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Ernesto
fu l'ultimo degli ospiti a ritirarsi; i primi ad andarsene a letto
furono Teofilo e Ida. Si sentivano esausti. Teofilo appariva cupo,
brontolava. <<Stiamo invecchiando, Ida>>, disse alla moglie. <<Questi
dovrebbero essere i nostri anni di riposo. Ho settantotto anni, io, e
ho sempre aspettato il momento di celebrare il mio ottantesimo
compleanno. Pensi che ce la farò?>>.
<<Ma certo>>,
assicurò lei.
<<Anch'io
l'ho sempre pensato. Ne ho viste tante in vita mia, proprio tante, ma
mai come quelle cui stiamo assistendo in questi anni.
<<L'altra
notte ho fatto un sogno. Me n'ero dimenticato, ma m'è tornato alla
mente tutt'a un tratto, questa sera, mentre ascoltavo Angelo. Farò
meglio a raccontartelo prima che ci mettiamo a dormire, perché ho come
il timore che il sogno possa tornare se non ne parlo. E temo anche di
scordarmene se non lo riferisco subito>>.
<<Che hai
sognato?>>
<<Ero di
nuovo un giovane contabile. Non so in quale ditta lavorassi, comunque
stavo preparando il bilancio. Questo era complicatissimo, avevo
l'impressione di non riuscire a venirne a capo. Addizionavo e
addizionavo, sottraevo, dividevo, moltiplicavo, e il risultato era
sempre zero. Sono andato dal principale e gli ho detto: "come è
possibile? Ho addizionato e sottratto, moltiplicato e diviso queste
cifre, e il risultato è sempre zero". "Non conosci l'algebra!" ha
preso a gridare il principale furibondo. "Addizioni e sottrai ciò che
hai fatto, e il risultato non può che essere zero, zero, sempre
zero, un enorme zero!" Vedevo zeri tutt'attorno a me, e mi sono
svegliato in preda al panico. Ti ho guardato. Sono stato lì lì per
svegliarti, ma poi mi sono riaddormentato. Oggi avevo dimenticato
completamente il sogno, finché non è comparso Angelo Luzzatto.
Doveva proprio venire a gettare lo scompiglio in persone più vecchie e
più giudiziose di lui? Se Angelo ha ragione, corriamo un pericolo
mortale. E abbiamo un bell'addizionare e sottrarre nelle nostre vite:
la conclusione sarà ben presto uno zero>>.
<<Non essere
sciocco, Teofilo>>, lo rimbrottò la moglie.
<<Gli zeri
che vedevi in sogno sono i meravigliosi zeri di Leonardo Fibonacci,
quelli che fanno le migliaia, i milioni, i miliardi, i trilioni. Non è
possibile che quel giovane impulsivo sconvolga gente come noi, che ne
ha viste di cotte e di crude. Te l'ho detto, non ci accadrà nulla, e
la prova è che niente finora è accaduto. Non lo sai chi è qui, vicino
a noi, in un'altra stanza? Il parnas, e dove si trova lui nulla può
accadere che si concluda in uno zero. Qualunque cosa accada, sarà
importante. Da' retta a me, caro Teofilo: Pardo non è come noialtri.
Lui prega per noi, lui ci protegge. Ancora due anni, Teofilo, e la tua
età sarà premiata con un otto che avrà accanto un magnifico zero.>>
Teofilo
indirizzò alla moglie un sorriso di gratitudine. Poi la baciò, con la
certezza che di lì a poco ambedue si sarebbero addormentati in santa
pace.
Accanto alla
loro c'era la stanza di Cesare, il figlio, che aveva voluto restare
vicino ai genitori pur avendo quarantanove anni. Anche Cesare stava
cercando di decifrare gli eventi della giornata. Era immerso in
riflessioni, benché si sapesse incapace di ragionamenti profondi. Si
era sentito dire di continuo che da bambino aveva avuto la meningite e
che il suo cervello ne era rimasto leso, cosa del resto vera;
ricordava infatti che da piccolo era stato come gli altri ma che, dopo
la malattia, le cose erano cambiate: i compagni di scuola lo
lasciavano in disparte, come se lui non contasse più niente, e tutti
parevano non voler avere a che fare con lui, eccetto quelli di casa
Pardo.
Cesare non
riusciva a capire che cosa stesse accadendo. Che fosse a causa della
sua malattia? Ma neppure gli altri sembravano capirci qualcosa.
