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Un
palazzo, la sua scala «umida, piena di muffa, buia, sudicia
e con rifoli di vento che ti possono ammazzare con una polmonite»:
un microcosmo in cui si muovono personaggi preda di forti
passioni che stentano a controllare.
La
scala è il luogo dell’incontro e dello scontro, del pettegolezzo,
dove le vergogne private diventano pubbliche. Nella scala
«si trama, si briga, si balla, si ama, si tradisce.»: mentre
l’anziana padronasta morendo, c’è chi se ne va’, sfrattato;
chi ne prende il posto; chi è solo di passaggio; chi, annoiato,
passa le giornate origliando dietro la porta. C’è chi lavora
e chi invece non fa nulla. E poi c’è l’avvocato Terpi, il
vero signore del palazzo, che per chissà quale imbroglio,
lo amministra per conto della vecchia. E’ lui che ascolta
le lamentele e dispensa la giustizia, come un dio malevolo
e spietato, ed è sempre lui che vi ha introdotto la misteriosa
inquilina del terzo piano; una donna perduta, che l’avvocato
colma di attenzioni, destando l’invidia e il rancore dei coinquilini:
l’ennesima riprova della sua incapacità di vivere una vita
onesta, civile, radicata nel valore della famiglia.
Proprio
l’intimità domestica è il nodo centrale attorno al quale si
sviluppa l’intera vicenda. Quanto si debba sacrificare a questo
ideale lo si scopre nel finale, quando ormai il dramma è consumato
e sul palcoscenico restano le ombre, dei morti, come dei vivi.
«Anche noi, vivi, non siamo che spettri con un po’ di carne
addosso», aveva sentenziato il protagonista poco prima. Ora,
nell’intimità ricomposta, con una amara risata ribadisce:
«dalla carne nascono le ombre».
La
scala è rappresentata per la prima volta il 16 novembre 1925
al Teatro Olimpia di Milano, interpreti Tatiana Pavlova e
Renato Cialente. Opera tra le più significative di Pier
Maria Rosso di San Secondo, (1887 - 1956), drammaturgo
siciliano formatosi culturalmente anche in Francia e Germania.
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