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FRENIS  zero 

 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

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    " C'E' QUALCOSA DI NUOVO OGGI, ANZI D'ANTICO"

IV Convegno Internazionale A.S.P. (Milano, 16-17 maggio 2008)

MILANO, Auditorium “Maria Consolatrice” –

via Galvani 26

(angolo via M. Gioia 51)

 

 

Ciò che oggi la psicoanalisi può offrire

è l’opportunità

di scoprire liberamente

e di esplorare giocosamente

la propria soggettività

 

(S. Mitchell)

 

 

Il Convegno si propone di ripercorrere, rintracciare e ri-tracciare percorsi psicoanalitici un po’ dimenticati.

Nella prima giornata lavoreremo sull’impasse terapeutica, in cui il transfert e l’alleanza sembrano impossibili e il rischio del fallimento tiene in scacco la clinica, la tecnica e la teoria, sottraendoci sicurezza e certezze. Nella seconda giornata percorreremo alcune dimensioni dimenticate della consapevolezza di sé (non solo insight) come indicazioni di viaggio, attingendone le radici all’oriente della psicoanalisi.

Avremo una guida che siamo orgogliosi e onorati di ospitare: Jeremy D. Safran, docente e direttore del training clinico in Psicologia Clinica della New School for Social Research di New York, docente al Beth Israel Medical Center, al corso di specializzazione in Psicoterapia e Psicoanalisi della  New York University, membro dello “Stephen A. Mitchell Center for Relational Studies”, Presidente dell’ “International Association for Relational Psychotherapy and Psychotherapy”, del comitato editoriale di “Psychotherapy Research” e “Psychoanalytic Dialogues”.                                                                                                                                                                                                 Tra i suoi saggi più importanti:

Interpersonal Process in Cognitive Therapy (con Z. V. Segal, 1990, trad. It. 1993); Negotiating the Therapeutic Alliance: A Relational Treatment Guide (con J. C. Muran, 2000; trad. it. 2003); Psychoanalysis and Buddhism: An Unfolding Dialogue (2003); nel 2006, in collaborazione con J. C. Muran, ha pubblicato un DVD, Resolving Therapeutic Impasses, che illustra i principi della meta-comunicazione terapeutica come strumento per riparare i circoli viziosi dei pensieri e sentimenti ostili e distruttivi nel paziente e nel terapeuta quando si verificano le rotture dell’alleanza. 

I suoi principali interessi di ricerca: sviluppi clinici e teorici della psicoanalisi, ricerca sul processo e sull’esito, psicoanalisi e buddhismo, alleanza terapeutica, transfert e controtransfert, impasses terapeutiche,  i processi interiori del terapeuta (e particolarmente le rappresentazioni interne del proprio analista e dei loro supervisori e la loro ricaduta sul processo di  formazione degli psicoanalisti), la relazione tra processi di attaccamento e cambiamento terapeutico


 

 

 

 

         
 

PROGRAMMA

Venerdì 16 maggio


 

Non sempre, non solo transfert


 

 


 

Ore 8.30-9.15     

Registrazione partecipanti

e distribuzione materiale  

 

Ore   9.15 -9.30  

Il senso di un Convegno

(Daniela Maggioni, presidente clinica della A.S.P.)

 

Ore   9.30- 10.00 

Jeremy D. Safran e il suo contributo alla teoria psicoanalisi                                               (Vittorio Lingiardi, Università “La Sapienza”, Roma)     

         Wassili Kandinsky, CON e CONTRO


 

 


 

Ore 10.00-11.15  

Lavorare con l’impasse terapeutica

(Jeremy D. Safran, New York) 


 

                                                                                                                                             

Ore  11.15- 12.15

Alleanza, interventi del terapeuta,

interazioni collaborative

(Vittorio Lingiardi, “La Sapienza”, Roma)


 

Ore 13.00-14.45 Lavoro in sottogruppi con conduttore

Ore 15.00-16.30   Discussione generale

Ore 16.30-18.00   Agire e lasciarsi andare in psicoanalisi

(Jeremy D. Safran, New York)


 

                      


 

 

Sabato 17 maggio


 

Le molte vie della consapevolezza


 

 


 

 


 

Ore 9.00-10.15   

Psicoanalisi tra arte, scienza, religione


 

(Salvatore Freni, S.P.I e A.S.P., Milano)


 

 

Ore 10.15-11.00 

Psicoanalisi e Buddismo: una rivisitazione storica

(Anthony Molino, SIPP, Vasto – Chieti)


 

 


 

Ore 11.15-12.15

Il tao della psicoanalisi

(Gherardo Amadei, S.P.I. e A.S.P., Milano)

 

Ore 12.15-13.30

Interventi pre-ordinati e discussione

 

Ore 14.30-15.45  

L’insopportabile leggerezza dell’essere: autenticità e  ricerca del reale

(Jeremy D. Safran, New York)


 

 


 

Ore 15.45–16.45

Zen, Lacan e l’Io alieno

(Anthony Molino, SIPP, Vasto – Chieti)

             


 

Ore 16.45-18.00 

Interventi pre-ordinati e discussione

 

Ore 18.00-19.00 

Conclusioni

Verifica di apprendimento

 


 

Per il Convegno, che è a numero chiuso, verrà chiesto accreditamento ECM al Ministero della Salute per Psicologi e Medici Psicoterapeuti. Non è prevista l’iscrizione ad una sola giornata.

Ai colleghi non Soci /Aggregati A.S.P. e non Allievi o ex-Allievi S.P.P. sono riservati 50 posti. Sarà attivo per tutte le relazioni in inglese un servizio di traduzione simultanea in italiano. Verranno predistribuiti ai partecipanti i testi delle principali relazioni e gli abstract in lingua italiana.

Per informazioni, aggiornamenti del programma e iscrizioni:

direttivo.asp@libero.it; diadicosistemica@libero.it

Segreteria A.S.P. : Milano, Via Pergolesi 27- lunedì, giovedì e sabato 10.00-16.00

Tel. e fax 026706278

 

CURRICOLA RELATORI

 

