Articoli tratti dal: Giornalino dei Colombani n° 14

Un uscio all'Aietta

Pochi giorni fa è accaduto un fatto che ha messo al lavoro la mia memoria richiamando immagini credute perse. Avevo lasciato aperta la porta del fondo dove un tempo lavoravano mio padre e mio zio, un minuscolo laboratorio artigiano come se ne potevano trovare altri a Terrinca, di calzolai, falegnami, tutti ormai abitati solo da tarli e ragnatele.
Vedo arrivare il “mì cugio” Ernesto, lo “Stioppo” per “intendisi”, con i segni evidenti della commozione sul viso; mi si avvicina e fa: “dal Ciocco ho visto quell’uscio aperto, un ce l’avevo rivisto mai. Guardimi i bracci, ho sempre la ciccia di gallina, quante volte mi son fermo qui a chiaccherà, per un momento m’è parso che il Dante e il Baristo fussino lì, a cugì”.
Poche parole poi silenzio, un’intesa muta ci accomuna in una visione ormai remota ma che per un istante abbiamo percepito come viva, poi conclude dicendo:
“Eh!…il sangue è sangue”.
Non c’era bisogno di aggiungere altro se non un breve saluto ma quelle frasi avevano rimosso un coperchio rimasto chiuso per decenni.
Seduto sulle scale di casa mia guardavo quella porta aperta, la stanza vuota e mi sembrava di sentire la macchina da cucire, vedere due uomini con gli occhiali abbassati sul naso infilzare l’ago e dare dimensione e forma alle stoffe maneggiate con cura.
Quanta gente è entrata in quella stanza, venivano anche da Arni, Levigliani, Retignano per l’abito da sposo, per la prima comunione, o magari solo per sistemare un cappotto, restringere una gonna. E lì intorno, in ogni casa, c’era una famiglia, si respirava un’aria tranquilla, serena, si lasciava trascorrere il tempo senza chiedere troppo alla vita. Sopra il laboratorio abitava lo zio Dante con la zia Nonzia e Luciana, allora commessa al Consorzio.
Subito a destra una piccola finestra dava luce alla casa della Gelsomina, con lei le figlie Rosanna e Mileda. Appena sotto l’Aida canticchiava il “Maggio” e di fronte si affacciava la Stella.
Poi, attaccati a casa mia, vivevano Orlando con Lucia, Laura e Denise. Anche quando iniziò l’esodo verso il piano le case non rimanevano mai vuote.
Dopo l’Aida abitarono nella sua casa Federico, Italia e Walter, dopo di loro abitarono lì la Carmela e il figlio Giuseppe; al posto della famiglia di Orlando vennero Edoardo, Margherita, Antonio e Ivana che poco dopo lasciarono il posto a mia sorella Lina, Paradiso e Paolo (Roberto nascerà più tardi).
Quindi arrivarono Dario, Mariella e la signora Erminia.
Com’erano belli i giorni d’estate, al pomeriggio quando l’ombra dei tetti dava un po’ di refrigerio; allora le scale dello zio Dante sembravano le gradinate di un teatro all’aperto, pronte a ricevere personaggi, storie e racconti mentre i sarti continuavano il loro lavoro pur partecipando al colloquio.
Dal “Ciocco” veniva lenta la Virginia mentre sopra la “volta”, “Juelle” con la Beppina tiravano il fieno all’ultimo piano con una vecchia carrucola di legno.
Ermete tagliava col coltello una cipolla ed un pomodoro, li inzuppava nel sale tenuto sul palmo della mano gustando quel cibo semplice eppure così ricco.
Lo spirito del “Tonaccino” teneva allegra la combriccola e intanto, a sera, il “Crì” appoggiato a due bastoni, tornava da “Prunaio” con la Lucia.
Ogni giorno mezzo paese passava su quel “riccio” ed ognuno sostava, donava un po’ del suo tempo per ascoltare, per dire, contribuendo così alla vita di quel piccolo mondo.
Donne che andavano al vespro o tornavano dai campi con la stia sul “cercine”, uomini con la vanga o il marrello sudati, nei calzoni di fustagno o ragazzi miei coetanei che qui si radunavano per costruire il carretto, preparare stromboli e cerbottane mentre mia madre mi portava il pane col burro inzuccherato.
Ancora seduto sulle scale mi sono perso a ricercare il suono delle voci e le ricordo tutte, ad una ad una, e le risate, il modo di camminare o di portare la berretta.
Di tutti ricordo uno sguardo, una frase, una carezza sulla mia testa di bimbo…l’odore…la bontà.
La nostalgia può commuovere fino alle lacrime se ti abbandoni e ad un tratto mi accorsi che stavo piangendo.
Oggi il “riccio” è coperto di cemento a testimoniare che un po’ di progresso è arrivato anche qui, ma con il suo arrivo abbiamo rinunciato a valori ben più importanti.
Quante di quelle persone non sono più, altre sono fuggite forse proprio per non vedere tanta solitudine ed anche per me il destino ha tracciato strade diverse.
Come ogni angolo del paese, l’”Aietta” segna un tempo disperato.
Addio cari, paesani, amici, per tutti voi ho riservato un posto nel mio cuore, a voi debbo la mia riconoscenza perché ognuno mi ha lasciato un po’ di sè, bene prezioso.
Guardavo quella porta e mi sembrava di sentire la zia Nonzia pronunciare la frase che spesso ripete quando vado a trovarla “Bela mì Aietta” e nei suoi occhi vedo tutta la nostalgia del mondo.
 
