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  "I MITI NELLA CLINICA PSICOANALITICA: ANALISI DI UN MITO GRECO ATTRAVERSO I CONTRIBUTI DI W. BION.  Dalla vendetta come agito (-alfa) al processo come trasformazione (+alfa)"

 

 

 

 

  di Franca Amione e Ambra Cusin

 

 

 

 


PREMESSA EDITORIALE: Presentiamo questo contributo delle dottoresse Franca Amione (psicologa, psicoterapeuta di Trieste) ed Ambra Cusin (psicologa, psicoanalista S.P.I. di Trieste), presentato originariamente  al congresso internazionale "Bion 2008" (Roma, 31/1-3/2/2008), e quindi pubblicato, in versione  modificata e più estesa, come capitolo (col titolo "I miti nella clinica psicoanalitica: analisi di un mito greco attraverso i contributi di W. Bion") del libro curato da Mauro Rossetti "Mito, mistica  e filosofia nel pensiero di Bion" (Editrice Cafoscarina, Venezia, 2008, pagine 206, ISBN 978-88-7543-196-9, € 12,00). Il libro, facente parte della collana del gruppo Racker di Venezia, contiene oltre al saggio introduttivo del curatore (dal titolo "Lo sviluppo del pensiero secondo W. Bion"), anche i saggi di  Elena Pianezzola e Rita Simonitto ("Il mistico in W. Bion e la tradizione religiosa indiana"), di  Giuliana Mozzon ("L'influenza su W. Bion di Platone, J. Locke, D. Hume e I. Kant") e di Roberto Banon ("Influssi filosofici sul pensiero di W. Bion: I. Kant e H. Poincaré").

Il gruppo Racker di Venezia è formato da un insieme di psicoterapeuti di differente formazione, ma che si incontrano regolarmente, sin dagli anni '90, per scambiarsi esperienza di lavoro correlate al lavoro analitico e per studiare  autori come Freud, Klein, Meltzer, Bion. Questo libro raccoglie le riflessioni maturate all'interno di questo gruppo, negli ultimi anni, sull'opera di Bion.

<<Il metodo psicoanalitico include>> scrive il curatore Mauro Rossetti nella premessa del libro <<la possibilità di indagare su aspetti primari della mente (il protomentale), sulla realtà dei rapporti con noi stessi e con i nostri simili, sugli aspetti ultimi della nostra percezione del mondo (conoscenza della "cosa in sé", di O, per usare le parole di Bion). Tutto ciò solleva l'interesse nei confronti della speculazione filosofica e sui contributi che la tradizione religiosa ha lasciato nella nostra cultura, i pensieri che ruotano attorno alle domande sulla verità, sul sapere, sull'essere, che ritroviamo fin dall'inizio della storia umana nei miti e nelle rappresentazioni, teatrali o altro>>.

 Si ringrazia sentitamente, oltre alle autrici, anche il dott. Mauro Rossetti e l'editrice Cafoscarina per aver concesso le liberatorie necessarie alla pubblicazione su Frenis Zero. Il testo che le autrici ci hanno consegnato per la pubblicazione su Frenis Zero è una versione modificata del capitolo del libro: in particolare manca la descrizione del caso clinico che, invece, è presente nel libro.

 

 

 

 

        

           

 

L’interesse per questo lavoro parte da una sollecitazione che ci viene da Bion stesso il quale ha sottolineato l’importanza dell’uso del mito come “modello atto alla investigazione o costruzione cognitiva” (Bion, 1963). Le riflessioni che presentiamo, stimolate da esperienze diverse[1], sono confluite in un work in progress nel gruppo Racker di Venezia[2], gruppo di lettura del testo Cogitations di Bion (1992), come traccia per elaborazioni ulteriori.

 L’impiego del mito come modello cognitivo, atto ad esplorare l’ignoto, è stato introdotto la prima volta da Freud e, come Bion afferma in "Cogitations", grazie al mito di Edipo Freud ha potuto scoprire la psicoanalisi (Bion,1992).

Nella Griglia, Bion sostiene che il mito possa essere utilizzato come modello che aiuta “lo psicoanalista a superare lo scarto tra una teoria e il materiale che si manifesta nell’esperienza psicoanalitica” (Bion, 1974).

La teoria ci impedisce di ascoltare veramente ciò che la persona desidera comunicarci. Come analisti, nella stanza di analisi, siamo soli di fronte ad un universo di stimoli, percezioni, sensazioni, immagini ed altro che il paziente trasmette e produce in noi. Questo caos di oggetti rientra difficilmente in una teoria quando questa occupa la scena con tutto il suo peso e le sue implicazioni. È lo stesso Bion che ci suggerisce di liberarci e spogliarci da ricordi e desideri in modo da aprirci al presente, abbandonando dunque, in seduta, la teoria o il corpus teorico di riferimento (Bion, 1997).

Per esempio abbandonare l’idea, suffragata da teorie, che il passato sia importante. Il passato è passato, non ci si può fare nulla, non è importante, dice Bion, ciò che ci rimane sono solo le vestigia del passato, i resti e dobbiamo discernere questi resti dal presente. L’analista deve guardare a qualcosa d’altro “essere aperto a qualcos’altro: vestigia, vestigia mentali. Non so da dove vengano: non so neanche da dove venga il paziente [...] il paziente può avere le sue opinioni su ciò che può vedere e sapere per sé: quello che è molto più difficile per lui è quello che non può vedere ed è per questo che è venuto da me”(Bion, 1997) per questo è importante che l’analista “usi la sua immaginazione (mito)[3] e osi provare ad articolarla[...] se l’analista non si permette di esercitare la sua immaginazione speculativa non sarà in grado di produrre le condizioni nelle quali può fiorire il germe di un’idea scientifica” (Bion, 1997).

Compito limitato di questo nostro scritto non è fare un excursus sull’uso del mito come modello di comprensione di quanto va dicendo il paziente, perché sarebbe un compito troppo lungo e complesso. Desideriamo piuttosto, dopo una breve sottolineatura dei principali motivi per cui è importante l’utilizzo del mito nel lavoro dell’analista dopo la seduta, al di fuori della stessa, per comprendere e dare senso a quanto nella seduta è emerso, fare alcune osservazioni sul significato del mito nella storia del pensiero e sul lavoro clinico attraverso l’uso di un mito. Svolgeremo questo compito attraverso l’analisi di un mito, quello delle Erinni trasformate poi in Eumenidi, meno conosciuto di quello di Edipo, con l’ipotesi di stimolare una riflessione sulle possibili trasformazioni all’interno del macro gruppo sociale, ma anche su quanto può accadere nell’intimo della coppia analitica, nella struttura mentale del paziente, così come in quella dell’analista stesso.

“La necessità del mito peraltro non può essere ignorata se si considera l’importanza della sua funzione principale, che è essenzialmente quella di fornire una forma discorsiva e narrativa per una verità che non può essere detta e trasmessa attraverso una definizione diretta. La definizione di una verità deve essere per forza autoreferenziale e logica ed espressa in un linguaggio discreto. Il linguaggio logico peraltro non può contenere se stesso né la sua verità, né il suo movimento verso la verità cercata. Il linguaggio può esprimere la verità e il suo movimento solo indirettamente e analogicamente, cioè in modo mitico” (Corrao, 1992).

