Articoli tratti dal: Giornalino dei Colombani n°16

 

PRESENTAZIONE DEL “GRUPPO DI TERRINCA”, FATTA IN OCCASIONE DEL IV MEETING INTERNAZIONALE DELLE COMUNITA’ COLOMBANIANE,

TENUTOSI NEI GIORNI 1-2 LUGLIO 2001 A

S.COLOMBANO AL LAMBRO (MI)

 

 

 

Pace e bene.

Il nostro gruppo appartiene alla Comunità di Terrinca. E’ un paese di circa 400 abitanti, adagiato ai piedi del Monte Corchia, sulle Alpi Apuane.

Noi veniamo dall’Alta Versilia in Toscana, in Provincia di Lucca, dal Comune di Stazzema.

Il nostro paese è un paese che è stato attraversato, a suo tempo, dalla “Linea Gotica” ed è a due passi da S.Anna di Stazzema, un altro paese del Comune tristemente noto per l’eccidio Nazista che ha lasciato nelle nostre comunità un segno molto profondo, facendo riconoscere al Comune la medaglia d’Oro al Valor Militare.

Terrinca è un paese di profonde tradizioni religiose e da sempre vive di fede e di spiritualità.

“E’ terra di Santi e di vocazioni” è stato detto del nostro paese che dal Cinquecento ad oggi ha dato i natali ad oltre 250 tra preti, frati, suore e consacrati laici, tra cui sono molti quelli che hanno seguito le orme del Serafico Padre S.Francesco di Assisi.

Non ancora riconosciuta dalla Chiesa abbiamo anche avuto una terziaria francescana che a voce di popolo è stata eletta “Beata”: la giovane Taddea Olobardi, vissuta nel Seicento.

La nostra Parrocchia è intitolata a S.Clemente e a S.Colombano, entrambi festeggiati finchè il paese ha vissuto di profonda fede e di profonda spiritualità.

Poi però, purtroppo, il culto di S.Colombano si è andato un po’ perdendo, finchè un gruppo di giovani e meno giovani -”I Colombani”- si è riunito per riscoprirlo, perché per noi S.Colombano è un po’ l’emblema dei messi da parte, degli umili e dei trascurati, a cui noi intendiamo ridare voce e dignità, soprattutto guidati dallo spirito guerriero ma evangelizzatore del nostro Santo irlandese.

Insieme a S.Clemente e a S.Colombano, Terrinca è devoto anche a S.Rocco, a S.Giovanni e alla SS.Trinità cui, fin dal Seicento, ha innalzato tre oratori disseminati sul nostro ampio territorio.

Conta anche numerosissime “Marginette”o -edicole– poste ai margini delle strade, dove i nostri vecchi si fermavano a pregare, con il cuore sempre rivolto alla Beata Vergine, cuore del Carmelo, cui il nostro paese è particolarmente riconoscente perché lo ha salvato da un’esplosione di mine tedesche in tempo di guerra.

In fondo alla chiesa poi, se volete, ci sono dei pannelli che raccontano la storia del nostro paese, fondato in età longobarda, nei pressi del quale sono stati fatti dei ritrovamenti archeologici che risalgono anche al periodo celtico.

 

Chi deve fare un viaggio
guardi il tempo.
Stamani, sarebbe proprio una bellissima giornata per fare un viaggio; sarebbe bello per me. Potessi andare fino al “Giardino”. Quant’è che ci penso, ma purtroppo ci devo rinunciare.
Io però ci vado lo stesso, ci vado con il pensiero. Questo sì me lo posso permettere.
Parto dal “Villaggio”, scendo la “Frana”, arrivo al “Solcone” prendo la strada comunale del “Giardino”. A pochi metri c’è la marginetta degli STAGI, faccio una breve preghiera, proseguo e penso di ricordarmi i nomi di questi posti, ma sarà meglio chi li scriva, perché oggi la mia mente è sveglia ma domani si potrebbe addormentare. Sono in “Capoccampi”, sopra c’è “Carpinetra”, proseguo: sono a “Prunetti”, sotto al “Col dal Pruno”, vado avanti e mi volto in giù, c’è da “Lencio” e poco dopo sono in “Piastrella”. Passo il Colle; a destra della strada c’è una grotta ricoperta di muschio: lì vi è il bassorilievo di Sant’Antonio. I nostri vecchi l’avevano messo lì come protettore delle loro bestie. Riparto pian piano. Sono al “Colle di Gerbara”, bella selva di castagni. Proseguo e la là sono in “Cessuraia”. Mi fermo sull’argine della strada per guardare in giù. Vedo la “Cantorosa” dove ci sono grandi piante di castagni. Sempre pensando ai nomi dei luoghi, qui è “Cercigliaia”, ma allora sono quasi a “Ricavo” e quasi in “Condisilio”, anche qui selva di castagni ed anche un metato. Qui c’è discesa sento lo scorrere dell’acqua, finalmente sono al Canal Da Rio; mi fermo quando vedo una casetta, qui si risveglia un affetto: sono in “Piandorsina”.
Era un terreno coltivato, cerano nespole, uva fragolina e ciliegie amarasche.
C’era del mio zio Pompeo e zia Ernesta. Dolce ricordo. Passo il collettino: qui “Colle del Pianaccio”, guardo in alto vedo il “Grotticino”, proseguo ancora avanti, sono alla “Piastra della Barca”, a “Nereta” alla “Frana del Giardino”.
Qui, vicino alla strada che viene da Cansoli, c’è il confine tra i Terrinchesi e i Basatini: è il “Canale del Lunario”.
Come avevo deciso alla partenza qui dovevo ritornare indietro, ma mi trattengo a pensare, forse avrò dimenticato qualche nome?
Non me ne viene in mente altri. E allora voglio proseguire la strada tutta in discesa in direzione di Cansoli, tanto in giù ci vanno anche i ciocchi e io ci vado con la mente.
Parto e arrivo alla “Vedova”, alla mia sinistra mi volto e guardo il bosco ricoperto dalle scope e dalle eriche. Dopo poca strada siamo alla “Zingola”. Avanti ancora avanti e arrivo alla “Borra Del Re”. Proseguo ancora guardando sempre nella stessa direzione, vedo una grotta, un tempo rifugio delle capre.
Ora sono a “Fessuri”, ma un'altra grotta con un altro nome mi viene in mente: “TANACCE” questo nome vuol dire: tana, riparo, come a dire entrate qui c’è posto per tutti: “TANACCE” nome formidabile. Mi assomiglia ad una catena salda, rocciosa, resistente alla rottura, osservo quella grotta di misto grezzo, materiale duro che con la mano dell’uomo (senza i dannosi mezzi di oggi), non si può rompere.
Qui alle “Tanacce” è nata una leggenda, forse aiutata dalle incisioni a “Coppella” che ricoprono i massi circostanti.
Chissà, forse qui in tempi remoti vivevano uomini che incidevano la pietra con miseri attrezzi anch’essi di pietra; poi credo che nel corso dei secoli queste grotte siano state rifugio di fuggiaschi braccati dai loro nemici, intenti a riti pagani e sacrileghi.
Ma questa è un’altra storia che vi racconterò un’altra volta.
 