GHERARDO AMADE

Psichiatra e Psicoanalista, già dirigente medico I.R.C.C.S. - Clinica Psichiatrica 1 dell’Università di Milano e Responsabile del Gruppo di ricerca per  la Psicoterapia Territoriale (C.P.S. 1, 4, 13), è stato docente alla Facoltà di Psicologia e Direttore Responsabile del Servizio di Psicologia Clinica rivolta alla persona dell’Università cattolica di Milano ed attualmente Professore Associato di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca, è attualmente interessato soprattutto a: comprensione dinamica della psicopatologia; valutazione empirica del processo e degli esiti delle psicoterapie individuali (adattamento italiano del “Manuale della Funzione Riflessiva” di Fonagy e Target e del “Questionario degli Schemi Mentali” di Jeffrey Young, costruzione del Manuale di “Riconoscimento Interpersonale”); studio dell’azione terapeutica: insight, esperienza emotiva correttiva, mindfulness. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: “Il paradigma celato”(2001), “La ricerca liberata”. (Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi, 2003), “Psicopatologia dello Sviluppo: nuovi modelli teorici e applicazioni di ricerca” (con I. Bianchi, 2004), “Come si ammala la mente (2005), “L’enigma delle origini” (con I. Bianchi, 2006), “Aspettando (un altro) Sokal” e  “Riflessioni per clinici e ricercatori”, in Leutzinger-Bohleber M. e Target, M.( a cura di)  “I risultati della Psicoanalisi.” (2006). Ha curato la pubblicazione  e scritto l’introduzione agli scritti di Louis Sander (Sistemi viventi,  Raffaello Cortina, 2007)


 

 

SALVATORE FRENI

Psichiatra Psicoanalista, membro S.P.I. e I.P.A., Socio A.S.P. e I.F. P.S., già Direttore della Scuola di Specializzazione in Psichiatria e Docente di Psicoterapia all’Università di Milano, Direttore dell’U. O. di Psichiatria Dinamica e Psicoterapia dell’ Ospedale Riguarda-Cà Granda di Milano. Direttore responsabile della rivista "Ricerca in Psicoterapia", ha recentemente pubblicato: “La dimensione mistica nell’esperienza psicoanalitica“ (Gli Argonauti, 100/2004), “Valutazione dell’efficacia della psicoterapia psicoanaliticamente orientata in un servizio pubblico lombardo: esiti, follow up, drop out e predittori” (Psichiatria, XVII, 2/2004); con S.P. Papini “Una rassegna critica degli strumenti utili per la ricerca in psicoterapia”,in Dazzi N., Lingiardi  V., Colli A. (a cura di) La ricerca in Psicoterapia. (Raffaello Cortina, 2006), e sta lavorando con altri autori a “Traduzione e validazione clinica preliminare del CORE-OM (Clinical outcome for routine evaluation), questionario per la valutazione degli esiti in psicoterapia”.

                    

VITTORIO LINGIARDI

Psicopatologia e Valutazione testologica e Diagnosi alla Facoltà di Psicologia 1 e Direttore della II Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università «La Sapienza» di Roma, psichiatra e psicoanalista CIPA,  membro dell’IAAP e della IARRP, dirige per Raffaello Cortina Editore la collana «Psichiatria,

Psicoterapia, Neuroscienze» ed è membro dell’Editorial Board di “Infanzia & Adolescenza”,”Psychothech”, “KOS” . Ha al suo attivo numerose ricerche e pubblicazioni, soprattutto su diagnosi e valutazione della personalità (SWAP-200), valutazione dei meccanismi di difesa e dell’alleanza terapeutica (IVAT-II), identità di genere e orientamento sessuale, psicopatologia delle realtà virtuali. Ha pubblicato numerosissimi articoli su riviste italiane e non e, tra gli altri, i seguenti volumi: “La diagnosi del paziente borderline” (1990), “I meccanismi di difesa” (1994, 2002), “I disturbi della  personalità” (1996), “Compagni d’amore “(1997), La personalità e i  suoi disturbi (2001), L’alleanza terapeutica (2002), con Westen e Shedler “La diagnosi di  personalità con la SWAP-200” (2003), con N. Dazzi e A. Colli “La ricerca in psicoterapia” (2006), “Citizen Gay”

 

 

ANTHONY MOLINO

Pluri-premiato traduttore in USA di poeti e commediografi italiani, psicoanalista di formazione anglo-americana, membro associato S.I.P.P., membro della National Association for the Advancement of Psychoanalysis (New York) e della United Kingdom Council on Psychotherapy (Londra), ha  pubblicato in italiano: Liberamente Associati: Incontri psicoanalitici con C. Bollas, J. McDougall, M. Eigen, A. Phillips e N. Coltart (Astrolabio, 1999); Psicoanalisi e buddismo (R. Cortina, 2001); con L. Baglioni e J. Scalia, La Vitalità degli Oggetti: Esplorazioni attorno al pensiero di Christopher Bollas (Borla, 2007); è in stampa per le Edizioni Antigone Cultura, Soggetto, Psiche: Dialoghi tra psicoanalisi e antropologia.    


 

 

 

 

ABSTRACT

 

 Jeremy Safran: <<FIDUCIA, DISPERAZIONE, IL PARADOSSO DELL’ACCETTAZIONE>>

Il termine FIDUCIA non è comunemente utilizzato nel discorso psicoanalitico. Un’importante eccezione la si può ritrovare negli scritti di Bion (1970), dove egli si riferisce allo stato della mente che emerge quando l’analista affronta il suo lavoro senza ricordo, desiderio o discernimento come quello di fiducia: “fiducia che esiste nella realtà ultima e nella verità – l’ignoto e l’inconoscibile, “l’infinito senza forma” (pag. 31) Egli sottolinea il modo in cui il desiderio dell’analista nei confronti del controllare e del capire possano bloccare l’apertura della mente, necessaria per percepire la verità emotiva che emerge durante la seduta.  In una pagina suggestiva, Coltart (1992) fa affidamento su Bion per argomentare la fondamentale ineffabilità del processo analitico ed il ruolo che  la fiducia dell’analista gioca di fronte a tale ineffabilità.    

Nonostante i migliori sforzi fatti da Freud per allontanare la psicoanalisi dalle sue radici nell’ipnosi e suggestionabilità, la fiducia gioca inevitabilmente un ruolo centrale. Se si cerca sollievo per un dolore psichico o fisico affidandosi ai medicinali, alla spiritualità, o alla psicoanalisi, sotto certi aspetti, fondamentali, deve esserci la possibilità di credere che le cose possono essere diverse. Uno deve avere una qualche speranza di possibilità di cambiamento e che il guaritore sia in grado di aiutarlo. Tutte le persone che sono in analisi combattono contro diversi livelli di depressioni varie. In molti casi l’equilibrio tra speranza e disperazione è tale che il paziente può prontamente arrivare a credere nella buona volontà  e nel potere dell’analista e nella validità del processo analitico. In alcuni casi, comunque, il processo per arrivare ad avere fiducia è una battaglia di dimensioni ciclopiche.

Ciò che sto dicendo ora è stato preso, per certi versi, dalla concettualizzazione di Bion (1963) del ruolo che il riserbo dell’analista nei confronti di sensazioni difficili e dolorose gioca nel processo analitico.

