Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853
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"ZORAN MUSIC. Estreme figure"
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Foto:
Nudo inclinato, 1994 pastelli su carta, 50 x 35 cm Collezione Privata
Venezia rende omaggio a
Zoran Music (Gorizia 1909 – Venezia 2005) con un’importante
e raffinata mostra che celebra il centenario della nascita
dell’artista. Artista di levatura internazionale, considerato tra
le presenze fondamentali del Novecento, Zoran Music, di origini
dalmate, trova infatti a Venezia la sua città di adozione. Terra
di fusione tra oriente e occidente, la città lagunare è fonte di
ispirazione e punto di riferimento costante per l’artista, durante
la sua intera traiettoria pittorica.
Promossa dall’Istituto
Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, dalla Regione del
Veneto e da Arthemisia Group, la mostra “Zoran Music.
Estreme figure”, si terrà nella sede di Palazzo Franchetti
dal 3 dicembre 2009 al 7 marzo 2010.
A cura di Giovanna Dal
Bon, la mostra si compone di oltre ottanta
significative opere, tra oli e lavori su carta, alcuni dei quali
inediti ed eccezionalmente esposti per la prima volta. Una
preziosa occasione per immergersi nel suggestivo mondo
dell’artista e dei suoi ricordi rielaborati soprattutto a Venezia.
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L’artista
Un viandante
mitteleuropeo, in fondo sempre heimatlos - come definito dalla
curatrice - Zoran Music è nato a Gorizia, a quell’epoca parte
dell’impero austro-ungarico, crocevia di razze, culture e idiomi. Vive
gli anni dell’infanzia in Dalmazia e poi da profugo in Stiria e
Corinzia; seguono l’Accademia a Zagabria, le impressioni raccolte a
Praga su Klimt e Schiele e gli impressionisti francesi, un lungo
soggiorno in Spagna sulle tracce di Goya, le esposizioni nella Trieste
post-imperiale, dove incontra la pittrice Ida Cadorin, sua futura
moglie, e poi a Venezia. Dopo la terribile esperienza di deportazione
a Dachau ritorna a Venezia nel 1946, dove vivrà, dal 1951 in
alternanza con Parigi, fino alla morte, avvenuta nel maggio 2005.
La mostra
Il percorso della
mostra indaga soprattutto gli ultimi trent’anni della traiettoria
pittorica di Music, quando la sua figurazione scarnificata si fa
estrema. L’opera di Music, che attraversa quasi tutto il secolo
scorso, indica infatti, nel suo segno scabro ed essenziale, un
itinerario di spoliazione verso il raggiungimento dell’essenza.
Lo dimostrano in
primis i cadaveri di Dachau nel ciclo Non siamo gli ultimi.
Dopo una latenza di tre decenni, negli anni settanta, afferma
"sono dovuto tornare a Dachau", alludendo al riaffiorare ossessivo
di quelle immagini. Già impresse nei suoi disegni realizzati di
nascosto durante la prigionia e in parte persi nel vento, mentre
tornava sul camion da Dachau a Venezia, quelle immagini indelebili
nella memoria sono tradotte ora in pittura senza enfasi alcuna,
con cruda e semplice essenzialità.
Foto:
SONO DOVUTO TORNAREA DACHAU, Non
siamo gli ultimi, 1976 acrilico su tela, 146 x 114 cm Collezione
Privata
Molto intense anche le
Figure grigie degli anni novanta e i suoi ultimi
autoritratti: figure che resistono alla forza che le disgrega.
Fonte di ispirazione inesauribile è inoltre la moglie Ida,
compagna di una vita consacrata alla pittura; la ritrae miriadi di
volte, da sola o nel Doppio ritratto, con lui che la
dipinge, sapendo di avere di fronte l’insondabile mistero della
femminilità.
Foto:
ZONA GRIGIA Figura grigia, 1997
olio su tela, 116 x 89 cm Collezione Privata
Immancabili infine le
visioni di una Venezia interiore e intimissima. Opere mai viste in
pubblico prima d’ora. È la città dove Music si sente libero, dove
vive di una semplicità quasi monacale e dove dipinge
quotidianamente nel suo studio, sottotetto di Palazzo Balbi Valier
a San Vio. Negli ultimi anni, Venezia appare avvolta in una
tenebra di inchiostro o nel bagliore aranciato di un pastello
grasso: sono le suggestive visioni della Punta della Dogana,
del Canale della Giudecca,
del Molino Stucky, di Piazza San Marco.
