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"I MITI NELLA CLINICA PSICOANALITICA: ANALISI
DI UN MITO GRECO ATTRAVERSO I CONTRIBUTI DI W. BION. Dalla
vendetta come agito (-alfa) al processo come trasformazione (+alfa)"
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di Franca Amione e Ambra Cusin
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PREMESSA EDITORIALE: Presentiamo questo contributo delle dottoresse
Franca Amione (psicologa, psicoterapeuta di Trieste) ed Ambra Cusin
(psicologa, psicoanalista S.P.I. di Trieste), presentato
originariamente al congresso internazionale "Bion 2008"
(Roma, 31/1-3/2/2008), e quindi pubblicato, in versione modificata
e più estesa, come capitolo (col
titolo "I miti nella clinica psicoanalitica: analisi di un mito greco
attraverso i contributi di W. Bion") del libro curato da Mauro
Rossetti "Mito, mistica e filosofia nel pensiero di Bion"
(Editrice Cafoscarina, Venezia, 2008, pagine 206, ISBN
978-88-7543-196-9, € 12,00). Il libro, facente parte della collana del
gruppo Racker di Venezia, contiene oltre al saggio introduttivo del
curatore (dal titolo "Lo sviluppo del pensiero secondo W. Bion"),
anche i saggi di Elena Pianezzola e
Rita Simonitto ("Il mistico in W. Bion e la tradizione religiosa
indiana"), di
Giuliana Mozzon ("L'influenza su W. Bion di Platone, J. Locke,
D. Hume e I. Kant") e di Roberto Banon ("Influssi filosofici sul
pensiero di W. Bion: I. Kant e H. Poincaré").
Il gruppo Racker
di Venezia è formato da un insieme di psicoterapeuti di differente
formazione, ma che si incontrano regolarmente, sin dagli anni '90, per
scambiarsi esperienza di lavoro correlate al lavoro analitico e per
studiare autori come Freud, Klein, Meltzer, Bion. Questo libro
raccoglie le riflessioni maturate all'interno di questo gruppo, negli
ultimi anni, sull'opera di Bion.
<<Il metodo
psicoanalitico include>> scrive il curatore Mauro Rossetti nella
premessa del libro <<la possibilità di indagare su aspetti primari
della mente (il protomentale), sulla realtà dei rapporti con noi
stessi e con i nostri simili, sugli aspetti ultimi della nostra
percezione del mondo (conoscenza della "cosa in sé", di O, per usare
le parole di Bion). Tutto ciò solleva l'interesse nei confronti della
speculazione filosofica e sui contributi che la tradizione religiosa
ha lasciato nella nostra cultura, i pensieri che ruotano attorno alle
domande sulla verità, sul sapere, sull'essere, che ritroviamo fin
dall'inizio della storia umana nei miti e nelle rappresentazioni,
teatrali o altro>>.
Si ringrazia sentitamente, oltre alle autrici, anche il dott.
Mauro Rossetti e l'editrice Cafoscarina per aver concesso le
liberatorie necessarie alla pubblicazione su Frenis Zero. Il testo che
le autrici ci hanno consegnato per la pubblicazione su Frenis Zero è
una versione modificata del capitolo del libro: in particolare manca
la descrizione del caso clinico che, invece, è presente nel libro.
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L’interesse per questo lavoro parte da una
sollecitazione che ci viene da Bion stesso il quale ha sottolineato
l’importanza dell’uso del mito come “modello atto alla investigazione o
costruzione cognitiva” (Bion, 1963).
Le riflessioni che presentiamo, stimolate da
esperienze diverse,
sono confluite in un
work in
progress
nel
gruppo Racker di Venezia,
gruppo di lettura del testo
Cogitations
di Bion (1992), come traccia per elaborazioni
ulteriori.
L’impiego del mito come modello cognitivo,
atto ad esplorare l’ignoto, è stato introdotto la prima volta da Freud e,
come Bion afferma in "Cogitations", grazie al mito di Edipo Freud ha potuto
scoprire la psicoanalisi (Bion,1992).
Nella Griglia, Bion sostiene che il mito
possa essere utilizzato come modello che aiuta “lo psicoanalista a
superare lo scarto tra una teoria e il materiale che si manifesta
nell’esperienza psicoanalitica” (Bion, 1974).
La teoria ci impedisce di ascoltare
veramente ciò che la persona desidera comunicarci. Come analisti, nella
stanza di analisi, siamo soli di fronte ad un universo di stimoli,
percezioni, sensazioni, immagini ed altro che il paziente trasmette e
produce in noi. Questo caos di oggetti rientra difficilmente in una teoria
quando questa occupa la scena con tutto il suo peso e le sue implicazioni.
È lo stesso Bion che ci suggerisce di liberarci e spogliarci da ricordi e
desideri in modo da aprirci al presente, abbandonando dunque, in seduta,
la teoria o il corpus teorico di riferimento (Bion, 1997).
Per esempio abbandonare l’idea, suffragata
da teorie, che il passato sia importante. Il passato è passato, non ci
si può fare nulla,
non è importante, dice Bion, ciò che ci rimane sono solo le vestigia del
passato, i resti e dobbiamo discernere questi resti dal presente.
L’analista deve guardare a qualcosa d’altro “essere aperto a
qualcos’altro: vestigia, vestigia mentali. Non so da dove vengano: non so
neanche da dove venga il paziente [...]
il paziente
può avere le sue opinioni su ciò che può vedere e sapere per sé: quello che
è molto più difficile per lui è quello che non può vedere ed è per questo
che è venuto da me”(Bion, 1997) per questo è importante che l’analista
“usi la sua immaginazione (mito)
e osi provare ad articolarla[...]
se
l’analista non si permette di esercitare la sua immaginazione speculativa
non sarà in grado di produrre le condizioni nelle quali può fiorire il
germe di un’idea scientifica” (Bion, 1997).
Compito limitato di questo nostro scritto
non è fare un excursus sull’uso del mito come modello di comprensione di
quanto va dicendo il paziente, perché sarebbe un compito troppo lungo e
complesso. Desideriamo piuttosto, dopo una breve sottolineatura dei
principali motivi per cui è importante l’utilizzo del mito nel lavoro
dell’analista dopo la seduta, al di fuori della stessa, per comprendere e
dare senso a quanto nella seduta è emerso, fare alcune osservazioni sul
significato del mito nella storia del pensiero e sul lavoro clinico
attraverso l’uso di un mito. Svolgeremo questo compito attraverso
l’analisi di un mito, quello delle Erinni trasformate poi in Eumenidi,
meno conosciuto di quello di Edipo, con l’ipotesi di stimolare una
riflessione sulle possibili trasformazioni all’interno del macro gruppo
sociale, ma anche su quanto può accadere nell’intimo della coppia
analitica, nella struttura mentale del paziente, così come in quella
dell’analista stesso.
“La necessità del mito peraltro non può
essere ignorata se si considera l’importanza della sua funzione
principale, che è essenzialmente quella di fornire una forma discorsiva e
narrativa per una verità che non può essere detta e trasmessa attraverso
una definizione diretta. La definizione di una verità deve essere per
forza autoreferenziale e logica ed espressa in un linguaggio discreto. Il
linguaggio logico peraltro non può contenere se stesso né la sua verità,
né il suo movimento verso la verità cercata. Il linguaggio può esprimere
la verità e il suo movimento solo indirettamente e analogicamente, cioè in
modo mitico” (Corrao, 1992).