Sia Aron (1996) che Mitchell (1997)  hanno recentemente   avanzato banali e sfumate critiche sui concetti di neutralità e identificazione proiettiva. Nel momento in cui io  penso a me stesso nei termini di un contenitore dell’identificazione proiettiva del mio paziente, prendo le distanze dalla mia esperienza vissuta. Ciò può allontanare dalla reciprocità dell’incontro –un elemento che, come dico in seguito, è essenziale al cambiamento di processo. Al fine di poter sopportare le profondità della disperazione del paziente, l’analista deve essere in grado di sopportare qualsiasi tipo di sensazioni dolorose che vengono evocate. In questo contesto, è possibile comprendere la disperazione dell’analista a due livelli. Il primo consiste  nella disperazione provata come risonanza empatica dell’esperienza di disperazione personale del paziente. Il secondo livello consiste nella disperazione correlata alle sensazioni di impotenza dell’analista di fronte al paziente.

Quando noi abbiamo qualche difficoltà ad accettare i nostri limiti come terapeuti, c’è la tendenza a rispondere, stando sulle difensive, alle impossibili domande dei nostri pazienti e la tendenza ad allontanarsi dalla loro sofferenza e disperazione.

Quando noi sentiamo il bisogno di mettere alla prova noi stessi per essere di aiuto ai nostri pazienti, inconsapevolmente essi possono sentirlo e sentirsi forzati a prendersi cura dei nostri bisogni invece che badare ai loro. In questo modo diventa critico per noi accettare il fatto che alla fine c’è un numero limitato di cose che un essere umano può fare per un altro. Comunque, possiamo essere profondamente empatici nei confronti dei nostri pazienti, quando la seduta è terminata, il paziente va a casa e noi andiamo avanti con la nostra vita.  Questa presa di coscienza, comunque, non deve essere trasformata in un’arrogante indifferenza, ma piuttosto in compassione per un essere umano che prova il dolore della vita per un atro essere umano.

 

Jeremy Safran: <<VOLONTA’ contro RESISTENZA>>

Con alcune importanti eccezioni (p.e. Farber, 1966; Rank, 1945; Shafer 1976; Shapiro, 1981), il campo della psicoanalisi ha trascurato il concetto di volontà.

La sfida di Freud contro l’enfasi vittoriana sulla predominanza della razionalità e dell’auto-controllo introdusse un’importante rivoluzione nel nostro concetto di esperienza umana. Creò anche, comunque, un precedente nell’ignorare un’importante sfera delle funzioni umane – la volontà, o la scelta umana, e l’azione.

Mitchell (1988) fa un eccellente lavoro di revisione dei più importanti contributi psicoanalitici al concetto di volontà e conclude cha la volontà gioca un ruolo determinante nello viluppo e nella conservazione dei problemi dei pazienti, e che la volontà gioca un ruolo cruciale quando il paziente deve scegliere di guardare a ciò che ha rimosso e rinnegato. 

La mia preoccupazione qui riguarda la questione di come l’analista possa aiutare i pazienti a recuperare la loro esperienza di essere in grado di volere quando sono immersi nella profondità della depressione e percepiscono la loro volontà come atrofizzata o non esistente. E’ qui che il profetico ed abbastanza trascurato pensiero di Otto Rank a proposito della volontà può tornarci particolarmente utile. Per Rank, lo sviluppo della volontà ha giocato un ruolo centrale nell’analisi.  Nei suoi pensieri, l’espressione di volontà è indissolubilmente legata all’atto creativo, che per lui è il sine qua non di una sana esistenza umana e di auto espressione. Di contro, la nevrosi è associata alla paralisi della volontà, che risulta dal fallimento nel conseguire l’importante compito evolutivo di sviluppare un senso di azione. Un aspetto centrale del suo approccio terapeutico includeva l’aiutare l’individuo a sviluppare il suo stentato senso di volontà. Secondo lui, la terapia in qualche modo comprende il normale processo evolutivo ed è inevitabile che i pazienti rispondano all’analisi con opposizione nello stesso modo in cui lo avrebbero fatto con i loro genitori. L’opposizione in terapia viene chiamata resistenza.

Come suggerisce Aron (1966), il punto di vista di Rank a proposito del ruolo della volontà e della resistenza nel processo analitico fornisce uno strumento importante per ripensare al concetto di resistenza da un punto di vista relazionale. Dal punto di vista rankiano, la resistenza non è qualche cosa che debba essere rielaborata od analizzata. E’ un processo che dovrebbe essere alimentato, poiché esso porta in sé i semi di una sana volontà, che, se coltivati, porteranno al processo di individualizzazione ed espressione creativa di sé. Con il passare del tempo, le momentanee esperienze di azione possono essere trasformate nella capacità di intraprendere una prolungata ricerca dell’obiettivo scelto.

Il fondamento della volontà è la garanzia basilare che le cose funzioneranno e che il mondo, fondamentalmente, è un posto ospitale. In questo modo, la capacità di volere  evolve in un contesto di relazione non compromesso dall’auto-espressione dell’individuo. Una volontà di questo tipo ha in sé una qualità spontanea e rilassata. Poiché avviene nel contesto di un fondamentale senso di fiducia, l’esperienza di disperazione non è catastrofica. Se uno ha fiducia nel futuro, può investire più pienamente nel momento presente, sapendo che il futuro si prenderà cura di lui. In questo modo uno riesce a relazionarsi meglio con il momento presente così come è, piuttosto che provare a forzarlo ad essere qualche cosa che non è.  Nello stesso senso, uno riesce meglio a relazionarsi con l’altro come soggetto, o, secondo i termini di Buber, come Tu, piuttosto che come oggetto dei propri bisogni.  Questo paradossalmente trasforma la situazione così che uno riesce meglio ad essere nutrito dalla propria relazione con l‘altro.  In questo modo la volontà richiede il tipo di fiducia di cui parla Bion (1970).

Il processo della negoziazione intersoggettiva in analisi può aiutare i pazienti a sviluppare questo tipo di fiducia nel modo seguente. Nel momento in cui essi arrivano ad accettare i limiti dell’analista, ed apprezzare ciò che ha da offrirgli, senza reprimere la loro vitalità o primari bisogni fisici, essi sono in grado di lasciare andare i loro tentativi di manipolare se stessi e l’altro per ottenere la perfezione. Ciò permette loro di essere ricettivi verso quelle cose che l’analisi è in grado di fornire (Safran e Muran, in corso de stampa). Questo processo, per certi aspetti, viene ripreso da Winnicott (1969) quando pensa all’uso dell’oggetto, nel senso che la sopravvivenza dell’analista dalla distruttività del paziente permette all’analista di essere percepito come avente una propria esistenza (pertanto, che esiste più come Tu che come Esso).