Baldini Marfisa
LE MINIERE
E I MINERALI
DEL TERRITORIO DI TERRINCA

 

 
Il territorio di Terrinca, seguendo le indicazioni provenienti dalla letteratura storica locale e da studi compiuti da vari ricercatori, presenta diverse attrattive dal punto di vista dei siti minerari e delle località dove possono ritrovarsi piccoli giacimenti di ferro, piombo argentifero, mercurio, rame, che in passato sono stati sfruttati o esplorati per una piccola industria locale.
Sullo spunto di una richiesta fattami dagli amici Colombani (che ringrazio) , cerco con questo breve studio di sintetizzare una descrizione delle varie località dove il ricercatore e il curioso potrà avventurarsi.
 
MINIERE DELLA GROTTA ALL’ ORO ( Ponte Merletti)
La Grotta e Miniera del Ponte dei Merletti , che visitai con altri ricercatori dell’ ex Gruppo Mineralogico Versilia di Seravezza tra il 1990 e 1995, ha la caratteristica comune ad altre cavità artificiali di questa parte dell’Alta Versilia di essere in coabitazione con l’ambiente Ipogeo.
Si tratta di alcune brevi gallerie scavate nella prima parte di grotte naturali , situate alla confluenza tra il canale di Campanice e la parte alta della Turrite Secca, in calcari dolomitici (Grezzoni). La lunghezza accertata di questi scavi varia dai 30 ai 100 m. in profondità, e ricerche compiute successivamente da gruppi speleologici hanno confermato la presenza anche di ambienti ipogei di un certo livello, tali da essere prossimamente nominati nel Congresso Nazionale di Speleologia.
Le non molte notizie storiche su queste buche si possono ritrovare su alcuni testi di storia locale e mineralogia del periodo 1850-1900.
Sia Simi (1855) che D’Achiardi (1873) nominano una Grotta all’Oro nell’Alpe di Terrinca dove entrambi gli autori vi segnalavano la presenza di minerali di ferro (perlopiù Limonite e Pirite). E’ assai probabile che questa miniera sia riferibile alla Grotta suddetta. Attrezzi ritrovati allora all’interno del tratto percorribile delle gallerie nella parte artificiale, gradini scavati a scalpello per le discenderie fanno ritenere una età dei lavori perlopiù riferita ad una fase di numerose ricerche minerarie operate da alcune società (De Laroche – Pouchain – Borrini, 1845-1860 ; Società Mineraria Lucchese per le Alpi Apuane ,1870-1875) nelle zone di Arni , Vagli, Monte Sumbra, per il sondaggio e sfruttamento di filoncelli di minerali di Ferro (Pirite, Limonite), Rame (Calcopirite) e Piombo (Galena argentifera).
Nella zona di Ponte Merletti, nel luogo detto Il Crocicchio dell’Alpe di Basati (leggenda molto nota nei paesi di Terrinca e Basati) già Targioni Tozzetti (1773) su indicazioni dell’ingegnere svedese K.Angerstein (1751) vi segnala alcune escavazioni per ricerche di "Lapislazzuli" (in realtà di Calcopirite alterata in Azzurrite e Malachite nei Cipollini ) che sarebbero state sfruttate durante epoche incerte, ma riferibili comunque all’800. Queste mineralizzazioni si ritrovano all’interno di piccole grotte nei Cipollini sottostanti alla località del Ponte dei Merletti.
 
MINIERE DELL’AREA DI CAMPANICE
E’ comunque da ritenere che nel periodo 1542-1545 i Medici, ottenuto il pieno controllo del territorio versiliese con l’Acquisizione delle Alpi di Basati e Terrinca, abbiano compiuto perlomeno ricerche su questi filoncelli . In alcuni documenti dell’Archivio di Stato di Firenze di quel periodo si nominano infatti le località di CAMPA, SALTO DEL TEDESCO (appena al di sopra della nostra miniera si ritrova una costa rocciosa chiamata Bucone dei Tedeschi , e il toponimo è molto antico; alcuni abitanti del luogo mi accompagnarono a vedere alcune piccole buche che erano inequivocabilmente ricerche per minerali di Piombo come ho già visto nelle vicine miniere del Bottino) per punti di ricerca Medicei di minerali utili, subito abbandonati. Comunque sono tutte ipotesi da verificare. Altri luoghi dove sarebbero avvenuti scavi di minerali di Piombo si ritrovano alla nota fonte della Materrata presso Passo Croce, a Lanzino, nel Canale di Lamponeta o Monte di Lampo, come attestato anche da antiche carte del 1750 circa, conservate all’Archivio di Stato di Firenze (Azzari, 1990).
 
MINIERE DI PUNTATO
Un esempio simile alla Grotta Miniera di Ponte Merletti, lo si puo’ ritrovare nelle brevi gallerie artificiali per sfruttamento di piccoli filoni di Ferro e Rame, che si ritrovano in corrispondenza delle grotte della Buca della Miniera Bassa e Alta ( vedi Catasto Grotte della Toscana ) sul versante Est del Monte Freddone; queste gallerie hanno una precisa cronistoria come Miniere del Monte di Lievora tra il 1720 e il 1755 (vedi Targioni Tozzetti, 1773 ; Pacchi 1785) e coltivate regolarmente in quel periodo da certi sigg.ri Suardi e Santini per estrarvi rame (calcopirite) e grossi noduli di pirite alterata nelle rocce calcaree (Grezzoni, Cipollini). Probabilmente queste escavazioni sono contemporanee a quelle compiute nella zona del non lontano paesino di Colle Panestra (sottostante alla strada del Piglionico per il Rifugio Rossi alla Pania), dove ancora oggi si ritrovano diversi scavi piuttosto interessanti per la tecnica mineraria effettuata.
Piccoli affioramenti di Mercurio (Simi, 1855) sarebbero segnalati nelle località di Arcaja e Cansoli, appena sottostanti a Terrinca e probabilmente proseguimento di piccoli livelli della mineralizzazione a mercurio nativo e cinabro delle vicine miniere di Levigliani.
Presso Cansoli e sotto La Costa sono state segnalate anche alcune ricerche di minerali di ferro compiute nel 1935-1936 per saggiare piccoli filoni.
La località senza dubbio più misteriosa perché finora mai ritrovata in ricerche da me compiute (i Terrinchesi doc forse potrebbero darci indicazioni utili) è il luogo detto la Conca di Fondo dell’Alpe di Terrinca, dove nel 1863-65 l’avvocato Giuseppe Santini (ex direttore delle Miniere di Ripa e Valdicastello) fece compiere ricerche e analisi dei minerali in questa località segnalando anche piccole quantità di oro (Lopes Pegna, 1953; Federigi, 1981).
In vari punti degli Alpeggi di Puntato e Col di Favilla si segnalano altri luoghi dove furono ritrovate quantità di minerale di ferro e rame, ma in ogni caso si tratta di piccolissimi affioramenti di infima importanza.
Il territorio di Terrinca, già ricco di attrattive come le incisioni rupestri e le insegne religiose, possiede altre ricchezze spesso nascoste che credo spetti soprattutto ai suoi abitanti e ai volonterosi Colombani andare a scoprire e approfondire.
 
