l’intero suo essere, nome compreso6.

 

 

 

 

 

LA VERGOGNA E L’ETA’ PERICOLOSA: UN’IPOTESI SUL SUICIDIO DI TATIANA ROSENTHAL7

 

 

 

Sara Neiditsch (1921) ci informa di uno degli ultimi interventi scientifici tenuti dalla Rosenthal in occasione del primo Congresso panrusso per il trattamento dei bambini minorati psichici, svoltosi a Mosca nel 1920: <<Le discussioni su questa relazione furono molto vivaci e questo in un’atmosfera di assenso. Una risoluzione proposta dalla dottoressa Rosenthal esprimeva l’augurio che tutti coloro che si occupavano di educazione, medici o pedagoghi, si familiarizzassero con la psicoanalisi. Ma per motivi sconosciuti questa mozione non fu mai messa ai voti>>.

Jean Marti ha commentato quest’ultima nota, alquanto amara, della Neiditsch come un segnale di iniziale emarginazione a cui sarebbe stata sottoposta la Rosenthal, in seguito a (da lui ipotizzate) <<pressioni esterne per bloccare questo orientamento che avrebbe potuto avere delle incidenze su tutta la politica educativa del potere>> (Marti, 1978). Sta forse in questo episodio, come lascia credere Marti, un ‘sintomo’ di quella tendenza che negli anni ’20 prenderà corpo nella cultura russa, che vedrà la psicoanalisi sempre più criticata ed attaccata e che porterà  Tatiana Rosenthal ad intuirne tutta la portata distruttiva nei confronti di ciò a cui ella aveva consacrato l’intera vita? Possiamo pensare che il suicidio di una giovane donna, apparentemente all’apice della sua carriera e madre di un bambino in tenera età, sia stato determinato esclusivamente da una <<reazione esasperata e disillusa in una personalità dall’alta tensione ideale>> (Accerboni, 1989)? Oppure possiamo concepire in Tatiana la presenza di una vera e propria “malattia dell’idealità”, secondo il termine coniato dalla Chasseguet-Smirgel, un attaccamento narcisistico ad un’idea di Sé incompatibile coi mille compromessi che la complessa e caotica realtà sociale russa contemporanea sembrava richiedere? Ed ancora ci chiediamo: di fronte alla lacunosità dei documenti sulla sua vita, quanto possiamo desumere dai suoi (pochi) scritti in nostro possesso sulla sua personalità, ed in particolare sulle motivazioni psicodinamiche del suo suicidio? Il suo interesse per l’’età pericolosa’, ossia per la crisi di mezza età,  può dirci qualcosa sulla sua crisi esistenziale maturata, apparentemente, all’età di 36 anni? Troppo scarse sono le informazioni di cui disponiamo sul suo conto, ma forse – è un’ipotesi come un’altra quella che avanzo – nella crisi di Elsie Tatiana sembra  rispecchiarsi. La mia idea è che l’opera di Karin Michaelis contenesse già, prima ancora che qualsiasi psicoanalista vi posasse lo sguardo, delle intuizioni sorprendentemente profonde sulla conflittualità inconscia insita in personalità che oggi definiremmo ‘narcisistiche’, e che tale testo abbia attratto a tal punto la Rosenthal in quanto in esso ella trovava artisticamente rappresentate  dinamiche psichiche analoghe a quelle che riconosceva in se stessa. La creazione letteraria ha il potere, infatti, di accostare, di giustapporre frammenti ideativi apparentemente slegati e senza nesso tra di loro: ma basta leggere alcuni brani de “L’età pericolosa” per accorgersi di come la Michaelis avesse anticipato temi riguardanti il narcisismo  che solo dopo molti anni la letteratura psicoanalitica compiutamente avrebbe tematizzato. Certamente le vicissitudini storiche e sociali che si sviluppavano attorno a Tatiana ebbero un certo ruolo nel favorire il tragico epilogo della sua breve vita, ma non possiamo assolutizzarne la portata. Certamente, per uno storico alle prese con un personaggio così enigmatico, gli eventi ‘esterni’ sono i dati più immediati ed ‘obiettivi’ coi quali costruire un’ipotesi interpretativa per rispondere alla domanda: perché questo suicidio? Ma accostare il suicidio della Rosenthal, a quello di altri celebri rivoluzionari (ad es. Majakovskij), anche vicini alla psicoanalisi (come Ioffé)8, oppure dei tanti che, secondo la testimonianza di Victor Serge, posero fine ai loro giorni tra il 1925 ed il 1926, ponendo l’accento solo sulle dinamiche politico-sociali, e non sufficientemente sul legame tra queste ultime e la biografia individuale  costituisce, a mio parere, uno dei limiti delle argomentazioni portate da Jean Marti in questo lavoro interpretativo. Gli eventi storici, il clima politico-sociale si deve semmai concepire come lo sfondo di una scena teatrale su cui il personaggio recita  tutta la complessità dei propri conflitti interni, non sappiamo in che misura consci a se stesso. Entrare  nel dramma interiore del personaggio Tatiana Rosenthal per comprenderne le movenze alla base del gesto suicidario può essere un compito così arduo da mozzare il respiro, da far tremare i polsi, e la penna, a chiunque si accinga ad esso: ma forse, in attesa del ritrovamento di altri suoi scritti, di altri relitti che possano agevolarci in tale impresa, possiamo  cercare   negli oscuri abissi dei pochi testi che abbiamo a disposizione quei significanti in grado di farci avanzare in questo lavoro interpretativo.