 

Jeremy Safran: <<DISPERAZIONE, RESPONSABILITA’ e DISILLUSIONE OTTIMALE>>

Spesso trovo che con i pazienti che si sentono completamente senza speranza e che non hanno esperienza nella loro capacità di scegliere e di agire in accordo alle loro scelte, la capacità di volere in contrapposizione a me può essere un punto di svolta critico nella terapia. In questo modo io sono particolarmente interessato alle sottili indicazioni di non comprensione, rinuncia, irritabilità o disapprovazione nei miei pazienti poiché, se esplorati con attenzione, possono fornire loro un’opportunità per cominciare ad esprimere la loro resistenza in modo più diretto. (Safran & Muran, in corso di stampa). Questo punto focale è simile per certi aspetti all’intenso punto focale sul modo in cui i pazienti rispondono alle interpretazioni dell’analista, che è la caratteristica del lavoro dei kleiniani  contemporanei come Joseph (1989). Mentre io ammiro l’attenzione dettagliata agli aspetti più microscopici dell’interazione analista-paziente, sono meno d’accordo con la sua prontezza a interpretare la non comprensione e disapprovazione dei pazienti nei termini di preesistenti elaborazioni riguardanti l’invidia o l’aggressività.

E’ inevitabile che ci sentiamo frustrati quando i nostri pazienti non cambiano, e la linea fra comprendere che i nostri pazienti sono alla fine responsabili della loro vita ed accusandoli, stando sulle difensive, può essere qualche volta corretta.

Le persone che provano dolore o angoscia sono già sature di avversione nei loro stessi confronti, si sentono accusati per qualche cosa sulla quale non hanno controllo. Pertanto diventa estremamente difficile per loro prendere coscienza del modo in cui potrebbero contribuire ai loro propri problemi. Pertanto, risulta per noi vitale essere in grado di apprezzare la realtà fenomenologia di essere incapaci di volere.

Imparare a volere è solo metà della battaglia. L’altra metà comprende il farsi una ragione dei limiti della capacità di ciascuno di ottenere i propri scopi (Safran e Muran, in corso di stampa)

 

Un tema ricorrente nella letteratura psicoanalitica è che il processo di disillusione ottimale costituisce un ingrediente fondamentale sia di uno sviluppo sano e normale che di un processo analitico di successo. Mentre Freud enfatizzava il processo di abbandono istintivo come il passaggio verso la maturità, gli analisti relazionali contemporanei, influenzati da teorici quali Ferenczi e Winnicott, sono sempre più propensi ad enfatizzare la centralità della negoziazione fra i bisogni del sé e i bisogni dell’altro.

Storicamente, Ferenczi (1931,1933) fu il primo ad enfatizzare i rischi conseguenti all’atteggiamento del bambino che si adatta oltremodo ai bisogni dei genitori, perdendo, di conseguenza, il suo centro affettivo e vitale.

Winnicott (1965) aggiunse ulteriori considerazioni a queste linee di pensiero abbozzando un processo evolutivo in cui la madre a poco a poco si sposta da uno stato di primaria preoccupazione materna e di adattamento ai bisogni del bambino facendone le spese in prima persona, verso un processo in cui lei si adatta maggiormente ai suoi propri bisogni. Nel pensiero di Kohut (1984), il concetto di lavorare attraverso fallimenti empatici nella relazione analitica è visto come un meccanismo centrale di cambiamento. Egli elabora e allarga un numero di concetti presenti negli scritti di teorici precedenti. Laddove Ferencz, Winnicott e Balint tutti sottolinevano l’importanza sia del ricostruire un trauma evolutivo all’interno dela relazione analitica che del riattivare un processo evolutivo interrotto, Kohut ha reso chiaro che il processo ripetuto di lavorare attraverso i fallimenti è ciò che porta al cambiamento.  Egli inoltre sottolineò che i pazienti necessitano di un equilibrio ottimale fra il supporto e la frustrazione per crescere, e che il supporto senza la frustrazione inficerebbe la crescita. Egli credeva che un tollerabile grado di frustrazione rende possibile al paziente interiorizzare alcune funzioni auto oggettive dell’analista (p.e. attenuando la validità di un’esperienza soggettiva, il riconoscimento e la conferma di unicità), di conseguenza diventando più di auto sostegno e di non dover fare un uso patologico delle relazioni per compensare le risorse interne mancanti.

La delusione che i pazienti provano quando l’analista viene meno alle loro aspettative, gioca un ruolo critico nell’aiutarli a farsi una ragione della realtà dei limiti dell’analista. Nell’assenza di elaborazione di questa delusione, comunque, il rischio è che il paziente possa ritirarsi in un tipo di pseudomaturità che riconosce i limiti dell’analista, ma maschera una profonda disperazione circa la possibilità che le cose possano essere diverse. Ciò si manifesta nella chiusura di vitalità spontanea, desiderio ardente e speranza del singolo. Quando l’analista è in grado di entrare in empatia con questa delusione, comunque, i pazienti sono in grado di provare la loro delusione come ricca di significato e la loro bramosia profonda e desiderio come validi. Ciò fa progredire una crescente accettazione dei loro stessi sentimenti e bisogni. Allo stesso tempo, essi sono in grado di sentire che l’analista che in un certo senso è lì per loro, a dispetto del fatto che lui o lei non siano in grado di soddisfare le loro fantasie dell’analista perfetto. 

Il viaggio dalla disperazione alla speranza include una sottile dialettica fra l’imparare a volere ed agire per conto di se stessi e l’imparare che gli altri vogliono e possono essere di aiuto. Quando i pazienti provano l’incapacità di volere e non agiscono per volontà propria, essi si sentono delle vittime.  D’altro canto, quando essi provano ad aiutarsi senza alcuna fiducia che l’analista voglia venire incontro ai loro sforzi, non esiste l’apertura/consapevolezza per cui l’analista sia lì per loro. Potrebbe essere utile in questo caso distinguere fra due diversi tipi di volontà: caparbietà contro volontà.  In un modo che ricorda la distinzione di Ghent (1992) tra necessità e bisogno.

 

Jeremy Safran: <<L’ALLEANZA TERAPEUTICA e LE SUE ROTTURE>>


One of the most consistent findings in the field of psychotherapy research is that the quality of the therapeutic alliance predicts treatment outcome. There is also evidence that poor alliances are correlated with unilateral termination  . Research evidence also indicates that patterns of negative or hostile complementarity between therapists and patients are associated with poor outcome.

There is also evidence that a pattern of deterioration in the alliance followed by an improvement over the course of treatment is associated with positive outcome. Collectively, all research suggests that the therapist’s ability to constructively address patterns of negative therapist-patient complementarity and ruptures in the alliance may play an important role in improving therapeutic outcome. An alliance rupture can be defined as a breakdown in the collaborative process between therapist and patient, a poor quality of therapist-patient relatedness, a deterioration in the communicative situation, or a failure to develop a collaborative process from the outset (Safran & Muran, 2006). In

fact, on the basis of available empirical evidence the Division 29 Task on Empirically Supported Relationships designated the repair of alliance ruptures as a “promising and probably effective” treatment principle (Norcross, 2002).