Foto:
VENEZIA, ANCORA Piazza S. Marco,
1948 matita grassa, 51 x 59 cm Collezione Privata
Una mostra meditativa
dunque e ricca di fascino grazie alle atmosfere create da Music
con le sue vibrazioni luminose, i contorni che si dissolvono o le
fitte trame segniche che graffiano le superfici. Music crea
“…figure che annidano al confine di un territorio
pittorico-esistenziale, al limite ultimo dello spazio - afferma
Giovanna Dal Bon - strappate alla figurazione, sottratte a
qualsiasi funzione di “rassomiglianza” dicono un al di là del
raffigurabile, instaurando nuovi rapporti all’interno della
figura; in questo, forse, estreme”. E a chi gli domandava cosa ci
fosse al di là della superficie delle sue tele Music rivelava:
“Oltre c’è il profondo. Il luogo dove non si spiegano le cose, una
specie di nebbia dov’è difficile muoversi”.
Nuclei
tematici
Il percorso
della mostra è concepito come un “viatico” che richiama la
natura errante di Zoran Music e la sua esperienza
peregrina tra l’est e l’ovest dell’Europa. L’esposizione
si articola in otto nuclei non cronologici bensì tematici
ovvero “zone d’intensità” che cadenzano l’evoluzione
esistenziale-poetica dell’arista.
Origini
(1935-1949)
Si trovano qui
i Motivi Dalmati, le prime opere di Music, quando
viveva nell’isola di Curzola e assisteva quotidianamente
alle “migrazioni” di donne vestite di nero sul dorso di
asinelli che andavano e tornavano dal mercato; e i primi
acquerelli di Venezia al ritorno da Dachau: ottimistiche e
incantate vedute di bragozzi e burchi, intimamente
oscillanti in idealistici tratti d’acqua azzurra.
Il Viandante
(metà anni ’90)
Zoran se ne
intende di attraversamenti di confine: Stiria e Carinzia
nell’infanzia, terre dalmate, carsiche, ventilazioni
triestine, Vienna post imperiale, impressioni praghesi.
Condensa e incorpora il transito nella figura del
Viandante, presente qui in più versioni. Un soggetto
che visualizza al meglio in segno nero carbone.
Venezia,
ancora (anni ’80 e
’90)
Zoran si
sentiva orgogliosamente partecipe alla fondazione di
Venezia: “…Una regione, la mia, un tempo coperta di
querce, il cui legno è servito per fare le palafitte su
cui è costruita Venezia. Senza parlare degli alberi delle
sue galere. Il mio paese ha contribuito a modo suo alla
potenza della Serenissima”.
Compare qui
una Venezia meno luminosa degli esordi, più bruna e ocrata.
Consapevole e matura in quegli
Interni di cattedrali,
nella Basilica di San Marco, nel Canale della
Giudecca, nella Punta della Dogana o nel
Molino Stucky. In queste opere esposte in mostra per
la prima volta, Venezia ci appare pervasa da bagliori
emergenti dal “quasi buio”; erosa e corrosa da uno sguardo
talmente insistito e adorante da farsi disgregazione.
Figure Grigie
(fine anni ’90)
In posizione
centrale nel percorso della mostra e con le opere
sistemate su cavalletti da studio, le
Figure Grigie
costituiscono il fulcro nel
“viatico” che conduce alla disgregazione del corpo. Sono
autoritratti su cui calano colate in grigio lavico che
disfano i tratti somatici e li trasformano in “estreme
figure” di fortissima intensità concentrica.
"Sono dovuto
tornare a Dachau"
(anni ’70)
“...come in
trance, mi attacco morbosamente a questi fogli di carta
…accecato dall’allucinante morbosità di questi campi di
cadaveri ...irresistibile necessità ...per non farmi
sfuggire questa grandiosa e tragica bellezza”. In
prigionia Music ha disegnato le vittime dell’Olocausto e
dopo trent’anni afferma ”ancora oggi mi accompagnano gli
occhi dei moribondi come centinaia di scintille pungenti
che mi seguivano mentre mi facevo strada, scavalcandoli.
Occhi luccicanti che in silenzio chiedevano aiuto a uno
che poteva ancora camminare…”. Dalle profondità
dell’inconscio affiorano ossessivi i cadaveri di Dachau. È
il 1970 e il ciclo Non siamo gli ultimi ha nel
titolo la fatalità di una condanna sempre rinnovabile. Ma
nulla di enfatico in queste cataste di cadaveri trattate
alla stregua di un paesaggio spoglio, scabro ed
essenziale.
