A ésher trop bu
ta dièntet en macù(*) |
Ad essere troppo buoni diventi un (*macù
= sciocco, macaco).
Spesso la troppa bontà diventa dabbenaggine ed è fraintesa con incapacità o mancanza di
carattere. |
A fa trop tant el
generùs
sha ga manté i véshe ai usiùs |
A far troppo il generoso si mantengono
i vizi agli oziosi.
Aiutare, ma non sostituire. |
àschet mìô! |
Non azzardarti!
Non osare, non provarci. È detto minacciosamente. |
...Al sìc! |
...Al cinque!
È usato spesso come intimazione a far bene, benissimo, come si deve, quasi alla
perfezione una certa cosa.
Fin dal '700 «cinque a uno» o «cinque-cinque» significa rubare, cioè saper muovere le
cinque dita con una certa destrezza. Darsi da fare. Impugnare. Masturbazione, dal modo
francese «faire le cinq contre un», ma anche l'inglese «five against one». (Ernesto
ferrero, "Dizionario storico dei gerghi italiani : dal '400 a oggi"). |
àrdô che ta a
nfröschet... |
Guarda che le infraschi...
«Enfrüscà» è mettere la frasca di sostegno agli ortaggi con gambo lungo o rampicante
come pomodoro o fagiolo.
È usato come ammonimento: «Le stai coltivando e, se continui così, presto fruttificano
le botte». Come rafforzativo della minaccia si diceva: «àrdô che ta
shét amanìt!» (Guarda che sei a portata di mano). |
Bizògnô mìô
ndà al mulì
per nó restà nfarinàcc |
Non bisogna andare al mulino per non
restare infarinati.
Facendo una certa attività non si può fare a meno di sporcarsi le mani; quando sei
sull'occasione poco o molto ne resti impigliato. È il nostro modo di dire: «L'occasione
fa l'uomo ladro». Si può dire anche in positivo per sottolineare che una persona, in
questa attività, ci si mette sul serio: «Solo chi fa può sbagliare!». |
A póc a póc
sha pélô a' lóc |
A poco a poco si pela anche l'oca.
L'oca è difficile da spennare e per farlo serve molta pazienza. Il detto è ammonimento
ad aprire gli occhi, a non avere troppa fiducia, ma significa anche «non perderti
d'animo, non scoraggiarti!».
Chi è capace di "stare al pelo" a qualcuno, di carpirgli la fiducia, se vuole,
riesce a «tenergli pulite le tasche». L'avvocato è sempre citato ad esempio, ma si dice
anche di chi frequenta le donne o di chi perde la testa per la tal persona e non si rende
conto che in realtà...
Non è con l'irruenza o l'uso della forza, ma con la pazienza e la costanza che si riesce
a raggiungere il proprio scopo. |
Caài, zöc e s-cète
i té le scarsèle nète |
Cavalli, gioco e ragazze tengono le
tasche pulite.
Detto fuori dai denti, questi sono i vizi più popolari. |
àrdô che...
pàshô 'l vèscof! |
Guarda che passa il vescovo.
Intimazione a smettere un certo comportamento con la promessa dell'imminente arrivo di
qualche sberla o di un'altra punizione corporale. Il detto fa riferimento al gesto del
vescovo sulla guancia del cresimando. |
Bizògnô patì
per cumpatì |
Bisogna patire per compatire.
Chi ha provato una sofferenza può capire quella degli altri. |
Bócô sheràdô
nó bècô mósche |
Bocca chiusa non becca mosche.
È il nostro "Chiedi e ti sarà dato". In questo detto però c'è anche
dell'ironia, del doppio senso. Infatti si dice anche dopo aver fatto uno scherzo a chi
dorme a bocca aperta. |
Càmbiô èlô! |
Cambia vela!
Devi cambiare totalmente! È ora di dare una svolta a questo stato di cose!
Fino all'avvento dei trasporti su gomma, il commercio tra le sponde del lago d'Iseo era
garantito da imbarcazioni a vela.
Per mutare rotta o sfruttare più efficacemente il vento durante la navigazione, si
imponeva di «cambià èlô».
È il nostro modo di definire la famosa "strambata" che molte persone hanno
conosciuto seguendo alla televisione le gare delle imbarcazioni italiane durante le varie
regate.
I Loveresi introdussero per primi la navigazione a vapore sul lago d'Iseo a partire dal
1834. |
El prüm che gh'ó dat
vià
l'ó ciapàt en de löcc |
Il primo (pugno) che ho dato l'ho preso
nell'occhio.