SERGIO MANCINI geologo
E Mail sergio.mancini19@tin.it
BIBLIOGRAFIA
G.TARGIONI TOZZETTI (1773) – Relazioni di diversi viaggi fatti nelle diverse parti della Toscana , vol.VI, Forni Editore Bologna.
D. PACCHI (1785) – Descrizione Istorica della Garfagnana - Firenze.
V.SANTINI (1846-1862) – Commentarii storici sulla Versilia Centrale - Edizioni Nistri, Pisa (ristampa anastatica a cura del Comune di Pietrasanta, 3 voll., 1992.).
E. SIMI (1855) – Cenni sulla ricchezza minerale della Versilia – Nistri , Pisa.
A. D’ACHIARDI (1873) – Mineralogia della Toscana – Ed. Nistri, Pisa, 2 voll.
L.MIGLIORINI (1914) – vagli di Sotto e la sua Storia – Castelnuovo Garfagnana, 1914.
M.LOPES PEGNA (1953) – Le antiche Miniere di Argento della Versilia – L’Universo, rivista dell’IGM, fasc. XXXVI.
M.FABRETTI , L.GUIDARELLI (1980) – Iniziative dei Medici nel campo minerario – nel volume : Potere centrale e strutture periferiche. Studi sulla Toscana Medicea – Olschki Editore, Firenze.
F.FEDERIGI (1981) – Meraviglie Versiliesi dell’ 800 – Ediz. Versilia Oggi, Forte dei Marmi.
M. AZZARI (1990) – Le Ferriere Preindustriali delle Apuane – Edizioni all’Insegna del Giglio, Firenze. (contiene una Cartografia 1:25.000 con segnalate altre piccole miniere delle Alpi di Terrinca e di Basati).
S.MANCINI (1998) – Miniere in Versilia. Storia e Itinerari – Petrarte Edizio, Pietrasanta, 120 pagg.
 

Sergio Mancini

 

 