Tutto era così confuso, tutto così sottosopra! Che cos'era quella
guerra di cui la gente non faceva che parlare? Perché tante case
venivano distrutte, tanta gente ferita, deportata, uccisa? Che
significava essere ebrei, essere ariani, essere fascisti, nazisti,
inglesi, americani? Che cos'era in ballo? Forse, se non fosse stato
malato, sarebbe riuscito a capire. Eppure, sembrava così logico, a una
persona come lui, che quelle cose non dovessero accadere. Desiderava
stare accanto ai genitori, ma molte volte non capiva neppure loro. Oh,
quanto sarebbe stato meglio se fosse stata lì sua sorella Lucia! Di
tanto in tanto sentiva quel che diceva lo zio Dario: perché non lo
lasciavano più lavorare come medico? Che cosa aveva a che fare
l'essere ebreo con l'esercizio della medicina? Perché adesso Pisa era
tagliata in due? Su una riva dell'Arno gli americani, sull'altra i
tedeschi. I bei ponti, tutti saltati; nessuno poteva più attraversare
il fiume. Chissà se dopo la guerra ne avrebbero costruiti altri?
Cesare sperava proprio di sì. Casa sua era dall'altra parte dell'Arno.
Oh, se desiderava che ricostruissero i ponti! Voleva tornare a casa. I
ponti, i ponti! Meno male che su questa riva del fiume c'era il signor
Pardo.
La stanza
accanto a quella di Cesare era occupata dallo zio Dario, e anche
questi non faceva che rimuginare. Il passato sembrava così lontano e
tranquillo, così privo di fratture a paragone del presente, compresa
la minacciosa calma di quella notte. E dalla bellezza del passato, una
bellezza quasi amorfa, riemergevano episodi, ed erano come paurose
forme diaboliche. Uno era quello del giorno in cui aveva lasciato
l'ospedale. L'avevano convocato in municipio, e senza peli sulla
lingua gli avevano imposto la scelta: iscriversi al partito fascista o
dare le dimissioni.
<<Ma che cosa
ha a che fare con la medicina l'appartenenza a un partito?>>
aveva chiesto Dario. Sia il podestà che il prefetto e l'assessore alla
sanità avevano fatto orecchie da mercante quand'era andato a parlarne
con loro, limitandosi a ripetere la stessa formula: <<Tocca a voi
scegliere>>. Allora Mussolini voleva che tutte le persone di una certa
importanza prendessero la tessera del fascio; gli intellettuali
venivano esortati a iscriversi, e ancora non aveva importanza se si
era cristiano o ebrei. Non era mancato, neppure tra gli stessi ebrei,
chi aveva detto a Dario in confidenza: <<Siamo in una posizione
delicata. Costituiamo una minoranza così esigua, qui in Italia, che
non possiamo non mostrarci solidali col governo, sia pure fascista>>.
Ma Dario non ne era convinto, riteneva suo dovere mantenersi fedele ai
propri principi. Altrimenti, che cosa rimaneva? E così era stato
cacciato dall'ospedale, senza dover aspettare che gli toccasse la
sorte degli altri ebrei iscrittisi al fascio e che erano stati epurati
quando il governo aveva optato per l'aperto antisemitismo. Sapeva di
aver preso la giusta decisione, ma a che prezzo! Era affezionato
all'ospedale: amava l'edificio, gli arredi, i letti, le monache
addette alle corsie, l'odore dei medicinali, gli uffici. Tutto, là
dentro, era stato oculatamente progettato e organizzato da lui, ed
eccolo ora costretto ad andarsene.
Dario
continuava a macinare pensieri, ed ecco tra gli altri, molti ricordi
emergere, atroce quello di una data abbastanza recente: l'infame 15
luglio 1938, quando aveva comprato un giornale e lì, stampato a
caratteri cubitali, stava il Manifesto della Razza, una
dichiarazione resa, sotto l'egida del governo, da scienziati ritenuti
eminenti, i quali affermavano che gli ebrei non appartenevano alla
razza italica e dovevano essere discriminati. Ricordava perfettamente
la vuota retorica del Manifesto, soprattutto il paragrafo 9, il
peggiore: <<Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul
sacro suolo della nostra Patria, nulla in generale è rimasto. Anche
l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato al di fuori del
ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu
sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica
popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è
costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto
dagli elementi che hanno dato origine agi Italiani>>.
