L'intervista di Anna Maria Simm

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Scaglie d’emozioni

Un pomeriggio… con Giovanni Raboni
Milano, novembre 2000 ore 16.30


Vittorio Sereni (che di Raboni ha scritto) mi suggerisce il titolo per quest’intervista. Dice infatti di lui:

"La sua arte più che dal menzionare e considerare il dato di origine, episodio, emozione o affetto che sia, prende le mosse dalla cancellazione dello stesso, serbandone o recuperandone solo le tracce, le scaglie, i riflessi, le storie anche infime, per ricomporli in un quadro diverso".

E’ la seconda volta che entro in questa casa silenziosa e un po’ oscura di via Melzo. La prima volta in cucina con Patrizia Valduga a discuter di versi e Manzoni, oggi con Giovanni Raboni nello studio sul divano tra pile di libri, protesa a cogliere il sotterraneo parlare del poeta milanese. Di questo pacato incontro vissuto come un riverbero di noi due riflessi in uno specchio un po’ dorato dal tempo riemergono all’ascolto della registrazione le emozioni.

-"Potremmo iniziare proprio dal suo ultimo lavoro, il testo drammatico "Rappresentazione della Croce" in scena il 14 novembre al teatro Eliseo di Roma per la regia di Pietro Carriglio."

"E’ la prima volta che scrivo un testo per il teatro e sarà probabilmente anche l’ultima " sorride Raboni " è una cosa abbastanza lontana dalle mie idee anche se avevo lavorato sul linguaggio per il teatro come traduttore di testi in versi - anche " Rappresentazione della Croce" è in versi- ponendomi il problema della loro dicibilità: mi ero dunque in un certo senso preparato senza volerlo.

Questo testo è nato da una commissione. Il direttore del Teatro Stabile di Palermo che è appunto Pietro Carriglio e che è un buon lettore di poesie, dopo aver letto Gesta Romanorum, una mia raccolta giovanile di poesie religiose, mi propose di lavorare su quei temi. Allora cominciai a pensarci seriamente. Ripresi in mano i Vangeli che del resto sono una mia lettura abbastanza frequente e mi venne l’idea di un racconto della vita di Cristo in cui Cristo non ci fosse. Intorno a questa assenza che è naturalmente un’assenza/presenza ho avuto la possibilità di sviluppare un racconto "obliquo" su quel che io penso potesse essere stata la reazione a questo evento e a una serie di eventi ruotanti attorno a questo personaggio sicuramente a suo modo insolito. Ho cercato di rendere l’incredulità, l’incomprensione, l’ammirazione insomma tutta la gamma possibile delle risposte e dei sentimenti che si possono aver di fronte a un personaggio eccezionale , fuori dal comune, da parte dei testimoni. Naturalmente cercando di immedesimarmi in ciascuno di coloro che ha visto e ha riferito, magari travisando, le cose"

-"L’immedesimazione è avvenuta anche nei confronti del personaggio che non c’è?"

"No .. Il personaggio principale è un dato di fatto.. ecco perché le poche volte che vengono citate le sue parole ciò viene fatto letteralmente"

-"Perché ha scelto di mettere in scena un personaggio così particolare, che attualità può avere oggi.? C ‘è forse qualcosa di più profondo dietro questo non volerlo fisicamente presente sul palcoscenico?"

"Non lo so, questo potrebbe dirlo altri.

Per me è stata un’intenzione precisa non tanto per rispetto ma perché m’interessavano il livello umano e le reazioni a catena attorno a un personaggio ancora oggi sorprendente e inquietante. Una delle ultime battute del testo è attribuita a Pietro e dice:

"Non finirà mai, non in questa vita/
Ogni volta che a oriente/
Ci sarà un po’ di sangue nella bruma/
E cominceranno gli uccelli a fremere/
D’inquietudine nei loro nidi io/
Rivedrò assalirmi le aguzze lingue/
Del fuoco che mi svela/
Agli occhi senza malizia crudeli/
Delle serve del grande sacerdote/
E riascolterò lo sfrontato araldo/
Del giorno assassinare la mia pace./
Due volte doveva cantare, o una?/
E tre volte o due o quante io rinnegare/
L’unica verità della mia storia/
Prima che brillasse nel
Mezzosonno/
La mannaia del rimorso? Io so solo/
Che io ero Simone/
Ora sono Pietro, e su questa pietra/
Si abbarbicherà l’insonnia del mondo"

Mi ha interessato nel farlo –all’inizio in modo un po’ inconscio- la tipologia umana dei personaggi che in parte conosciamo in parte sono solo intravisti, quelli più defilati, quelli che occupano un posto minore…"

-"… che furono inquietati allora da quella figura così come oggi lo sarebbero ancora...
In una carrellata di pareri critici espressi su di lei tra gli anni sessanta e gli anni novanta emerge la sottolineatura della presenza nella sua poesia di una costante domanda nei confronti dell’enigma della vita, delle cose. Questo personaggio che lei, diciamo così, non ha rappresentato è la risposta all’enigma o è…"

"…o è parte dell’enigma. Certo è una possibile risposta… che io però non son mai riuscito a sentire come veramente tale perché ho bisogno di fare i conti con questa figura rivoluzionaria otre che anche con l’idea di una trascendenza"

-"Lei avrebbe voluto essere un rivoluzionario? Nelle sue poesie c’è spesso infatti l’attenzione sulle persone comuni ( quei facchini che in alcuni suoi versi trasportano il pesante mobile di legno di noce in contrapposizione a lei che questo mobile ha invece ereditato)"

"Non so se avrei voluto essere un rivoluzionario… so di essere impregnato di cultura borghese… come qui in questa stanza è evidente…"

-"Un po’ traditore nei confronti di questo non nominato Cristo?"