Stagi Baldino
Quant'è che te la conto
 
Prendo spunto dall’articolo “Quando i terrinchesi andavano in grotta”, apparso sul precedente numero del giornalino ad opera dell’amico Domenico, per raccontare un fatto accaduto in quel tempo.
Erano gli anni 83/84 ed il gruppo Speleologico Terrinchese era in piena attività. Una sera stavano parlando di una buca vicino al “Pezzichino” dove, nell’immediato dopoguerra, venivano gettati ordigni inesplosi col preciso intento di renderli inoffensivi, nessuno però conosceva l’esatta ubicazione dell’anfratto né quali fossero le sue dimensioni.
Io e Paolo Cocci decidemmo di andarne alla scoperta. Il sabato successivo ci caricammo sulle spalle l’attrezzatura e, lasciata l’automobile in Campiglia, salimmo velocemente sul crinale del “Monte Alto” iniziando la ricerca della misteriosa grotta.
Il tempo passava ma non riuscivamo a rintracciarla, semmai saremmo tornati con tutto il gruppo.
Stavamo quasi per mollare l’impresa quando una fossa lunga circa un metro e mezzo e larga 50 centimetri si aprì davanti a noi: prendiamo alcune pietre e gettandole al suo interno ci accorgiamo che è molto profonda.
“E’ questa” dice Paolo iniziando a preparare la corda. La srotola e la lega saldamente ad una radice con un rimando ad un albero lì vicino. Io intanto preparo l’acetilene, i discensori, i bloccanti e quant’altro serve in queste occasioni. Siamo pronti e decidiamo che per primo scenderò io. Non senza emozione mi infilo nella fessura ed inizio a calarmi, lentamente.
Dopo pochi metri la cavità diventa più ampia, guardo in basso ma il fondo non si vede. La parete davanti a me è verticale e mi consente un buon appoggio con i piedi, la corda scorre lentamente nel discensore e l’ingresso, pieno della luce di una giornata di sole, si allontana fino a diventare un punto immerso nel nero più totale.
La voce di Paolo mi chiede notizie, arriva da lontano, rimbomba ma è chiara. “Sono sceso circa 20 metri, il fondo non si vede, speriamo che la corda sia abbastanza lunga”. Poi, ad un tratto, la parete di fronte cambia inclinazione e, gradatamente, diventa orizzontale fino a formare un grosso scalino sul quale posso sostare.
Avviso Paolo che può scendere, sono a circa 30 metri di profondità, avremmo poi deciso sul da farsi.
La sua sagoma affacciata sull’ingresso è piccola come un bottone che sta per affacciarsi all’asola. Il gradino è ampio, sgancio il discensore guardando intorno, il compagno è ormai pronto a raggiungermi quando una forma sospetta che sporge dal terreno attira la mia attenzione, è li, tra i miei piedi.
Sento l’adrenalina scuotermi violentemente mentre, il formicolio sul palmo delle mani ed i battiti del cuore aumentano improvvisi. Paralizzato dalla paura trovo solo la forza per gridare a Paolo di non scendere.
Lui, ormai pronto a raggiungermi, si affaccia di nuovo e stupito mi chiede cosa succede.
“Devo uscire subito! C’è una bomba di mortaio qui, il terreno è franoso e ogni volta che sposto i piedi si muove”.
Con molta cautela, cercando di limitare al massimo i movimenti dei piedi, attacco il bloccante e la staffa alla corda. Finalmente lascio quella posizione infelice e mi avvio verso l’esterno ormai tranquillizzato anche se la violenta emozione mi ha indebolito.
Appena fuori, seduto sull’erba, prendo fiato e rispondo agli interrogativi di Paolo che mi ascolta incredulo.
“Sono sicuro, è una bomba di mortaio! Stava lì, tra i miei piedi con le alette in alto ed il percussore conficcato nel terreno. E’ vera la storia che buttavano qui dentro gli ordigni, chissà quante ce ne sono.
La grotta continua oltre lo scalino ma… chi se la sente di andare al fondo?”
Con questi discorsi cominciamo a riporre gli attrezzi, delusi per non aver terminato l’escursione e timorosi che qualche altro speleologo potesse imbattersi nella nostra stessa situazione: decidemmo che comunque era meglio avvisare le autorità.