A number of studies examining the processes involved in repairing ruptured or strained

alliances suggest that it can be valuable for therapists to keep in mind the following guidelines:

1. Therapists should be aware that patients often have negative feelings about the therapy or the therapeutic relationship which they are reluctant to broach for fear of the therapist's reactions. It is thus important for therapists to be attuned to subtle indications of ruptures in the alliance and to take the initiative in exploring what is transpiring in the therapeutic relationship when they suspect that a rupture has occurred.

2. It appears to be important for patients to have the experience of expressing negative feelings about the therapy to the therapist should they emerge or to assert their perspective on what is going on when it differs from the therapist's.

3. When this take place, it is important for therapists to attempt to respond in an open or

nondefensive fashion, and to accept responsibility for their contribution to the interaction.

4. There is some evidence to suggest that the process of exploring patient fears and expectations that make it difficult for them to assert their negative feelings about the treatment may contribute to the process of resolving the alliance rupture.

Preliminary evidence is also beginning to emerge indicating that therapists’ attitudes

towards the self mediate the process of dealing with negative therapeutic process. Both Henry, Schacht, and Strupp (1986) and Hilliard, Henry, and Strupp (2000) found that therapists with negative introjects (i.e., who have internalized hostile attitudes towards the self), are more likely to exhibit patterns of hostile interpersonal process in the relationship with their patients.

Nelson (2002) found that therapists who have interpersonal schemas predicing hostile

response from their own fathers (but interestingly not their mothers), are more likely to act hostile towards their patients during ruptures in the alliance. Also, Fox and Safran (2004) found that therapists with interpersonal schemas predicting friendly responses from their own mothers (but not their fathers) were better able to establish alliances with their patients, whereas therapists expecting friendly responses form their fathers (but not their mothers were better at resolving ruptured alliances (at least from the patient’s perspectitve). Findings of this type provide preliminary evidence suggesting that training approaches that help to promote greater therapist self-acceptance may facilitate the process of working constructively with alliance ruptures. It is consistent with

clinical theory that suggests that the capacity for self-acceptance plays a critical role in allowing therapists to use their countertransference experience as a source of important information rather than acting it out (Safran & Muran, 2000).

Finally, there is also preliminary evidence emerging regarding the effectiveness of brief

relational therapy (BRT) as an approach that is particularly helpful for decreasing patient dropout and for working with patients with whom it is difficult to establish a therapeutic alliance (Muran, Safran, Samstag, & Winston, 2005). BRT (Safran, 2002) incorporates the therapist guidelines described above and emphasizes the use of therapeutic metacommunication (i.e. the process of working collaboratively with the patients to explore and disembed from negative patterns of comlementarity that are emerging between them). It also, incorporates mindfulness practice in the training of therapists in order to help them increase their capacity to attend to their countertransference in a nonjudgmental fashion and use it as an important source of information.

 

Jeremy Safran: <<PSICOANALISI e BUDDISMO>>

Mi viene chiesto spesso in che modo il Buddhismo influenzi la mia pratica psicoanalitica. Non è facile rispondere ad una tale domanda. Solitamente non insegno ai miei pazienti a meditare, sebbene qualche volta lo faccia. Solitamente non parlo di concetti buddhisti con i miei pazienti, anche se qualche volta lo faccio. È più una questione di atteggiamento  che qualche cosa d’altro, e penso che questo atteggiamento abbia di fondo a che fare con l’accettazione – una parola troppo abusata. Penso che la pratica del Buddhismo mi aiuti a coltivare un maggior senso di accettazione sia dei miei pazienti che di me stesso. Ed in molti modi mi aiuta a consentire ai miei pazienti di diventare più auto-accettanti. Mi sento imbarazzato a sostenere ciò perché sembra una modesta asserzione data dal mio coinvolgimento da molti anni nella pratica buddhista . E spesso quando racconto ciò alle persone, loro dicono:” Bene, ma la psicoanalisi non sottolinea l’importanza dell’accettazione allo stesso modo? Per esempio Freud metteva in guardia gli analisti dal loro eccessivo zelo nel curare. E che dire del rimprovero di Bion che noi affrontiamo ogni seduta senza memoria e desiderio?”, e così via.  La mia risposta è “Sì, ma…”. Sì, la psicoanalisi in effetti sottolinea l’accettazione, ma allo stesso tempo non lo fa. O sì, lo fa, ma c’è qualche cosa di più radicale per quanto riguarda la prospettiva Buddhista sulla relazione tra accettazione e trasformazione – una prospettiva che è paradossale in natura. Inoltre, in diversi modi questo paradosso giace nel cuore del Buddismo, o certamente nel cuore di qualche via del Buddhismo. C’è un efficace vecchio aforisma Zen che dice: “Prima che l’asino se ne sia andato, il cavallo è già arrivato” Ora, pensiamoci un attimo. Che cosa significa? Cercare di spiegare un detto Zen è come cercare di spiegare una barzelletta- O la capisci o non la capisci. Ma dato che l’alternativa di lasciare il detto non spiegato è forse peggio, proverò a spiegarlo. Il cavallo è uno stato dell’essere desiderabile, associato alla grazia ed alla velocità. Il ciuco o l’asino è un lento animale da soma, oggetto di beffe. Probabilmente la maggior parte di noi preferirebbe essere un cavallo piuttosto che un asino. So che lo vorrei anche io. E noi immaginiamo o speriamo che la psicoanalisi possa far accadere una simile trasformazione. Ma se stiamo guardando al futuro, all’arrivo dell’idealizzato cavallo ed alla partenza del maledetto asino, stiamo guardando nel posto sbagliato. Il messaggio dell’aforisma è che l’asino è già il cavallo, per così dire. Se ciò è vero, perché intraprendere un trattamento/cammino psicoanalitico? Questo è il paradosso con cui siamo alle prese. Questo è il paradosso dell’accettazione.

 

Secondo il punto di vista buddhista, la vita è inevitabilmente connessa alla sofferenza –malattia, perdita, dolore, morte e così via. Ma il problema non è questa sofferenza. Il problema è il tentativo di evitarla. Come sottolinea Freud, la psicoanalisi non elimina la sofferenza. Trasforma la sofferenza isterica in infelicità ordinaria.

A questo punto è intrigante il fatto che ci sia una sorta di parallelismo con il pensiero di Freud a proposito di questo argomento, nel senso che Freud enfatizza l’importanza di rinunciare ai propri sforzi istintivi e di riconoscere l’impossibilità di vivere una vita secondo il principio del piacere. Secondo Freud, le persone hanno bisogno di riconoscere le loro illusioni e fantasie come sforzi infantili ed imparare a vivere la propria vita secondo il principio di realtà. Così, sia in Freud che nel primo Buddhismo (ed anche in filoni importanti del Buddismo contemporaneo) il problema è il desiderio. E la discussione verte su che cosa fare con il nostro desiderio, dato dal fatto che verrà inevitabilmente disatteso, e (come credeva Freud) e che l’istinto è in conflitto con la civilizzazione.