L’interesse di Tatiana per il lavoro di Karin Michaelis può forse aiutarci in tal senso. Il tema della vergogna è davvero centrale nella ‘biografia’ di Elsie Lindtner, la protagonista de “L’età pericolosa”: l’assenza della madre, morta proprio mentre lei nasceva,  l’onta subita dal padre che <<si consumava nella sua vergogna>>(Michaelis, op. cit., pag. 102), la vergogna di dover essere sin da piccola <<abbandonata alle cure di una domestica>>(Michaelis, ibidem) in ristrettezze economiche condussero l’adolescente Elsie ad investire, in maniera totalizzante ed esclusiva, l’unica parte del Sé capace di avere un valore ‘economico’ agli occhi degli altri: il proprio corpo. <<Lo specchio diventò il mio confidente, l’unica gioia della mia fanciullezza. (…) Spesso mi assaliva l’angoscia di perdere ciò che valeva più dell’oro zecchino>>(Michaelis, ibidem). Questa strutturazione degli investimenti narcisistici polarizzati con tale esclusività sul corpo conduce Elsie, da giovane adulta, all’incapacità di stabilire autentiche relazioni amorose, ed a vivere esclusivamente su un piano fantastico un innamoramento per Malthe che si rivelerà, alla fine del libro, illusorio. La crisi della mezza età porterà tutti i nodi al pettine: il proprio corpo, che non avrà più l’avvenenza di un tempo, si trasforma in quella <<maledizione che l’età scaglia sulle donne>>(Michaelis, op. cit., pag. 101), da sottrarre allo sguardo impietoso del tempo. Da corpo idealizzato, ap-prezzato ed invidiato si trasforma in corpo dis-prezzato, in ricettacolo finale di quel sentimento di vergogna che già da tempo si materializzava in allucinazioni dispregiative. E dopo che gli ultimi tentativi a disposizione di negare (in senso maniacale) la perdita di quel corpo idealizzato sono falliti (l’incontro sull’isola con Malthe è di una freddezza desolante e l’ex-marito si sta per risposare con una diciannovenne), allora ad Elsie non resta altro che annunciare la propria sparizione,  non solo semplicemente dal consorzio umano, ma in senso più radicale come persona, cancellando persino il proprio nome.

 

Non sappiamo se l’interesse di Tatiana Rosenthal per l’”età pericolosa” nascondesse il sentimento di  vicissitudini auto-biografiche analoghe a quelle di Elsie. Quell’investimento così marcato in adolescenza per quelle parti di Sé idealizzate e strutturanti un’identità  basata su progetti salvifici di giustizia sociale ci fa però pensare ad una personalità in cui esse coesistevano con altre parti del Sé sentite come precarie, minacciate da una distruttività incomprensibile ed enigmatica. Quando le vicende auto-biografiche (ed i desideri di auto-realizzazione di quelle parti idealizzate del Sé) sembrarono procedere in maniera discordante rispetto alle vicende storico-politiche (l’emarginazione graduale degli psicoanalisti), la crisi della mezza età, di per sé fruttuosa fase di elaborazione della posizione depressiva, cioè del lutto della perdita del Sé idealizzato maturato sin dall’adolescenza, finì per tingersi del funesto sentimento di essere condannata ad un’inappellabile solitudine che, anziché confinarsi come per Elsie in una lussuosa villa su un isola inospitale, non riusciva a confinarsi in alcun dove. Forse, come Elsie aveva difeso i propri sentimenti più intimi dalla vergogna, anche Tatiana avrà come lei pensato:<<Non posso permettere a nessuno di penetrare nel profondo dei miei pensieri>>(Michaelis, op.cit., pag. 23) ed avrà confidato le proprie intime pene ad un diario. E forse, anche lei, mettendo fine alla sua giovane vita, avrà pensato di cancellare il proprio nome per sempre dalla storia della psicoanalisi.