Il mito ha la capacità di stimolare, produrre immagini, crearne di nuove, trasformare delle emozioni indicibili in racconti, in opere musicali e d’arte, di dare un senso e produrre conoscenza attorno alla natura umana, alla sua complessità, ai suoi aspetti più contradditori ed incomprensibili quali la violenza, la crudeltà, l’orrore ed è incredibile come in ogni cultura, a latitudini diverse, ogni civiltà ha saputo dimostrare di possedere un’innata capacità di raccontare, e quindi di poter conoscere attraverso la mitopoiesi, le diverse sfaccettature della realtà sociale, naturale e storica, delle diverse comunità.

“Gli uomini tutti hanno partecipato a narrare il mito”dice Siracusano (2002) il mito nasce per essere raccontato (non a caso mithos vuole dire racconto) e la parola nel mito ha una grande importanza, come del resto nell’analisi, dove la parola è un dei cardini su cui verte la cura (talking cure). Il paziente ci racconta qualcosa di sé, il suo mito personale, di quel giorno, di quel fine settimana, un racconto a volte strano, con diverse versioni, che può essere visto con sguardi prospettici diversi, dando al medesimo tridimensionalità laddove a volte regna la bidimensionalità, la piattezza della noia di racconti senza sentimento, senza anima. L’analisi stessa ha come compito quello di ampliare la pensabilità e il mito risponde bene a questa esigenza perché, con le sue svariate e contraddittorie versioni, permette alla mente di raccontarsi (Romano, 2002), nel suo funzionamento, di descrivere la sua organizzazione. Il paziente a volte parla in maniera oracolare, con responsi che non sono chiari neanche a lui stesso, che porta in analisi per essere interpretati, ma non come una verità assoluta, perché questo porterebbe alla catastrofe, come accadde ad Edipo, ma come un qualcosa che ha bisogno di tempo, e dello svolgersi della storia, per acquisire forma e senso. Quindi ad una narrazione ne segue un’altra e un’altra ancora, finché il tutto diviene una concatenazione con una sua logica che, per il paziente e l’analista insieme, diviene “il mito”, di quel paziente. Ed è lì che l’analisi può evolvere o finire. Evolvere verso ulteriori narrazioni fino al prossimo salto epistemologico che permette un insight nella forma del mito.

A volte le storie che ci raccontano i pazienti sono così contorte ed incomprensibili che ci perdiamo. In questo viaggio verso l’ignoto che è ogni analisi, Bion ci suggerisce di utilizzare il mito, e noi aggiungiamo, usare il mito come una bussola, uno strumento, modello, per comprendere, per orientarsi.

“Io propongo di usare i miti e i sogni alla stregua dei calcoli algebrici e quindi in grado di fornire, dopo averli studiati, gli strumenti che, per la loro appropriatezza a rappresentare un problema, lo possono interpretare e così aprire la strada alla sua soluzione” (Bion, 1992)

 

e qualche pagina dopo consiglia all’analista di avere a disposizione

“…un certo numero di miti, così come lo scienziato ha un certo numero di procedure matematiche: egli dovrebbe spesso fare le sue libere associazioni ai miti, in maniera di familiarizzarsi con essi e con il loro uso; e dovrebbe poi apprendere ad individuare, partendo dal materiale del paziente quale sia il mito appropriato, e, a partire da questo, quale sia l’interpretazione appropriata” (Bion, 1992).

 

Ma quale è stata l’evoluzione del concetto di mito nel tempo? Nella storia del pensiero al termine mito sottendono tre significati: è stato inteso come forma attenuata d’intellettualità, come forma autonoma di pensiero o di vita e come strumento di controllo sociale.

Risale all’antichità classica l’intendere il mito come prodotto inferiore o deformato dell’attività intellettuale.

Mito inteso come verosimiglianza di fronte alla verità propria dei prodotti genuini dell’intelletto. Questo fu il punto di vista di Platone e di Aristotele: per il primo il mito rappresenta la via più umana e più breve della persuasione e si colloca in quella zona che è al di là della stretta cerchia del pensiero razionale e nella quale ci si avventura esclusivamente con supposizioni verosimili.

Per il secondo, il mito talora è inteso come l’opposto della verità e talora come quella forma approssimativa ed imperfetta che assume la verità quando di essa si dia ragione in forma di mito. Inoltre, a questo concetto di mito, come verità imperfetta o diminuita, va congiunta spesso l’attribuzione al mito di una validità morale o religiosa.

Nella filosofia recente appartengono a questo filone interpretativo tutte le filosofie naturalistiche prevalse nel secolo scorso in Germania (empirismo), che hanno orientato il pensiero verso lo studio della natura come sede di verità: per cui l’atteggiamento che dà origine alla scienza consiste nell’assumere un determinato fenomeno naturale come chiave di spiegazione di tutti gli altri fenomeni, in una sorta di modello di riferimento, di qualità empirica; in tale accezione il mito è inteso come una forma imperfetta di attività intellettuale.

La seconda concezione intende il mito come una forma autonoma di pensiero e di vita. In questo senso il mito non ha una funzione subordinata o secondaria rispetto alla conoscenza razionale/logica, ma ha funzione e validità originaria e primaria; si colloca su un piano diverso, con uguale dignità, dell’intelletto. La verità del mito non è una verità corrotta, né degenerata, ma una verità autentica, sebbene in forma diversa da quella intellettuale, cioè di forma fantastica e poetica. Il Romanticismo fece proprio questo concetto. Nella recente filosofia la migliore espressione di questa interpretazione è di Cassirer (1925) che vede come caratteristica principale del pensiero mitico “la mancata o imperfetta distinzione tra il simbolo e l’oggetto del simbolo, cioè la mancata o imperfetta consapevolezza del simbolo come tale”. Nel suo Saggio sull’uomo, Cassirer (1944) vede il carattere distintivo del mito nel suo fondamento emotivo. “Il sostrato reale del mito non è un sostrato di pensiero, ma di sentimento [...] la sua coerenza perviene più da una unità sentimentale che da regole logiche”. È forse qualcosa che rimanda all’insight? Tale unità, tra l’aspetto emotivo e quello logico, è una degli impulsi più forti e profondi del pensiero primitivo. E se riflettiamo bene osserviamo anche come in psicoanalisi si faccia derivare il pensiero dall’emozione, grazie all’intervento di traduzione con la 'réverie' che la madre apporta.

All’ambito di questa stessa corrente di pensiero appartiene l’interpretazione sociologica che fa del mito una forma di pensiero pre-logica. Durkheim (1897) e Levy- Bruhl (1922), quest’ultimo in particolare, definisce il mito come pensiero pre-logico, nel senso che esso prescinderebbe completamente dall’ordine necessario che per il pensiero logico costituisce la natura (vedi le leggi fisiche), ma vedrebbe la natura stessa come una rete di partecipazioni e di esclusioni mistiche, nelle quali non valgono le leggi di contraddizione.

