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Un tempo sospeso
sembra attorniare lo "Hangar Bicocca", una delle sedi della mostra "It
is difficult" di Alfredo Jaar: un tempo sospeso tra era industriale ed
era post-industriale, tra capannoni relitti di de-localizzazioni
produttive e desertificazioni di un tessuto metropolitano oramai
esiliato da sé. Non poteva esserci scenario più indovinato per
ambientare una mostra, dagli interrogativi così pressanti, come quella
che è dedicata all'artista di origine cilena, fuggito nel
1982 dalla dittatura militare di Pinochet per scegliere l'esilio negli
Stati Uniti. Il confronto dell'arte con la testimonianza di chi è
sopravvissuto ai genocidi (come quello rwandese, al centro di "The
Rwanda Project"), o dei "boat people" vietnamiti (in ""Untitled
[Water]", 1990), o delle vittime dell'"apartheid"(come in "Lament of
the Images", 2002) è al centro dell'opera di Jaar.
All'ingresso dello "Hangar Bicocca"
dei pannelli sembrano altrettante pressanti richieste fatte al
visitatore : <<Alla ricerca della cultura a Milano>>, <<Cos'è la
cultura?>>, <<Alla ricerca di Gramsci a Milano>>, <<La cultura fa
volare l'Italia?>>... Proprio a Gramsci Jaar aveva dedicato una delle
sue opere più famose "In step with Gramsci".
Nello "Hangar Bicocca" i contrasti
si fanno stridenti, anche in termini di luci accecanti che sembrano
fendere spazi bui, pieni di luttuoso silenzio. La luce è fredda e
chiassosa come in "A Logo for America" (1987) oppure calda e muta come
in " The Sound of Silence"(2006). Quest'ultima installazione è un
grande ambiente/stanza al cui interno c'è uno schermo ed all'esterno
una parete di neon. Per entrarvi bisogna attendere che un segnale da
rosso diventi verde. Una volta entrati si assiste ad un video di otto
minuti in cui scorrono le frasi in bianco con la storia del fotografo
sudafricano Kevin Carter, autore di una foto scioccante realizzata in
Sudan nel 1993, raffigurante una bambina denutrita e vicina alla morte
che arranca a quattro zampe, scortata da un avvoltoio che attende la
sua fine. Carter vinse il Premio Pulitzer per questa foto, ma pochi
mesi dopo si tolse la vita, oppresso dalle accuse di non aver aiutato
la bambina a sopravvivere. Un momento prima che compaia la foto si
viene accecati da potenti flash. <<I media sono diventati un business
come un altro>> scrive Jaar.
"Untitled (Water)" del 1990 è
costituita da 6 "lightbox" all'interno delle quali sono inserite
fotografie con scorci di mare nella baia di Hong Kong, dove, negli
anni '80, approdavano gli esuli vietnamiti, i "boat people".
Nell'installazione, di fronte a questi scorci marini trenta specchi
riflettono i volti di questi esuli disperati. Realizzati dall'artista
durante le due settimane trascorse nei centri di detenzione di Hong
Kong, questi ritratti si mostrano a noi in modo frammentario,
cambiando secondo la posizione dell'osservatore. Il dispositivo del
doppio riflesso rinvia ad una dicotomia tra Sé e non Sé, tra Sé ed
Altro da Sé.
In "Lament of the Images" (2002)
Jaar denuncia, mediante tre testi trascritti nella prima parte
dell'ambiente <<l'impossibilità di vedere la realtà al di fuori dei
media>> ( due testi parlano di Bill Gates ed il terzo del controllo
delle immagini da parte del Pentagono), mentre il secondo ambiente, in
cui uno schermo luminoso, quasi accecante, sembra suggerire un senso
di cecità, uno shock che trasforma il sapere legato alle parole
nell'esperienza di quello che le parole cercano di mostrarci.
