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Orestea:
l'uomo del 2000 alla ricerca di dignità e giustizia

di Emanuele Buzzi

 
24/01/2000
 


In questa fine millennio di angosce esistenziali e poche certezze, tutta vissuta tra accenti messianici new age e il grigiore della quotidianità, si è potuto assistere, almeno in campo teatrale, ad una curiosa riscoperta.
Si tratta del grande successo che ultimamente riscosso in tutta Europa l'Orestea di Eschilo, rappresentata in due diverse edizioni tra fine novembre e inizio dicembre a Londra e Milano. Curiosa, e soprattutto sintomatica, la scelta di questa trilogia, scritta ormai 2500 anni fa, poiché rappresenta la grande parabola della giustizia.

Così lontano da noi nel tempo, eppure così vicino per le immutate necessità di equità e equilibrio, l'opera di Eschilo assume anche valenze spirituali ed esistenziali, soprattutto nell'allestimento di Katie Mitchell in scena al Cottlescoe Theatre di Londra. Cosa è il bene e come lo possiamo conseguire? Esiste un disegno, un essere superiore che punisca le iniquità e dipani questa dilagante confusione? A queste incertezze Mitchell contrappone la fiera certezza del progresso della civiltà e della democrazia, sebbene certe soluzioni espressive, come il fatto di aver collocato una videocamera nella tomba di Agamennone o la presenza di Ifigenia sul palco, ci portino a considerare il passato parte inscindibile del presente e, di conseguenza, ad assurgerlo ad eterno presente.

Anche nella regia dello spettacolo di Lavaudant, allestito a Milano in occasione del recente "Festival del Teatro d'Europa", vi è un'atmosfera cupa e austera, che lascia adombrare la presenza di un ineffabile Fato-giudice. Il regista francese ha giustificato questo rigore e l'incedere lento, grave dell'opera con la necessità di "mantenere i ritmi di Eschilo, pur rischiando la noia". Conferire al teatro e all'uomo la dignità perduta con una soluzione kantiana all'insegna del dovere morale: questo il messaggio e l'impegno di cui il direttore dell'Odeon mi sembra essersi fatto carico, invece. Il regista, infatti, si sofferma sul valore del rispetto delle regole e non esita ad ambientare la sua pièce negli anni'50,ossia in anni di ricostruzione, segnati dal ricordo ancora vivo delle terribili atrocità del secondo conflitto mondiale.

Lo stesso scenario post-bellico si ritrova nello spettacolo londinese, dove Agamennone è visto come un vecchio eroe sopravvissuto, brizzolato, mentre il coro è interpretato da veterani decorati costretti dagli eventi su sedie a rotelle.

Di fronte a questa univoca agghiacciante chiave di lettura della società moderna si può comprendere e anche condividere lo smarrimento individuale che è sostegno di entrambe le interpretazioni. E se è vero che l'obiettivo di fondo è uscire da questo tunnel di desolazione, è altrettanto vero che le soluzioni proposte non ci convincono del tutto. Così, all'alba di questa nuova era di tecnologici prodigi, vessati ancora dagli stessi dubbi degli antichi, ma accompagnati da una flebile fede, ci rituffiamo nel sogno, teatralmente e psichicamente, per riscoprire quanto è bella la vita.

 

 


 
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