La terza concezione del mito fa riferimento alla moderna teoria sociologica che ha trattato la storia delle popolazioni primitive con lo scopo di ritrovare gli “a priori” culturali. Di particolare interesse sono le letture proposte da Frazer (1973) e da Malinowski (1962). Quest’ultimo, in particolare, vede nel mito la “giustificazione retrospettiva degli elementi fondamentali che costituiscono la cultura di un gruppo”. Il mito compie una funzione sui generis strettamente connessa con la tradizione e la continuità della cultura, con la relazione tra giovinezza e maturità e con l’atteggiamento umano verso il passato. Funzione sua propria è quella di rafforzare la tradizione, darle maggior prestigio e valore, connettendola alla migliore e soprannaturale realtà degli eventi iniziali. “In questo modo il mito non è limitato alla realtà dei primitivi ed al loro mondo, ma è indispensabile ad ogni cultura [...] Ogni mutamento storico crea la sua mitologia, che è solo indirettamente relativa al fatto storico.” (1962)

Nelle Eumenidi il fatto storico del passaggio dalla legge primitiva alla legge condivisa come regola si colloca nel tempo a-storico della tragedia, in una dimensione simbolica che trascende il fatto in sé per assumere quella funzione di simbolo della svolta nel processo sociale, di pensiero e relazionale della cultura greca, quindi di tutta la cultura occidentale. Il mito condivide con la tragedia lo stesso senso del tempo e ciò ha dato ragione del perché molte tragedie hanno come trama dei miti, miti che rappresentano i temi vitali dell’esistenza dell’uomo e delle sue passioni. Esiste, però, una sostanziale differenza nella modalità di snodarsi del tempo nei due diversi contesti simbolici: il tempo della storia può essere rappresentato come un tempo aperto, nel senso di contenere in sé ed esprimere una progressione, nel suo essere lineare evento dopo evento, fatto dopo fatto. Gli uomini sono collocati nella storia, che li precede e che seguirà alla loro morte, quindi soggetti al tempo lineare, che è fattuale prima che simbolico. “Il tempo della storia implica necessariamente un futuro, in cui avverranno fatti dopo di noi” (Del Corno, 1998) e la ineluttabilità del futuro proietta la storia al di là della coazione a ripetere nel senso che i fatti non saranno mai identici,  intanto in quanto la variabile tempo lineare ne caratterizzerà sempre una diversa contestualizzazione. Il tempo del mito, invece, può essere rappresentato come un tempo chiuso che non si misura in una progressione rettilinea, ma si coagula nell’evento unico, che è la forma assoluta del mito. Ogni mito rappresenta, infatti, un evento unico che assurge a simbolo a-temporale di una parola/notizia della cosa com’è (Euripide). In virtù di questo vive contemporaneamente sia la soggettivizzazione della realtà esterna (ogni mito ha i suoi attori) che l’oggettivizzazione del mondo interiore (ne condividiamo gli affetti, in quanto umani) e per questo suo essere al contempo soggettivo ed universale che uno “iato invalicabile” lo separa dall’inizio del tempo storico. Se noi intendiamo per “fatto selezionato” (Bion, 1992) un elemento che assurge a simbolo di uno stato mentale, affettivo, traumatico che il paziente porta in seduta e che l’analista prende facendolo divenire l’elemento intorno a cui ruota la seduta, allora possiamo intendere il mito, inteso come mito del paziente in quella seduta, come un contenuto saturo, nel senso che contiene in sé tutto, ma anche insaturo, in quanto sempre nuovamente elaborabile, seppur non modificabile.

Nell’universo mitico a-temporale la tragedia trova così la dimensione assoluta del tempo, che è la condizione primaria per la ri-attualizzazione dell’evento nel presente della mimesi teatrale (Del Corno, 1998).

L’utilizzo che fino ad ora abbiamo fatto del concetto di mito, ci porta a mantenere la costante dicotomia, seppure con le differenze presenti nei vari modelli filosofici, tra primitivo e culturale, tradizione e storia, pensiero concreto e pensiero simbolico, come se il mito fosse altro da…Nonostante tutto questo, anche Frazer e Malinowski, che pure si collocano all’interno di una teoria sociologica di matrice neo-positivista, quindi laica, collegano il mito con il pensiero magico e, pur riconoscendone la funzione indispensabile per la cultura, lo definiscono come un “costante accompagnamento della fede vivente che ha bisogno di miracoli” e quindi mantenendo di fatto l’antica dicotomia logos-mithos.

Bisogna attendere l’evoluzione degli studi dell’antropologia strutturale, perché il concetto di mito venga considerato non più in antitesi nella relazione con il suo opposto il concetto di storia/ logos. Nelle oscillazioni della diade mithos/logos la teoria strutturalista ha proposto un interessante percorso che va dalla contrapposizione dei due termini/concetti alla loro integrazione, intesa come sviluppo del processo di narrazione del sapere e della conoscenza, che si rifà alle origini del nome, al suo significato (mito significa “conoscere”).

Il mito originariamente ha assunto il significato ora di racconto di un fatto ora di fatto in sé (Omero, Euripide).

Successivamente con la comparsa di un altro tipo di racconto o discorso, chiamato logos, caratterizzato dall’argomentazione razionale, la narrazione mitica assume il carattere di leggenda, favola ed in questa accezione lo troviamo in Platone. La storia greca così come la filosofia, in forme varie, ma sostanzialmente immutate, ha espulso il mito dal campo della ragione.

Da questa posizione è derivato il tentativo di dimostrare come il mito offra al mondo non un’immagine razionale del reale, ma un modello di valore con funzione prescrittiva, poiché è attraverso di esso che si avviano i meccanismi di lettura, classificazione ed interpretazione della realtà. Così inteso, il mito non trasmetterebbe tanto un sapere quanto un codice che permette di produrre sapere dall’osservazione ed interpretazione del reale.

A causa dell’essere un codice, però, il mito stabilisce preventivamente dei meccanismi di lettura del reale stesso.

Ne deriva che essendo ciascun evento dell’esperienza interpretato secondo le regole di un codice preventivamente appreso (coazione a ripetere), i dati dell’esperienza non possono fare altro che confermare la verità delle regole costituenti il codice simbolico stesso attraverso il quale la realtà è stata osservata.

In altre parole, nella lettura dicotomica mithos/logos, nell’universo dominato dal mithos, l’evento particolare non produce mai conoscenza, essendo questa pre-scritta dal mito, sempre identico a sé.

In questa lettura viene evidenziata l’alterità del logos, rispetto al mithos, essendo il primo caratterizzato dall’occuparsi del particolare del divergente, del dualismo logico/il-logico. Ne deriva che la qualità del logos sia quella di lavorare sulle contraddizioni e sulle oscurità ai limiti del sapere. Se la scienza (nelle Eumenidi è la scienza della politica) produce, non un aggregato di constatazioni, ma un sistema conoscitivo, ciò è dovuto alla sua capacità di superare il sistema consolidato, per consentire la possibilità stessa di nuove scoperte. Ciò può avvenire intanto in quanto essa si apre alla significatività di elementi prima esterni al sistema conosciuto e poi presenti ai suoi confini. Ciò contrasta con quanto detto dell’universo del mithos, dove ogni evento non può che inserirsi in una struttura preesistente, non può per definizione non essere stato previsto, non può non obbedire ad una essenza costitutiva da sempre inscritta nel mondo.