 

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

 

 

 

Sappiamo oggi, dopo gli studi di Elliott Jaques (1978), quanto la crisi di mezza età parta e rilanci un lavoro psichico che è cominciato con un’altra crisi, quella adolescenziale.

L’età di mezzo è pervasa da interrogativi del tipo:  <<Cosa ho fatto finora della mia vita?>>, <<Quali progetti ho realizzato?>>, <<In cosa ho fallito?>>, <<Troverò mai la forza di realizzare quello che ancora resta incompiuto?>>, <<Sono progetti per me realizzabili oppure sono solo ambizioni poco realistiche?>>. Ma questi inevitabilmente finiscono per passare dall’identità sociale ed interpersonale a quella psichica, e quindi vertere intorno a quella domanda cruciale che viene ripresa a partire dalle soluzioni a cui si era arrivati in adolescenza: <<Chi sono io?>>. Tutte le soluzioni parziali o lasciate in sospeso con cui si era concluso il lavoro psichico adolescenziale diventano come delle cambiali che il nostro Sé vuole  riscuotere con urgenza nell’età di mezzo. Il sentimento di un iniziale declino fisico (se non addirittura psichico) può costituire il ‘trigger’ di un’angoscia di non avere abbastanza tempo davanti a sé per essere quello che si desiderava essere. Il tempo vissuto può assumere i connotati di una proiezione  maniacale verso il futuro, in un’affannosa e bulimica consumazione di esperienze prima che sia troppo tardi, oppure può avere i toni del ripiegamento depressivo su un passato che non ritornerà mai più in quanto per sempre perduto. Le dorate promesse con cui si era conclusa la crisi adolescenziale si sono rivelate degli illusori abbagli, e può essere consolante rifugiarsi nella nostalgia di un passato che conserva il fascino della gioventù. La crisi di mezza età, in fin dei conti, ha come compito il misurarsi con la finitezza della vita umana ed il far i conti con la morte.

Attraverso la “vignetta clinica” di Elsie Lindtner ho cercato di illustrare le varie fasi di sviluppo della crisi della mezza età e ho ipotizzato tre tipi basilari di vergogna, ciascuno associato alla particolare fase in cui l’individuo si viene a trovare alle prese con questa sua personale nekya, questa discesa agli Inferi che può inaugurare un processo finale di riuscita individuazione.

 

 

 

 

Bibliografia:

 

Accerboni Anna Maria (1989), “Tatjana Rosenthal. Una breve stagione analitica”, in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, vol. XIII, gennaio 1989, fascicolo 25, pagg. 61-80.

 

Brome Vincent, “Vita di Jung”, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.

 

Broucek A.H., « Shame and the Self », Guilford, New York, 1991 (citato da Mollon, op. cit., 2006).

 

Chasseguet-Smirgel J., “La maladie d’idéalité”, Paris, Ed. Universitaires, 1990.

Diamond Michael J., Accessing the multitude within: A psychoanalytic perspective on the transformation of masculinity at mid-life, in Int.J.Psychoanal. 2004; 85:45-64.

 

Erikson Erik, Identity and the life cycle,  in “Psychological Issues”, Monograph 1, International Universities Press, New York, 1959a.

 

Erikson Erik (1959b), “Il giovane Lutero”, trad.it. Armando, Roma, 1979.

 

Erikson Erik, “Childhood and Society” (2nd edition revised and enlarged), Norton, New York, 1963.

 

Giaconia G., Pellizzari G., Rossi P., Uno sguardo psicoanalitico sulla crisi d’identità, in “Psiche”, n.2, 2008, pagg.137-147.