Il mito ha la capacità di stimolare,
produrre immagini, crearne di nuove, trasformare delle emozioni indicibili
in racconti, in opere musicali e d’arte, di dare un senso e produrre
conoscenza attorno alla natura umana, alla sua complessità, ai suoi
aspetti più contradditori ed incomprensibili quali la violenza, la
crudeltà, l’orrore ed è incredibile come in ogni cultura, a latitudini
diverse, ogni civiltà ha saputo dimostrare di possedere un’innata capacità
di raccontare, e quindi di poter conoscere attraverso la mitopoiesi, le
diverse sfaccettature della realtà sociale, naturale e storica, delle
diverse comunità.
“Gli uomini tutti hanno partecipato a narrare il mito”dice
Siracusano (2002) il mito nasce per essere raccontato (non a caso mithos
vuole dire racconto) e la parola nel mito ha una grande importanza, come
del resto nell’analisi, dove la parola è un dei cardini su cui verte la
cura (talking
cure).
Il paziente ci racconta qualcosa di sé, il suo mito personale, di quel
giorno, di quel fine settimana, un racconto a volte strano, con diverse
versioni, che può essere visto con sguardi prospettici diversi, dando al
medesimo tridimensionalità laddove a volte regna la bidimensionalità, la
piattezza della noia di racconti senza sentimento, senza anima. L’analisi
stessa ha come compito quello di ampliare la pensabilità e il mito
risponde bene a questa esigenza perché, con le sue svariate e
contraddittorie versioni, permette alla mente di raccontarsi (Romano,
2002), nel suo funzionamento, di descrivere la sua organizzazione. Il
paziente a volte parla in maniera oracolare, con responsi che non sono
chiari neanche a lui stesso, che porta in analisi per essere interpretati,
ma non come una verità assoluta, perché questo porterebbe alla catastrofe,
come accadde ad Edipo, ma come un qualcosa che ha bisogno di tempo, e
dello
svolgersi della storia, per acquisire forma
e senso. Quindi ad una narrazione ne segue un’altra e un’altra ancora,
finché il tutto diviene una concatenazione con una sua logica che, per il
paziente e l’analista insieme, diviene “il mito”, di quel paziente. Ed è
lì che l’analisi può evolvere o finire. Evolvere verso ulteriori
narrazioni fino al prossimo salto epistemologico che permette un insight
nella forma del mito.
A volte le storie che ci raccontano i
pazienti sono così contorte ed incomprensibili che ci perdiamo. In questo
viaggio verso l’ignoto che è ogni analisi, Bion ci suggerisce di
utilizzare il mito, e noi aggiungiamo, usare il mito come una bussola, uno
strumento, modello, per comprendere, per orientarsi.
“Io propongo di usare i miti e i sogni alla
stregua dei calcoli algebrici e quindi in grado di fornire, dopo averli
studiati, gli strumenti che, per la loro appropriatezza a rappresentare un
problema, lo possono interpretare e così aprire la strada alla sua
soluzione” (Bion, 1992)
e qualche pagina dopo consiglia
all’analista di avere a disposizione
“…un certo numero di miti, così come lo
scienziato ha un certo numero di procedure matematiche: egli dovrebbe
spesso fare le sue libere associazioni ai miti, in maniera di
familiarizzarsi con essi e con il loro uso; e dovrebbe poi apprendere ad
individuare, partendo dal materiale del paziente quale sia il mito
appropriato, e, a partire da questo, quale sia l’interpretazione
appropriata” (Bion, 1992).
Ma quale è stata l’evoluzione del concetto
di mito nel tempo? Nella storia del pensiero al termine mito sottendono
tre significati: è stato inteso come forma attenuata d’intellettualità,
come forma autonoma di pensiero o di vita e come strumento di controllo
sociale.
Risale all’antichità classica l’intendere
il mito come prodotto inferiore o deformato dell’attività intellettuale.
Mito inteso come
verosimiglianza
di fronte alla
verità
propria dei
prodotti genuini dell’intelletto. Questo fu il punto di vista di Platone e
di Aristotele: per il primo il mito rappresenta la via più umana e più
breve della persuasione e si colloca in quella zona che è al di là della
stretta cerchia del pensiero razionale e nella quale ci si
avventura esclusivamente con supposizioni
verosimili.
Per il secondo, il mito talora è inteso
come l’opposto della verità e talora come quella forma approssimativa ed
imperfetta che assume la verità quando di essa si dia ragione in forma di
mito. Inoltre, a questo concetto di mito, come verità imperfetta o
diminuita, va congiunta spesso l’attribuzione al mito di una validità
morale o religiosa.
Nella filosofia recente appartengono a
questo filone interpretativo tutte le filosofie naturalistiche prevalse
nel secolo scorso in Germania (empirismo), che hanno orientato il pensiero
verso lo studio della natura come sede di verità: per cui l’atteggiamento
che dà origine alla scienza consiste nell’assumere un determinato fenomeno
naturale come chiave di spiegazione di tutti gli altri fenomeni, in una
sorta di modello di riferimento, di qualità empirica; in tale accezione il
mito è inteso come una forma imperfetta di attività intellettuale.
La seconda concezione intende il mito come
una forma autonoma di pensiero e di vita. In questo senso il mito non ha
una funzione subordinata o secondaria rispetto alla conoscenza
razionale/logica, ma ha funzione e validità originaria e primaria; si
colloca su un piano diverso, con uguale dignità, dell’intelletto. La
verità del mito non è una verità corrotta, né degenerata, ma una verità
autentica, sebbene in forma diversa da quella intellettuale,
cioè di forma fantastica e poetica. Il Romanticismo fece
proprio questo concetto. Nella recente filosofia la migliore espressione
di questa interpretazione è di Cassirer (1925) che vede come
caratteristica principale del pensiero mitico “la mancata o imperfetta
distinzione tra il simbolo e l’oggetto del simbolo, cioè la mancata o
imperfetta consapevolezza del simbolo come tale”. Nel suo
Saggio
sull’uomo,
Cassirer (1944) vede il carattere distintivo del mito nel suo fondamento
emotivo. “Il sostrato reale del mito non è un sostrato di pensiero, ma di
sentimento [...]
la sua coerenza perviene più da una unità sentimentale che da regole
logiche”. È forse qualcosa che rimanda all’insight? Tale unità, tra
l’aspetto emotivo e quello logico, è una degli impulsi più forti e
profondi del pensiero primitivo. E se riflettiamo bene osserviamo anche
come in psicoanalisi si faccia derivare il pensiero dall’emozione, grazie
all’intervento di traduzione con la 'réverie' che la madre apporta.
All’ambito di questa stessa corrente di
pensiero appartiene l’interpretazione sociologica che fa del mito una
forma di pensiero pre-logica. Durkheim (1897) e Levy- Bruhl (1922), quest’ultimo
in particolare, definisce il mito come pensiero pre-logico, nel senso che
esso prescinderebbe completamente dall’ordine necessario che per il
pensiero logico costituisce la natura (vedi le leggi fisiche), ma vedrebbe
la natura stessa come una rete di partecipazioni e di esclusioni mistiche,
nelle quali non valgono le leggi di contraddizione.