Per le opere restaurate
nella Chiesa dei Santi
Clemente e Colombano
di Terrinca
 
Quando m’è stato gentilmente richiesto di presentare il restauro del quadro di Ranieri Leonetti, dedicato alla Croce, a Santa Lucia, a San Lorenzo Diacono, come l’Adorazione dei Magi alla Grotta di Betlemme e la Benedizione dei fanciulli e le restanti figure eseguite da Aristodemo Cecchi collocate nella parte alta della ‘nostra’ Chiesa di Terrinca intitolata ai Santi Clemente e Colombano, confesso d’essermi sentito molto onorato, e, al contempo, un poco turbato per un impegno che altri – più di me – avrebbero meritato d’assolvere.
Viene spontaneo, mi si consenta, il nome dell’amico Marino Bazzichi, il quale ha dedicato molto del suo prezioso tempo, a dettagliate ricerche ed approfondimenti a livello storico-artistico, di Terrinca, un paese che da sempre s’è impegnato per la cultura ... ma i nomi si accavallerebbero ai nomi, giacché la generosità del paese tutto, e dei suoi abitanti, può essere apprezzata pure sotto tale profilo.
Mi sento tuttavia d’esprimere una seconda motivazione, al mio sconcerto emozionale, vale a dire la difficoltà di scollegare, di distogliere cioè, il fatto specifico - del restauro, appunto -, allo stile di vita, al ‘senso d’aggregazione’ in definitiva, connesso alla devozione di cui questo territorio è intriso.
Questi luoghi che il tempo saggio mi ha insegnato ad amare e a rispettare, hanno infatti la peculiarità di evidenziare, o almeno di dare il massimo, per tramandare le proprie tradizioni, di cui gran traccia è insita nei suoi edifici di riunione comune.
Il dover affermare oggi quest’ennesima essenziale, importante tappa legata alla Chiesa, secondo il mio parere ha il simbolico significato di ringraziamento sia per chi, singolarmente o in gruppo, ha materializzato l’idea iniziale, sia per quel modo di pensare e d’agire comunemente, per un fine unico e collettivo già espresso più e più volte.
La riedificazione della Chiesa del 1897, o l’aver messo in essere il Parco della Rimembranza dopo quel primo conflitto mondiale definito dal Papa Benedetto XV una “inutile strage”, sono due tra i tanti esempi di tenacia, di abnegazione, di quella volontà ‘terrinchese’ mai doma, nonostante le difficoltà di vario ordine che un tempo o l’altro hanno portato in questa vallata.
Pensando alla prima guerra mondiale, parafrasando il titolo del libro di Fritz Weber “Tappe della disfatta”, Terrinca ha invece continuamente creato “tappe della costruzione”, e ‘tappe’ di ricostruzione, con i recenti esempi della Chiesa di San Rocco, o del Circolo ‘Le Tanacce’ ...
Il sentiero della saldezza caratteriale interpretata del resto nei vari sensi ed angolature, è stato fissato con immagini e scritti, da tanti esaustivi libri, come “I Frati di Terrinca”, “Terrinca Museo d’arte sacra popolare all’aperto”, o la recente riedizione, per merito dei Colombani, del libro di Paiotti del 1936, ora titolato ‘Il paese di Terrinca’.
Veniamo tuttavia alla vicenda d’oggi, e vorrei parlare di quelli che qualcuno ha chiamato ‘murali ritrovati’.
I motivi di questa denominazione, credo s’innestino chiaramente nelle tante vicende paesane, in cui la gente – pur nelle mutazioni facenti parte dell’ordine delle cose – consolida e fa rivivere quell’antico e profondo e rispettoso rapporto che ha nei confronti della sacralità.
La vita e gli eventi, infatti, continuano, e quella sorta di ‘messaggio della spiritualità’ che era stata nascosto dalla calce, in mesi di lavoro assiduo, ecco che – grazie ad una concatenazione d’idee e di sforzi e d’applicazioni operative della Parrocchia retta da Don Antonio Ratti, dei Colombani coordinati da Giuseppe Rossi, di Daniela Frati e di Sonia Balderi prima, e di Katia Andreini e Michela Potestà (restauratrici) poi – gran parte del lavoro già evidenziato nella memoria libraria dallo stesso Giulio Paiotti, ha rivisto la luce piena.
Ad intenderci, l’opera dedicata a Santa Lucia, collocata all’altare amministrato dalla Congregazione della Dottrina Cristiana, sapientemente restaurato, ci riconsegna una tela che il tempo, sollecitato dalla magrezza della composizione, aveva ridotto in pessime condizioni.
L’autore, come già accennato, si chiamava Ranieri Leonetti, il quale - nato a Pruno di Stazzema -, si trasferì a Cardoso, per stabilirsi quindi a Querceta. Nel 1842 lo troviamo allievo nella scuola del marmo fondata da Vincenzo Santini (che ha scritto i famosi ‘Commentarii storici sulla Versilia centrale’). Fu amico dei ben noti intagliatori Roberto e Dionisio di Farnocchia, e non va certamente taciuta la copiosità della sua produzione artistica, legata all’encausto, all’olio su tela, e ad opere fatte su lavagna.
Dire delle sei figure, e della Croce, che insistono sul rettangolo, col simbolo della caducità della vita posto nella parte bassa, non lo credo strettamente necessario, tuttavia – in sintesi – come si nota con estrema facilità, è apprezzabile la linearità, la compostezza di un insieme ove, se guardiamo con attenzione, emerge la centralità del tutto, raffigurata dalla Croce, che è fede e sacrificio.
La Santa Lucia è resa in pieno secondo quanto tramandatoci che la dice martire, la cui festa è celebrata il 13 dicembre. Nata a Siracusa circa il 283 e di famiglia nobile, la tradizione vuole che la madre Eutichia (guarita a Catania da una emorragia sulla tomba di S. Agata), fosse stata invitata proprio da Lucia a distribuire le proprie ricchezze ai poveri: tale gesto costò a Lucia la denuncia come cristiana a Pascasio – governatore della Sicilia sotto Diocleziano – che la condannò alla prostituzione. Rimasta incolume a tale ignominia e dal rogo, sarebbe stata passata a fil di spada nel 303.
A parte la narrazione della vita di Lucia, o di quella degli altri protagonisti, o l’esplicazione dei vari simboli che insistono sulla tela, va detto che tale opera va rispettata soprattutto per la semplicità che emana, ‘narrativa’ come si conviene a tale tipo d’opere, e – in definitiva – aggiungerei che è il riflesso della personalità artistica che l’ha prodotta. E’ una tela, come altre, non collegabile certamente al proprio tempo, un poco statica.
Restò chiuso territorialmente, sì, ma seppe esprimersi con estrema onestà intellettuale.
Il quadro si collega dunque al percorso degnissimo, ma non grandiloquente, della tradizione, con una gamma cromatica di sapore antico ed un realismo quieto ma corretto nell’esplicazione tematica.
Passando alle opere su muro, a parte certi connotati floreali, in attesa del ripristino totale, va detto di quanto è stato recuperato.
Trattasi dei lavori di Aristodemo Cecchi, sul quale si possono trovare varie notizie sul libro voluto dai ‘Colombani’ nel 1988 “Terrinca paese di antiche tradizioni”.
Essi sono attinenti la Benedizione dei fanciulli : Sinite parvulos venire ad me; alla Adorazione dei Magi alla Grotta di Betlemme, seguiti dalle lunette dedicate a San Colombano, a Santa Caterina d’Alessandria, a S. Lucia, a S. Antonio Abate, a San Luigi Gonzaga e a San Rocco.
Confesso che all’inizio ero un poco scettico sulla qualità del tutto. Però, con la progressione operosa ed abile, man mano che i murali venivano fuori, mi son dovuto ricredere.
Si tratta di un complesso efficace, come del resto sono altri lavori che si trovano nella Chiesa dei Santi Clemente e Colombano: di Giuseppe Viner, di Vincenzo Niccolini, di Iacopo Iacopi, di Giuseppe Mancini, della scuola degli Stagi ...
Opere che prese una ad una ci raccontano della storia di Santa Lucia (il cui nome deriva da ‘lux’, che significa luce, invocata contro le malattie della vista); di quella di San Colombano, nato in Irlanda nel
543 – che ben conosciamo – il cui corpo è a Bobbio, dove fu collocato nel 1842.
Come non citare, poi, Santa Caterina d’Alessandria (di origine regia, secondo al leggenda), sfuggita miracolosamente al supplizio della ruota, che incontrò quindi il martirio per decapitazione?
Di Sant’Antonio Abate, di cui la biografia scritta da S. Atanasio, si sa il luogo di nascita, ad Eraclepoli, nel Medio Egitto, come la maestosità della figura coniugata all’ascetismo cristiano primitivo, da cui proviene il sistema di vita semi-anacoretico, e certi tipi di vita eremitica occidentale ancor oggi attivi.
Altre lunette sono quelle di San Rocco, noto per i prodigi di carità durante le epidemie di peste (si parla della metà del 1300), e di San Luigi Gonzaga, patrono principale della gioventù cattolica.
Gli altri due grandi murali di Aristodemo Cecchi, sono in sintonia con questi già enunciati.
Parlerei, più che altro, di un complesso armonico unitario, in cui c’è una omogeneità formale della storia sacra e popolare. Notiamo pure che nell’insieme, non esiste la riproduzione del mondo esterno, bensì la logica espressione di una sorta di esperienza interiore e, in più – al di là della statura creativa – egli ha saputo svelare la propria personalità.
Calzanti oggi, a tal proposito, le parole di Sua Santità Giovanni Paolo II, il quale nella ‘Lettera agli artisti’, così s’esprime: “Nell’arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d’espressione per una crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l’artista parla e comunica con gli altri. La storia dell’arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini”.
Il pittore, poi, a conoscenza senz’altro di quella locale fecondità di vocazioni sacerdotali, indirizzate di preferenza ai conventi – come bensì evince dal libro di Bazzichi ‘I frati di Terrinca’ del 1993 – con questo insieme tematico (Santi, Gesù e i bambini, l’Adorazione dei Magi ...), ha voluto e saputo esprimere pittoricamente il sentimento devozionale che la gente terrinchese ha in sé.
Quelli che a suo tempo definii ‘uomini del silenzio’, chiamati da Dio, ma – in modo ampio – tutti coloro che ci hanno preceduto, gente spontanea, “temprata dal sacrificio per sopravvivere”, con il “lavoro durissimo per la ricerca e l’estrazione del marmo buono, nelle bianche ferite della montagna, la coltivazione dei campi, la raccolta delle castagne”, hanno dunque avuto, con tali murali e anche con l’olio di Leonetti, di cui s’è già detto, un ‘ritratto’ vero e proprio.
C’è devozione in tutte le opere che veniamo oggi a ‘ritrovare’, permettendoci di assicurare che esse sono in accordo sia con l’ambiente dal quale sono circondate, sia con lo spirito stesso d’un pensiero riflessivo, logico per precise scelte di vita.
Se si è a Terrinca e ci si abita, ma anche se ci si torna periodicamente, e se si ama veramente questo paese, vuol dire che siamo assoggettati ad un ‘pensiero comune’ non certo in sintonia o dipendente dal clamore e dalle tensioni aritmiche che, altrove, tutto inglobano e spersonalizzano.
‘Essere’ a Terrinca, venire in questa Casa di Dio per riflettere e per pregare, ha il significato di una non casuale preferenza.
Tutto attorno, anche queste ‘rinnovate’ opere facenti parte di una armonia dell’insieme, non ci distolgono, ma – anzi – ci coinvolgono nella loro serenità e positivizzano il giusto clima spirituale del luogo. Esse, con un concreto linguaggio figurale, assolvono il compito loro affidato.
L’artista, il ‘creativo’, famoso o sconosciuto che sia, ha dunque portato a termine il suo compito, come i cavatori, gli elettricisti, gli agricoltori, i maestri ... i padri, le madri ..., a garanzia (secondo concetti e parole del Nostro Pontefice) della crescita della persona e “lo sviluppo della comunità attraverso quell’altissima forma di arte che è l’”arte educativa”.
Nel vasto panorama culturale di ogni nazione, gli artisti hanno il loro specifico posto. Proprio mentre obbediscono al loro estro, nella realizzazione di opere veramente valide e belle, essi non solo arricchiscono il patrimonio culturale di ciascuna nazione e dell’intera umanità, ma rendono anche un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune”.
All’inizio ho utilizzato i termini “costruzione” e “ricostruzione”, ai quali ora aggiungerei “insieme”.
Insieme, tutti insieme per la nostra piccola e importante comunità terrinchese ... oggi come nel futuro….
 
 
Lodovico Gierut
Giornalista e critico d’arte
Terrinca, 3 giugno 2001
 
 
 
IL MASSO DI TERRINCA

(Relazione in occasione del “Battesimo” del Masso di Terrinca)
 
Introduzione
C’era una volta…..
Una volta…quando? Nella preistoria…nella storia…quando? E se parlassimo della preistoria? Ma quando è stato…quanto tempo fa?
Sappiamo tutti che c’è tendenza a considerare la preistoria come un complesso di fatti accaduti quando l’uomo viveva nelle caverne e a localizzarla mentalmente in una zona buia, della cui lontananza nel tempo non si ha una percezione esatta.
 