Lo si fa dire ad un'ipotetica terza persona, ma con l'intento di mettere in dubbio la sua
affermazione di aver menato botte a destra e a manca. È usato anche come ammonimento a
non fare il Don Chisciotte sfidando chi, si sa, è molto più forte. «el pensàô de fa
'l balòs, ma...» (Pensava di fare il (*) ma...).
(*«Balòs» = Furbo). Nel quattrocento designa il compagno di strada del furfante, il
ladro: furbesco è il suo linguaggio. Oggi ha senso di ammirazione verso accortezza ed
abilità. Significa anche monello, mariuolo, carogna, birbante. «'Na balushàdô» è una
furbata, una spacconata, una birichinata. Al femminile significa donna della notte,
prostituta, donna di facili costumi. "Balòssa" in Romagnolo è vulva e,
letteralmente, significa "castagna lessata".
Altra spiegazione del significato di questa parola viene fatto risalire da Rossana
prestini, "èl dialèt bressà" ad un periodo, quello tra il X° ed il
XVII° secolo, nel quale erano molte le persone colpite dalla pena dell'esilio. Durante le
feste paesane, le sagre o i mercati, «...era incentivato in luogo l'afflusso di
forestieri, per il porto franco, senza balzelli di pedaggi, dazi, ecc.» In queste
circostanze, molti di questi esiliati ritornavano clandestinamente al luogo natio «magari
travestiti da donna o altro; incontravano parenti, amici, compagni, quasi esclusivamente
durante i balli: partecipavano alle "s-balossàde"; erano pertanto indicati come
"balòs, balossù"; siccome vincevano le disposizioni di polizia colla loro
furberia, scaltrezza, destrezza, improntitudine, tali attributi passarono poi, venute meno
le suddette ragioni politiche, ad indicare il furbo, lo scaltro, ecc. e tali rimangono». |
Chi che rìt al venerdé
i piàns a la dümìnicô |
Quelli che ridono al venerdì piangono
alla domenica.
È la superstizione del Venerdì. Essere contenti in quel giorno si ripercuoterebbe
negativamente sulla domenica, giorno di festa per eccellenza.
Ogni cosa a suo tempo. Non illuderti che ti vada sempre bene. |
Ciamàs prüm |
Chiamarsi primi.
Essere i primi a picchiare. Dichiararsi superiori. |
Cöntô mìô shö
shuràde!(*) |
Non raccontare (*shuràde, da
shurà = ammattire, raffreddare).
Per dire che sono idiozie. Pur essendo un'espressione più recente, con lo stesso
significato si può sentire: «Dì mìô shö zechinàde!» (Non
raccontare "zecchinate"), cioè cose mai sentite, nuove di zecca. |
Dà shentùr |
Dà ascolto.
Ascolta, ubbidisci, dai retta. È detto bonariamente, in modo esortativo. Quando è usato
come raccomandazione, spesso è seguito da un «...e fa pulìto!»
(fai bene, comportati come si deve). |
De fat...(*) |
A momenti... tra poco...
Si dice minacciando o comunque annunciando qualcosa che farà cambiare la situazione. |
E... cìpô(*) piö! |
E... non (*) più (*cìpô, da
cipà = pigolare, cinguettare).
Non fiatare, non voglio più sentirti parlare, neanche un "cip!". |
El trop rìder
el va n piànzer |
Il troppo ridere va in piangere.
Spesso scherzare troppo fa perdere il controllo e si rischia di dire una parola di
troppo o di fare un movimento incontrollato che può far male a chi ti è vicino.
Significa che a tutto c'è un limite. Fare, ma non strafare. Infatti, a proposito si dice
che... |
El trop tirà...
l sa schìncô(spàcô) |
(Con) il troppo tirare... si rompe.
A furia di tirare troppo l'interesse per guadagnare di più... si perde il cliente. |
Fa chel che ta ga n'ét
vòiô,
che ta scàmpet piö tant! |
Fa quel che ti pare, che campi di più!
Si dice a chi non vuole sentire ragioni o consigli e, testardamente, persiste nel suo
atteggiamento sbagliato. «Fatti friggere!» |
El vegnerà a la
dé(*)... |
Verrà alla luce...
Si dice con tono minaccioso verso chi è riuscito a sfuggire alle proprie
responsabilità. «Un giorno dovrà pur farsi vedere ed allora si faranno i conti!»