La terza concezione del mito fa riferimento alla moderna
teoria sociologica che ha trattato la storia delle popolazioni primitive
con lo scopo di ritrovare gli “a priori” culturali. Di particolare
interesse sono le letture proposte da Frazer (1973) e da Malinowski
(1962). Quest’ultimo, in particolare, vede nel mito la “giustificazione
retrospettiva degli elementi fondamentali che costituiscono la cultura
di un gruppo”. Il mito compie una funzione sui generis strettamente
connessa con la tradizione e la continuità della cultura, con la relazione
tra giovinezza e maturità e con l’atteggiamento umano verso il passato.
Funzione sua propria è quella di rafforzare la tradizione, darle maggior
prestigio e valore, connettendola alla migliore e soprannaturale realtà
degli eventi iniziali. “In questo modo il mito non è limitato alla realtà
dei primitivi ed al loro mondo, ma è indispensabile ad ogni cultura
[...]
Ogni
mutamento storico crea la sua mitologia, che è solo indirettamente
relativa al fatto storico.” (1962)
Nelle Eumenidi il fatto storico del passaggio dalla legge
primitiva alla legge
condivisa
come regola
si colloca
nel tempo a-storico della tragedia, in una
dimensione simbolica che trascende il fatto in sé per assumere quella
funzione di simbolo della svolta nel processo sociale, di pensiero e
relazionale della cultura greca, quindi di tutta
la cultura occidentale. Il mito condivide con la tragedia
lo stesso senso del tempo e ciò ha dato ragione del perché molte tragedie
hanno come trama dei miti, miti che rappresentano i temi vitali
dell’esistenza dell’uomo e delle sue passioni. Esiste, però, una
sostanziale differenza nella modalità di snodarsi del tempo nei due
diversi contesti simbolici: il tempo della storia può essere rappresentato
come un tempo
aperto,
nel senso di contenere in sé ed esprimere una progressione, nel suo essere
lineare evento dopo evento, fatto dopo fatto. Gli uomini sono collocati
nella storia, che li precede e che seguirà alla loro morte, quindi
soggetti al tempo lineare, che è fattuale prima che simbolico. “Il tempo
della storia implica necessariamente un futuro, in cui avverranno fatti
dopo di noi” (Del Corno, 1998) e la ineluttabilità del futuro proietta la
storia al di là della coazione a ripetere nel senso che i fatti non
saranno mai identici, intanto in quanto la variabile tempo lineare ne
caratterizzerà sempre una diversa contestualizzazione. Il tempo del mito,
invece, può essere rappresentato come un
tempo
chiuso
che non si misura in una progressione rettilinea, ma si
coagula nell’evento
unico,
che è la forma assoluta del mito. Ogni mito rappresenta, infatti, un
evento unico che assurge a simbolo a-temporale di una parola/notizia della
cosa com’è (Euripide). In virtù di questo vive contemporaneamente sia la
soggettivizzazione della realtà esterna (ogni mito ha i suoi attori) che
l’oggettivizzazione del mondo interiore (ne condividiamo gli affetti, in
quanto umani) e per questo suo essere al contempo soggettivo ed universale
che uno “iato invalicabile” lo separa dall’inizio del tempo storico. Se
noi intendiamo per “fatto selezionato” (Bion, 1992) un elemento che
assurge a simbolo di uno stato mentale, affettivo, traumatico che il
paziente porta in seduta e che l’analista prende facendolo divenire
l’elemento intorno a cui ruota la seduta, allora possiamo intendere il
mito, inteso come mito del paziente in quella seduta, come un contenuto
saturo, nel senso che contiene in sé tutto, ma anche insaturo, in quanto
sempre nuovamente elaborabile, seppur non modificabile.
Nell’universo mitico a-temporale la
tragedia trova così la dimensione assoluta del tempo, che è la condizione
primaria per la ri-attualizzazione dell’evento nel presente della mimesi
teatrale (Del Corno, 1998).
L’utilizzo che fino ad ora abbiamo fatto
del concetto di mito, ci porta a mantenere la costante dicotomia, seppure
con le differenze
presenti nei vari modelli filosofici, tra primitivo e culturale,
tradizione e storia, pensiero concreto e pensiero simbolico, come se il
mito fosse altro da…Nonostante
tutto questo, anche Frazer e Malinowski, che pure si collocano all’interno
di una teoria sociologica di matrice neo-positivista, quindi laica,
collegano il mito con il pensiero magico e,
pur riconoscendone la funzione indispensabile per la cultura, lo
definiscono come un “costante accompagnamento della fede vivente che ha
bisogno di miracoli” e quindi mantenendo di fatto l’antica dicotomia
logos-mithos.
Bisogna attendere l’evoluzione degli studi
dell’antropologia strutturale, perché il concetto di mito venga
considerato non più in antitesi nella relazione con il suo opposto il
concetto di storia/ logos. Nelle oscillazioni della diade mithos/logos la
teoria strutturalista ha proposto un interessante percorso che va dalla
contrapposizione dei due termini/concetti alla loro integrazione, intesa
come sviluppo del processo di narrazione del sapere e della conoscenza,
che si rifà alle origini del nome, al suo significato (mito significa
“conoscere”).
Il mito originariamente ha assunto il
significato ora di racconto di un fatto ora di fatto in sé (Omero,
Euripide).
Successivamente con la comparsa di un altro tipo di
racconto o discorso, chiamato logos, caratterizzato dall’argomentazione
razionale, la narrazione mitica assume il carattere di
leggenda,
favola
ed in questa
accezione lo troviamo in Platone. La storia greca così come la filosofia,
in forme varie, ma sostanzialmente immutate, ha espulso il mito dal campo
della ragione.
Da questa posizione è derivato il tentativo
di dimostrare come il mito offra al mondo non un’immagine razionale del
reale, ma un modello di valore con funzione prescrittiva, poiché è
attraverso di esso che si avviano i
meccanismi di
lettura, classificazione ed interpretazione della realtà. Così inteso, il
mito non trasmetterebbe tanto un sapere quanto un
codice
che permette di produrre sapere dall’osservazione ed interpretazione del
reale.
A causa dell’essere un codice, però, il
mito stabilisce preventivamente dei meccanismi di lettura del reale
stesso.
Ne deriva che essendo ciascun evento
dell’esperienza interpretato secondo le regole di un codice
preventivamente appreso (coazione a ripetere), i dati dell’esperienza non
possono fare altro che confermare la verità delle regole costituenti il
codice simbolico stesso attraverso il quale la realtà è stata osservata.
In altre parole, nella lettura dicotomica
mithos/logos, nell’universo dominato dal mithos, l’evento particolare non
produce mai conoscenza, essendo questa pre-scritta dal mito, sempre
identico a sé.
In questa lettura viene evidenziata l’alterità
del logos, rispetto al mithos, essendo il primo caratterizzato
dall’occuparsi del particolare del divergente, del dualismo
logico/il-logico. Ne deriva che la qualità del logos sia quella di
lavorare sulle contraddizioni e sulle oscurità ai limiti del sapere. Se la
scienza (nelle Eumenidi è la scienza della politica) produce, non un
aggregato di constatazioni, ma un sistema conoscitivo, ciò è dovuto alla
sua capacità di superare il sistema consolidato, per consentire la
possibilità stessa di nuove scoperte. Ciò può avvenire intanto in quanto
essa si apre alla significatività di elementi prima esterni al sistema
conosciuto e poi presenti ai suoi confini. Ciò contrasta con quanto detto
dell’universo del mithos, dove ogni evento non può che inserirsi in una
struttura preesistente, non può per definizione non essere stato previsto,
non può non obbedire ad una essenza costitutiva da sempre inscritta nel
mondo.