Grinberg Leòn & Rebeca, “Psychanalyse du migrant et de l’exilé”, Césura Lyon Editions, Lyon, 1986.

 

Jaques Elliott, Morte e crisi di mezza età, in “Lavoro, creatività e giustizia sociale”, Boringhieri, Torino, 1978. Articolo originale: “Death and the Midlife Crisis”, in International Journal of Psychoanalysis, vol.46, part IV, october 1965, pp.50.

 

Jeammet Philippe, “Dipendenza e depressione”, in A. Braconnier, C. Chiland, M. Choquet, R. Pomarede (a cura di) “La depressione negli adolescenti”, Borla, Roma, 1998.

 

Jervis Giovanni, voce Identità, in AA.VV. “Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze”, Einaudi, Torino, 2006.

 

Jung Carl G., “Ricordi, sogni, riflessioni”, Il Saggiatore, Milano, 1965.

 

Kaufman Gianni, Vergogna: l’emozione del limite, in AA.VV., “La vergogna”, Rivista del Centro Italiano di Psicologia Analitica, Vivarium, Milano, 2007.

 

 

Kernberg Otto F., “Psicoanalisi: principi, partigianeria ed evoluzione personale” in G. Leo (a cura di), La psicoanalisi e i suoi confini, Astrolabio, Roma, 2009.

 

Kohut H.(1971), “Narcisismo e analisi del Sé”, ed. italiana  Boringhieri, Torino, 1976.

 

Leo Giuseppe, “Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi”, Edizioni Frenis Zero, Lecce, 2008.

 

Leo Giuseppe, Auto-emancipazione e psicoanalisi. Il percorso umano di Tatiana Rosenthal, in Setting, Franco Angeli, Milano, n.24/2007, pagg. 99-116.

 

Lynd Merrell Helen, “On Shame and the Search for Identity”, Science Editions, New York, 1961.

 

  Marti Jean (1978), “La psicoanalisi in Russia e nell’Unione Sovietica dal 1909 al 1930”, in AA.VV. Critica e storia dell’istituzione psicoanalitica, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma,  pagg. 98-147. Trad. italiana dell’articolo La psychanalyse en Russie, in Critique, Tome XXXII, n.346, mars 1976.

 

 

Michaelis Karin, (1910) “L’età pericolosa”, edizione italiana: Giunti, Firenze, 1989.

 

Miller Patricia H., “Teorie dello sviluppo psicologico”, Il Mulino, Bologna, 1987.

 

Mollon Phil, “Vergogna e gelosia. Tumulti segreti”, Astrolabio, Roma, 2006.

 

Neiditsch Sara (1921), <<Dr. Tatiana Rosenthal. Petersburg>>, Internationale Zeitschrift fur Psychoanalyse, VII, 1921, pp. 384-85.

 

Newton Peter M., “Freud. From youthful dream to mid-life crisis“, Guilford Press, New York, 1995.

 

Resnik Salomon, “Persona e psicosi”, Einaudi, Torino, 1975.

 

Resnik Salomon, “Biographie de l’inconscient”, Dunod, Paris, 2006.

 

Resnik Salomon, « Il teatro del sogno », Bollati Boringhieri, Torino, 2007.

 

Resnik Salomon, “Ferite, cicatrici e memorie”, Borla, Roma, 2008.

 

Resnik Salomon, “Il significato di trattamento in psicoanalisi, con particolare riferimento alla psicosi”, in G. Leo (a cura di) La psicoanalisi e i suoi confini, Astrolabio, Roma, 2009.

 

Rodman Robert F., “Winnicott. Vita e opere”, Raffaello Cortina, Milano, 2004.

 

 

Rosenthal Tatiana (1911),“Karin Michaelis: ,,Das gefährliche Alter’’ im Lichte der Psychoanalyse“,” Zentralblatt für Psychoanalyse. Medizinische Monatsschrift für Seelenkunde“, I,  pagg.277-294.

 

Rosenthal Tatiana (1920), "Sofferenza e creazione in Dostojevskij. Analisi psicogenetica", traduzione italiana di Patrizia Sechi, pubblicato in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, Vol. XIII gennaio 1989 fascicolo 25, pagg. 33-60.

Schreiber Hermann, “La mezza età: viverla senza problemi”, SugarCo Edizioni, Milano, 1978.