Questa rigida dicotomia, attraverso gli studi strutturalisti compiuti in campo antropologico da Levi Strauss (1965), prende una nuova e attuale modulazione. Con questo studioso nasce la mito/logia strutturalista. Egli non ritiene che il mito sia frutto di un’attrezzatura mentale differente che l’uomo primitivo avrebbe rispetto all’uomo civilizzato; infatti come la scienza crea i suoi strumenti ed i suoi risultati grazie alle strutture che fabbrica senza posa e che sono le sue teorie, così il pensiero mitico elabora strutture combinando assieme eventi o piuttosto “residui di eventi”. Per accorgersene bisogna ricondurre la molteplicità dei miti al “mito di riferimento”, disarticolandolo nelle sue sequenze, ciascuna delle quali costituisce una possibile trasformazione. Così procedendo si può constatare che nell’immagine mitica c’è una struttura stabile e ben determinata, dove è chiaramente leggibile la struttura organizzativa in cui si riconosce il gruppo.

 

Le oscillazioni con cui nel corso della storia delle diverse culture si è presentata la dicotomia mithos/logos hanno mostrato come sia del tutto relativo, se non spesso fuorviante, pensare ad una contrapposizione rigida tra pensiero mitico e pensiero logico, oppure ad un passaggio da un’età dominata dall’irrazionalità ad una votata alla sola razionalità. Come sostiene Eraclito il mito ha in comune con il logos l’intento di conoscere e di spiegare il mondo, per cui il passaggio dall’uno all’altro non è tanto un passaggio dalla favola alla verità, ma due modi diversi di perseguire lo stesso intento. Per il mito non c’è realtà che non si risolva nel mondo interiore soggettivo, ampliato e proiettato verso l’esterno.

Sia il mithos che il logos si collocano all’interno di una più complessa forma di costruzione della conoscenza sociale e politica, quale è la forma narrativa. L’attenzione alla forma narrativa come modalità di costruzione degli eventi soggettivi e gruppali ha reso ormai evidente con grande chiarezza che nel racconto vi può essere molto di più che la mimesi di azione ed avvenimenti. La forma narrativa permette di attuare una manipolazione della struttura del reale, di smontare e di indagare i modi di connessione degli eventi, di costruire mondi alternativi, indietro verso miti arcaici o avanti verso utopie felici o universi carichi di angoscia. Nasce da tutto questo un nuovo atteggiamento verso il mondo del mito, che si registra nel nuovo termine mito-logia, in cui sono coniugati in unità imprescindibile i due concetti di irrazionale (il mithos) e di razionale (il logos).

Infatti dopo aver individuato nel mito una forma infantile e pre-razionale di espressione dell’umanità, si decide di andare alla ricerca della logica che non soltanto agisce nello spazio occupato dai miti, ma che di essi determina i modi di organizzazione.

Con chiarezza emerge che la narrazione, il mithos, è uno strumento d’espressione senza dubbio diverso dall’argomentazione tipica del logos, però alla fine non meno logico, non meno razionale, non meno connesso ad un’esigenza e ad un progetto di conoscenza.

L’evoluzione, da un lato, delle ricerche scientifiche sul mito e dall’altro la riflessione filosofica della moderna epistemologia concordano nel radicare mithos e logos sempre più profondamente nella storia, entrambi prodotto di un’attività umana di conoscenza, variabile con il mutare delle esigenze e dei comportamenti dell’uomo.

Sia un paradigma scientifico che un complesso mitologico agiscono come chiave di lettura della realtà e di interpretazione degli eventi.

La nostra libera associazione con queste parole, va all’hic et nunc della seduta analitica, come luogo del tempo sospeso, al concetto di coazione a ripetere, come riattualizzazione.

Ma come nella seduta di analisi la riattualizzazione non rimane una semplice coazione a ripetere, ma si trasforma in una relazione vissuta, colorata dagli elementi transferali qui ed ora, così grazie alla drammatizzazione del mito, l’immobilità dell’accaduto si trasforma nel sistema dinamico e dialettico dell’accadere nella rappresentazione scenica.

E ancora, così come il regista mette in scena un mito, scegliendo attori e costumi, scenografia e musiche, interpretando il mito attraverso il suo sguardo, la sua mente, così il paziente mette in scena per l’analista il proprio mito e a sua volta l’analista, come spettatore partecipe, vive le emozioni collegate al racconto del mito muovendo le proprie emozioni, creando le proprie immagini in continui rimandi con l’analizzato. Rimandi che arricchiscono il mito di nuove, e sempre più complesse e caoticamente creative, versioni.

Per R. Romano (2002) il mito fa parte della scienza perché è una funzione basilare della mente, una funzione ponte tra individuo e gruppo, il mito è il racconto di una storia che ha un significato particolare per significare gli affetti. Il mito è il racconto che noi facciamo della nostra mente e che la mente fa di se stessa. Il mito è parte della scienza perché attraverso di esso la mente ci comunica come funziona.

Ma il mito è anche “un protomodello dello stato mentale, un modello del pensiero arcaico dove il sogno, la fantasia più pura, un misterioso senso estetico, l’orrido, il mostruoso, l’affettività più esplosiva si mescolano in forme, grandezze e dimensioni le più disparate” (Siracusano,2002).

 

 


 

 

Racconto del mito: La trilogia dell’Orestea

 

 

Vediamo dunque un mito, scegliamone uno e seguendo l’indicazione di Bion associamo liberamente ad esso.

Bion dice: l’analista infatti “non dovrebbe tanto preoccuparsi di prendere appunti sui suoi pazienti, ma piuttosto prendere il mito di Edipo, per dire e scrivere la sue libere associazioni ad esso, annotandone la data. Può ripetere questo esercizio quanto vuole: le libere associazioni non saranno mai le stesse in date diverse.” Tra le sue associazioni può apparire il nome di un paziente “Questa procedura può essere ripetuta cinque volte la settimana per lo stesso mito, o per altri che l’analista si senta disposto ad accogliere nel suo canone [...] questa procedura promuove l’intuizione analitica…” (Bion, 1992).

Alcuni anni fa abbiamo potuto vedere a teatro la trilogia dell’Orestea. Nel gruppo di studio sul pensiero di Bion a cui partecipavamo, spesso si era accennato all’uso, consigliato da Bion, del mito per esercitarsi nel mestiere dell’analista, per rimanere in forma, per promuovere l’intuizione analitica, la capacità di immaginare liberi dalle tensioni della memoria e del desiderio.

Soprattutto nella rappresentazione dell’ultima delle tre tragedie che compongono la trilogia, siamo rimaste emozionate dall’immagine, descritta da Eschilo, della trasformazioni delle terribili e temibili Erinni, dee vendicative, nelle amorevoli e protettrici Eumenidi. Ci è sembrato, come cercheremo in questa parte del nostro contributo di evidenziare, attraverso una intuizione, come questo mito potesse essere utilizzato per comprendere ciò che avviene nella seduta quando il paziente, con dolore e a fatica, rinuncia ai suoi abituali meccanismi vendicativi e punitivi per accogliere una capacità, soprattutto verso se stesso per primo, ma anche verso gli altri, di accettare, perdonare, comprendere, rinunciando a rimanere nel rancore e nel desiderio/obbligo di vendicarsi, di punire l’offesa.