Questa rigida dicotomia, attraverso gli
studi strutturalisti compiuti in campo antropologico da Levi Strauss
(1965), prende una nuova e attuale modulazione. Con questo studioso nasce
la mito/logia strutturalista. Egli non ritiene che il mito sia frutto di
un’attrezzatura mentale differente che l’uomo primitivo avrebbe rispetto
all’uomo
civilizzato;
infatti
come la scienza crea i suoi strumenti ed i suoi risultati
grazie alle strutture che fabbrica senza posa e che sono le sue teorie,
così il pensiero mitico elabora strutture combinando assieme eventi o
piuttosto “residui di eventi”. Per accorgersene bisogna ricondurre la
molteplicità dei miti al “mito di riferimento”, disarticolandolo nelle sue
sequenze, ciascuna delle quali costituisce una possibile trasformazione.
Così procedendo si può constatare che nell’immagine mitica c’è una
struttura stabile e ben determinata, dove è chiaramente leggibile la
struttura organizzativa in cui si riconosce il gruppo.
Le oscillazioni con cui nel corso della
storia delle diverse culture si è presentata la dicotomia mithos/logos
hanno mostrato come sia del tutto relativo, se non spesso fuorviante,
pensare ad una contrapposizione rigida tra pensiero mitico e pensiero
logico, oppure ad un passaggio da un’età dominata dall’irrazionalità ad
una votata alla sola razionalità. Come sostiene Eraclito il mito ha in
comune con il logos l’intento di conoscere e di spiegare il mondo, per cui
il passaggio dall’uno all’altro non è tanto un passaggio dalla favola alla
verità, ma due modi diversi di perseguire lo stesso intento. Per il mito
non c’è realtà che non si risolva nel mondo interiore soggettivo, ampliato
e proiettato verso l’esterno.
Sia il mithos che il logos si collocano
all’interno di una più complessa forma di costruzione della conoscenza
sociale e
politica, quale è
la forma
narrativa.
L’attenzione alla forma narrativa come modalità di
costruzione degli eventi soggettivi e gruppali ha reso ormai
evidente con grande chiarezza che nel racconto vi
può essere molto di più che la mimesi di azione ed avvenimenti.
La forma narrativa permette di attuare una manipolazione della struttura
del reale, di smontare e di indagare i modi di connessione degli eventi,
di costruire
mondi alternativi, indietro verso miti
arcaici o avanti verso utopie felici o universi carichi di angoscia. Nasce
da
tutto questo un
nuovo atteggiamento verso il mondo del mito, che si registra nel nuovo
termine
mito-logia,
in cui
sono coniugati in unità imprescindibile i
due concetti di irrazionale (il mithos) e di razionale (il logos).
Infatti dopo aver individuato nel mito una
forma infantile e pre-razionale di espressione dell’umanità, si decide di
andare alla ricerca della logica che non soltanto agisce nello spazio
occupato dai miti, ma che di essi determina i modi di organizzazione.
Con chiarezza emerge che la narrazione, il
mithos, è uno strumento d’espressione senza dubbio diverso
dall’argomentazione tipica del logos, però alla fine non meno logico, non
meno razionale, non meno connesso ad un’esigenza e ad un progetto di
conoscenza.
L’evoluzione, da un lato, delle ricerche
scientifiche sul mito e dall’altro la riflessione filosofica della moderna
epistemologia concordano nel radicare mithos e logos sempre più
profondamente nella storia, entrambi prodotto di un’attività umana di
conoscenza, variabile con il mutare delle esigenze e dei comportamenti
dell’uomo.
Sia un paradigma scientifico che un
complesso mitologico agiscono come chiave di lettura della realtà e di
interpretazione degli eventi.
La nostra libera associazione con queste parole, va all’hic
et nunc
della seduta analitica, come luogo del tempo
sospeso, al concetto di coazione a
ripetere, come riattualizzazione.
Ma come nella seduta di analisi la
riattualizzazione non rimane una semplice coazione a ripetere, ma si
trasforma in una relazione vissuta, colorata dagli elementi transferali
qui ed ora, così grazie alla drammatizzazione del mito, l’immobilità
dell’accaduto si trasforma nel sistema dinamico e dialettico dell’accadere
nella rappresentazione scenica.
E ancora, così come il regista mette in
scena un mito, scegliendo attori e costumi, scenografia e musiche,
interpretando il mito attraverso il suo sguardo, la sua mente, così il
paziente mette in scena per l’analista il proprio mito e a sua volta
l’analista, come spettatore partecipe, vive le emozioni collegate al
racconto del mito muovendo le proprie emozioni, creando le proprie
immagini in continui rimandi con l’analizzato. Rimandi che arricchiscono
il mito di nuove, e sempre più complesse e caoticamente creative,
versioni.
Per R. Romano (2002) il mito fa parte della scienza perché
è una funzione basilare della mente, una funzione ponte tra individuo e
gruppo, il mito è il racconto di una storia che ha
un
significato particolare per significare
gli affetti.
Il mito è il racconto che noi facciamo della nostra mente e che la mente
fa di se stessa. Il mito è parte della scienza perché attraverso di esso
la mente ci comunica come funziona.
Ma il mito è anche “un protomodello dello
stato mentale, un modello del pensiero arcaico dove il sogno, la fantasia
più pura, un misterioso senso estetico, l’orrido, il mostruoso,
l’affettività più esplosiva si mescolano in forme, grandezze e dimensioni
le più disparate” (Siracusano,2002).
Racconto del mito: La trilogia dell’Orestea
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Vediamo dunque un mito, scegliamone uno
e seguendo l’indicazione di Bion associamo liberamente ad esso.
Bion dice: l’analista infatti “non
dovrebbe tanto preoccuparsi di prendere appunti sui suoi pazienti,
ma piuttosto prendere il mito di Edipo, per dire e scrivere la sue
libere associazioni ad esso, annotandone la
data. Può ripetere questo esercizio quanto vuole: le libere
associazioni non
saranno mai le stesse in date diverse.” Tra le sue
associazioni può apparire il nome di un paziente “Questa procedura può
essere ripetuta cinque volte la settimana per lo stesso mito, o per
altri che l’analista si senta disposto ad accogliere
nel
suo canone [...]
questa
procedura promuove l’intuizione analitica…” (Bion, 1992).
Alcuni anni fa abbiamo potuto vedere a
teatro la trilogia dell’Orestea. Nel gruppo di studio sul pensiero di Bion a cui partecipavamo, spesso si era
accennato all’uso, consigliato da Bion, del mito per esercitarsi nel mestiere dell’analista, per rimanere in
forma, per promuovere l’intuizione analitica, la capacità di
immaginare liberi dalle tensioni della memoria e
del desiderio.
Soprattutto nella rappresentazione
dell’ultima delle tre tragedie che compongono la trilogia, siamo
rimaste emozionate dall’immagine, descritta da Eschilo, della
trasformazioni delle terribili e temibili Erinni, dee vendicative,
nelle amorevoli e protettrici Eumenidi. Ci è sembrato, come
cercheremo in questa parte del nostro contributo di evidenziare,
attraverso una intuizione, come questo mito potesse essere utilizzato
per comprendere ciò che avviene nella seduta quando il paziente, con
dolore e a fatica, rinuncia ai suoi abituali meccanismi vendicativi e
punitivi per accogliere una capacità, soprattutto verso se stesso per
primo, ma anche verso gli altri, di accettare, perdonare, comprendere,
rinunciando a rimanere nel rancore e nel desiderio/obbligo di
vendicarsi, di punire l’offesa.