 

Shonfeld W.A., La psychiatrie de l’adolescent, un défi pour tous les psychiatres, « Confrontations Psychiatriques », Specia Edit., 1971, n.71, p. 9-36, cit.in Mazet Ph. & Houzel D., « Psychiatrie de l’enfant et de l’adolescent », Maloine, Paris, 1993, pag. 454.

 

Schore Allan N., “La regolazione degli affetti e la riparazione del sé”, Astrolabio, Roma, 2008.

 

Spielrein Sabina, “Diario di una segreta simmetria”, a cura di A. Carotenuto, Astrolabio, Roma, 1980.

Spielrein Sabina , “ Comprensione della schizofrenia e altri scritti”, Liguori, Napoli, 1986.

 

Stein Murray, “Nel mezzo della vita”, Moretti e Vitali, Bergamo, 2004.

 

Note dell'Autore:

(1)            Jaques (op.cit., pag. 61) afferma infatti: <<Nell’adolescenza, l’esito di un grave esaurimento è nella maggioranza dei casi la schizofrenia, mentre nella mezza età è la depressione oppure ogni conseguenza all’impiego di difese contro l’angoscia depressiva quali le difese maniacali, l’ipocondria, i meccanismi ossessivi, la superficialità, il deterioramento del carattere>>.

(2)            Sulla contemplazione della propria morte: <<Proprio come nel bambino, e qui ci rifacciamo nuovamente alla Klein (“Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi”, 1940), “lo stabilirsi di rapporti soddisfacenti con altri dipende dalla sua vittoria contro il caos interno (posizione depressiva) e dalla salda instaurazione di oggetti buoni interni”, così nella mezza età un soddisfacente adattamento alla contemplazione conscia della propria morte dipende dallo stesso processo; in caso contrario la morte è equiparata al caos depressivo, alla confusione e alla persecuzione, proprio come nell’infanzia>>(op.cit., pag.74). Sulla rassegnazione Jaques scrive: <<A livello inconscio, per poter raggiungere una tale visione, occorre la capacità di conservare l’oggetto buono interno e la capacità di assumere un atteggiamento rassegnato alle manchevolezze e agli impulsi distruttivi propri e alle imperfezioni dello stesso oggetto buono interno>> (op.cit., pag. 72), e più oltre <<Per rassegnazione si intende l’accettazione, a livello conscio e inconscio, delle frustrazioni inevitabili nel corso di un’esistenza intera>> (op.cit., pag. 80).

(3)            Con il termine ‘identità’ ci si riferisce a <<un senso consapevole dell’identità individuale (…) uno sforzo inconscio verso la continuità di un carattere personale (…) un criterio per il silenzioso agire della sintesi dell’Io (…) il mantenimento di una solidarietà interiore con gli ideali e l’identità del gruppo>> (Erikson, 1959a). Cfr. quello che scrive Jervis (2006) alla voce Identità: <<(…) il comune sentimento di identità si presenta modulato in due dimensioni diverse, ancorché connesse: da un lato, come l’esperienza individuale dell’esser persona dotata di una riconoscibilità ben differenziata da ogni altra possibile; dall’altro, invece, come appartenenza a una collettività omogenea dotata anch’essa di caratteri riconoscibili, i membri della quale costruiscono rassicuranti certezze di autodefinizione collettiva>>. Paul Ricoeur(“Sé come un altro”, Jaca Book, 1990), come scrivono Giaconia et al. (2008),  <<distingue  due forme di identità. C’è l’identità “idem” che risponde alla domanda: “che cosa” sono io? Questa domanda definisce gli elementi fissi dell’identità, le invarianti che appunto la distinguono e definiscono come una “cosa”, un’entità oggettivabile. E c’è  l’identità “ipse”, che risponde invece alla domanda: “chi” sono io? Domanda che esprime una tensione e una ricerca che si realizza  nel consumarsi del tempo e aspira, più che a una risposta definitoria, a un riconoscimento che solo l’altro può offrire>> (Giaconia et al., 2008, pag. 144).

(4)            Anche psicoanalisti non junghiani hanno prodotto concetti molto affini a quello di Persona. Si veda ad es. Resnik con i suoi concetti di “maschera” e di “personaggio” nell’esplorazione psicoanalitica del mondo psicotico sin da “Persona e psicosi”(Resnik, 1975) fino alle sue ultime opere (Resnik, 2006; 2007; 2008; 2009).