In "Geography= War" (1991) si fa
riferimento al traffico di rifiuti tossici tra Italia e Nigeria. Di
questo scandalo, scoppiato nel 1987, Jaar dà testimonianza recandosi
sul posto e documenta le scene dei bambini nigeriani che giocano sul
terreno contaminato, sulle migliaia di barili colmi di rifiuti.
Nell'installazione questi barili sono colmi di un liquido nero su cui
dei proiettori diffondono le immagini di questa infanzia violata.
In "Introduction to a distant world"
(1985) vengono presentati due tipi di documenti contrastanti: da un
lato una alternanza di primi piani sui volti dei minatori di Serra
Pelada (Brasile), i loro passi cadenzati, i loro gesti muti,
dall'altro scritte contenenti il prezzo dell'oro nelle varie borse
mondiali. La videocamera inquadra da vicino i corpi dei minatori,
alcuni visibilmente in età adolescenziale: scavano incessantemente
alla ricerca dell'oro, setacciano liquidi torbidi e maleodoranti,
indossano laceri vestiti impregnati di sudore e di polvere.
Mentre osservavo le immagini dei
ragazzini scalzi che salivano un irto pendio carichi dei loro sacchi
di fango, due bambini, ignari spettatori dell'installazione, giocavano
nello spazio antistante lo schermo, conferendo alla mia visione un
senso di "happening" imprevisto, il senso di un' inconciliabilità tra
il nostro mondo e quel mondo.
Quel mondo dei minatori del Brasile
è al centro anche di "Out of Balance" (1989): sei "lightbox" sono
appesi al muro e su ciascuna di esse appare il viso sporco di fango di
un minatore. L'estrapolare questi volti fuori dal loro contesto ci fa
pensare a come i media possano rendere questi lavoratori visibili
oppure invisibili, immagini spesso marginalizzate dai rotocalchi e
dalle trasmissioni TV.
"Emergencia" (1998) è una grande
installazione costituita da un grande bacino nero, una sorta di
piscina colma d'acqua, in cui si riflettono l'architettura della sede
espositiva ed i corpi dei visitatori che si chinano ad osservarla. A
intervalli regolari, dall'acqua emerge lentamente una sagoma, quella
del continente africano che resta visibile per qualche secondo prima
di tornare ad immergersi. Ancora il ruolo dei riflettori
mediatici sembra essere suggerito da questo periodico eclissarsi ed
emergere dell'Africa dalla nostra storia e dalla nostra consapevolezza
civile.
In una sua intervista del 2005,
pubblicata su "Art Journal" e significativamente intitolata
<<L'estetica della testimonianza>>, Jaar esplicita questa intima
connessione tra estetica ed etica che anima l'intera sua opera
artistica.
Nel 1994, poche settimane dopo
l'esplosione in Rwanda di un genocidio che costò la vita a quasi un
milione di persone, Jaar si recò nei luoghi dei massacri, dove
raccolse, in un mese di permanenza, interviste, testimonianze e
migliaia di fotografie.
Da quell'esperienza nacque il "Rwanda
Project", di cui nello Spazio Oberdan è dato ammirare 4 opere ("The Eyes of Gutete Emerita", "Embrace", "Field, Road, Cloud" e "Epilogue").
In "The Eyes of Gutete Emerita" (installazione realizzata nel 1996) lo
spazio si apre su un immenso tavolo luminoso, coperto da una montagna
di diapositive. Ognuna di esse mostra la stessa inquadratura, gli
occhi di una donna inquadrati da molto vicino. Una donna testimone
oculare di qualcosa che non vedremo rappresentato, di qualcosa che non
abbiamo visto, ma testimone il cui sguardo si rivolge a noi
chiamandoci. Il milione di diapositive che riproducono lo stesso
sguardo testimonia l'unicità di Gutete Emerita, di ciascun individuo,
unicità che invece l'ideologia genocidaria ha voluto sopprimere.
