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    "IT IS DIFFICULT"

 

Allo "Hangar Bicocca" ed allo "Spazio Oberdan" a Milano una mostra di Alfredo Jaar.

 

 

 Recensione di Giuseppe Leo

La mostra è stata visitata il 18 ottobre 2008.
   Foto: Alfredo Jaar


 

 

 

 

 

Un tempo sospeso sembra attorniare lo "Hangar Bicocca", una delle sedi della mostra "It is difficult" di Alfredo Jaar: un tempo sospeso tra era industriale ed era post-industriale, tra capannoni relitti di de-localizzazioni produttive e  desertificazioni di un tessuto metropolitano oramai esiliato da sé. Non poteva esserci scenario più indovinato per ambientare una mostra, dagli interrogativi così pressanti, come quella che è dedicata all'artista di origine cilena, fuggito nel   1982 dalla dittatura militare di Pinochet per scegliere l'esilio negli Stati Uniti. Il confronto dell'arte con la testimonianza di chi è sopravvissuto ai genocidi (come quello rwandese, al centro di "The Rwanda Project"), o dei "boat people" vietnamiti (in ""Untitled [Water]", 1990), o delle vittime dell'"apartheid"(come in "Lament of the Images", 2002) è al centro dell'opera di Jaar.

All'ingresso dello "Hangar Bicocca" dei pannelli sembrano altrettante pressanti richieste fatte  al visitatore : <<Alla ricerca della cultura a Milano>>, <<Cos'è la cultura?>>, <<Alla ricerca di Gramsci a Milano>>, <<La cultura fa volare l'Italia?>>... Proprio a Gramsci Jaar aveva dedicato una delle sue opere più famose "In  step with Gramsci".

Nello "Hangar Bicocca" i contrasti si fanno stridenti, anche in termini di luci accecanti che sembrano fendere spazi bui, pieni di luttuoso silenzio. La luce è fredda e chiassosa come in "A Logo for America" (1987) oppure calda e muta come in " The Sound of Silence"(2006). Quest'ultima installazione è un grande ambiente/stanza al cui interno c'è uno schermo ed all'esterno una parete di neon. Per entrarvi bisogna attendere che un segnale da rosso diventi verde. Una volta entrati si assiste ad un video di otto minuti in cui scorrono le frasi in bianco con la storia del fotografo sudafricano Kevin Carter, autore di una foto scioccante realizzata in Sudan nel 1993, raffigurante una bambina denutrita e vicina alla morte che arranca a quattro zampe, scortata da un avvoltoio che attende la sua fine. Carter vinse il Premio Pulitzer per questa foto, ma pochi mesi dopo si tolse la vita, oppresso dalle accuse di non aver aiutato la bambina a sopravvivere. Un momento prima che compaia la foto si viene accecati da potenti flash. <<I media sono diventati un business come un altro>> scrive Jaar.

"Untitled (Water)"  del 1990 è costituita da 6 "lightbox"  all'interno delle quali sono inserite fotografie con scorci di mare nella baia di Hong Kong, dove, negli anni '80, approdavano gli esuli vietnamiti, i "boat people". Nell'installazione, di fronte a questi scorci marini trenta specchi riflettono i volti di questi esuli disperati. Realizzati dall'artista durante le due settimane trascorse nei centri di detenzione di Hong Kong, questi ritratti si mostrano a noi in modo frammentario, cambiando secondo la posizione dell'osservatore. Il dispositivo del doppio riflesso rinvia ad una dicotomia tra Sé e non Sé, tra Sé ed Altro da Sé.

In "Lament of the Images" (2002)  Jaar denuncia, mediante tre testi trascritti nella prima parte dell'ambiente <<l'impossibilità di vedere la realtà al di fuori dei media>> ( due testi parlano di Bill Gates ed il terzo del controllo delle immagini da parte del Pentagono), mentre il secondo ambiente, in cui uno schermo luminoso, quasi accecante, sembra suggerire un senso di cecità, uno shock che trasforma il sapere legato alle parole nell'esperienza di quello che le parole cercano di mostrarci.