Partiamo dunque dall’Orestea di Eschilo (ed. BUR, 1995) che è una trilogia pervenutaci dall’antichità dove l’uomo greco, attraverso una trasposizione metaforica, deve compiere un cammino per giungere a necessarie conquiste ideologiche, filosofiche e di conoscenza.

L’intero dramma di Oreste è riconducibile, infatti, alla coesistenza di due opposte religioni: da un lato quella ctonia che rifletteva il profilo di una società primitiva e patriarcale (le Erinni per es. erano più importanti di Zeus) e dall’altro la religione olimpica pronta a rispondere alle nuove esigenze della polis, nella prospettiva della “responsabilità dell’individuo” e della “certezza del diritto”.

Costruito fin dall’inizio sulla nascita del concetto di giustizia in “Eumenidi” la tragedia dell’Orestea trova una necessaria conclusione: la composizione di un dissidio che attanagliava l’uomo greco, il superamento di un 'empasse' che salva la polis – e si potrebbe dire anche la civiltà occidentale – dall’incertezza del diritto, dal 'deinòn' oscuro e antico della violenza incontrollata, dal perpetuarsi del diritto di sangue e della vendetta.

Il “vivi uomo” che Athena rivolge ad Oreste, libera per sempre l’individuo dal tormento di non sapere come sarà giudicato il suo agire e suggella uno dei fondamenti di ogni civiltà moderna.

È per questo, che nel nostro momento storico, ci sembra qui importante riflettere, utilizzando il mito, come ci ha insegnato Bion, sulla nascita del processo democratico, non solo a livello sociale, ma anche e soprattutto come struttura interna della mente atta a contribuire al giudizio delle proprie azioni.

Ma prima è bene ricordare la storia, brevemente, narrata nell’Orestea, opera di Eschilo composta da tre tragedie: Agamennone, Coefore ed Eumenidi. In essa si racconta come il re argivo Agamennone è costretto per lunghi anni lontano dalla patria, dai combattimenti contro Troia.

Nella prima tragedia, “Agamennone”, si racconta come la regina Clitemnestra, sua moglie, invece abbia trovato consolazione alla propria solitudine tra le braccia di Egisto. Quando il suo vero sposo ritorna vittorioso ella lo accoglie dunque con falsa gioia e con l’intento di ucciderlo.

Solo in questo modo potrà governare assieme all’amante e vendicare la figlia Ifigenia che il padre Agamennone aveva sacrificato agli dei pur di ottenere venti favorevoli per la sua flotta in partenza per la guerra.

Compiuto il delitto Clitemnestra promette di riportare ordine e sicurezza, ma il saggio Coro commenta gli eventi con inquietudine e scetticismo. Nel timore della vendetta Clitemnestra allontana da sé i propri figli Elettra e Oreste ancora bambino.

In “Coefore” troviamo Clitemnestra ed Egisto che vivono nel terrore, nell’incubo della vendetta. Oreste ritorna ad Argo per vendicare, come ordinatogli dal Dio Apollo, l’assassinio del padre Agamennone. Assieme ad Elettra, sua sorella, riesce a portare a termine la vendetta.

Una volta fatta giustizia Oreste però cade nel conflitto fra la nuova religione e quella ctonia, ancora coesistenti. Il matricidio, infatti, secondo l’antica tradizione, è punito con la persecuzione delle terribili Erinni.

Il protagonista sfugge disperato e tormentato dall’angoscia delle dee vendicatrici.

In “Eumenidi”, Oreste fugge a Delfi per chiedere consiglio ad Apollo, ma viene inseguito fino al tempio dalle Erinni che lo terrorizzano. Apollo consiglia ad Oreste di recarsi ad Atene, compiendo riti di purificazione lungo il cammino e di chiedere aiuto a Pallade Athena, unica dea che può liberarlo dalla persecuzione delle dee ctonie.

Appare nel tempio l’ombra di Clitemnestra: senza pace , anche nel mondo dell’aldilà, a causa delle sue colpe, ella desta le Erinni e le richiama al loro dovere di dee vendicatrici.

La Corifea delle Erinni tiene testa ad Apollo in un confronto in cui si evidenzia l’opposizione tra le divinità ctonie e quelle “nuove” olimpiche: poi assieme alle sue compagne si mette sulle tracce di Oreste e lo raggiunge ai piedi del simulacro di Athena. La giovane dea della Ragione decide di aiutare l’infelice principe argivo istituendo un tribunale composto, in numero pari, dai migliori cittadini ateniesi.

Sarà il loro voto, assieme a quello della dea a dare il giudizio definitivo. Assistiamo così al primo processo democratico della storia dell’uomo, in cui Apollo e la Corifea, davanti ad Athena e all’Areopago, luogo di discussione, piazza principale in cui si discute fondamentalmente di politica, si scontrano su una questione etica fondamentale.

Davanti alla parità dei voti contrari e a favore di Oreste, il voto della dea diviene decisivo e salva Oreste.

L’ultimo compito della dea è quello di scongiurare l’ira delle Erinni e della loro Corifea umiliata e offesa dalla decisione del “tribunale”. Ma anche quest’ultima pacificazione riesce e le furie placate si trasformano in benevole Eumenidi, nuove custodi della città.

Credo che già davanti a questo racconto molti dei nostri pensieri possano andare all’attualità del nostro tempo, dove sembra che la foga vendicatrice delle Erinni sia tornata all’opera…

Ma torniamo alle nostre riflessioni che sono fondamentalmente sull’uso del mito in Bion. Per Bion (1992) il mito è una modalità di studio per affinare la relazione psicoanalitica.

Ne parla in "Cogitations" quando per esempio si chiede fino a che punto la mitopoiesi sia una funzione essenziale di “α”, nel senso che “può darsi che l’impressione sensoriale debba essere trasformata per renderla materiale idoneo al pensiero-del-sogno, ma che la funzione del pensiero-del-sogno sia quella di usare il materiale che a mette a sua disposizione, le unità di pensiero- del- sogno, allo scopo di produrre miti.” Per questo motivo definisce il mito come qualcosa che deve avere alcune qualità del senso comune per essere comunicabile.

E in modo particolare ne parla nella parte dedicata al mito della Torre di Babele in cui tra l’altro dice che non si può affermare come siano cominciati i miti, né si è in grado di vedere il processo di formazione di un mito mentre opera in mezzo a noi, ammesso che un tal processo esista, ma se è un individuo che lo ha inventato allora è successo che l’individuo ha fatto un’esperienza emotiva che poi viene trasformata da “α” ed infine essa viene pubblicata.

 

“Quello che mi importa qui sottolineare è che dobbiamo pensare a queste storie in assoluto parallelismo al calcolo algebrico prodotto dal matematico non semplicemente per rappresentare un s.d.s. già esistente, ma anche come formulazione matematica che non ha in quel momento, ma potrebbe risultar avere in futuro, una effettiva realizzazione alla quale sia applicabile… propongo di assumere che la storia è intesa gestire una situazione emotiva; poniamo inoltre che le immagini visive veicolate verbalmente debbano essere considerate elementi ‘α’ [...] è in questo senso che credo che il mito [...] debba essere usato come uno strumento paragonabile alla formulazione matematica” (Bion, 1992).