Ora, io voglio contraddire una prospettiva post-freudiana di ciò che viene riferito come il problema del desiderio con i successivi sviluppi nel pensiero Buddhista. Ed inoltre, al fine di limitare il mio obiettivo, mi focalizzo sulla psicoanalisi americana, ed in particolare sulla psicoanalisi di relazione. Nella psicoanalisi contemporanea c’è stato un allontanamento  dall’enfasi di Freud sulla rinuncia agli sforzi istintivi e la sostituzione della fantasia e dell’illusione con la razionalità. Il mutamento è avvenuto verso la creazione di un significato personale e la rinascita di sé.

 

 

 Vittorio Lingiardi: <<Alleanza, interventi del terapeuta, interazioni collaborative>>

    


 
L'alleanza terapeutica è uno dei concetti più controversi della clinica psicoanalitica e uno dei fattori più studiati nella ricerca sull'efficacia della psicoterapia. In ambito clinico, il dibattito si è svolto soprattutto attorno all’utilità di distinguere i concetti di alleanza, transfert e relazione reale. Indicata dai ricercatori empirici come “fattore comune” delle diverse forme di trattamento, e descritta da Bordin come costrutto panteorico tridimensionale – legame (bond), obiettivi (goals), compiti (tasks) – l’alleanza è considerata una delle principali variabili che influenzano l’outcome della psicoterapia. Dopo un primo periodo (1912-1965) di teorizzazioni psicoanalitiche basate su singoli casi clinici e una seconda fase (1970-2000) caratterizzata dalla costruzione e dall'impiego di strumenti di valutazione ad hoc, siamo oggi in una terza fase dello studio dell'alleanza, segnata dall'approfondimento delle sue dinamiche relazionali, in particolare gli episodi di rottura e riparazione. Questo approccio rinforza una visione dell’alleanza come qualità oscillante della relazione (a volte più un fine che un mezzo della cura) e dell’impasse terapeutica come finestra sul mondo intersoggettivo di paziente e terapeuta. Integrando il modello di risoluzione delle rotture dell’alleanza elaborato da Safran e Muran con gli studi sulla regolazione affettiva e i principi di salienza sviluppati da Beebe e Lachmann, è possibile avviare una riformulazione del concetto di alleanza come espressione del tentativo di stabilire una regolazione reciproca ottimale.

L'alleanza terapeutica è uno dei fattori più studiati nell'ambito della ricerca sull'efficacia della psicoterapia. Dopo un primo periodo (1912-1965) di teorizzazioni psicoanalitiche (a partire dal “transfert positivo irreprensibile” di Freud, 1912a, 1912b) e un secondo periodo (1970-2000) dominato dalla ricerca empirica e dalla costruzione di strumenti di valutazione ad hoc, siamo da poco entrati in una terza fase dello studio sull'alleanza, caratterizzata dallo studio delle sue dinamiche relazionali, in particolare degli episodi di rottura e riparazione.

Per prima cosa sarebbe utile fornire una definizione, almeno una delimitazione concettuale, non gergale, che possa servire da punto di partenza, di ispirazione e naturalmente di dissenso. Per esempio, potremmo operativamente affermare con Bordin (1975, 1979), il padre del cosiddetto “approccio panteorico” al concetto di alleanza, che “alleanza terapeutica” è una formula per indicare una dimensione interattiva riferita alla capacità di paziente e terapeuta di sviluppare una relazione basata sulla fiducia, il rispetto e la collaborazione e finalizzata ad affrontare i problemi e le difficoltà del paziente. Si tratta di una definizione poco contestabile, ma troppo preliminare e rassicurante, che ci spinge a un’ulteriore ricerca più calata nella dimensione clinica.

Sono stati pubblicati più di duemila articoli sull’alleanza terapeutica, di taglio clinico, teorico, empirico – è chiaro che il titolo scelto da Safran (2003) per uno dei suoi ultimi contributi, “The relational turn, the therapeutic alliance and psychotherapy research: Strange bedfellows or postmodern marriage?”, non è solo un divertissement.

Una domanda ricorrente è se i pazienti hanno una relazione (il transfert) o più relazioni (transfert, co-transfert, alleanza terapeutica, alleanza di lavoro, relazione reale) con l’analista. Sul modello dell’approccio inclusivista agli obblighi binari di “unicità-molteplicità” o “continuità-discontinuità” del Sé, si potrebbe rispondere che paziente e terapeuta hanno sempre una relazione, che è però una miscela complessa di vari elementi: alcuni relativamente stabili, altri cangianti nel tempo; alcuni interpretabili, altri da considerare elementi di condivisione della realtà; alcuni riconducibili a un’idea di “resistenza” come opposizione, altri da leggere come impasse terapeutiche, spesso trasformative; alcuni “portati” dal paziente e dalla sua storia personale e clinica, altri “co-creati” nella relazione (per esempio, tratti della personalità vs co-costruzioni intersoggettive); alcuni più legati alle tecniche, ai compiti e agli obiettivi della terapia, altri più imprevisti e legati al campo transizionale e agli specifici personologici; alcuni simili nei diversi contesti terapeutici (il “fattore comune”), altri specifici del tipo di trattamento in corso.

Infine, ricordiamoci che l’alleanza non va necessariamente considerata un pre-requisito della relazione terapeutica. Anzi, più che un mezzo, spesso l’alleanza terapeutica è un fine.

 

In sintesi: dopo un primo periodo di teorizzazioni psicoanalitiche e dibattiti su transfert e alleanza (tra gli altri, Sterba, 1934; Zetzel, 1956; Greenacre, 1959; Stone, 1961; Greenson, 1965; Brenner, 1979), e una seconda fase dominata dalla ricerca empirica e dalla costruzione di strumenti di valutazione, siamo entrati in una terza fase, caratterizzata dall’approfondimento delle dinamiche cliniche dell’alleanza. Il lavoro di alcuni, tra cui spicca il nome di Safran (autore nato in ambito cognitivista e oggi appartenente al gruppo relazionale-intersoggettivista newyorkese) ha cambiato il modo di guardare all'alleanza terapeutica. Non più qualcosa di statico, che c'è o non c'è, ma una dimensione dinamica e cangiante. Non solo un mezzo, ma anche un fine. Non sempre un ostacolo, ma spesso un fattore di cambiamento. Uno dei costrutti che meglio illumina l’interdipendenza inevitabile tra fattori specifici e non-specifici della psicoterapia. Una tensione intersoggettiva le cui rotture, se seguite da risoluzioni e elaborazioni adeguate, favoriscono lo sviluppo positivo della relazione terapeutica.