In "Geography= War" (1991) si fa riferimento al traffico di rifiuti tossici tra Italia e Nigeria. Di questo scandalo, scoppiato nel 1987, Jaar dà testimonianza recandosi sul posto e documenta le scene dei bambini nigeriani che giocano sul terreno contaminato, sulle migliaia di barili colmi di rifiuti. Nell'installazione questi barili sono colmi di un liquido nero su cui dei proiettori diffondono le immagini di questa infanzia violata.

In "Introduction to a distant world" (1985) vengono presentati due tipi di documenti contrastanti: da un lato una alternanza di primi piani sui volti dei minatori di Serra Pelada (Brasile), i loro passi cadenzati, i loro gesti muti, dall'altro scritte contenenti il prezzo dell'oro nelle varie borse mondiali. La videocamera inquadra da vicino i corpi dei minatori, alcuni visibilmente in età adolescenziale: scavano incessantemente alla ricerca dell'oro, setacciano liquidi torbidi e maleodoranti, indossano laceri vestiti impregnati di sudore e di polvere.

Mentre osservavo le immagini dei ragazzini scalzi che salivano un irto pendio carichi dei loro sacchi di fango, due bambini, ignari spettatori dell'installazione, giocavano nello spazio antistante lo schermo, conferendo alla mia visione un senso di "happening" imprevisto, il senso di un' inconciliabilità tra il nostro mondo e quel mondo.

Quel mondo dei minatori del Brasile è al centro anche di "Out of Balance" (1989): sei "lightbox" sono appesi al muro e su ciascuna di esse appare il viso sporco di fango di un minatore. L'estrapolare questi volti fuori dal loro contesto ci fa pensare a come i media possano rendere questi lavoratori visibili oppure invisibili, immagini spesso marginalizzate dai rotocalchi e dalle trasmissioni TV.

"Emergencia" (1998) è una grande installazione costituita da un grande bacino nero, una sorta di piscina colma d'acqua, in cui si riflettono l'architettura della sede espositiva ed i corpi dei visitatori che si chinano ad osservarla. A intervalli regolari, dall'acqua emerge lentamente una sagoma, quella del continente africano che resta visibile per qualche secondo prima di tornare ad immergersi.  Ancora il ruolo dei riflettori mediatici sembra essere suggerito da questo periodico eclissarsi ed emergere dell'Africa dalla nostra storia e dalla nostra consapevolezza civile.

In una sua intervista del 2005, pubblicata su "Art Journal" e significativamente intitolata <<L'estetica della testimonianza>>, Jaar esplicita questa intima connessione tra estetica ed etica che anima l'intera sua opera artistica.

Nel 1994, poche settimane dopo l'esplosione in Rwanda di un genocidio che costò la vita a quasi un milione di persone, Jaar si recò nei luoghi dei massacri, dove raccolse, in un mese di permanenza, interviste, testimonianze e migliaia di fotografie.

 

Da quell'esperienza nacque il "Rwanda Project", di cui nello Spazio Oberdan è dato ammirare 4 opere ("The Eyes of Gutete Emerita", "Embrace", "Field, Road, Cloud" e "Epilogue"). In "The Eyes of Gutete Emerita" (installazione realizzata nel 1996) lo spazio si apre su un immenso tavolo luminoso, coperto da una montagna di diapositive. Ognuna di esse mostra la stessa inquadratura, gli occhi di una donna inquadrati da molto vicino. Una donna testimone oculare di qualcosa che non vedremo rappresentato, di qualcosa che non abbiamo visto, ma testimone il cui sguardo si rivolge a noi chiamandoci. Il milione di diapositive che riproducono lo stesso sguardo testimonia l'unicità di Gutete Emerita, di ciascun individuo, unicità che invece l'ideologia genocidaria ha voluto sopprimere. L'opera ha alla base una metonimia ( un solo sguardo per un milione di cadaveri), ma anche una metafora (il dolore estremo, intollerabile ed inesprimibile è quello associato ai ricordi di quell'unico individuo, che moriranno insieme a colui che li porta).