Spazio intenso
(anni ’90)
Zoran assiste
al progressivo cedimento del corpo e nelle ultime figure
lo esprime in perfetta solitudine. Quella stessa di quando
era bambino, ai margini di un impero austro-ungarico che
sfaldava i suoi confini. “Ho bisogno di questa solitudine”
dice e dipinge figure sedute, nude, assorte o
semplicemente chine, le gambe accavallate, un piede nella
mano. Soprattutto L’anacoreta, senza sguardo,
colpisce per quella nudità disarmata di chi ha
semplicemente deciso di assecondare il proprio declino.
Variazioni in
Ida e Autoritratto
(anni ’80 e ’90)
Music si
ritrae da sempre. Tratta il suo sembiante alla stregua di
un paesaggio spoglio e la moglie Ida è l’unico essere
umano a comparire sulle tele oltre a se stesso.
Intimamente connessa all’essenza aurea di una Venezia
bizantina, Ida compare una prima volta nel 1947, ma
seguiranno moltissimi ritratti. Il suo ovale stilizzato,
bidimensionale e iconico. Le sue capigliature aeree,
sagome in luce che affiorano da fondali scuri. Misteri
inviolati. Ida gli è prossima e su di lei imbatte ogni
volta che tenta di dire qualcosa oltre se stesso.
Doppio
ritratto
(1983–2001)
L’ultimo
nucleo tematico riguarda i disegni preparatori e gli olii
che dicono l’approssimarsi e il germinare di due figure
nello spazio pittorico: inizialmente è lui solo, al
margine; poi compare Ida nella sponda opposta, in un
estenuante approssimarsi. La genesi dura dal 1983
all’ultimo disegno in segno rosso del 2001. Sono opere che
suggeriscono posture, infinitesimali slittamenti,
traiettorie di sguardi. Zoran reinventa così il suo spazio
pittorico per dare nuova accoglienza alle due figure fino
a farle coincidere.
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Riportiamo qui di
seguito un testo scritti dall'artista e pubblicato sul
catalogo della mostra edito da Marsilio. |
HO BISOGNO DI
SOLITUDINE
Zoran Music
Ho bisogno di
questa solitudine, del silenzio, di restare immobile in
questa natura, in mezzo a questo orizzonte immenso – ho
bisogno di restare così sia sul Carso, sia in montagna, di
sentirmi tutt’uno con questo paesaggio.
In fondo ciò che
è davanti a me non è una cosa nuova, è simile, se non
identico a quello che ho portato con me, quello che è con
me da sempre, forse fin dall’infanzia, e che però ogni
tanto sbiadisce, minaccia di andarsene e in quel momento
ho bisogno di un nuovo impulso, di un aiuto, di un nuovo
“vedere” per farlo uscire rinforzato e fresco.
Così – guardando
– passa il tempo, anche delle ore, comincio a vivere
questa natura e mi sembra di far parte di questo universo.
Pian piano tutto comincia a muoversi intorno a me. In
questo silenzio cominciano a succedere tante cose, cose
piccole, forse poco importanti, che per me sono però
essenziali per potermi mettere a disegnare: disegno e
osservo cosa succede attorno; mi sembra quasi che non sono
qui per lavorare ma per meravigliarmi di questa piccola
vita che mi circonda. Tutto questo crea un ambiente
indispensabile, uno stato di benessere che spesso si
avvicina all’euforia – questa sensazione di felicità dovrà
durare anche più tardi nello studio per continuare nella
pittura dopo quei disegni.
Sto quindi lì
seduto su un sasso, immobile e tutto pian piano diventa
vivo: un porcospino si azzarda ad uscire di sotto un
cespuglio, due marmotte si accarezzano sulla roccia di
fronte, un’allodola che ha cantato, montando verso il
cielo, si lancia a picco e si appoggia sul sasso vicino, e
la farfalla che si è aggrappata alla matita, non vuole
andarsene. Il tempo passa ed io ho l’impressione di
vedermi come nello specchio in questo paesaggio – mi
rimanda la voce e il mio disegno è come l’eco di quello
che io ho proiettato contro queste rocce.
È importante per
me questa vita. Tutto si muove in silenzio, mi sembra
perfino di sentir crescere l’erba e non mi accorgo neanche
che mi sono lasciato andare a sognare.
Venezia,
luglio 1979
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