Il confronto tra i modelli di Safran e Muran (negoziazione intersoggettiva, rottura e riparazione, agentività e relazionalità) e di Beebe e Lachmann (equilibrio intermedio, principi di salienza) può aiutarci a formulare ipotesi cliniche utili sull’azione terapeutica di una buona alleanza di lavoro. Rispetto alle formulazioni delle origini, questo ripensamento del concetto di alleanza sembra più in accordo con l’idea di processo terapeutico che emerge dall’approccio relazionale-intersoggettivo contemporaneo. Lo sviluppo di una relazione terapeutica dove l’alleanza è vista come una negoziazione dinamica tra due soggettività, ci spinge inevitabilmente a decostruire l’idea di una psicoterapia schematicamente basata su obiettivi e compiti predefiniti e unilaterali, e ci aiuta a ricomporre l’artificiosa separazione tra elementi tecnici ed elementi relazionali della terapia.

 

 

 

 Salvatore Freni : <<Psicoanalisi tra arte, scienza, religione>>

   

Il dilagare del bisogno di spiritualità, che si traduce nell'enorme diffusione di pratiche religiose e meditative tradizionali e nuove, sette di vario genere, uso di sostanze o di situazioni particolarmente stressanti per ricercare l'accesso a stati di coscienza fuori dall'ordinario, è una caratteristica molto evidente della società contemporanea. Forse risponde all'esigenza di far fronte alla vacuità e mancanza di significato delle relazioni d'uso, promosse in modo violento dal consumismo esasperato e con tutte le sofisticate, talora apertamente perverse, tecniche di propaganda del Mercato e della Tecnologia, i nuovi Golem. Tutto ciò espone gli individui al rischio grave di non saper differenziare l'autenticità del percorso formativo, proposto dalla psicoanalisi e dalle pratiche meditative sostenute da metodi ben collaudati, dalla illusoria ricerca di false realizzazioni in esperienze di esaltazione visionaria, indotta da gruppi e sette, più o meno satanici, o da eccitamenti variamente provocati. A ciò va aggiunto il fatto, spesso sottovalutato, che viviamo, ci piaccia o no, in un mondo condizionato da millenni di religioni, sempre in guerra tra loro, con l'inevitabile conseguenza di non poter discriminare in ciascuna di esse la dimensione dell'autenticità da quella dell'inautenticità, quella della mistica da quella del potere . Anche le ideologie e le sperimentazioni di organizzazione del vivere, laiche e materialiste, sono di fatto fallite forse perché hanno sottovalutato o interpretato in modo superficiale l'incidenza del fattore mistico nell'umano. La stessa psicoanalisi, che Rolland avrebbe voluto come "scienza-religione", a causa del legato freudiano di ateismo e razionalismo radicali, ha sottovalutato l'aspetto mistico insito nella dialettica conscio/inconscio, nella sua struttura bi-logica. Quasi tutti gli studiosi, non psicoanalisti, di mistica dichiarano la propria insoddisfazione verso Freud perché ha confuso le religioni e i riti religiosi con l'istanza mistica ubiquitaria degli umani ( anche, e talora soprattutto, dei "non credenti") riducendo tutto a semplice patologia. Molti di essi, però, non prendono in esame il pensiero di Bion, di Winnicott. Credo infatti che dobbiamo a personaggi come Bion, Winnicott, Lacan, la seria riconsiderazione della questione della mistica psicoanalitica; da alcuni anni, soprattutto in ambiente americano e inglese, numerosi psicoanalisti, di indubbio valore scientifico, propongono originali modi di applicare nella clinica e nell'elaborazione teorica la dimensione mistica della psicoanalisi e la sua apertura verso l'integrazione con la pratica della meditazione del buddhismo. Penso che all'analista, mistico laico, che opera nel mondo, potrebbe bastare sviluppare uno stato di coscienza mistica dualistica, cercando di realizzare il più possibile l'essere all'unisono all'interno della protettiva sacralità del setting e in particolari momenti della sua vita quotidiana, mentre si mantiene aperto al mondo in modo attivo e interessato; realizzare questa condizione di continua, se possibile pacifica, tensione dialettica tra due anime implica una strutturazione epistemologica della mente che richiede consapevolezza profonda di Sé e assunzione di responsabilità del proprio essere nel bene e nel male.

Ho dovuto per questa relazione ricorrere allo studio di testi specifici, all'aiuto di studiosi esperti ( voglio qui citare e ringraziare particolarmente: Marco Vannini, ritenuto in Italia uno tra i maggiori studiosi di Meister Eckhart, avendone curato l'edizione italiana di quasi tutte le opere; Anthony Molino, antropologo e psicoanalista italo-americano ora residente in Italia, che ha pubblicato due libri dove è ampiamente trattato il rapporto tra psicoanalisi e buddhismo, tema in continua crescita nell'ambiente psicoanalitico americano e inglese; Corrado Pensa, docente di Religioni Orientali all'Università "La Sapienza" di Roma) e alla partecipazione a convegni ( ad es. Mistica, Oggi. Firenze 23 ottobre 1999). Anche la letteratura psicoanalitica e, ancor più, quella psicologica, contrariamente a quanto si pensa comunemente, sono molto ricche di titoli che propongono la questione del rapporto tra mistica e psicoanalisi; tuttavia persistono ancora elementi di confusione tra la dimensione "mistica" dell'essere umano in quanto tale, la fenomenologia dell'esperienza mistica e l'espressione di credenze e riti delle diverse religioni tradizionali e delle cosiddette "nuove religioni" ( New Age, Next Age ecc.). Poiché in questa prima presentazione del mio lavoro, l'obiettivo predominante è quello di delimitare il campo concettuale e pratico in cui situare la questione del rapporto tra mistica e psicoanalisi o, meglio, la questione di una mistica psicoanalitica come dice Eigen (1998), ho rinunciato a cercare in modo accurato la bibliografia esistente, facendo una scelta di campo tra gli studi che ho potuto consultare o che mi sono apparsi interessanti. Pertanto mi scuso con i colleghi italiani che hanno scritto su questi argomenti e mi impegno fin d'ora a riguardare la letteratura esistente nelle successive elaborazioni di questo tema che mi sembra di straordinario interesse scientifico e fascino intellettuale oltre che estetico. In particolare penso all'opera di Davide Lopez e alla sua teorizzazione della Persona e dell'Etica della Persona e alle sue connessioni con il significato simbolico del fato e delle divinità greche e con le figure di Buddha, di Zarathustra e dell'oltre-uomo nietzschiano. Fondamentale è stato per me il testo del lavoro di Emmanuel Ghent (1990) molto interessante per la diagnostica differenziale tra l'abbandono, la resa, l'arrendevolezza del meditante e/o del mistico e la sottomissione e il masochismo inteso come una perversione della rinuncia, del distacco, del non attaccamento del sannyn ( il rinunciante ); temi che verranno chiariti per la forte analogia con lo stato mentale richiesto all'analista nella realizzazione del suo setting mentale e all'analizzante allorché si abbandona fiduciosamente all'esperienza e alla relazione psicoanalitiche rinunciando coraggiosamente alla sua corazza difensiva, accettando con pari disposizione e tolleranza la gioia e il dolore connessi all'esplorazione autentica dell'ignoto e all'esposizione, talora disturbante e terrorizzante, al vuoto.