Aveva subito
mangiato la foglia: quello era il principio della fine per gli ebrei
d'Italia! Il cosiddetto Manifesto era una presa di posizione
pseudoscientifica destinata a giustificare il governo fascista per
aver adottato, sull'esempio dei nazisti, le <<Leggi di Norimberga>>. E
Dario non era rimasto sorpreso: non si era mai fatto illusioni sui
fascisti. Ma chi erano quegli storti pagliacci camuffati da scienziati
capaci di firmare un documento così risibile? Chi, in nome della
scienza, si apprestava a patrocinare una vasta ondata di persecuzioni?
Dario aveva dato una scorsa ai nomi dei firmatari: Lino Businco, Lidio
Cipriani, Leone Franzi, Guido Landra. Nomi di illustri sconosciuti,
che non dicevano niente.
Aveva
continuato a leggere, e gli era toccato uno dei più grossi traumi
della sua vita: tra le altre firme, era quella di Nicola Pende, il
notissimo medico, il celebre endocrinologo tanto ammirato da Dario che
si era recato a Genova per ascoltarne le lezioni, di cui con tanta
avidità aveva letto e studiato gli scritti. Come poteva Pende firmare
quella vergognosa dichiarazione? Forse Mussolini aveva aggiunto il suo
nome all'elenco senza prima interpellarlo? Improbabile. Pende doveva
aver acconsentito, sia pure con riluttanza. Forse l'aveva fatto per
paura, forse perché aveva ceduto al diabolico fascino del potere. Ma
non si era piegato Dario Gallichi.
Foto: Nicola Pende
Ripensava
a quanto aveva detto agli ospiti quella sera a cena, che l'ospedale
era il posto dove più gli sarebbe piaciuto ritornare alla fine della
guerra; e aveva soggiunto che tutto sarebbe tornato come prima, come
se niente fosse accaduto. Si abbandonò a quella fantasia: gente che in
quel bellissimo giorno gli sorrideva senza dir nulla, e si comportava
come se nulla fosse accaduto, e l'infermiera che sempre aveva lavorato
con lui sarebbe andata a prendergli il camice con il suo nome
ricamato, e gliel'avrebbe porto... Proprio come se niente fosse
accaduto.
Ma non era
neppure escluso che i medici, le infermiere, i portantini e i pazienti
gli corressero incontro, applaudendolo freneticamente. Il gelido
silenzio di tanti anni sarebbe stato finalmente infranto, e quel
giorno le suore avrebbero persino permesso che si facesse un po' di
musica. La madre superiora avrebbe fatto uno strappo alle regole,
avrebbe persino ballato con lui. Sarebbe stato davvero possibile?
Quale delle
due soluzioni era la più allettante? Forse la prima era la più
eloquente, con tutti quei gesti compiuti in silenzio, ma la seconda
... E a questo punto, come se si scuotesse da un sogno, Dario si rese
conto che nessuna delle due si sarebbe avverata. Com'era spaventosa la
realtà senza il soccorso della fantasia! Sarebbe mai tornato
all'ospedale? Era quello il luogo dove voleva vivere, e quando la
morte sarebbe sopraggiunta, lì intendeva spirare. Rivolse a Dio una
preghiera: <<Fammi tornare all'ospedale, fammi essere all'ospedale il
giorno della mia morte>>.
Accanto a
quella di Dario, si trovava la camera da letto dei Levi. Quando
Ernesto vi entrò, trovò Cesira addormentata, ed evitò di far rumore
per non svegliarla. Com'era bella nel sonno, più bella adesso di
quand'era giovane. E quanto tranquillamente riusciva a dormire! Una
donna davvero meravigliosa. Certo, aveva avuto un momento di debolezza
a Genova, il giorno in cui era stata lì lì per consegnarsi ai
tedeschi, ma dacché era a Pisa era stata una continua fonte di
energie. Più degli altri ospiti del parnas aveva capito che cosa
significasse essere sotto il tetto di questi, e ogni giorno la sua
comprensione si era affinata. Lui, Ernesto, era stato più lento di
Cesira nell'afferrarne il significato. La conversazione che aveva
avuto dianzi con Pardo era stata un'illuminazione. sarebbe riuscito a
dirlo a Cesira? Probabilmente no, ma del resto sua moglie non aveva
bisogno che le cose le venissero spiattellate, lei che era capace di
assorbirle come per osmosi. Ovviamente, se Cesira aveva capito, era
stato in forza di ciò che da Pardo stesso irradiava. Ah, quanto aveva
imparato lui dal parnas, in particolare quella sera! Sì, le due
tragedie di Pardo erano entrambe <<non tragiche>>. E a questo punto,
il pensiero di Ernesto corse ad Angelo Luzzatto; perché, se anche la
vita di Angelo fosse finita in tragedia, sarebbe stata, pure quella,
una tragedia <<non tragica>>. E allora, perché gli altri se l'erano
presa con Angelo, che in fin dei conti si era mostrato pronto a
combattere il male con dedizione? Angelo per lo meno tentava di
mettersi in salvo. Però non era toccato dalla Shekhinà. Pardo, invece,
sì.
