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In questa
fine millennio di angosce esistenziali e poche certezze,
tutta vissuta tra accenti messianici new age e il grigiore
della quotidianità, si è potuto assistere, almeno in
campo teatrale, ad una curiosa riscoperta.Si
tratta del grande successo che ultimamente riscosso
in tutta Europa l'Orestea di Eschilo,
rappresentata in due diverse edizioni tra fine novembre
e inizio dicembre a Londra e Milano. Curiosa, e soprattutto
sintomatica, la scelta di questa trilogia, scritta ormai
2500 anni fa, poiché rappresenta la grande parabola
della giustizia.
Così
lontano da noi nel tempo, eppure così vicino per le
immutate necessità di equità e equilibrio, l'opera di
Eschilo assume anche valenze spirituali ed esistenziali,
soprattutto nell'allestimento di Katie Mitchell
in scena al Cottlescoe Theatre di Londra. Cosa
è il bene e come lo possiamo conseguire? Esiste un disegno,
un essere superiore che punisca le iniquità e dipani
questa dilagante confusione? A queste incertezze Mitchell
contrappone la fiera certezza del progresso della civiltà
e della democrazia, sebbene certe soluzioni espressive,
come il fatto di aver collocato una videocamera nella
tomba di Agamennone o la presenza di Ifigenia sul palco,
ci portino a considerare il passato parte inscindibile
del presente e, di conseguenza, ad assurgerlo ad eterno
presente.
Anche
nella regia dello spettacolo di Lavaudant, allestito
a Milano in occasione del recente "Festival del Teatro
d'Europa", vi è un'atmosfera cupa e austera, che
lascia adombrare la presenza di un ineffabile Fato-giudice.
Il regista francese ha giustificato questo rigore e
l'incedere lento, grave dell'opera con la necessità
di "mantenere i ritmi di Eschilo, pur rischiando la
noia". Conferire al teatro e all'uomo la dignità perduta
con una soluzione kantiana all'insegna del dovere morale:
questo il messaggio e l'impegno di cui il direttore
dell'Odeon mi sembra essersi fatto carico, invece. Il
regista, infatti, si sofferma sul valore del rispetto
delle regole e non esita ad ambientare la sua pièce
negli anni'50,ossia in anni di ricostruzione, segnati
dal ricordo ancora vivo delle terribili atrocità del
secondo conflitto mondiale.
Lo
stesso scenario post-bellico si ritrova nello spettacolo
londinese, dove Agamennone è visto come un vecchio eroe
sopravvissuto, brizzolato, mentre il coro è interpretato
da veterani decorati costretti dagli eventi su sedie
a rotelle.
Di
fronte a questa univoca agghiacciante chiave di lettura
della società moderna si può comprendere e anche condividere
lo smarrimento individuale che è sostegno di entrambe
le interpretazioni. E se è vero che l'obiettivo di fondo
è uscire da questo tunnel di desolazione, è altrettanto
vero che le soluzioni proposte non ci convincono del
tutto. Così, all'alba di questa nuova era di tecnologici
prodigi, vessati ancora dagli stessi dubbi degli antichi,
ma accompagnati da una flebile fede, ci rituffiamo nel
sogno, teatralmente e psichicamente, per riscoprire
quanto è bella la vita.
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