Il mattino seguente mi recai al comando dei Carabinieri di Seravezza dove l’appuntato Russo, ripresosi dalla sorpresa iniziale, mi chiese se fossi disponibile ad accompagnare sul posto gli artificieri.
Accettai volentieri e raccomandai più volte di far venire gente in grado di calarsi in una grotta e di usare attrezzature speleologiche.
La sera stessa mi chiamarono gli artificieri di Cecina con i quali concordammo di intervenire il sabato successivo; anche a loro ricordai quali fossero le difficoltà dell’operazione.
“Quant’è che te la conto” arrivò il sabato e con esso la camionetta degli artificieri sul “Colletto” .
Mi aspettavo di veder scendere atletici militari, ma quando la porta della jeep si aprì, lasciò uscire invece un tizio sui settant’anni in borghese, uno in divisa che sarà stato almeno 130 chili ed infine l’unico che sembrava in forma, sui 40 anni con un fisico da ginnasta.
Saluti e discorsi di circostanza, dopo di che indicai il “Pezzichino” e spiegai quanto c’era da camminare.
Partiti con la jeep che lasciammo in “Campiglia” col vecchietto, proseguimmo in tre verso la meta.
Il ciccione ansimava e imprecava; mi faceva sentire in colpa. Io spiegai che avevo avvisato il loro comando di quelle difficoltà: mi sembrò di intuire invece che le mie raccomandazioni si fossero perse lungo il filo telefonico e questo mi dava qualche preoccupazione.
In “Vallimoni” ci riposammo e già qualche tensione si notava nei nostri brevi discorsi. “Quandeddiovolze” arrivommo in quel posto.
Posai lo zaino ed estrassi l’attrezzatura sotto gli occhi incuriositi dei due, presi dunque l’imbracatura e mi avvicinai al tipo più magro per regolarla alla sua corporatura.
Solo a quel punto lui capì che avrebbe dovuto infilarsi nella buca. Indietreggiò infuriato sbraitando che li dentro non ci sarebbe mai entrato e mille altre maledizioni.
“E allora?” Chiesi io, “chi ci dovrebbe andare?”.
I loro occhi indicavano chiaramente il loro pensiero e vi dico che cominciavo a perdere la pazienza, ritenevo infatti di aver fatto ormai più del mio dovere, semmai loro avrebbero dovuto mandare qualcuno capace di risolvere la situazione.
Seguì una discussione animata che non portava a niente, il tempo passava. Ogni tanto mi ripetevano che questi vecchi ordigni non scoppiano e che potevo andare io a recuperarlo. Non sto a raccontare quante ipotesi facemmo e disfacemmo, alla fine toccò a me infilarmi l’imbragatura e ficcarmi la dentro.
L’accordo era che mi sarei limitato a legare la bomba alla corda, poi l’avrebbero recuperata quando fossi già uscito.
Scesi sotto i loro sguardi affascinati, non avevano mai visto uno speleologo in azione. Andai velocemente posandomi delicatamente sullo scalino. La bomba era lì, arrugginita e spaventosa.
Feci un cappio con un cordino sottile, lo passai fino sotto le alette e lo restrinsi, lentamente; legai poi l’altra estremità al capo della corda. Cosa si provi in compagnia di una bomba sotto trenta metri di terra e roccia non è facile da raccontare.
Questa volta avevo il vantaggio di andare verso una situazione nota e quindi ero preparato ad affrontarla ma pensavo lo stesso a mille cose e tutte brutte.
La calma è rimasta fuori, sai che non puoi chiedere aiuto o consiglio a nessuno, il mondo intero è enormemente lontano e se qualcosa va storto non troveranno mai nessuna traccia dello Stagi.
Velocemente guadagnai l’uscita e appena fuori mi allontanai.
Gli artificieri recuperarono la corda e con essa quel maledetto oggetto che dopo decenni tornò ad illuminarsi al sole.
Ora, in mano a quegli uomini che la maneggiavano con disinvoltura, appariva meno orrenda.
Tornammo a Terrinca e chiesi se potevo avere almeno una foto con la bomba: il grassone si offerse come fotografo, mi inquadrò mentre mi accostavo il proiettile alla guancia e scattò.
Salutai i 3 artificieri e tornai a casa contento: avevo qualcosa in più da raccontare agli amici.
Dopo alcuni giorni ritirai le foto, tutte perfette, l’unica mossa era quella con la bomba!! Maledetto ciccione!
 