Poi il
pensiero di Ernesto corse a Silvia: le sue mille attenzioni, la
fedeltà sua e quella di Giovanna e Alice. Le tre donne evidentemente
si erano rese conto di quanta fosse la bontà di Pardo, ma che era
altrettanto grande la sua fragilità. E a quella fragilità cercavano di
rimediare con la loro propria bontà.
Anche Silvia,
Giovanna e Alice si apprestavano a coricarsi. Le loro stanza si
trovavano su un altro piano, ma da quando i sei ospiti si erano
trasferiti in casa Pardo dormivano nella stessa camera. Giovanna, che
durante la giornata si era mostrata assai poco loquace, disse rivolta
a Silvia: <<Siamo tutt'e tre stanche morte. E' stata una dura
giornata. Comunque, da stamane, quand'è venuta Gilda a portarti il
messaggio di sua madre, non sei più la stessa>>.
<<Sì,
invece,>> ribatté Silvia <<sono solo un po' nervosa, vorrei che i
nostri vicini ci lasciassero in pace. Loro non capiscono. Io il signor
Pardo non lo lascerei mai. Gliel'ho detto, a Gilda. Domani saremo
liberi, e io non mi preoccuperei di certo se quella gente non
continuasse a ricordarci tutti questi guai>>.
<<Neppure io
lascerei mai il signor Pardo>>, assicurò Giovanna. <<Sai quanti anni
io e mio marito abbiamo lavorato in questa casa? Ho perso persino il
conto. Pasquino, pace all'anima sua, è diventato l'autista di casa
quando cavallo e carrozza sono stati sostituiti dall'automobile, e
portava il signor Pardo di qua e di là, e il signor Pardo si fidava
ciecamente di Pasquino. Quando Pasquino è morto, pace all'anima sua,
il signor Pardo è venuto a dirmi: "Giovanna, hai vissuto qui per tanti
anni quando tuo marito c'era ancora. Se vuoi, puoi rimanere". Non mi
ha certo buttata sul lastrico, e adesso dovrei piantarlo in asso solo
perché le cose vanno male?>>.
<<Dio ne
guardi>>, esclamò Silvia.
<<Quando m'ha
dett che potevo restare, io gli ho fatto: "Signor Pardo, sono proprio
felice di quest'offerta. Però io non ce la faccio più ad aiutare
Silvia da sola, e poi mi sentirei sperduta in questa casa così grande.
Ho una sorella che si chiama Alice ed è sola anche lei". E lui subito:
"Dille di venire. C'è posto anche per lei, in questa casa. Magari
potrà dare una mano a Silvia".>>
Fu la volta
di Alice: <<Sono stata così felice di poter vivere qui, accanto a mia
sorella! Il signor Pardo è stato l'unico che mi abbia teso una mano. E
potrei piantarlo in asso?>>.
<<Certo,>>
disse Giovanna a Silvia <<so che sei in questa casa da molti anni, mai
però tanti come Pasquino e me, eppure anche tu vuoi rimanere.>>
<<Altro che.
E sai chi c'era qui prima di me? Camilla. Bene, Camilla è rimasta con
questa famiglia per oltre quarant'anni, finché è morta di vecchiaia.
Tutto questo pasticcio di politica mica può cambiare quello che uno
prova dentro.>>
<<Il signor
Pardo ha bisogno di te, lo si vede, a volte sembra un bambino che si
aspetta soccorso dalla mamma>>.
<<Sì, a volte
mi sembra che non sappia a che santo votarsi, e dentro di me sento che
devo aiutarlo. E continuerò a farlo finché avrà vita e finché ne avrò
io. E non chiedermi perché. So solo che è così, e basta. Ma certi
nostri vicini, questo non riescono a capirlo.>>
<<Eh, no>>,
fece eco Giovanna.
<<No, non
capiscono proprio>>, ripeté Alice.
Giovanna
spense la candela e aprì le finestre. Le tre donne guardarono il cielo
stupendamente stellato, e la notte parve capire.
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