(*)«La dé», letteralmente sarebbe "il giorno", l'alba, la luce del nuovo
giorno. In dialetto è un nome femminile, ma in italiano "cambia genere" come
succede per altri vocaboli, come ad esempio: «la mél» (il miele), «la löm» (il
lume), «la fél» (il fiele), «el rözen» (la ruggine), «la gói» (il
pungolo), «i óc» (le oche), «la shàl» (il sale), «la cöf» (il
covone), «el pülèc» (la pulce), «la shòn» (il sonno) «i
teedèi» (le tagliatelle) eccetera). |
Ga la dó mé la
biàô(*) |
Gliela do io la (*biàô = biada,
ma anche soldi, grana).
So io con quale moneta lo devo pagare! |
Ga ét a ca töcc
o ga n'ét en gìro amò ergü? |
Li hai a casa tutti o ne hai in giro
ancora qualcuno?
Questo modo di dire descrive bene la preoccupazione di chi aspetta notizie
rassicuranti sui propri cari lontani da casa.
In questo caso però si usa come bonario ammonimento a "svegliarsi", a
"darsi una mossa" ed è rivolta a chi riteniamo assente, lontano col pensiero o
non completamente in forma. Più efficacemente: «Shét a shègn col
có?» (Sei pronto con la testa?) oppure «Quacc éi
chèsti?» (Quanti sono questi?) e «Snèbiet!»
detti agitando la mano davanti agli occhi dell'altro come a voler diradare la nebbia dei
suoi pensieri. |
Fàgô mìô i pè a le
mósche |
Non fare i piedi alle mosche.
«...che ta shét bu de fàghei gne ai taà»
(che non sei capace di farli neanche ai tafani). Non fare il precisino. Prima del
particolare preoccupati del generale. |
Fàgô mìô la pàpô
ai óter |
Non fare la pappa agli altri.
"Fare la pappa" è lavorare per far trovare tutto pronto. Cucinare in senso
metaforico.
Ammonimento a non servire continuamente chi si prepara a darti il benservito appena
possibile. È più chiaro quando si sente: «Fat mìô cuiunà» (Non
farti ingannare). |
Ga fó i antiméter(*) |
Gli faccio gli (*)«antiméter» è
detto l'insieme di avvertimenti, raccomandazioni e intimazioni che si fanno
preventivamente, ai figli o ai giovani su cui si esercita un'autorità, per fare o non
fare qualcosa.
Mettere sull'avviso, mettere in guardia. |
Ga fó le fòe |
Gli faccio le foglie.
Come: «Ga fó le pène» (Gli faccio le penne).
Uccidere.
|
Ga 'n dó
'na smustashàdô...(*) |
Gliene do una (*smustashàdô, da
mustàs = faccia).
Fargli fare una cattiva figura in pubblico. Si dice anche «dàgô
'na laàdô de müs...» (dagli una lavata di muso...) come noi oggi diciamo
"lavata di capo". |
Ga n'ó dat 'na
palpàdô...(*) |
Gliene ho dato una (*«palpàdô»
= palpeggiare, tastare, picchiare qualcuno).
L'ho picchiato, sculacciato, punito. Con lo stesso significato si usa dire anche: «Ga n'ó dat 'na gratàdô...» (Gliene ho dato una grattata...).
«Pàlpô póle» si dice di chi fa qualcosa di non molto nobile
come lo è l'operazione di introdurre un dito nel culo della gallina per verificare se è
pronta a fare l'uovo. |
Làet le urèce! |
Lavati le orecchie!
Si dice a chi si fa ripetere una cosa per l'ennesima volta.
«Apri le orecchie!». |
Lè mìô töt
pa co lóô |
Non è tutto pane con l'uva.
Non tutto è facile e bello come si pensa. Non ascoltare i fanfaroni. |
Lè n
balànsô |
È in bilancia.
Non significa essere sulla, ma essere come una bilancia. La bilancia raffigura bene
l'essere in bilico di chi è indeciso se scegliere l'una o l'altra soluzione. |
L'è 'na mèzô àntô |
È una mezza anta.
Si dice di persona che lascia le cose a metà; di colui che non svolge bene il proprio
compito; superficiale; lento. |
Lè na
pìtimô |
Chi è eccessivamente meticoloso e
puntiglioso. Colui che si piange addosso, chi è capace di decantare le sue sfortune. |
Lè n
flàber(*) |
È un (*flàber = fanfarone, mangia
a ufo). |
Le ntirùnô |
Stanno maturando.