Così si dice ”gli antichi”, “quelli di una volta”, “quelli che vivevano qui”: quando va bene li si pensa vestiti di pelli, con una clava in mano…
In realtà si può definire un po’ meglio la zona buia in cui mentalmente far apparire l’uomo preistorico: si sono potuti rintracciare moltissimi elementi che sono serviti in mancanza della storia scritta, a darci informazioni più complete e meno fantasiose su un tempo umano certo difficile, ma con gioie e dolori, sentimenti e aspirazioni intelligenza e ambizione.
Ritornando alla definizione di preistoria, ricordiamoci che essa essenzialmente significa prima della storia e la storia comincia da quando la si ritrova nei documenti scritti che parlano delle vicende umane e questi documenti cominciano per forza a esistere solo dopo che fu inventata la scrittura.
Naturalmente in tempi diversi per luoghi diversi: si sa però che dopo numerosi tentativi di espressione grafica (per lo più ideografica, per immagini), la prima vera scrittura si sviluppò nel sud della Mesopotamia, nel IV millennio prima di Cristo, cioè 6000 anni prima di oggi.
In quei luoghi si considera preistoria, ciò che accadde all'incirca più di 6000 anni fa. Ai primi ideogrammi seguirono segni a forma di cuneo che vennero usati per almeno 3000 anni.
Altre scritture furono intanto sviluppate da altre civiltà. Pare comunque che il primo alfabeto sia apparso in Medio Oriente con segni per lettere individuali, nella prima metà del II millennio avanti Cristo.
In Europa la scrittura sembra comparire nell’Egeo nel II millennio avanti Cristo.
Quando poi si cominciò a scrivere i racconti della vita dell’uomo, quando i ricordi degli avvenimenti cominciarono ad essere fissati e tramandati, si ebbero i primi documenti. Ricordiamo che essi non sono forse del tutto attendibili in toto, in quanto in essi convergono realtà leggenda, fantasia e interpretazione: sono comunque tali da costituire un indicazione del tracciato delle vicende umane: comincia qui la storia, siamo cioè ai primi tracciati di essa, alla protostoria.
Spesso in quei tracciati si riscontra il fenomeno occorso a quel pescatore di Viareggio che dopo aver pescato un pesce da un chilo e averlo raccontato ad un amico di Pietrasanta, venne accusato a Massa di aver riempito una rete senza pagare dazio.
Gli studiosi di storia però hanno potuto nei secoli “storici” confrontare le fonti scritte arricchendole con altre informazioni ricevute attraverso archeologia e geologia: gli archeologi e geologi hanno potuto confrontarsi con i documenti storici: cosicché oggi le informazioni sono immensamente più ricche e precise.
Altre scienze, come la chimica, la mineralogia, l’antropologia, la geologia sono venute in aiuto per lo studio della preistoria, di “ciò che è scritto”: scienze e tecniche esatte, come anche analisi intellettive vaste e raffinate.
Inoltre negli ultimi duecento anni le scoperte sono state sempre maggiori, tanto da portare a nuove risposte e a nuove domande.
Da quando, circa 150 anni fa (1846) vennero eseguiti i primi scavi in Liguria nella grotta detta dei “Balzi Rossi” presso Ventimiglia, la ricerca sulla preistoria in Liguria ha avuto momenti di grande intensità e ha portato una notevole rosa di conoscenze sulla civiltà paleolitica in Liguria e in alta Toscana.
È vero che essendo l’era paleolitica un tempo sterminato (si parla in genere di un periodo da un milione a 12.000 anni fa) i particolari ricostruiti sullo sviluppo dell’uomo sono piccole pietre miliari nel racconto di un evoluzione molto lenta e frammentata, sulla cui essenza si sono fatte analisi, ipotesi ma che non potrà mai essere del tutto chiarita.
Il paleolitico rimane il primo e il più lungo periodo dell’evoluzione umana (periodo dell’introduzione dell’uso degli utensili di pietra, prima scheggiata poi levigata). L’uso degli utensili in pietra sembra però sia apparso più di due milioni di anni addietro. Tale periodo fu inizialmente definito dall’uso della pietra scheggiata, criterio che poi ne comprese anche un altro: cioè precisa caratteristica, la caccia e la raccolta, come attività fondamentali alla vita dell’uomo.
Dopo il paleolitico viene considerato il mesolitico, vicino a circa 10.000 anni fa: e dopo il mesolitico il neolitico, cioè della pietra nuova o levigata con maestria; questa età si propone anche in base ad altri  criteri, come la comparsa della ceramica (i vasi di coccio) ma soprattutto dell’agricoltura: l’uomo cominciava a fermarsi, a legarsi alla terra, apparvero campi e capanne, attrezzi agricoli, topi e gatti…un mondo che ha già molte caratteristiche note… un mondo di 10.000 anni fa.
È vero che il termine neolitico è impiegato nello studio della preistoria asiatica, europea e africana, ma si riferisce a periodi cronologicamente diversi a seconda delle varie aree. Nell’Asia occidentale le prime società neolitiche nacquero prima, ma un’economia di tipo agricolo si sviluppò in altre parti dell’Asia, in Europa, in Africa, migliaia di anni più tardi .
Al neolitico seguì il calcolitico (cioè un periodo tra il neolitico e l’età del bronzo) quando per gli utensili veniva utilizzato il rame, il che fu appunto prima del bronzo.
Come già detto, le datazioni in genere e quindi anche quella dell’età del bronzo varia da zona a zona ma in termini generali si può dire che l’età del bronzo risale al III e II millennio a.c. in Asia occidentale; al II e inizio del I in Europa
È chiaro a tutti come una innovazione anche importante nel modo di essere, di sconvolgere una attività, di comportarsi eticamente, di vivere anche solo una moda, figurarsi l’uso e la tecnica della metallurgia.
Arrivi sempre in zone diverse in tempi diversi, a seconda della viabilità, dell’altitudine, del clima del carattere stesso degli individui.
Vi sono zone facilmente raggiungibili, oppure di transito obbligato per raggiungerne altre di maggior importanza, nelle quali le nuove usanze penetrano più facilmente, idee e modalità si mescolano: altre zone restano chiuse, poco penetrabili chiuse nel loro mondo.
In più la preistoria ci appare come un luogo di solitudine, i rapporti dovevano essere difficili: si calcola che in media non più di un uomo per chilometro quadrato potesse trarre sostentamento dalla caccia e dalla raccolta di erbe, frutta, tuberi spontanei.
Tuttavia l’uomo, teso nella lotta per la sopravvivenza era anche un essere fortemente intelligente e sensibile; il futuro era un magma da formare, ma mancavano anche gli strumenti, per poi usarli a raggiungere quello che poi si chiamò progresso.