Anche in "Embrace" (1996) noi non vediamo immagini che si riferiscono al genocidio rwandese. Esso è stato già compiuto: c'è una sequenza di quattro immagini che ritraggono di spalle due ragazzini stretti in un abbraccio, lasciandoci indovinare la tragicità dell'evento che ci resta precluso. Non sappiamo a cosa abbiano assistito, ma le immagini testimoniano l'orrore e la necessità di farsi forza reciprocamente.

In "Field, Road, Cloud", un'installazione del 1997, si alternano tre "lightbox" con fotografie di splendidi paesaggi africani. L'amenità dei luoghi sembra invitarci alla contemplazione, ma gli appunti di Jaar che vengono abbinati alle immagini ci parlano dei luoghi dei massacri,  avvenuti proprio lì poco tempo prima. La calma che regna in quei posti è quella della gelida morte, un immensa domanda "perché?" aleggia su quella calma inquietante, e lo splendore della natura sembra soffocato da grida di dolore.

"Epilogue", video girato nel 1998, mostra il volto dolente di un'anziana donna rwandese che sembra affiorare e ritirarsi, così come sono a volte sfuggenti a volte ossessivi, sembra suggerire l'artista,  i ricordi traumatici legati al genocidio.

Dopo il "Rwanda Project", Jaar ha lavorato più volte in Africa, in particolare in Angola ( a cui ha dedicato un'altra opera visibile nello Spazio Oberdan, "Muxima"), ma anche in Sudafrica, in Namibia, in Nigeria. Come ha dichiarato nella già citata intervista, mentre era in Angola, scoprì che esistevano ben 6 versioni della stessa canzone, chiamata "Muxima"). <<Nell'ascoltare tutte le versioni della canzone>> ha affermato <<mi resi conto che esse erano state registrate in epoche differenti della storia dell'Angola. Ascoltandole, potevo praticamente visualizzare la storia recente dell'Angola: il colonialismo, l'indipendenza, la guerra civile, le mine anti-uomo, l'Aids, e così via>>. E nella stessa intervista Jaar prosegue illustrando il proprio modo di lavorare:<<Comincio a leggere ed a ricercare.  In questo caso, ho seguito la storia dell'Angola come parte di un mio più ampio interesse nel comprendere la storia dell'Africa. Ero a conoscenza della guerra civile e dell'emergenza AIDS. Ero anche perfettamente consapevole degli sviluppi nei mercati del petrolio e dei diamanti. Ma fu andando laggiù, parlando con la gente, e vedendo l'Angola coi miei occhi che iniziai a concepire la possibilità di un breve film. Al mio primo viaggio non feci nessun film. Feci comunque delle fotografie ai luoghi che pensavo potessero essere delle "locations" per il film. E poi iniziai a lavorare su una possibile sceneggiatura>>.

Nello "Hangar Bicocca", una volta entrati, è perturbante la coabitazione, nello stesso spazio, delle torri dei "Sette Palazzi Celesti" (in quella sede dal 2004) con le installazioni di Jaar.

 

Di primo acchitto sembra stridente il contrasto tra il pensiero mistico che sta dietro le torri e la poetica cruda della testimonianza delle opere di Jaar. Ma lo spettatore è attratto dalla possibilità di un rapporto forse insondabile tra questi due mondi artistici, di un tramite che l'uomo può trovare nella spiritualità, per trovare quell'abbraccio (come in "Embrace") che gli dia la forza di andare avanti, di non soccombere di fronte all'odio ed alle ideologie che ne fanno il loro vessillo.

 

 

 

        

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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