Partiamo dunque dall’Orestea di Eschilo
(ed. BUR, 1995) che è una trilogia pervenutaci dall’antichità dove l’uomo greco, attraverso una
trasposizione metaforica, deve compiere un cammino per giungere a
necessarie conquiste ideologiche, filosofiche e di conoscenza.
L’intero dramma di Oreste è
riconducibile, infatti, alla coesistenza di due opposte religioni: da
un lato quella ctonia che rifletteva il profilo di una
società primitiva e patriarcale (le Erinni per es. erano più
importanti di Zeus) e dall’altro la religione olimpica pronta a
rispondere alle nuove esigenze della polis, nella prospettiva della
“responsabilità dell’individuo” e della “certezza del diritto”.
Costruito fin dall’inizio sulla nascita
del concetto di giustizia in “Eumenidi” la tragedia dell’Orestea trova
una necessaria conclusione: la composizione
di un dissidio che attanagliava l’uomo greco, il superamento di un 'empasse' che salva la polis – e si
potrebbe dire anche la civiltà occidentale – dall’incertezza del
diritto, dal 'deinòn' oscuro e antico della violenza
incontrollata, dal perpetuarsi del diritto di sangue e della vendetta.
Il “vivi uomo” che Athena rivolge ad
Oreste, libera per sempre l’individuo dal tormento di non sapere come sarà giudicato il suo agire e suggella
uno dei fondamenti di ogni civiltà moderna.
È per questo, che nel nostro momento
storico, ci sembra qui importante riflettere, utilizzando il mito,
come ci ha insegnato Bion, sulla nascita del
processo democratico, non solo a livello sociale, ma anche e
soprattutto come struttura interna della mente atta a contribuire al
giudizio delle proprie azioni.
Ma prima è bene ricordare la storia,
brevemente, narrata nell’Orestea, opera di Eschilo composta da tre
tragedie: Agamennone, Coefore ed Eumenidi. In
essa si racconta come il re argivo Agamennone è costretto per lunghi anni lontano dalla patria, dai
combattimenti contro Troia.
Nella prima tragedia, “Agamennone”, si
racconta come la regina Clitemnestra, sua moglie, invece abbia trovato consolazione alla propria solitudine
tra le braccia di Egisto. Quando il suo vero sposo ritorna vittorioso
ella lo accoglie dunque con falsa gioia e con
l’intento di ucciderlo.
Solo in questo modo potrà governare
assieme all’amante e vendicare la figlia Ifigenia che il padre
Agamennone aveva sacrificato agli dei pur di
ottenere venti favorevoli per la sua flotta in partenza per la guerra.
Compiuto il delitto Clitemnestra
promette di riportare ordine e sicurezza, ma il saggio Coro commenta
gli eventi con inquietudine e scetticismo. Nel
timore della vendetta Clitemnestra allontana da sé i propri figli
Elettra e Oreste ancora bambino.
In “Coefore” troviamo Clitemnestra ed
Egisto che vivono nel terrore, nell’incubo della vendetta. Oreste ritorna ad Argo per vendicare, come
ordinatogli dal Dio Apollo, l’assassinio del padre Agamennone. Assieme
ad Elettra, sua sorella, riesce a portare
a termine la vendetta.
Una volta fatta giustizia Oreste però
cade nel conflitto fra la nuova religione e quella ctonia, ancora
coesistenti. Il matricidio, infatti, secondo l’antica
tradizione, è punito con la persecuzione delle terribili Erinni.
Il protagonista sfugge disperato e
tormentato dall’angoscia delle dee vendicatrici.
In “Eumenidi”, Oreste fugge a Delfi per
chiedere consiglio ad Apollo, ma viene inseguito fino al tempio dalle Erinni che lo terrorizzano. Apollo
consiglia ad Oreste di recarsi ad Atene, compiendo riti di
purificazione lungo il cammino e di chiedere aiuto a Pallade Athena,
unica dea che può liberarlo dalla persecuzione delle dee ctonie.
Appare nel tempio l’ombra di
Clitemnestra: senza pace , anche nel mondo dell’aldilà, a causa delle
sue colpe, ella desta le Erinni e le richiama al
loro dovere di dee vendicatrici.
La Corifea delle Erinni tiene testa ad
Apollo in un confronto in cui si evidenzia l’opposizione tra le
divinità ctonie e quelle “nuove” olimpiche: poi
assieme alle sue compagne si mette sulle tracce di Oreste e lo
raggiunge ai piedi del simulacro di Athena. La giovane dea della
Ragione decide di aiutare l’infelice principe argivo istituendo un
tribunale composto, in numero pari, dai migliori cittadini ateniesi.
Sarà il loro voto, assieme a quello
della dea a dare il giudizio definitivo. Assistiamo così al primo
processo democratico della storia dell’uomo, in
cui Apollo e la Corifea, davanti ad Athena e all’Areopago, luogo di
discussione, piazza principale in cui si discute fondamentalmente di
politica, si scontrano su una questione etica fondamentale.
Davanti alla parità dei voti contrari e
a favore di Oreste, il voto della dea diviene decisivo e salva Oreste.
L’ultimo compito della dea è quello di
scongiurare l’ira delle Erinni e della loro Corifea umiliata e offesa dalla decisione del “tribunale”. Ma
anche quest’ultima pacificazione riesce e le furie placate si
trasformano in benevole Eumenidi, nuove custodi della
città.
Credo che già davanti a questo racconto
molti dei nostri pensieri possano andare all’attualità del nostro
tempo, dove sembra che la foga vendicatrice
delle Erinni sia tornata all’opera…
Ma torniamo alle nostre riflessioni che
sono fondamentalmente sull’uso del mito in Bion. Per Bion (1992) il
mito è una modalità di studio per affinare
la relazione psicoanalitica.
Ne parla in "Cogitations"
quando per
esempio si chiede fino a che punto la mitopoiesi sia una funzione
essenziale di “α”, nel senso che “può
darsi che l’impressione sensoriale debba essere trasformata per
renderla materiale idoneo al pensiero-del-sogno,
ma che la funzione del pensiero-del-sogno sia quella di usare il
materiale che a mette a sua disposizione, le
unità di pensiero- del- sogno, allo scopo di produrre miti.” Per
questo motivo definisce il mito come qualcosa che
deve avere alcune qualità del senso comune per essere comunicabile.
E in modo particolare ne parla nella
parte dedicata al mito della Torre di Babele in cui tra l’altro dice
che non si può affermare come siano cominciati
i miti, né si è in grado di vedere il processo di formazione di un
mito mentre opera in mezzo a noi, ammesso
che un tal processo esista, ma se è un individuo che lo ha inventato
allora è successo che l’individuo ha fatto
un’esperienza emotiva che poi viene trasformata da “α” ed infine essa
viene pubblicata.
“Quello che mi importa qui sottolineare è che dobbiamo
pensare a queste storie in assoluto parallelismo al calcolo algebrico
prodotto dal matematico non semplicemente per rappresentare un s.d.s.
già esistente, ma anche come formulazione matematica che non ha in
quel momento, ma potrebbe risultar avere in futuro, una effettiva
realizzazione alla quale sia applicabile… propongo di assumere che la
storia è intesa gestire una situazione emotiva; poniamo inoltre che le
immagini visive veicolate verbalmente debbano essere considerate
elementi ‘α’ [...]