Con l’inizio dell’agricoltura le cose presero a svilupparsi in fretta: all’agricoltura si aggiunse l’allevamento e poi il commercio. Quando? Le datazioni, ripetiamo, sono molto oscillanti ed ampie anche per l’età del bronzo, come per l’età del ferro: la stessa esistenza di zone poco frequentate perché fuori dalle vie di comunicazione o solo perché abitate da popolazioni istintivamente diffidenti e ostili, fece sì che molte trasformazioni avvenissero con margini di tempo enormemente superiori, addirittura di un migliaio di anni.
Nelle terre più nascoste dell’alta Toscana, della Versilia e della Liguria, alcune caverne continuarono ad essere abitate nell’età del ferro da gruppi che si attardavano a livelli di vita neolitici, mentre comunità pastorali ed agricole limitrofe erano arrivate ad una accentuata organizzazione agricola; e nello stesso tempo a Genova esisteva un fiorente emporio commerciale con botteghe etrusche e greche.
Anche la tradizione storica ci ha parlato di una condizione fortemente arretrata in Liguria: tanto che le prime legioni romane inviate a sottomettere le comunità liguri, pare abbiano dovuto “stanare” i “barbari” dalle caverne, cosa che in realtà sembra sia avvenuto solo in zone montuose molto isolate.
Tutto questo è stato scritto perché si potesse pensare un momento insieme a quelle che erano le condizioni di vita nella valle del “Giardino” tremila (si fa per dire) anni fa…
Innanzitutto pensiamo a quanto era bella questa valle, querceti, lecceti, frassini, corbezzoli sulle coste…nel fondo, acque limpide, pesci… nei boschi una ricca fauna per l’uomo cacciatore-agricoltore : sui pianori i pastori badavano alle pecore, nei villaggi si facevano i formaggi..
Tutte le Apuane non hanno accolto in epoca preromana (cioè, per arrotondare, prima dell’era a.c.) centri urbani consistenti, ma forme di insediamento minori, anche a carattere occasionale.
Pochissimi quindi gli abitanti della valle, pochissimi i sentieri: dall’alba al tramonto, la caccia, la pesca, il lavoro.
Questa la vita di tutti; e anche allora l’uomo cercava di trovare una risposta ai propri perché, un conforto, un qualcosa in cui credere.
Gli studi sulla religiosità nella preistoria, sulla ricerca del divino, si sono fatti negli ultimi tempi numerosi e attenti, portando a conclusioni avvalorate in molti casi da documentazioni archeologico-stratografiche, in altri da analogie antropologiche, in altri dalla sopravvivenza di rituali nel costume popolare.
Poiché abbiamo parlato di “coppelle” visitando le “Tanacce” vorremmo partire da questi segni, che noi consideriamo tra i più antichi (pur ritrovandosi continuamente per millenni fino probabilmente all’alto medioevo) per esemplificare una forma di religiosità.
Per “coppella” si intende una escavazione generalmente di forma circolare, a forma di piccola coppa, eseguita nella roccia mediante rotazione o percussione di uno strumento (per lo più una pietra): escavazione il cui diametro varia dai tre ai sette centimetri, mentre la profondità è in media un terzo del diametro: ci sono “coppelle” in tutta Europa come in Africa e in America. Sono state fatte infinite ipotesi: rappresentazione di costellazioni, indicazioni di limiti di proprietà, vie di passaggio, copertura di sepolture, indicazioni topografiche, luoghi per offerte e sacrifici, tentativi di numerazione e scrittura, tuttavia ciascuna di queste ipotesi ha numerose possibilità di demolizione, non avendo comunque in partenza nessuna possibilità di prova.
Come non ha nessuna possibilità di prova anche l’ipotesi oggi più accreditata, che attribuisce alle “coppelle” una funzione sacrale, come modo e mezzo di espressione di una forma di religiosità. Tuttavia anche noi pensiamo sia questa la via giusta per un’interpretazione in generale del fenomeno.
Ci sembra infatti segnale importante che le rocce “coppellate”  siano state nella stragrande maggioranza dei casi “cristianizzate” con l’incisione di croci cristiane talora ad esse affiancate, talora sovrapposte (il segno è da distinguersi dal “cruciforme”, affine alla croce cristiana, ma comunque ad essa preesistente).
Nei primi secoli dell’età cristiana, il cristianesimo si diffuse lentamente nei villaggi e zone montane, più rapidamente lungo le grandi vie di comunicazione: nei vari concilii vennero severamente condannati gli adoratori delle pietre; si ordinò di sradicare le antiche credenze, ma si consigliò ove non si fosse arrivati a distruggerle o si fosse incontrata resistenza, di procedere alla cristianizzazione dei luoghi di culto pagano.
Così fu fatto, a partire dalla semplice crocetta isolata, per proseguire con piccoli santuari, chiese e cappellette, qualche volta si arrivò a una sorta di sincretismo religioso, per il quale la croce convisse a lungo con la coppella: una forma di superstizione fece probabilmente sì che ambedue venissero eseguite come “scacciadiavoli”: un segno propiziatorio, di buona fortuna. Così i massi con coppelle vennero qualche volta tagliati,  squadrati  e inseriti nelle mura della chiesa a vista o nelle fondamenta. C’era anche in tutto questo il senso di un giusto rispetto per il bisogno di divino, ricerca del divino, manifestato per migliaia di anni addietro.
Inoltre non dimentichiamo le molte tradizioni popolari che in Irlanda come in Italia conducono a portare fiori o sementi nelle cavità delle “coppelle” eseguite su certi massi. Rito propiziatorio, minima rimanenza di antichi rituali.
Noi possiamo osservare, dinanzi alle molte amplificazioni (come tentativi di minimizzazione) del fenomeno “coppelle”. La tecnica di esecuzione è certamente importante per una sia pur approssimativa datazione; tuttavia nell’analisi e valutazione dell’incisione altri elementi convergono, tra i quali in primis la sua collocazione.
I “massi” importanti nella ricerca delle incisioni rupestri sono quasi sempre collocati in luogo emergente, strutturati in modo tale da poter costituire un punto di riferimento o “altare”.
Chiaramente nel culto della pietra non si deve sentire un preciso animismo, l’intenzione di considerare sacra “quella” pietra. L’uomo nella natura sentiva il divino, il bene e il male, l’aiuto e il tormento di vivere,  tutto ciò che gli si presentava come a lui superiore, più forte, sconosciuto: il sole, la pietra, l’acqua. Col ricorso a pratiche di ordine magico-rituale cercava di avvicinare il mistero del divino.
Vi è oggi la tendenza a considerare tutte le incisioni rupestri come espressioni di un culto religioso, modalità magico rituali.
Con l’incisione sulla roccia di figure realistiche (uomini, animali, oggetti d’uso) o mediante la loro rappresentazione schematico-simbolica (croci, schematizzazioni alberiformi) avrebbero cercato un rito propiziatorio.
A questo punto si potrebbe già parlare del “MASSO DI TERRINCA”: dove i segni in prevalenza cruciformi, sono affiancati alle coppelle e a figurazioni realistiche, tra le quali una scena di caccia.
 