Stagi Baldino
 
Nota:
Il Gruppo Speleologico Terrinchese era composto da:
Michele Pili, Marco Cocci, Paolo Cocci, Baldino Stagi, Domenico Coppedè, Ottavio Neri ai quali si univano occasionalmente altre persone.
La loro attività è stata limitata a pochi anni ma fu molto intensa e tesa soprattutto alla documentazione fotografica dell’Antro del Corchia seguendo ovviamente il fotografo Ottavio che ebbe modo di mostrare tutte le sue capacità artistiche.
Delle circa 1200 fotografie realizzate nell’Antro, 200 formano una raccolta che è stata proiettata non solo in varie sedi della Versilia ma anche a Milano, Roma, Pistoia ecc. sempre con enorme successo.
Quel lavoro costato centinaia di ore passate nell’Antro doveva poi sfociare in un libro che non è mai stato realizzato.
Il Gruppo era un punto di riferimento per la conoscenza acquisita dell’Antro, per l’attrezzatura disponibile. In varie occasioni siamo stati accompagnatori privilegiati di personaggi interessati ad accostarsi alla speleologia e molte volte abbiamo accompagnato abitanti di Levigliani alla scoperta di quella che oggi è la loro grotta ma che hanno sempre trascurato, anzi, odiato per i fastidi che dava all’escavazione del marmo. Il nostro gruppo rivendica di aver per primo in Versilia promulgato il grande valore ed interesse dell’Antro del Corchia.
G.S.T.
 
 
Alla Radio
 
Un dissocupato il giorno della leva fascista A. XVI)
 
Nessun si vede, eppure
si sente un gran baccano!
Quattro tavole oscure
a portata di mano,
par contengano un mondo
tutto lieto e giocondo
Da li sprigiona ardente
l’ansia che mal si doma...
Trasmette per corrente
una festa ch’è a Roma:
E’ la leva fascista
insieme alla rivista.
Oh! quanta gente... Oh! quanti
spettacoli attraenti:
divertimenti e canti
oggi s’offre alle genti!...
Par che il piacere regni
in mezzo a tanti sdegni.
Io soffro! E da stamane
dall’odio mi divoro!
Manca ai miei figli il pane...
A me, pane e lavoro.
Io non posso cantare .
Io sono spinto a odiare.
“Starai bene domani,
oggi soffri contento
-gridano i ciarlatani
su le bandiere al vento-
vivete nell’ebbrezza,
cantate: Giovinezza”
Oh animata cassetta ,
ti aborro anche innocente.
Diman la tua ricetta
non gioverà più a niente
Un’ecatombe immane
Vedrai forse domane.
Sonate pur Romani,
crepate dalla gioia...
Io non batto le mani
son come in mano al boia!...
Io sono disperato,
perch’ozioso forzato.
Canta plebe fremente,
gagliarda gioventù;
nobil fierezza ardente,
diman non sarai più.
Canta compro bestiame...
Io non ho voce...ho fame!

Salvatore Paiotti.

 

Il Baffardello
 
C'era una volta....... in un boschetto vicino ad un paesino, chiamato Terrinca, il “Baffardello”.
Questa buffa creaturina, aveva le sembianze di un omino piccino, grassocccio e paffutello, insomma sembrava un piccolo gnomino.
Lui ci vedeva anche di notte, aveva gli occhi grigi fosforescenti, si era costruito una casina sotto una grotta tutta ricoperta di muschio che sembrava un presepe.
C’era tanto muschio che i zarli ci facevano il nido dentro.
Lui il giorno dormiva, il lavoro lo svolgeva di notte, puliva le stalle degli animali, li accudiva, gli dava il fieno, l’acqua e li accarezzava piano. Gli animali lo conoscevano bene e stavano fermi fermi a farsi accarezzare.
I contadini e i pastori al mattino scendendo nelle stalle trovavano tutto in ordine e contenti gli lasciavano un sacchettino con dentro pane, vino e companatico, a volte anche delle uova.
Al “Baffardello” il vino piaceva molto e così sentendosi apprezzato per il suo lavoro era molto felice e buono con tutti, soprattutto con i bambini.
Non si faceva mai vedere perchè si vergognava molto della sua statura.
Quando girando di stalla in stalla vi trovava muli o cavalli era molto contento, erano la sua passione. Prima li puliva con la striglia e poi gli faceva la treccia alla criniera.
Io avevo una cavalla che si chiamava Dora, era molto cattiva, tirava calci e morsi, ma quando il “Baffardello” le si avvicinava lei stava buona buona e si faceva fare la treccia anche alla coda.
Baldini Marfisa.

 


 

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