"Certamente e probabilmente anche semplicemente nei confronti dei doveri che la vita ci pone…un po’ di complessi di colpa…"

"Complessi di colpa e quindi tentativo di comprendere ma forse non voler comprendere…o aver capito ma nascondersi..?"

"Si anche…"

-"…e la presenza della morte che aleggia …ma molto ironica, o mi sbaglio?"

"Si pur se io non so mai bene cosa voglia dire ‘ironico’ ..è una parola di cui mi sfugge un po’ la portata. Direi che io nello scrivere ho sempre usato l’attenuazione più che l’ironia che è un modo appunto di parlare di cose gravi senza diventare solenni. Non mi son mai voluto precludere gli argomenti più gravi in questo modo che forse è anche ‘ironia’."

"E’ un parlare della morte senza disperazione"

"Si, cercando di renderla appunto in qualche modo famigliare come del resto è, lo vogliamo o no…è una presenza continua"

-"Questo abbastanza da subito nella sua poesia"

"Abbastanza da subito e in particolare da quando attorno a me la gente ha cominciato a morire. L’adolescenza per me è stata l’età in cui nessuno moriva: mi sembra di averlo anche detto.. questa breve età miracolosa in cui la morte è una cosa lontanissima. Quando diventiamo adulti cominciano ad andarsene i genitori uno dopo l’altro… io non ho avuto nonni,.. morti giovani prima della mia nascita… quindi c’è stato un periodo abbastanza lungo in cui io non ho avuto rapporti né con la morte né con la vecchiaia…e dopo i genitori hanno cominciato a morire anche gli amici. La morte è diventata una presenza costante e il mio tentativo è quello di farla diventare non un’opposizione alla vita ma una parte della vita. Più passa il tempo, più mi rendo conto che per me lo stare con la memoria dei morti, lo stare con i morti è parte importante della mia vita. So di avere più affetti tra gli scomparsi che tra i presenti."

-"Lei è diventato poeta suo malgrado?"

"No, io son diventato poeta per imitazione. Ho cominciato a leggere molto presto di tutto, son stato un lettore precoce. Devo aver anche raccontato di aver cominciato a leggere prima di saper leggere nel senso che mio padre leggeva a me e a mio fratello.. romanzi e altro…prima ancora che avessi la possibilità di farlo con i miei occhi. La lettura e non soltanto di poeti, è diventata una delle passioni della mia vita. Molto presto, intorno ai 10 , 11 anni ho cominciato a tentare di produrre anche io queste cose che mi piaceva tanto leggere. E quindi ho proprio cominciato come imitatore senza credo aver niente assolutamente da dire. Avevo l’orecchio, avevo questo talento, ho iniziato a scriver poesie. Mi sono quindi forgiato degli strumenti nei quali poi a un certo punto ho cominciato ad avere qualcosa da mettere di mio. Chiamarla vocazione mi sembra ridicolo perché non mi sentivo affatto "chiamato" a fare il poeta; mi sentivo portato a partecipare a questa costruzione collettiva che in fondo è la poesia."

-"Costruzione collettiva, la poesia, che comunque si rivolgeva e si rivolge ad un pubblico con cui comunicare?"

"Questo è un problema che non ho mai risolto. Non saprei dire. Quando scrivo penso soprattutto a procurare a me un piacere artigianale in un certo senso; dall’altra parte c’è anche evidentemente il bisogno di dire delle cose che non si sa esattamente quali siano… si scoprono mentre nascono da un meccanismo sonoro che si agita in mente … che sento può essere piegato in un certo modo e diventare una metafora, un’immagine.

Il problema dell’ascoltatore o del lettore non me lo son mai posto."

-"Ora per ‘Rappresentazione della Croce’ si troverà di fronte un pubblico particolare"

"Si -ride Raboni- un po’ mi preoccupo. Sono stupito perché la poesia è un qualcosa che si esaurisce tra me e me in un certo senso. Sono sempre abbastanza sorpreso e anche grato quando mi rendo conto che qualcuno mi legge e ha delle reazioni e partecipa in qualche modo ad un testo che quando va bene per me, è finito, come se il circuito fosse chiuso. Una delle forme più grandi di felicità che si possono avere (e che si esaurisce in brevissimo tempo) non è quella di scrivere ma quella di aver scritto, di aver costruito qualcosa che di colpo ci troviamo davanti, di oggettivamente funzionante, una cosa che prima non c’era e adesso c’è. Mentre si scrive si fa fatica, soprattutto; il momento in cui si ha la sensazione di aver finito e prodotto una cosa, è un momento di brevissima, istantanea ma per me molto intensa felicità. Poi basta, finito.. vedere un libro mio non mi dà nessun particolare piacere se non nel ricordo di quei tanti piaceri istantanei da cui sono nate le singole cose."