IL “MASSO DI TERRINCA  cruciformi, croci e arte preistorica.
 
Per giungere a parlare del “masso di Terrinca” ci siamo volutamente richiamati a preistoria e protostoria ha quel tipo di incisioni, le “coppelle” che appaiono come la forma più astratta e forse misteriosamente simbolica e antichissima di incisione rupestre.
È giusto anche richiamarsi ai primi insediamenti dell’età del bronzo (ad esempio sulla sommità del monte Lieto) della prima età del ferro (a Pozzi) come ricordarsi della “spirale” incisa sul masso della Zingola, testimonianza questa riferibile certamente all’età del bronzo.
Deve però essere il “masso di Terrinca” a porsi come nostro… interlocutore; esso infatti ci offre sufficiente materia per una serie di analisi e confronti che possono portarci piuttosto lontano e invitarci a ulteriori ricerche e ulteriori confronti, tuttavia possono anche offrirci sufficienti garanzie per una sia pur sommaria databilità. Tanto più importanti queste analisi in quanto non ci risulta esista nulla di simile evidenziato, non solo sulle Apuane, ma in Toscana in totale.
Come di consueto, è opportuno considerare la posizione del masso.
Si tratta di uno sperone di roccia scistosa “in situ”, situato poco sotto la galleria del furetto, a poca distanza da Terrinca, in una zona nelle vecchie carte indicata come “il pianaccio”.
Oggi non c’è sentiero o meglio non c’è più, parecchi passaggi sono franati: tuttavia persistono tracce di un antico sentiero, che passava a distanza di qualche metro, sentiero rintracciabile in rilevamenti topografici più antichi; portava seguendo la costa verso “Fordazzani”.
Il masso quando lo scoprimmo, era quasi completamente coperto da una trentina di centimetri di terra e circondato della tipica vegetazione attuale di scope, pruni olandesi, ginepri.
Attorno ad esso, altri massi con segni affini: la posizione è dominante e soprattutto è probabile che in condizioni di diversa vegetazione esso potesse essere di buona visibilità a distanza.
La prima impressione è: “quante croci!”. Infatti, in circa sei metri quadri di superficie, le croci e i cruciformi sono una quarantina.
E c’è chi vedendole si fa il segno della croce. Vogliamo però riflettere su questo segno, considerandolo nella sua storia; che è lontanissima nel tempo, data certamente la “forza” espressiva elementare in esso contenuta.
Segni con linee incrociate, semplicissime croci, crocette, a braccia uguali o diverse, sono stati in Europa ritrovati tracciati con l’ocra rossa su ciottoli di pietra coperti da metri di stratificazioni perfettamente databili.
Croci piccole e grandi, sottili o massicce, sono state ritrovate incise sulle pareti di grotte nelle quali l’uomo non era entrato da millenni. Croci su ceramiche neolitiche, in Europa come in Mesopotamia: su cocci trovati a Massa come in Irlanda. Sono interpretate come una rappresentazione dell’uomo, della vita, persino del sole. A parte l’interpretazione, esse sono comunque lì a testimoniare una significanza (che non è certo solo figurativo-decorativa), che ci precede di parecchi millenni.
Gli studiosi hanno tentato una specie di classificazione del tipo di croce, se non altro per indicarne con rapidità la tipologia, molto più che la funzione indicativa. Vogliamo dire che se lo studioso indica come croce “latina” un segno sottile a braccia disuguali rinvenuto su una ceramica dell’alta età del bronzo, significa solo che vuole indicarne la forma, non l’appartenenza all’era cristiana.
D’altra parte è incontestabile che il segno “a croce” richiami immediatamente l’iconografia cristiana e ciò per un tempo corrispondente a circa 17 secoli. Mentre nei primi secoli dopo Cristo il simbolo della croce tardò ad affermarsi in quanto richiamava il pensiero orrendo del patibolo, trovò poi più consenso sia dopo che il supplizio del patibolo (forma di esecuzione per gli schiavi) venne abolito da Costantino nel 304 d.C., sia quando si iniziò a esporre, a Gerusalemme, frammenti reliquia della croce di Gesù.
Per quanto poi non si sia certi che la croce che i soldati di Costantino portavano sugli scudi fosse croce cristiana o un simbolo piuttosto “solare”.
(Costantino si proclama ventesimo membro di una dinastia solare), è però certo che da quel tempo in poi la croce venne sempre più diffusamente usata.
Vale la sommaria indicazione delle varie tipologie:
 
-          croce a T (Tau), detta croce commissa o patibulare
-          croce latina o immissa o capitolata, che venne considerata la croce cristiana per eccellenza.
-          Croce ancorata, altra espressione della simbologia cristiana.
-          Croce decussata, detta anche di S. Andre dix.
-          Croce greca, a braccia uguali (comunque viene detta greca per consuetudine, non essendo greca affatto).
-          Croce a Calvario: con una base a piedistallo, generalmente triangolare.
-          Croce coppellata a forma latina, con puntini a coppella ai quattro bracci, viene considerata medioevale (Graziosi).
-          Croce potenziata (latina, con tagli di arresto alle estremità)
-          Croce a phi: si ritrova sia nelle caverne iberiche che in graffiti basso medievali .
-          Croce bizantina, con due rami trasversali talora tre. Appartiene e deriva dal rito bizantino antico. Un ramo per il titolo, l’altro per le braccia: più tardi se ne aggiunse un terzo quale appoggio ai piedi, sempre pare obliquo.
 
Chi più ne sa, più ne distingue e le distinzioni possono essere sottilissime. Fondamentale però distinguere tra il “cruciforme” e la croce… pur accettando che il “cruciforme”, generalmente antropomorfo possa evolversi in diverse direzioni ( antropomorfo significa infatti simile alla forma dell’uomo e di qui le possibilità sono assai numerose!), cosicché come il segno a croce, lineare semplicissimo possa costituire da se essenziale antropomorfo.
Torniamo al “masso di Terrinca”. Osservando le varie figurazioni della pietra ciascuno può trovar modo di isolare dei piani figurativi sensibile a chi abbia esperienza minima d’arte o di disegno. Prima dell’arte comunque è bene considerare la tecnica che ci sembra senza dubbio di manualità litica .
Del resto la roccia nei dintorni è così ricca di noduli di quarzite che non si può dire che l’antico artista non avesse strumenti a disposizione.
Come è possibile che il “quadro” risultasse evidente dal solo biancore delle figure, chiare per la scarnificazione della roccia: o forse come è già documentato nelle incisioni della Valcamonica, da coloriture effettuate con terre colorate impastate con grassi o sangue di animali.
Sull’uso di strumenti metallici, come scalpelli di bronzo o di ferro, per la datazione di qualche incisione compiuta in tempo diverso, non appaiono elementi certi.
A un osservazione di massima si potrebbe affermare:
1) Che la scena di caccia riporta a momenti dell’alta età del bronzo se non addirittura al neolitico, i vari elementi compositi si ritrovano pressoché identici, in documenti datatissimi.
2) Una zona di croci potrebbe fare pensare ad una avvenuta “cristianizzazione” o “desatanizzazione” del luogo, attribuibile anche per le croci (affiancate come nella rappresentazione del Calvario) a epoca tardo medievale.
Tuttavia è solo un’ipotesi, non essendoci elementi provanti, sia per la “cristianizzazione” sia per l’interpretazione del “Calvario”.
3) Fortemente interessante, il senso estetico, la forza della composizione in totale, che richiama sia le scelte evolute e colte, della pittura moderna, con quelle forti e consapevoli, di graffiti antichissimi o pitture medievali .
4) Non ultima la prevalente attenta direzionalità delle incisioni, che potrebbero in qualche modo collegarsi alla direzionalità dei raggi solari.
.
 
Il “masso di Terrinca”, giunto a noi dopo tanti millenni, vuole essere salvato studiato, interpretato.
 
 
Giorgio Citton e Isa pastorelli
 

IL BOSCO DI FATONERO

 

Sulle pendici del Monte Fiocca, sopra il paese di Arni, si trova il bosco del Fatonero.

L'origine di questo nome per alcuni deriva da FattoNero, per un possibile omicidio avvenuto in quel luogo tanto tempo fa e del quale oggi nessuno ricorda più niente. Per altri, invece, deriva da faggio nero e si dice che gli alberi vi crescessero così fitti, che a malapena vi penetrava la luce del sole in pieno giorno.

Oggi sopravvivono antiche leggende che testimoniano la presenza dell'antico popolo dei Liguri-Apuani, di origine celtica, con il loro culto degli alberi e degli spiriti tutelari della foresta.