(5)            Mollon così continua: <<Questa figura priva d’empatia infine proiettata sull’analista, cosicché il paziente si aspetta da lui mancanza di comprensione e di risposta: il paziente teme di sentirsi addosso lo sguardo di un altro che lo guarda non con empatia ma con incomprensione>> (pag. 42, op. cit.).

(6)            In realtà è dato conoscere quello che è il destino di Elsie Lindtner grazie ad un secondo libro di Karin Michaelis, che è il seguito ideale de “L’età pericolosa”. Come scrive Donatella Ziliotto nella prefazione all’edizione Giunti de “L’età pericolosa”, il romanzo “Elsie Lindtner” <<si apre su Elsie che, a Montecarlo, dilapida tutto il suo denaro e che solo con un provvidenziale prestito del marito riesce a ricostituire il suo capitale, col quale parte per una crociera nel Mediterraneo. Qui, mentre la camerierina si estasia di fronte ai monumenti della civiltà greca, Elsie, per nulla interessata, comincia a intuire la propria povertà interiore. In Jeanne si delinea quindi una vocazione artistica, che approfondirà recandosi a Parigi, mentre Elsie partirà per l’America. A Parigi il feuilleton si fa sempre più carico: Jeanne conosce Malthe, il grande amore di Elsie, aspetta un figlio da lui, si sposa e si separa. L’amica di Elsie, Lili, intanto si suicida con la complicità della stessa Elsie. (…) Nella metropolitana di New York Elsie incontra un piccolo vagabondo ubriaco, “con spiccata personalità criminale”, come lo giudicherà un medico. Ma per la prima volta nella vita Elsie sente nascere un interesse vero per qualcosa o qualcuno; decide di adottare il bambino e di portarlo a “Villa Bianca”; con la sua amica Magna avvia un’azienda agricola dove il piccolo Kelly, a contatto con i figli di Magna, maturerà e si normalizzerà>> (pag. 7).

(7)            Questa parte del lavoro è una rielaborazione del paragrafo “L’età pericolosa ed il suicidio. Un’ipotesi psicogenetica” del mio articolo “Auto-emancipazione e psicoanalisi: il percorso umano di Tatiana Rosenthal” (2007) a cui si rinvia il lettore per più complete notizie biografiche sulla Rosenthal.

(8)            Ioffé era medico ed aveva fatto l’analisi personale con Adler tra il 1908 ed il 1912. Fu collaboratore di Trotskij durante gli anni dell’emigrazione (prima della Rivoluzione), nonché pubblicò sulla rivista russa Psychotherapia (n. 4 del 1913) un articolo intitolato <<Contributo alla questione dell’inconscio nella vita dell’individuo>>. Morì suicida nel 1927, secondo quanto scrive Jean Marti nell’op. cit.

 

       (*)   Questa la citazione letterale da Kohut, “Narcisisismo e analisi del sé”( Boringhieri, 1976): <<(…) la traslazione speculare è il ristabilimento               terapeutico di quella fase evolutiva normale del Sé grandioso in cui la luce nell’occhio della madre, che rispecchia lo sfoggio esibizionistico del bambino, e altre forme di partecipazione e di risposta materna al piacere narcisistico-esibizionistico del bambino rafforzano la sua autostima e, attraverso una selettività gradualmente crescente di queste risposte, cominciano a incanalarla in direzioni realistiche>>(pag. 119). Ed il rapporto tra transfert speculare e fase ‘normale’ del Sé grandioso viene chiarito alla pag.127:<<Bisogna riconoscere che anche le forme più pure di traslazione speculare nel senso stretto del termine, che s’incontrano nell’analisi dei disturbi narcisistici della personalità, non sono repliche dirette di una fase evolutiva normale. Anch’esse sono infatti edizioni alterate in via regressiva delle richieste di attenzione e di approvazione del bambino e di un’eco che confermi la sua presenza, e contengono sempre tratti tirannici e iperpossessivi che tradiscono un aumento di elementi pulsionali sadico-orali e sadico-anali, prodotto da intense frustrazioni e delusioni>>.

 

 

        

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

Copyright - Ce.Psi.Di. - Rivista "FRENIS ZERO" All rights reserved 2004-2005-2006-2007-2008-2009