Sono detti «tirù» i primi acini neri del grappolo mentre i primi fichi che maturano
sulla pianta sono chiamati «fióre» o «fiùre».
I contadini dicono «Tirà 'n térô» o
«'ntirunà» l'operazione di disporre il fieno su una fila in modo che, passando vicino
alla «térô», l'operazione di caricare il carro sarà semplificata. Sono tutte
espressioni per indicare che si è vicini alla maturazione o al compimento del ciclo.
Quando è detto minacciosamente significa che si è sulla buona strada per maturare la
razione di botte. |
Ma spür le mà
(o le önge) |
Mi prudono le mani (o le
unghie).
Come «ma pìô i dicc» (mi prudono le dita),
significa: «Ho voglia di menar le mani, di picchiare».
|
Ménô mìô l
turù |
Non menare il torrone.
Il torrone è simbolo fallico. Non chiacchierare a vanvera. Non insistere. |
Ös... e gàmbô! |
Uscio... e gamba!
«Infila la porta e vattene, prima che perda la pazienza!». |
Pàrlô ciàr
che a mèzô bócô
ta conclüdet nigótô |
Parla chiaro perché a mezza bocca non
concludi niente.
Parla chiaramente. Sii schietto. |
Pàrlô
come t'à nsegnàt tò màder |
Parla come ti ha insegnato tua madre.
Lo si dice per prendere in giro chi parla un linguaggio ricercato e incomprensibile ai
più, oppure a chi vuol farsi vedere colto e si avventura nel parlare un linguaggio che
non gli appartiene. È così che salta fuori «l'italiacano». |
Perdunà lè de
cris-cià,
desmentegà lè de bès-ce |
Perdonare è da cristiani, dimenticare
è da bestie. |
Quàte ràcule!(*) |
Quante storie!
(*«Ràculô» significa anche grana, litigio, contesa, alterco).
Si dice a chi infastidisce continuando a ripetere le stesse cose. |
Sha pöl mìô
cagà e tègner strèt |
Non si può cacare e tener stretto.
È un ammonimento ironico e bonario a prendere finalmente una decisione. È come dire «Ta pöt mìô tègner el pè 'n dò scàrpe» (Non puoi tenere il
piede in due scarpe). O l'una o l'altra cosa. |
Shé! Dàgô mànec... |
Sì!, dagli manico...
Non dargli corda! Non incoraggiarlo! Non stare sempre dalla sua parte! Il detto viene dal
linguaggio contadino, infatti solo se hanno un manico adeguato, i vari attrezzi (vanga,
forca, falce ecc.) diventano efficacemente utilizzabili. |
She la crus
lè n ca de 'enerdé,
entro tré més la tùrnô ndré |
Se la croce è in casa di venerdì,
entro tre mesi torna indietro.
A proposito della superstizione del venerdì...
Quando il funerale si fa in questo giorno è segno che entro tre mesi ci sarà un altro
lutto in casa.
Ai funerali capita di sentire commenti di questo tenore: «She i vé a töt i carabignér
ta ègnet a ca amò, ma she 'l vé 'l prét, ta tùrnet piö 'ndré» (Se vengono a
prenderti i carabinieri torni ancora a casa, ma se viene il prete non ritorni più).
«Shé, ma 'l sét chel che 'l dis chi 'l prét? "Mé 'ndó deànti, ma ta shét té
che ta ma ègnet deré." ...èl òbligô nishü a curìgô ré!» (Sì, ma sai
cosa dice il prete? "Io vado davanti, ma sei tu che mi vieni dietro." Non
obbliga nessuno a seguirlo!). In questo scambio di battute si intravede anche la
disposizione logistica del corteo funebre: davanti la croce, i chierichetti e le donne
disposte su due file, poi il prete, il defunto i parenti stretti ed infine l'altra gente. |
She ta 'l vóntet mìô
'l cadenàs el crìdô |
Se non lo ungi, il catenaccio cigola.
«Cridà» significa anche piangere, ma quando è un pianto gridato, altrimenti per
noi piangere è solo «Piànzer».
«Untà la bócô» (Ungere la bocca) significa dar da
mangiare a sazietà ed è un modo per chiedere soldi: corruzione. |
Ta ciàpe per la pèl
del cül
e... ta böte de förô |
Ti prendo per la pelle del culo e... ti
butto di fuori.