Si crede che nel bosco vivano ancora oggi spiriti e folletti che di notte vagano, danzando in cerchi, laddove i raggi della luna riescono a filtrare attraverso la fitta boscaglia, creando giochi di luce magica.

Chi ha attraversato questo bosco di notte, dice che sia riuscito a sentire suoni inspiegabili e sconosciuti all'orecchio umano: voci, sospiri, lamenti e anche premonizioni per il futuro. Ma anche di giorno la sensazione che si riceve attraversando la boscaglia fitta e oscura è molto impressionante, perché sì ha quasi la certezza che a ogni passo qualche essere invisibile ci stia osservando.

Si dice che siano i folletti che durante il giorno sono prigionieri dentro i tronchi degli alberi.Il vento che passa fra i rami ha il potere di svelare fatti miracolosi a chi lo sappia intendere e riveli anche il luogo dove si trova un tesoro favoloso nascosto in quel bosco da tempo immemorabile.

Si racconta anche di un pastore che in questo bosco vide una fata vestita di bianco, con una corona di foglie sul capo. Il giovane la invitò a ballare mentre egli suonava il suo zufolo e vide che la fanciulla ballava così leggera e sospesa nell'aria che i fili d'erba neanche si piegavano al suo muoversi. Il pastore poi, in segno di riconoscenza e amicizia, le donò dei fiori freschi che da poco aveva raccolto e che si trasformarono in tante monete d'oro appena la fata li ebbe toccati.

Il bosco è sempre stato considerato sin dall'antichità un luogo pericoloso per la grande quantità di fulmini che vi si abbattono, talvolta scavando nel terreno buche di notevole estensione. Si pensa che vengano attirati dalla considerevole quantità di ferro presente nella roccia, ma antiche leggende parlano di un luogo dannato a causa degli antichi riti pagani che vi si compivano e sul quale si scaricava l'ira divina.

In tempi recenti, un fulmine uccise in pieno giorno il figlio del Braccini, il pastore del luogo, che era stato invitato dal Coltelli per mangiare la polenta. Non vedendolo arrivare il Coltelli salì verso il crinale del monte e, sul sentiero che attraversa il Fatonero, trovò il corpo del Braccini stecchito perché colpito da una saetta.

Un'altra storia misteriosa riguarda due boscaioli che un giorno salirono nel bosco per abbattere un faggio.

Proprio mentre le loro accette affondarono nella scorza dell'albero, si udirono dei mesti e fievoli lamenti. I due uomini si guardarono intorno ma non videro nessuno. Dopo altri due colpi d'accetta, i lamenti si fecero più forti, quasi trasformandosi in grida di dolore, ma i boscaioli continuarono a lavorare fino a che l'albero non fu abbattuto.

Non appena le asce furono posate a terra, dall'albero si levò una voce che iniziò a raccontare una storia triste e sfortunata che incantò i due uomini costringendoli ad ascoltare fino a notte fonda. Quando il giorno seguente i due boscaioli tornarono in paese, raccontarono ciò che era loro successo e delle terribili visioni che erano apparse loro durante la notte nella foresta del Fatonero, come le strane figure che entravano e uscivano dai tronchi d'albero e gli spettrali bagliori che sfilavano processionalmente negli angoli più reconditi del bosco.

 

 

Tratto dal libro di Paolo Fantozzi (Le leggende delle Alpi Apuane)

 

 

( Di mezzo alle case del Borgo dei terrinchesi )

Incontro con -uno dei tanti-

 

IVANOE GIANNELLI

Fra le case cinquecentesche del Borgo dei terrinchesi nel Comune di Seravezza, dov'egli vive insieme con altri come lui estrosi o geniali, fra di loro gareggiando in bravura, ognuno con le cose create dalle loro abili mani e dal fervore della mente, Ivanoe Giannelli potrebbe confondersi con gli altri.
Ma le sue cose colpiscono di più la fantasia. Forse lui stesso non sa quali piacevoli sensazioni di meraviglia la sua creatività riesce a dispensare nella mente.
Tutt'ora trova il tempo, fra una partitina a carte e i suoi “giretti” con il motorino (casco bianco ben sistemato in testa) a ottantasei anni suonati, di scendere, come fa da tanti anni, nella sua officinetta, piccola ma attrezzata di ogni strumento. Con questi taglia, tornisce, scava legni, per fare delle strane, piacevolissime cose. Scolpisce in questi anche delle figure, non tutte a soggetto religioso, nelle quali, insieme al segno lasciato dal ferro risaltala genialità innata che rasenta l'arte.
Ma non soltanto! Batte, ritorce, lavorando di fino, certi minutissimi ferri e filetti dandogli forma di ogni tipo di insetto. Mosche, mosconi, calabroni, grilli e chi più ne ha più ce ne metta, nella loro naturale grandezza, e perfino con l'apparente trasparenza che le ali di questi in effetti hanno, nascono tutt’ora dalle sue abili mani e dalla sua estrosa creatività.
Intendiamoci, non che si alzino in volo in libertà! Ivanoe forse non ci si è mai provato a dare a questi la vita.
Però sembrano veri.
Questi insetti sono esposti nella sua casa in Via del Borgo, racchiusi ordinatamente in teche appositamente approntate, in bella mostra per essere ammirati.
Ma guarda cosa va a pensare l'uomo pur di evadere dalle regole fisse che appiattiscono la vita! Occorreva dunque fare una stranezza? Una cosa per cui poter dire:"Quest'uomo ha dei meriti!?".
Ora l’additano nelle strade, lo conoscono come “l’uomo che fa le mosche”.
Nella sua casa conserva, e mostra con evidente orgoglio, bene in vista fra altre lettere e attestati, anche una scritto di Vittorio Sgarbi, visitatore a Seravezza del "Museo del lavoro e delle tradizioni popolari". Il quale, vedendo le sue opere esposte, veri piccoli capolavori, restò piacevolmente e favorevolmente colpito nell'animo, e volle complimentarsi con lui.
Tutto ciò, dopo il trascorso lavoro di Ivanoe, nell'Arsenale della Marina militare di La Spezia, nella sua qualità di tecnico specializzato “silurista-giroscopista” che già lo qualificava al di sopra di un normale lavorante di officina.
Il giroscopio, tutti possono saperlo ma bisogna spiegarlo per quei pochi che non la sanno, è uno strumento di altissima precisione che aveva (e forse ha ancora, se non è stato soppiantato da moderne diavolerie) interessanti applicazioni alla stabilizzazione di battelli, o di treni monorotaia, od altro.
Nel campo specifico militare, riferendosi soprattutto ciò che veniva costruito nell'Arsenale della Marina (Ivanoe vi ha lavorato dal 1938 al 1972,anno del suo pensionamento, pertanto anche per tutto il periodo dell'ultima infausta guerra) questo delicatissimo strumento di alta precisione trovava la sua applicazione alla stabilità, specificamente alla direzione, dei siluri.
Sappiamo che ciò non fa notizia. Eppure queste poche parole non sono da trattenersi soltanto nell'animo ma da spendere senza avarizia per quest'uomo, il quale, nel suo piccolo dimostra di possedere davvero un bell'ingegno. Almeno per ripagarlo in parte della quantità di sensazioni e di nuove emozioni che lui ha risvegliato in noi.
Di questi tempi i n cui i sentimenti si sono generalmente inariditi negli animi della gente, queste cose fanno senso e toccano il cuore. Ce n' è bisogno, credetemi.
 
Mario Salvatori
 
Borgo dei terrinchesi 28/luglio/2000
 

 

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