 

 

 

 

Anthony Molino: <<Zen, Lacan  e l’Io alieno              >>                                                                                                  

Psicoanalisi e buddismo (Cortina, 2001), la versione italiana dell'importante testo originariamente curato in inglese da Anthony Molino (titolo originale: The Couch and the Tree: Dialogues in Psychoanalysis and Buddhism) risulta purtroppo sprovvista di una folta serie di preziosi contributi, scritti tra il 1924 e il 1979, che costituiscono un vero e proprio scrigno per chi volesse capire la storia dei rapporti fra le due discipline. Perchè di storia si tratta, ormai quasi secolare, che conta la partecipazione di nomi illustri quali Alexander, Fromm, Suzuki, Jung, Hisamatsu, Watts, e di altri personaggi meno noti ma non per questo meno essenziali. Partendo dalla genesi di questo mio progetto di ricerca confluito in The Couch and the Tree,  cercherò di offrire una panoramica storica sull'intreccio vitale, che oggi riaffiora in modo tanto vigoroso, fra psicoanalisi e buddismo; passerò quindi ad affrontare un aspetto particolare di tale intreccio, dedicato a Lacan.

Nel corso degli anni alcuni psicoanalisti hanno espresso un certo interesse per il buddhismo zen  intraprendendo un lavoro comparativo mirato soprattutto a integrare gli aspetti dello zen con la loro teoria e pratica. Quel che sembra mancare a questa ricerca, però, è il tentativo di confrontare i principi teorici specifici dello zen e della psicoterapia orientale in quanto riflettono e forniscono spiegazioni differenti della condizione umana. A mio avviso un genuino confronto tra questi due sistemi può favorire l’indagine circa i principi metafisici e i presupposti metapsicologici sui quali entrambi si fondano. In ogni caso occorre considerare la distanza che intercorre dall’immagine unificata offerta dalla psicoanalisi, come pure dalla tradizione buddhista che abitualmente rifugge da chiarimenti intellettuali, concettuali o analitici dei suoi intenti e della sua visione del mondo. A tal fine, vorrei focalizzare l’attenzione su due figure singolari i cui scritti, benché non appartengano alla corrente principale dello zen o della psicoanalisi, rendono ciò nonostante possibile il fertile confronto a cui penso.

Se si guarda alla psicoanalisi, gli autori contemporanei hanno notato, di passaggio, una certa somiglianza – almeno di “stile – tra Jacques Lacan e la persona allusiva e beffarda del Maestro zen. Ma al di là di ogni divertente e facile analogia tra la seduta breve di Lacan e il colpo del Maestro sulla testa annebbiata del discepolo, o il meditare sui nodi e la natura del Buddha, quasi nessun lavoro interdisciplinare di natura teorica ha esplorato i legami tra il pensiero di Lacan e lo zen.

Parimenti, una notevole eccezione alla proverbiale avversione del buddhismo zen per una sistematizzazione della propria teoria è rappresentata dal lavoro pionieristico, ma spesso trascurato, di Richard De Martino. Studioso, collega, traduttore e inteprete di luminari come D.T. Suzuki e Shin’ichi Hisamatsu, De Martino è una figura fondamentale nella trasposizione postbellica dello zen sul suolo americano. Se è vero, come hanno indicato Polly Young-Eisendrath e altri, che una delle forze del buddhismo è la sua flessibilità all’adattamento culturale, il tentativo di De Martino di elaborare la teoria della concezione zen della condizione umana può essere considerato come un momento essenziale nella lenta internalizzazione da parte dell’Occidente di una filosofia esperienziale un tempo aliena. Inoltre, nella storia del dialogo tra Oriente e Occidente, De Martino fu molto più che uno mero promotore i cui sforzi permisero di riunificare Maestri zen e teologi, filosofi e psicoanalisti. Mi preme dire che, mentre i suoi scritti riflettono indubitabilmente una comprensione idiosincratica dello zen, essi illuminano anche un clima intellettuale post-bellico in cui psicoanalisi ed esistenzialismo divennero i veicoli occidentali privilegiati per confrontarsi con l’Altro buddhista. È questo aspetto del lavoro di De Martino che vorrei evidenziare. Difatti, mi sembra che la sua visione dell’alienazione come una espressione trans-storica della natura umana sia positivamente contenuta – per una sorta di sincronicità transculturale – negli scritti di Lacan.

In breve, chiamiamo io il nucleo dato all’inconscio, opaco alla riflessione, segnato da tutte le ambiguità che […] strutturano l’esperienza delle passioni nel soggetto umano; questo “io” che, pur di confessare la sua fatticità alla critica esistenziale, oppone la sua irreducibile inerzia di pretese e méconnaissances alla problematica concreta della realizzazione del soggetto. (Jacques Lacan)

La posizione corretta del buddhismo zen è che il cuore di tutti i problemi o delle paure dell’uomo comune sta nel non avanzare stabilmente nel terreno del proprio essere come autentico soggetto-ego. In quest’ottica, di conseguenza, se l’uomo comune non riesce a conoscere – o a essere – veramente se stesso, allora la radice di tutti i suoi problemi e paure non verrà estirpata. (Richard De Martino)

Come mostrano le citazioni qui riportate, la questione dell’alienazione onto-esistenziale, o “inautenticità”, è centrale sia per Lacan che per lo zen. Per entrambi, l’individuo è scisso, intrappolato nelle maglie di un dualismo soggetto-oggetto onnipervasivo (zen) o scisso – per via dei processi di maturazione specie-specifici – dal soggetto assoluto e dal Reale dell’inconscio. In entrambi i casi, si ha una rottura primordiale con uno stato “naturale” inifferenziato. Quel che è sorprendente, comunque, è trovare nel lavoro di un pensatore come De Martino un riferimento a una fase maturazionale normativa nel corso della quale la realtà onto-esistenziale dell’Io, e il suo conseguente dualismo, vengono istituiti:

Questa norma [della] coscienza dell’ego […] in genere, appare in primo luogo, fra l’età di due e e quella di cinque anni […]. Trascurando, per il momento qualsiasi considerazione fenomenologica degli esordi e dello sviluppo di tale coscienza […].2

A mio avviso Lacan ci fornisce un qualche cenno di tutto ciò. Attraverso la sua concettualizzazione dello stadio dello specchio, infatti, possiamo individuare una base stabile di confronto per due delle più forti critiche esistenti al bastione occidentale dell’identità di sé nota come Io; entrambe, inoltre, sono plasmate da una lettura essenziale se non fondativa delle tesi di Hegel sulla relazione Servo-Padrone e la genesi della soggettività.

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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