è in
questo senso che credo che il mito [...]
debba
essere usato come uno strumento paragonabile alla formulazione
matematica” (Bion, 1992).
Nella tragedia delle Eumenidi,
originata da un mito, vediamo come si passa da una legge arcaica,
rigida, violenta, fatta di pura pulsione, vendicativa, sanguinaria,
rappresentata dalle Erinni
[…] vergini maledette, le vecchie
fanciulle nate in un tempo
remoto, alle quali non si congiunge mai
nessuno degli
dei, né uomo, né fiera. Per il male
esse nacquero… odio
degli uomini e degli dei celesti
che inseguono Oreste
Come cane un cervo ferito, noi lo
bracchiamo lungo stille di
sangue. Per molti defatiganti travagli
ansimano le mie viscere:
ogni angolo della terra come gregge ho
percorso, al
di sopra del mare lo inseguivo con voli
privi d’ali, non meno
veloce di una nave. Ed ora costui è
qui, rannicchiato in
qualche punto: mi sorride un odore di
sangue umano.
alla legge gestita e regolata
dall’uomo. Forse una legge non perfetta, ma meno frutto di proiezioni
quanto piuttosto di un diritto, uguale per tutti ed esercitato a
maggioranza di voti. Sarà con la mediazione della dea Pallade Athena e
l’appoggio testimoniale del dio Apollo, che rappresentano la ragione,
la riflessione, la capacità elaborativa, la capacità di negoziare, ma
anche l’abilità politica, che si passa ad una legge umana, elastica,
organizzata, equilibrata, capace di comprensione condivisa, anche se
non ancora di perdono, come poi sarà con il pensiero cristiano.
“Athena: …ma poiché la situazione è
precipitata a tal
punto, io sceglierò per gli omicidi
giudici giurati e fonderò
un istituto di giustizia che resterà
saldo per sempre.
Voi intanto (rivolgendosi insieme alle
Erinni e ad Oreste)
invocate testimonianze e prove, ausili
alla giustizia consacrati
al giuramento. Io ritornerò dopo aver
scelto i migliori
fra i miei cittadini, perché decidano
rettamente questa
causa, senza violare, con animo iniquo,
giuramento
alcuno”.
Tale tragedia sembra quindi segnare il
passaggio dal pensiero primario a quello secondario, in una
formulazione mitica.
I personaggi paiono riproporre nel
personaggio delle Erinni/Eumenidi la personificazione dell’Es, esse
infatti sono le più antiche divinità del
Pantheon ellenico, forze primitive che non riconoscono l’autorità
degli dei, non hanno altra legge se non loro stesse e
a loro obbedisce lo stesso Zeus, la loro funzione è vendicare i
crimini, in particolare quelli contro le madri, facendo impazzire
l’omicida e tutelando così l’ordine sociale, ma anche la
personificazione di un Super- Io sadico, primitivo. In Oreste possiamo
intravedere la rappresentazione dell’Io e in Athena, dea guerriera
nata dalla testa di Zeus, la cui pianta preferita è l’ulivo, la
raffigurazione, assieme ad Apollo, di un Super-Io che promuove la
crescita e non è castrante.
Una coppia genitoriale dunque, buona e
giusta, protettiva, non sadica e introiettata.
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Collegamenti con il concetto di
Super-Io e di cambiamento catastrofico
nell’opera di Bion
|
Partendo dal presupposto che Eschilo,
con questa tragedia volesse dare un messaggio politico al popolo
ateniese, analizzeremo come questo messaggio
rappresenti il frutto di un processo mentale dell’umanità stessa, una
trasformazione, e che abbia trovato nelle parole di Eschilo il suo
emergente gruppale.
Di regola le tragedie di Eschilo erano
destinate ad un pubblico in prevalenza ateniese. In particolare nella
parte finale delle Eumendi, Eschilo
“suggerisce un modello di comportamento politico (con forti
implicazioni etico-religiose) specificamente destinato al pubblico
ateniese che nel 458 a.C. assisteva alla rappresentazione dell’Orestea”
(Benedetto, 1995).
Perciò Benedetto suggerisce di cercare
il nesso tra la vicenda tragica, nel suo complesso, ed il messaggio
politico.
Quello che noi vogliamo fare invece è
cercare il nesso tra la vicenda tragica ed una trasformazione psichica
a livello sia individuale che di gruppo
sociale.
È la mentalità del gruppo che sembra
trasformarsi passando da una posizione schizo-paranoide, ad una
depressiva.
Nella prima, caratterizzata dalla
“paura persecutoria di un ambiente senza affetto” (rappresentato dalle
Erinni)
(Guntrip, 1972), predominano l’azione, gli agiti
vendicativi, il trionfo di “–alfa”,
l’incapacità a far diventare pensieri, e poi ricordi, le emozioni e le
impressioni sensoriali, il vincolo a rimanere nella ripetizione, a
essere preda di elementi "beta"
incapaci di
collegamento tra di loro.
Nella seconda dominano piuttosto la
presa in carico della responsabilità dei propri pensieri, delle
proprie azioni, l’accettazione di sottoporsi ad un
giudizio umano, e non divino (frutto delle proiezioni degli aspetti
sadici della personalità), che comporta la
trasformazione anche della divinità stessa dalle persecutorie Erinni
alle “benevolenti Eumenidi”. Questo stato ci sembra che possa essere
definito come un “+alfa”,
ovvero una capacità di comprensione, di “digestione” delle emozioni
legate ad eventi
significativi, senza l’assillo delle
paure persecutorie.
Ritorniamo agli eventi: innanzitutto la
vicenda descritta nell’Orestea è una tragedia familiare, ci sono
violente lacerazioni, sullo sfondo un primo
figlicidio in cui Agamennone sacrifica agli dei la figlia Ifigenia,
poi l’uxoricidio in cui Clitemnestra uccide il marito Agamennone per
vendicare la morte della figlia, e infine il matricidio in cui il
figlio Oreste, per vendicare la morte del padre Agamennone, uccide la
madre Clitemnestra.
Un omicidio dietro all’altro in un
crescendo ripetitivo di vendette che sembra non poter aver mai fine.
“La stirpe è invischiata nella rovina”
recita il Coro nell’Agamennone. Quanto questo crescendo di vendette
ricorda le attuali realtà umane alle diverse latitudini in cui ci si
continua ad ammazzare per vendicare qualcuno?
Esistono, in culture molto vicine alla
nostra, ai confini della Grecia, in cui è nato il mito delle Erinni,
dei codici
tramandati nei secoli e fondati sulla regolamentazione
della vendetta quali il
"Kanun",
codice consuetudinario albanese
in ragione del quale, ancora oggi, in alcuni paesi dell’entroterra,
giovani ragazzi sono costretti a vivere nascosti per evitare la
vendetta di delitti commessi da loro antenati nel passato.
È dunque una questione di stirpe, dice
Benedetto nell’introduzione, di "genos" (ghenos) con implicazioni molto più profonde rispetto al nostro
istituto familiare attuale.
Nel processo ad Oreste, e
nell’assoluzione che ne consegue, “la polis appare come capace di
porre termine alla disgregazione del genos”. Nell’Orestea
c’è una ricomposizione delle lacerazioni che si realizza attraverso una istituzione dello Stato.