 

Nella tragedia delle Eumenidi, originata da un mito, vediamo come si passa da una legge arcaica, rigida, violenta, fatta di pura pulsione, vendicativa, sanguinaria, rappresentata dalle Erinni

 

[…] vergini maledette, le vecchie fanciulle nate in un tempo

remoto, alle quali non si congiunge mai nessuno degli

dei, né uomo, né fiera. Per il male esse nacquero… odio

degli uomini e degli dei celesti[4]

 che inseguono Oreste

 

Come cane un cervo ferito, noi lo bracchiamo lungo stille di

sangue. Per molti defatiganti travagli ansimano le mie viscere:

ogni angolo della terra come gregge ho percorso, al

di sopra del mare lo inseguivo con voli privi d’ali, non meno

veloce di una nave. Ed ora costui è qui, rannicchiato in

qualche punto: mi sorride un odore di sangue umano.

 

alla legge gestita e regolata dall’uomo. Forse una legge non perfetta, ma meno frutto di proiezioni quanto piuttosto di un diritto, uguale per tutti ed esercitato a maggioranza di voti. Sarà con la mediazione della dea Pallade Athena e l’appoggio testimoniale del dio Apollo, che rappresentano la ragione, la riflessione, la capacità elaborativa, la capacità di negoziare, ma anche l’abilità politica, che si passa ad una legge umana, elastica, organizzata, equilibrata, capace di comprensione condivisa, anche se non ancora di perdono, come poi sarà con il pensiero cristiano.

 

 “Athena: …ma poiché la situazione è precipitata a tal

punto, io sceglierò per gli omicidi giudici giurati e fonderò

un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre.

Voi intanto (rivolgendosi insieme alle Erinni e ad Oreste)

invocate testimonianze e prove, ausili alla giustizia consacrati

al giuramento. Io ritornerò dopo aver scelto i migliori

fra i miei cittadini, perché decidano rettamente questa

causa, senza violare, con animo iniquo, giuramento

alcuno”.

 

Tale tragedia sembra quindi segnare il passaggio dal pensiero primario a quello secondario, in una formulazione mitica.

I personaggi paiono riproporre nel personaggio delle Erinni/Eumenidi la personificazione dell’Es, esse infatti sono le più antiche divinità del Pantheon ellenico, forze primitive che non riconoscono l’autorità degli dei, non hanno altra legge se non loro stesse e a loro obbedisce lo stesso Zeus, la loro funzione è vendicare i crimini, in particolare quelli contro le madri, facendo impazzire l’omicida e tutelando così l’ordine sociale, ma anche la personificazione di un Super- Io sadico, primitivo. In Oreste possiamo intravedere la rappresentazione dell’Io e in Athena, dea guerriera nata dalla testa di Zeus, la cui pianta preferita è l’ulivo, la raffigurazione, assieme ad Apollo, di un Super-Io che promuove la crescita e non è castrante.

Una coppia genitoriale dunque, buona e giusta, protettiva, non sadica e introiettata.

 

 


 

 

Collegamenti con il concetto di Super-Io  e di cambiamento catastrofico nell’opera di Bion

 

 

Partendo dal presupposto che Eschilo, con questa tragedia volesse dare un messaggio politico al popolo ateniese, analizzeremo come questo messaggio rappresenti il frutto di un processo mentale dell’umanità stessa, una trasformazione, e che abbia trovato nelle parole di Eschilo il suo emergente gruppale.

Di regola le tragedie di Eschilo erano destinate ad un pubblico in prevalenza ateniese. In particolare nella parte finale delle Eumendi, Eschilo “suggerisce un modello di comportamento politico (con forti implicazioni etico-religiose) specificamente destinato al pubblico ateniese che nel 458 a.C. assisteva alla rappresentazione dell’Orestea” (Benedetto, 1995).

Perciò Benedetto suggerisce di cercare il nesso tra la vicenda tragica, nel suo complesso, ed il messaggio politico.

Quello che noi vogliamo fare invece è cercare il nesso tra la vicenda tragica ed una trasformazione psichica a livello sia individuale che di gruppo sociale.

È la mentalità del gruppo che sembra trasformarsi passando da una posizione schizo-paranoide, ad una depressiva.

Nella prima, caratterizzata dalla “paura persecutoria di un ambiente senza affetto” (rappresentato dalle Erinni) (Guntrip, 1972), predominano l’azione, gli agiti vendicativi, il trionfo di “–alfa”, l’incapacità a far diventare pensieri, e poi ricordi, le emozioni e le impressioni sensoriali, il vincolo a rimanere nella ripetizione, a essere preda di elementi "beta" incapaci di collegamento tra di loro.

Nella seconda dominano piuttosto la presa in carico della responsabilità dei propri pensieri, delle proprie azioni, l’accettazione di sottoporsi ad un giudizio umano, e non divino (frutto delle proiezioni degli aspetti sadici della personalità), che comporta la trasformazione anche della divinità stessa dalle persecutorie Erinni alle “benevolenti Eumenidi”. Questo stato ci sembra che possa essere definito come un “+alfa”, ovvero una capacità di comprensione, di “digestione” delle emozioni legate ad eventi significativi, senza l’assillo delle paure persecutorie.

Ritorniamo agli eventi: innanzitutto la vicenda descritta nell’Orestea è una tragedia familiare, ci sono violente lacerazioni, sullo sfondo un primo figlicidio in cui Agamennone sacrifica agli dei la figlia Ifigenia, poi l’uxoricidio in cui Clitemnestra uccide il marito Agamennone per vendicare la morte della figlia, e infine il matricidio in cui il figlio Oreste, per vendicare la morte del padre Agamennone, uccide la madre Clitemnestra.

Un omicidio dietro all’altro in un crescendo ripetitivo di vendette che sembra non poter aver mai fine.

“La stirpe è invischiata nella rovina” recita il Coro nell’Agamennone. Quanto questo crescendo di vendette ricorda le attuali realtà umane alle diverse latitudini in cui ci si continua ad ammazzare per vendicare qualcuno?

Esistono, in culture molto vicine alla nostra, ai confini della Grecia, in cui è nato il mito delle Erinni, dei codici tramandati nei secoli e fondati sulla regolamentazione della vendetta quali il "Kanun", codice consuetudinario albanese[5]  in ragione del quale, ancora oggi, in alcuni paesi dell’entroterra, giovani ragazzi sono costretti a vivere nascosti per evitare la vendetta di delitti commessi da loro antenati nel passato.

È dunque una questione di stirpe, dice Benedetto nell’introduzione, di "genos" (ghenos) con implicazioni molto più profonde rispetto al nostro istituto familiare attuale.

Nel processo ad Oreste, e nell’assoluzione che ne consegue, “la polis appare come capace di porre termine alla disgregazione del genos”. Nell’Orestea c’è una ricomposizione delle lacerazioni che si realizza attraverso una istituzione dello Stato.

Ma per Benedetto è erroneo pensare che Eschilo abbia voluto

“evocare un percorso storico che dalla famiglia porta allo Stato, con lo Stato che alla fine si pone come superamento del genos [...] piuttosto ha voluto far leva sulla carica emotiva[6] di cui era dotato il genos per proporre una rifondazione etico-religiosa dello Stato” (Benedetto op. cit.).