L'opera ha alla base una metonimia ( un solo sguardo per un milione di
cadaveri), ma anche una metafora (il dolore estremo, intollerabile ed
inesprimibile è quello associato ai ricordi di quell'unico individuo,
che moriranno insieme a colui che li porta).
Anche in "Embrace" (1996) noi non
vediamo immagini che si riferiscono al genocidio rwandese. Esso è
stato già compiuto: c'è una sequenza di quattro immagini che
ritraggono di spalle due ragazzini stretti in un abbraccio,
lasciandoci indovinare la tragicità dell'evento che ci resta precluso.
Non sappiamo a cosa abbiano assistito, ma le immagini testimoniano
l'orrore e la necessità di farsi forza reciprocamente.
In "Field, Road, Cloud",
un'installazione del 1997, si alternano tre "lightbox" con fotografie
di splendidi paesaggi africani. L'amenità dei luoghi sembra invitarci
alla contemplazione, ma gli appunti di Jaar che vengono abbinati alle
immagini ci parlano dei luoghi dei massacri, avvenuti proprio lì
poco tempo prima. La calma che regna in quei posti è quella della
gelida morte, un immensa domanda "perché?" aleggia su quella calma
inquietante, e lo splendore della natura sembra soffocato da grida di
dolore.
"Epilogue", video girato nel 1998,
mostra il volto dolente di un'anziana donna rwandese che sembra
affiorare e ritirarsi, così come sono a volte sfuggenti a volte
ossessivi, sembra suggerire l'artista, i ricordi traumatici
legati al genocidio.
Dopo il "Rwanda Project", Jaar ha
lavorato più volte in Africa, in particolare in Angola ( a cui ha
dedicato un'altra opera visibile nello Spazio Oberdan, "Muxima"), ma
anche in Sudafrica, in Namibia, in Nigeria. Come ha dichiarato nella
già citata intervista, mentre era in Angola, scoprì che esistevano ben
6 versioni della stessa canzone, chiamata "Muxima").
<<Nell'ascoltare tutte le versioni della canzone>> ha affermato <<mi
resi conto che esse erano state registrate in epoche differenti della storia
dell'Angola. Ascoltandole, potevo praticamente visualizzare la storia
recente dell'Angola: il colonialismo, l'indipendenza, la guerra
civile, le mine anti-uomo, l'Aids, e così via>>. E nella stessa
intervista Jaar prosegue illustrando il proprio modo di
lavorare:<<Comincio a leggere ed a ricercare. In questo caso, ho
seguito la storia dell'Angola come parte di un mio più ampio interesse
nel comprendere la storia dell'Africa. Ero a conoscenza della guerra
civile e dell'emergenza AIDS. Ero anche perfettamente consapevole
degli sviluppi nei mercati del petrolio e dei diamanti. Ma fu andando
laggiù, parlando con la gente, e vedendo l'Angola coi miei occhi che
iniziai a concepire la possibilità di un breve film. Al mio primo
viaggio non feci nessun film. Feci comunque delle fotografie ai luoghi
che pensavo potessero essere delle "locations" per il film. E poi
iniziai a lavorare su una possibile sceneggiatura>>.
Nello "Hangar Bicocca", una volta
entrati, è perturbante la coabitazione, nello stesso spazio, delle torri
dei "Sette Palazzi Celesti" (in quella sede dal 2004) con le
installazioni di Jaar.
Di primo acchitto sembra stridente
il contrasto tra il pensiero mistico che sta dietro le torri e la
poetica cruda della testimonianza delle opere di Jaar. Ma lo
spettatore è attratto dalla possibilità di un rapporto forse
insondabile tra questi due mondi artistici, di un tramite che l'uomo
può trovare nella spiritualità, per trovare quell'abbraccio (come in "Embrace")
che gli dia la forza di andare avanti, di non soccombere di fronte
all'odio ed alle ideologie che ne fanno il loro vessillo.
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