Ma per Benedetto è erroneo pensare che
Eschilo abbia voluto
“evocare un percorso storico che dalla famiglia porta
allo Stato, con lo Stato che alla fine si pone come superamento del
genos [...]
piuttosto ha voluto far leva sulla
carica emotiva
di cui era dotato il genos per proporre una rifondazione
etico-religiosa dello Stato” (Benedetto op. cit.).
Eschilo vive un periodo di forti
tensioni che caratterizzano la polis ateniese, rivelatrici
dell’equilibrio instabile su cui si reggeva la medesima, che era
anche sede di mediazioni di conflitti interni. La famiglia, la stirpe,
il 'genos' aveva una storia ben più lunga e
uno spessore maggiore rispetto alla polis per cui un particolare
significato acquisivano concetti come la
maledizione del genitore contro il figlio, la pesante condanna da
parte della comunità degli atti ostili del figlio nei confronti dei
genitori, lo stesso coinvolgimento del 'genos' nelle formule di
maledizione che si pronunciavano nei giuramenti solenni.
Perciò Eschilo sente l’esigenza
“di un richiamo ad una norma che
garantisse la di per sé difficile coesione dell’istituto della polis.
E questo egli fece utilizzando il forte potenziale emotivo di cui era
carico l’istituto familiare nel suo aspetto di consanguineità… è la
carica di paura che scaturiva dalle vicende della famiglia degli
Atridi egli la utilizza per proporre una nuova base di un ordinato
vivere civile nella polis” (Benedetto, op. cit.).
“Accade certo che talvolta ciò che è
pauroso sia un bene e deve restare, assiso, a vigilare sulle menti
degli uomini” cantano le Erinni in Eumenidi. Ciò che è pauroso ha il
compito di vigilare sugli uomini. Ciò che è tremendo esercita
un’azione preventiva, limitando la possibilità di movimento, impedendo
che il singolo e la polis si allontanino da un atteggiamento di
saggezza, commenta Benedetto,
“Chi, uomo o polis, se non ha paura,
potrà riverire la giustizia?” Attraverso la minaccia di sanzioni, lo
Stato impedisce che si commettano ingiustizie. Ma Eschilo non vuole mantenersi in una dimensione
giuridico-legale, ma piuttosto utilizza “la carica di paura
(un’emozione dunque) di cui la famiglia” […] “era
dotata ai livelli più profondi della psiche – e che si sprigionava
concretamente dalla rappresentazione delle vicende del 'ghenos' degli
Atridi – perché la vita pubblica trovasse una remora, un punto di
riferimento che garantisse dalle deviazioni.”
“Chi degli uomini è infatti giusto se nulla teme?”
chiede Athena affermando dunque che è impossibile scindere la
giustizia dalla paura. Ci chiediamo quindi, con un balzo di 2500 anni,
i significati del nostro attuale voler sconfiggere la paura a tutti i
costi, invece di rispettarla come un’emozione utile nella
strutturazione della mente, come un “+alfa”.
Questa tendenza della società occidentale attuale di “mostrare i
muscoli”, di dover essere la più forte, invece di leggere nella paura
un’emozione che aiuta a rispettare delle regole di convivenza civile.
La paura di fare del male all’altro per timore di essere puniti,
seppur sembri così banale nella sua espressione è in fondo, ci dice
Eschilo, una modalità per evitare i processi sommari, le stragi, i
genocidi decisi a tavolino per interessi economico-politici di
gestione del potere. E qui si parla di una paura non persecutoria,
ma strutturante. Una paura che è “+alfa”,
che è emozione che si trasforma in pensiero nel momento in cui ci si
assume la responsabilità di un gesto e si accetta che le questioni, i
conflitti, si risolvano con un “regolare processo” e non con una
azione vendicativa “–alfa”.
È il Super-Io sadico che va
trasformato, in un processo evolutivo che non è solo personale, ma
avviene anche a livello di macro-gruppo sociale, in
un Super-Io garante delle norme e delle regole interiori, fautore del
sano senso di colpa che ci fa vedere la nostra limitatezza e ci pone
dei divieti grazie ai quali possiamo convivere.
La conoscenza ha origine da
un’esperienza emotiva, dice Bion, e ciò che accade ad Oreste con le
Erinni è appunto una forte esperienza emotiva che origina un
cambiamento, rappresentato dal passaggio dalla legge ctonia a quella
democratica. Ciò che avviene nella tragedia può essere letto come una
metafora del travaglio interiore, sia dell’individuo che di un intero
gruppo sociale, che è implicito nel cambiamento.
E, a nostro parere, in un’ottica di
dinamica gruppale, Eschilo è stata la voce del proprio gruppo sociale
che ha saputo esprimere, a nome di tutto il
gruppo e per mezzo della tragedia, del mito come racconto della mente,
questa esigenza.
Quello che accade in Eumenidi può
essere letto come un cambiamento catastrofico, non intendendo per
catastrofe, un disastro o una “dispersione in frammenti” come descrive
M. Klein, non necessariamente dunque qualcosa di negativo, ma un
“fenomeno che marca un salto brusco nell’evoluzione o crescita
mentale” (Corrao in Bion 1981).
Attraverso la sofferenza del
protagonista, Oreste, perseguitato dalle Erinni, si giunge ad una
legge democratica.
Il mito aiuta nella comprensione della
trasformazione. Il mito può essere dunque, anche qui inteso come
modello del legame K. Il cambiamento
catastrofico ha un’accezione evolutiva perché c’è una rapida e totale
“variazione di tendenza”, uno sconvolgimento radicale nell’evoluzione
di una struttura.
Ciò che accade tra gli uomini non viene, infatti, più
giudicato dagli dei, proiezioni del Super- Io sadico e punitivo,
rappresentanti di un “–α”, di un’incapacità di pensare che si
manifesta come un delegare qualsiasi decisione alla divinità, ma da un
consesso di uomini, di un gruppo di pari, che per mezzo del voto
stabiliscono la punibilità o meno dell’atto. La gestione della
giustizia non è più delegata a uno o più dei, illimitati ed
infallibili ma viene assunta in proprio dall’uomo e dalla sua,
limitata e fallibile, umanità. Si passa così da un’azione priva di
pensiero “–alfa”,
ad un’azione fondata sul pensiero e sulla condivisione della
responsabilità personale e del gruppo sociale “+alfa”.
L’assumersi questo compito è una realtà
gravosa, ma indispensabile per non dipendere più da una o più deità capricciose quanto lo sono le proprie
proiezioni superegoiche e sadiche.
“Una tale sensazione di disorientamento (nei confronti
del cambiamento) costituisce un momento della maturazione e dello
sviluppo del gruppo; una sorta di crisi di
crescenza,
che rappresenta
la
condizione preliminare necessaria
all’emergere di nuove teorie”
(Neri, 1994). E nelle proteste delle Erinni nei confronti della
decisione di Athena si può leggere questo disorientamento:
Io gemo. Che farò?
Mi deridono: torti intollerabili
Ho subito fra i cittadini.
Ahi, vittime di veementi sventure,
infelici vergini
figlie della Notte,
crudelmente private dei nostri onori!
Così il coro delle Erinni ripete più
volte ad Athena che cerca di spiegare loro come non siano disonorate
da questa modifica della legge.