 

Eschilo vive un periodo di forti tensioni che caratterizzano la polis ateniese, rivelatrici dell’equilibrio instabile su cui si reggeva la medesima, che era anche sede di mediazioni di conflitti interni. La famiglia, la stirpe, il 'genos' aveva una storia ben più lunga e uno spessore maggiore rispetto alla polis per cui un particolare significato acquisivano concetti come la maledizione del genitore contro il figlio, la pesante condanna da parte della comunità degli atti ostili del figlio nei confronti dei genitori, lo stesso coinvolgimento del 'genos' nelle formule di maledizione che si pronunciavano nei giuramenti solenni.

Perciò Eschilo sente l’esigenza

“di un richiamo ad una norma che garantisse la di per sé difficile coesione dell’istituto della polis. E questo egli fece utilizzando il forte potenziale emotivo di cui era carico l’istituto familiare nel suo aspetto di consanguineità… è la carica di paura che scaturiva dalle vicende della famiglia degli Atridi egli la utilizza per proporre una nuova base di un ordinato vivere civile nella polis” (Benedetto, op. cit.).

 

 

“Accade certo che talvolta ciò che è pauroso sia un bene e deve restare, assiso, a vigilare sulle menti degli uomini” cantano le Erinni in Eumenidi. Ciò che è pauroso ha il compito di vigilare sugli uomini. Ciò che è tremendo esercita un’azione preventiva, limitando la possibilità di movimento, impedendo che il singolo e la polis si allontanino da un atteggiamento di saggezza, commenta Benedetto,

“Chi, uomo o polis, se non ha paura, potrà riverire la giustizia?” Attraverso la minaccia di sanzioni, lo Stato impedisce che si commettano ingiustizie. Ma Eschilo non vuole mantenersi in una dimensione giuridico-legale, ma piuttosto utilizza “la carica di paura (un’emozione dunque) di cui la famiglia” […] “era dotata ai livelli più profondi della psiche – e che si sprigionava concretamente dalla rappresentazione delle vicende del 'ghenos' degli Atridi – perché la vita pubblica trovasse una remora, un punto di riferimento che garantisse dalle deviazioni.”

“Chi degli uomini è infatti giusto se nulla teme?” chiede Athena affermando dunque che è impossibile scindere la giustizia dalla paura. Ci chiediamo quindi, con un balzo di 2500 anni, i significati del nostro attuale voler sconfiggere la paura a tutti i costi, invece di rispettarla come un’emozione utile nella strutturazione della mente, come un “+alfa”. Questa tendenza della società occidentale attuale di “mostrare i muscoli”, di dover essere la più forte, invece di leggere nella paura un’emozione che aiuta a rispettare delle regole di convivenza civile. La paura di fare del male all’altro per timore di essere puniti, seppur sembri così banale nella sua espressione è in fondo, ci dice Eschilo, una modalità per evitare i processi sommari, le stragi, i genocidi decisi a tavolino per interessi economico-politici di gestione del potere. E qui si parla di una paura non persecutoria,  ma strutturante. Una paura che è “+alfa”, che è emozione che si trasforma in pensiero nel momento in cui ci si assume la responsabilità di un gesto e si accetta che le questioni, i conflitti, si risolvano con un “regolare processo” e non con una azione vendicativa “–alfa”.

È il Super-Io sadico che va trasformato, in un processo evolutivo che non è solo personale, ma avviene anche a livello di macro-gruppo sociale, in un Super-Io garante delle norme e delle regole interiori, fautore del sano senso di colpa che ci fa vedere la nostra limitatezza e ci pone dei divieti grazie ai quali possiamo convivere.

La conoscenza ha origine da un’esperienza emotiva, dice Bion, e ciò che accade ad Oreste con le Erinni è appunto una forte esperienza emotiva che origina un cambiamento, rappresentato dal passaggio dalla legge ctonia a quella democratica. Ciò che avviene nella tragedia può essere letto come una metafora del travaglio interiore, sia dell’individuo che di un intero gruppo sociale, che è implicito nel cambiamento.

E, a nostro parere, in un’ottica di dinamica gruppale, Eschilo è stata la voce del proprio gruppo sociale che ha saputo esprimere, a nome di tutto il gruppo e per mezzo della tragedia, del mito come racconto della mente, questa esigenza.

Quello che accade in Eumenidi può essere letto come un cambiamento catastrofico, non intendendo per catastrofe, un disastro o una “dispersione in frammenti” come descrive M. Klein, non necessariamente dunque qualcosa di negativo, ma un “fenomeno che marca un salto brusco nell’evoluzione o crescita mentale” (Corrao in Bion 1981).

Attraverso la sofferenza del protagonista, Oreste, perseguitato dalle Erinni, si giunge ad una legge democratica.

Il mito aiuta nella comprensione della trasformazione. Il mito può essere dunque, anche qui inteso come modello del legame K. Il cambiamento catastrofico ha un’accezione evolutiva perché c’è una rapida e totale “variazione di tendenza”, uno sconvolgimento radicale nell’evoluzione di una struttura.

Ciò che accade tra gli uomini non viene, infatti, più giudicato dagli dei, proiezioni del Super- Io sadico e punitivo, rappresentanti di un “–α”, di un’incapacità di pensare che si manifesta come un delegare qualsiasi decisione alla divinità, ma da un consesso di uomini, di un gruppo di pari, che per mezzo del voto stabiliscono la punibilità o meno dell’atto. La gestione della giustizia non è più delegata a uno o più dei, illimitati ed infallibili ma viene assunta in proprio dall’uomo e dalla sua, limitata e fallibile, umanità. Si passa così da un’azione priva di pensiero “–alfa”, ad un’azione fondata sul pensiero e sulla condivisione della responsabilità personale e del gruppo sociale “+alfa”.

L’assumersi questo compito è una realtà gravosa, ma indispensabile per non dipendere più da una o più deità capricciose quanto lo sono le proprie proiezioni superegoiche e sadiche.

“Una tale sensazione di disorientamento (nei confronti del cambiamento) costituisce un momento della maturazione e dello sviluppo del gruppo; una sorta di crisi di crescenza, che rappresenta la condizione preliminare necessaria all’emergere di nuove teorie[7] (Neri, 1994). E nelle proteste delle Erinni nei confronti della decisione di Athena si può leggere questo disorientamento:

 

 

 

 

Io gemo. Che farò?

Mi deridono: torti intollerabili

Ho subito fra i cittadini.

Ahi, vittime di veementi sventure,

infelici vergini

figlie della Notte,

crudelmente private dei nostri onori!

 

Così il coro delle Erinni ripete più volte ad Athena che cerca di spiegare loro come non siano disonorate da questa modifica della legge.

 

…Incontrastabili inganni di dei

mi hanno strappato dagli antichi onori,

riducendomi ad un nulla

 

È così che si sente il Super-Io sadico quando viene depauperato dai suoi poteri? Quello stesso Super-Io che esigeva, nelle diverse religioni, a diverse latitudini, sacrifici umani? Lo stesso Agamennone aveva sacrificato la figlia Ifigenia per ottenere l’appoggio degli dei e quindi venti favorevoli per la sua flotta.