«Vattene, se no...» Si riesce a spostare facilmente una persona afferrandola per i
pantaloni all'altezza del cavallo. Da questa azione concreta deriva il detto: «Ma töet per el cül?» (Mi prendi per il culo?, mi prendi in
giro?). |
Ta dó 'na brötô
lècô...(*) |
Ti do una brutta (*)
(*lècô = da «lecà» leccare, cioè un gesto di affetto come quello dei
gatti che si fanno pulizia a vicenda. «Lècô» era detta anche la pettinatura
"ingessata" dalla lacca (oggi si usa il gel) perché assomigliava molto a quella
che risultava evidente sulla pelle della mucca nel punto dove si è leccata. Avere «la
lècô» era un vanto, un motivo per cui stimarsi, per la cura dedicata alla propria
persona ed al voler apparire in ordine).
In questo caso si minaccia di passare la mano con una "carezza" un po' pesante.
Prendere a botte. Potevano seguire minacce più esplicite come: «Ta
böte là come na pèl de fìc» (Ti butto là come una pelle di fico),
cioè «Ti picchio e ti butto lì come si butta via una pelle di fico» o, con lo stesso
significato: «Ta pète 'n càtô-fìc...» (arnese usato per
raccogliere i fichi), «...dò stazàde...» (stàzô =
riga centimetrata in legno o metallo), «...dò fielàde...» (fièl
= flagello, arnese composto da due bastoni legati a mo' di frusta per battere le biade),
che sono alcuni dei modi di dire "bastonata". Se dalle parole si passa ai
fatti qualcuno si troverà... «Lónc e trat» (Lungo e
disteso). |
Ta ga n'ét làze! |
Ne hai (di) tempo!
Hai voglia! Se hai tempo, insisti pure... tanto ti risulterà del tutto inutile! Non
riuscirai a smuovere niente. Fatica sprecata! |
Ta 'l töe mé 'l
lechèt(*) |
Te lo tolgo io il (*lechèt =
vizio, abitudine, comodità).
Ti svezzo io! |
Ta ma fét vègner
i scalmanì(*) |
Mi fai venire i (*scalmanì =
improvvise vampate di calore tipiche della menopausa).
Mi fai preoccupare, mi fai prendere certi spaventi... Improvvisi sbalzi di temperatura
causati dall'affanno o da situazioni emotivamente forti. |
Ta pàrlet zó de mèret |
Parli giù di merito.
Parlare e fare ragionamenti a sproposito. |
Ta ma pécet(*)! |
Mi stai stancando (*«Pecià» è
l'azione di mungere il «pécc», cioè le mammelle della mucca o di altri
mammiferi).
Sei monotono! Il continuare in un'azione insistente, ossessiva. Attento, stai varcando il
limite della sopportazione! |
Ta sböle! |
«Sbülà» significa letteralmente
"togliere la pula", cioè il rivestimento dei semi del frumento e di altri
cereali. «Bölô» e «Gaér» per noi sono sinonimi.
Termine molto usato nel gioco. Si minaccia di lasciare qualcuno «biót», cioè nudo,
spoglio di tutti i suoi beni. |
Ta shét en cadenàs |
Sei un catenaccio.
Sei un poco di buono. Una persona da catenaccio, cioè da prigione. Con il «càô décc» (cava denti) rappresenta la persona ostinata,
dura di cuore. |
Ta shét entréc! |
Sei intero.
Babbeo. Grossolano nel modo di essere e di fare. Rozzo. Ritardato mentale. Sempliciotto. |
Ta ndarét
en de l paradìs d'i óc |
Andrai nel paradiso delle oche.
Illuso. Pensi di guadagnarti qualcosa che non c'è. Pensi di meritarti una ricompensa che
non ti verrà riconosciuta. |
Vé al mèret! |
Vieni al merito!
Vieni al sodo, al dunque, al punto. Concludi! |
Ta pète n pégn
che...
ta fó nì zó la mashàcrô(*) |
Ti appioppo un pugno che... ti faccio
venir giù (*la «mashàcrô», da "saràca" o "saràga", è
letteralmente "massacra" e significa ceffone, pugno). Nel detto significa far
sanguinare il naso.
Si minaccia di passare dalle parole ai fatti. |
ùzô mìô shö
che lè gnemò shérô |
Non gridare che non è ancora sera.
Questo è un ammonimento a misurare le parole: «...potrebbe capitare anche a te». |
Vé a l'önô! |
Vieni all'una.
Sbrigati! Datti una mossa! Cerca di venirne a capo! Come: «Vé a
shègn!» (Vieni al segno, alla fine, al traguardo!).
|