…Incontrastabili inganni di dei
mi hanno strappato dagli antichi onori,
riducendomi ad un nulla
È così che si sente il Super-Io sadico
quando viene depauperato dai suoi poteri? Quello stesso Super-Io che
esigeva, nelle diverse religioni, a diverse latitudini, sacrifici
umani? Lo stesso Agamennone aveva sacrificato la figlia Ifigenia per
ottenere l’appoggio degli dei e quindi venti favorevoli per la sua
flotta.
Questo Super-Io sadico, che si nutre di
sangue umano, sembra venir sconfitto, messo ai margini nello sviluppo
del pensiero religioso quando,
con il sacrificio di Gesù,
figlio umano del Dio stesso, per i cristiani si tenta di mettere fine
a questa richiesta, necessaria fino a quel momento all’uomo per
placare la propria sete di sangue
proiettata nel Dio, allo scopo di
garantirsi una partecipazione all’onnipotenza e all’onniscienza
divina.
Con il cristianesimo il sacrificio,
viene ripetuto nel rito, sotto le specie del pane e del vino che, con
la transustanziazione sono vero corpo e vero sangue, “simboli reali”
di Cristo. Così, per i fedeli, si può rinnovare il sacrificio ultimo e
sublime senza spargere ulteriore sangue dell’umanità. Il Dio dei
cristiani non chiede più sacrifici umani. Se molti saranno i martiri
dopo l’avvento del cristianesimo, e dunque molto sarà ancora il sangue
sparso per amore/timore del Dio, ciò non avverrà perché è il Dio a
richiederlo. Il Super-Io sadico sembrerà riprendersi la rivincita su
un pensiero che aveva tentato di emarginarlo, di ridurne la potenza,
sia con le persecuzioni dei primi cristiani all’inizio, che con quelle
dei non credenti poi da parte della Chiesa, al Dio, in quanto
rappresentazione del Super-Io sadico, verrà attribuita, dagli uomini,
una nuova e rinvigorita potenza caratterizzata dalla violenza e dalla
richiesta di sacrifici.
Sarà dunque dopo l’avvento del Gesù dei
cristiani, con le istituzioni, che il Super-Io sadico, ineliminabile, ritroverà nuovo vigore attraverso il
costituirsi di regole, per gli uomini di fede, sempre più rigide e
vincolanti che ben poco hanno a che fare hanno con il
messaggio evangelico, che per il cristiano è “la Buona Novella” ed è
un messaggio d’amore e perdono e non di
odio e vendetta.
Regole che, nella loro durezza e
rigidità, sono il prodotto delle menti degli uomini e non del Dio di
quella che era una nuova fede, che tentava di
portare un cambiamento, vissuto forse da molti, da troppi come
catastrofico e quindi temibile. Anche in Grecia
dunque, nella tragedia di Eschilo, c’era già stato un cambiamento
analogo. Le forze violente e umane proiettate nelle
figure mitiche e negli dei, erano state trasformate in Eumenidi,
figure protettive:
E faccio voti
che mai in questa città
frema la discordia insaziabile di mali,
né polvere, bevendo nero sangue di
cittadini,
nel furore della vendetta
colga avidamente dalla città che sangue
con sangue contraccambiano.
possano essi ricambiare gioia con gioia
nell’intento concorde del bene
e odiare con unanime cuore. Tra i
mortali
questo è rimedio contro molte calamità.
Quello che appare interessante è come
la tragedia greca di Eschilo rappresenti una trasformazione dalle
proiezioni umane nelle deità in un’assunzione di responsabilità in
proprio di decisioni riguardanti la legge. Da essere preda di deità
vendicative e assetate di sangue, l’uomo, attraverso una
trasformazione in K, direbbe Bion, si assume il compito di essere lui,
in gruppo, a decidere come giudicare il pari, l’uomo.
Quello che ci si può chiedere è quanto
queste trasformazioni siano in grado di reggere alle spinte sadiche e violente che abitano comunque la mente
dell’uomo.
Quanto dobbiamo essere forti ed
integrati, dotati di regole complesse, di un diritto solido, per far
fronte alle spinte pulsionali omicide e vendicative.
Forse se lo è chiesto anche un regista,
Antonio Calenda, che ha messo in scena l’Orestea e che, alla fine
della medesima, ha concluso con una sonora
risata del Coro, come a sottolineare che le Eumenidi sì, sono il
prodotto di una trasformazione e sono benevole, ma sono nella loro natura pur sempre Erinni, dee della vendetta
che, all’occorrenza torneranno a
risvegliarsi e a sputare il loro veleno fetido e terrificante,
beffandosi della nostra democrazia.
Per questo si può sostenere che il mito
ha delle potenzialità trasformative, proprio perché riesce a
re-significare i diversi elementi, ridando loro nuova
vitalità, amplificando il campo del mito stesso, dilatandone il senso, restituendogli complessità e potere. Il
mito è per questo generativo e può essere utilizzato in maniera
polisemantica.
Dei miti esistono svariate versioni e
rimaneggiamenti, trasformazioni, perché l’immaginario di chi racconta
e di chi ascolta, si mette dinamicamente in
moto durante l’ascolto.
Ma se proviamo a lasciare questo
vertice osservativo, per addentrarci in un ambito più vicino alla
stanza di analisi, alla relazione analista paziente, possiamo scoprire
come questo mito abbia molto da dirci e da darci per apprezzare le
minime, ma intense, trasformazioni che avvengono, lentamente, nel
processo analitico.
Nel testo viene descritto il caso di
Martha, una paziente in trattamento con una di noi, originaria di un
paese nordico freddo, umido….
Con questo caso, che per motivi di
privacy non vogliamo pubblicare su internet, ma che si può leggere sul
libro, si conclude il lavoro.
NOTE
Come analista SPI, una delle autrici partecipa ad un gruppo
sul mito coordinato da Riccardo Romano, che ha permesso un
vertice osservativo/emotivo nuovo rispetto alla lettura del
mito.
Il "Kanun" raccoglie principi e norme di carattere civile e penale
alle quali la popolazione albanese ha sempre fatto riferimento
come mezzo di autogestione.
Eredità
del feudalesimo (così lo descrive il regime comunista),
congelato ma non debellato durante la dittatura, è oggi
ritornato in auge. Si stima che nell’Albania settentrionale ci
siano un 57% di giovani albanesi disposti ad uccidere per motivi
di onore in quanto la vendetta è un obbligo
sociale e il sottrarsi ad essa significa essere
banditi dalla comunità. Per ulteriori approfondimenti si veda:
S. Capra,
"Albania proibita: il sangue, l’onore e il codice delle montagne",
Mimesis, Milano, 2000.
Tratto da Baroni, Fadda, in "Letture Bioniane", (a cura di Neri, Correale e Fadda) che citano T.S. Khun
(1962 p. 103) "La struttura delle
rivoluzioni scientifiche".
Ma
già nell’Antico Testamento Dio punisce, per bocca dei profeti, i
sacrifici umani, che gli ebrei facevano, e ricordiamo come pur
chiedendo il sacrificio di Isacco, che Abramo sembra disposto a
fare, tale sacrificio viene poi impedito da Dio e sostituito con
quello di un animale, fatto questo che ritorna anche nel mito
del sacrificio di Ifigenia, che in alcune versioni viene
sostituita con una cerbiatta. Anche qui, nella rappresentazione
di Dio e del suo rapporto con l’uomo si può evincere lo sviluppo
del pensiero umano da un Super-Io sadico ad un Super-Io
normativo e protettivo del vivere civile.
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