Questo Super-Io sadico, che si nutre di sangue umano, sembra venir sconfitto, messo ai margini nello sviluppo del pensiero religioso quando, con il sacrificio di Gesù[8], figlio umano del Dio stesso, per i cristiani si tenta di mettere fine a questa richiesta, necessaria fino a quel momento all’uomo per placare la propria sete di sangue proiettata nel Dio, allo scopo di garantirsi una partecipazione all’onnipotenza e all’onniscienza divina.

Con il cristianesimo il sacrificio, viene ripetuto nel rito, sotto le specie del pane e del vino che, con la transustanziazione sono vero corpo e vero sangue, “simboli reali” di Cristo. Così, per i fedeli, si può rinnovare il sacrificio ultimo e sublime senza spargere ulteriore sangue dell’umanità. Il Dio dei cristiani non chiede più sacrifici umani. Se molti saranno i martiri dopo l’avvento del cristianesimo, e dunque molto sarà ancora il sangue sparso per amore/timore del Dio, ciò non avverrà perché è il Dio a richiederlo. Il Super-Io sadico sembrerà riprendersi la rivincita su un pensiero che aveva tentato di emarginarlo, di ridurne la potenza, sia con le persecuzioni dei primi cristiani all’inizio, che con quelle dei non credenti poi da parte della Chiesa, al Dio, in quanto rappresentazione del Super-Io sadico, verrà attribuita, dagli uomini, una nuova e rinvigorita potenza caratterizzata dalla violenza e dalla richiesta di sacrifici.

Sarà dunque dopo l’avvento del Gesù dei cristiani, con le istituzioni, che il Super-Io sadico, ineliminabile, ritroverà nuovo vigore attraverso il costituirsi di regole, per gli uomini di fede, sempre più rigide e vincolanti che ben poco hanno a che fare hanno con il messaggio evangelico, che per il cristiano è “la Buona Novella” ed è un messaggio d’amore e perdono e non di odio e vendetta.

Regole che, nella loro durezza e rigidità, sono il prodotto delle menti degli uomini e non del Dio di quella che era una nuova fede, che tentava di portare un cambiamento, vissuto forse da molti, da troppi come catastrofico e quindi temibile. Anche in Grecia dunque, nella tragedia di Eschilo, c’era già stato un cambiamento analogo. Le  forze violente e umane proiettate nelle figure mitiche e negli dei, erano state trasformate in Eumenidi, figure protettive:

 

E faccio voti

che mai in questa città

frema la discordia insaziabile di mali,

né polvere, bevendo nero sangue di cittadini,

nel furore della vendetta

colga avidamente dalla città che sangue con sangue contraccambiano.

possano essi ricambiare gioia con gioia

nell’intento concorde del bene

e odiare con unanime cuore. Tra i mortali

questo è rimedio contro molte calamità.

 

Quello che appare interessante è come la tragedia greca di Eschilo rappresenti una trasformazione dalle proiezioni umane nelle deità in un’assunzione di responsabilità in proprio di decisioni riguardanti la legge. Da essere preda di deità vendicative e assetate di sangue, l’uomo, attraverso una trasformazione in K, direbbe Bion, si assume il compito di essere lui, in gruppo, a decidere come giudicare il pari, l’uomo.

Quello che ci si può chiedere è quanto queste trasformazioni siano in grado di reggere alle spinte sadiche e violente che abitano comunque la mente dell’uomo.

Quanto dobbiamo essere forti ed integrati, dotati di regole complesse, di un diritto solido, per far fronte alle spinte pulsionali omicide e vendicative.

Forse se lo è chiesto anche un regista, Antonio Calenda, che ha messo in scena l’Orestea e che, alla fine della medesima, ha concluso con una sonora risata del Coro, come a sottolineare che le Eumenidi sì, sono il prodotto di una trasformazione e sono benevole, ma sono nella loro  natura pur sempre Erinni, dee della vendetta che, all’occorrenza torneranno a risvegliarsi e a sputare il loro veleno fetido e terrificante, beffandosi della nostra democrazia.

Per questo si può sostenere che il mito ha delle potenzialità trasformative, proprio perché riesce a re-significare i diversi elementi, ridando loro nuova vitalità, amplificando il campo del mito stesso, dilatandone il senso, restituendogli complessità e potere. Il mito è per questo generativo e può essere utilizzato in maniera polisemantica.

Dei miti esistono svariate versioni e rimaneggiamenti, trasformazioni, perché l’immaginario di chi racconta e di chi ascolta, si mette dinamicamente in moto durante l’ascolto.

Ma se proviamo a lasciare questo vertice osservativo, per addentrarci in un ambito più vicino alla stanza di analisi, alla relazione analista paziente, possiamo scoprire come questo mito abbia molto da dirci e da darci per apprezzare le minime, ma intense, trasformazioni che avvengono, lentamente, nel processo analitico.

 

Nel testo viene descritto il caso di Martha, una paziente in trattamento con una di noi, originaria di un paese nordico freddo, umido….

Con questo caso, che per motivi di privacy non vogliamo pubblicare su internet, ma che si può leggere sul libro, si conclude il lavoro.


 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

 

[1] Come analista SPI, una delle autrici partecipa ad un gruppo sul mito coordinato da Riccardo Romano, che ha permesso un vertice osservativo/emotivo nuovo rispetto alla lettura del mito.

[2]  www.grupporacker.org

[3] Il corsivo è nostro

[4] Questo e i seguenti sono versi riportati dall’Orestea “Eumenidi” di cui in bibliografia

 

[5] Il "Kanun" raccoglie principi e norme di carattere civile e penale alle quali la popolazione albanese ha sempre fatto riferimento come mezzo di autogestione.

Eredità del feudalesimo (così lo descrive il regime comunista), congelato ma non debellato durante la dittatura, è oggi ritornato in auge. Si stima che nell’Albania settentrionale ci siano un 57% di giovani albanesi disposti ad uccidere per motivi di onore in quanto la vendetta è un obbligo sociale e il sottrarsi ad essa significa essere banditi dalla comunità. Per ulteriori approfondimenti si veda: S. Capra, "Albania proibita: il sangue, l’onore e il codice delle montagne", Mimesis, Milano, 2000.

[6] Corsivo nostro

[7] Tratto da Baroni, Fadda, in "Letture Bioniane", (a cura di Neri,  Correale e Fadda) che citano T.S. Khun (1962 p. 103) "La struttura delle rivoluzioni scientifiche".

[8]  Ma già nell’Antico Testamento Dio punisce, per bocca dei profeti, i sacrifici umani, che gli ebrei facevano, e ricordiamo come pur chiedendo il sacrificio di Isacco, che Abramo sembra disposto a fare, tale sacrificio viene poi impedito da Dio e sostituito con quello di un animale, fatto questo che ritorna anche nel mito del sacrificio di Ifigenia, che in alcune versioni viene sostituita con una cerbiatta. Anche qui, nella rappresentazione di Dio e del suo rapporto con l’uomo si può evincere lo sviluppo del pensiero umano da un Super-Io sadico ad un Super-Io normativo e protettivo del vivere civile.

 

 

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