-"Una posizione che ricorda un po’ Leopardi che tuttavia comunicò tantissimo un suo sistema di pensiero, un sistema filosofico esattamente come fa lei"

"Indubbiamente succede anche a me e sono pure le cose che io stesso cerco nei libri degli altri e quindi riesco a immaginare che qualcun altro lo cerchi in ciò che faccio io. Però non "sento", è il mio un pensiero che non diventa "sentimento".

( Mentre Raboni parla Patrizia Valduga accende una lampada e cerca per noi le foto da accludere all’intervista)

-"Come si sente quando legge ciò che gli altri scrivono o dicono di lei? Lei stesso ha curato una scelta di pareri critici che compare nel libro edito da Garzanti e che raccoglie tutte le sue poesie"

"In generale trovo sempre che i critici hanno ragione anche quando dicono delle cose che io non pensavo.. sono sempre loro riconoscente e trovo che tutto sommato dicano delle cose plausibili, raramente mi capita di provare una sensazione di estraneità. Su questo ho anche riflettuto perché so che spesso i miei colleghi e amici reagiscono male. A me sembra che di me qualcosa abbian sempre capito. Forse dipende dal fatto che io non ho delle idee così chiare –ride- sul senso di quello che scrivo e quindi lo vengo un po’ scoprendo attraverso le parole degli altri. Non so se sia bello ma è così. Potrei fare qualche esempio, ma non lo faccio, in cui invece mi sembra che i critici parlino di un’altra persona non di me, ma son casi veramente rari. E anche quei critici che, leggendo ciò che hanno scritto su altri mi son parsi non particolarmente acuti, quando parlan di me qualcosa mi danno sempre, qualcosa mi fanno scoprire, come se io fossi totalmente sprovveduto di fronte a quello che io stesso ho scritto. Eppure faccio il critico anche io, l’ho sempre fatto e credo di capire abbastanza i testi degli altri. Ma per i miei.. tutti mi possono dare una mano a capirli. Credo che dipenda dal fatto che il senso di quello che faccio non è molto preordinato, è veramente immanente, è quello che è".

-"Il passaggio dall’uso di un verso libero alla costruzione di una forma chiusa…"

"..non ho nessuna difficoltà a dire che è stato per influsso di Patrizia Valduga. Dalle sue prime poesie rimasi molto colpito ed è stato il momento in cui l’ho conosciuta personalmente. Questo è successo nel 1981 quando lei mi ha fatto leggere il suo primo libro che era già talmente compiuto così come dopo è stato pubblicato. E poi mi ha fatto una grande impressione "lei" ovviamente. Tutto è cominciato lì. Poi ho continuato per la mia strada per dieci anni a scrivere quello che stavo scrivendo ma evidentemente questo incontro mi aveva aperto una insoddisfazione o fatto sentire un bisogno. E’ stato così che dopo appunto 10 anni ho cominciato anche io a lavorare su queste forme e adesso sono abbastanza convinto che sia giusto farlo, in questa fase storica. Il verso libero ha assolto la sua funzione quindi è un po’ ricominciar daccapo, ricimentarsi con le forme per cercare poi di liberarsene di nuovo forse."

"Sua moglie Patrizia mi diceva nella precedente intervista che la gabbia formale della metrica ‘costringe a dire’ come se in realtà fosse più un aiuto che un ostacolo. Come giudica, Raboni, la sua precedente produzione rispetto a quella attuale?"

"Non è che io trovi poi delle grandi differenze perché quello che chiamiamo verso libero ha sempre una sua necessità nascosta, a meno che non siano semplicemente dei brutti versi. Però non c’è dubbio che intanto è più difficile comunicare agli altri la gabbia comunque presente del verso libero e forse essendo meno direttamente costrittiva è anche meno sollecitante. Il mio sforzo quando mi sono misurato con la forma chiusa del sonetto mi ha dato la sensazione di una messa in moto dell’immaginazione e probabilmente anche dell’inconscio, più forte. La ricerca di una rima fa scattare una grande libertà di associazione. Con soltanto il filo del nostro pensiero stiamo più terra-terra. E’ vero ciò che dice Patrizia : questa costruzione è legata al nostro inconscio."

-"I poeti della sua infanzia e della sua adolescenza?"

"Io ho letto moltissimo i primi poeti della modernità in Italia anche perché erano forse quelli che in quei momenti si leggevano a scuola: quindi ho letto molto Pascoli, D’Annunzio e anche Carducci. Manzoni l’ho scoperto un po’ più tardi come lettura di "cultura". E poi i grandi del novecento. In casa mia si leggeva molto, si comperavano molti libri quindi ho letto tutto quasi mentre usciva via via con Montale, Sereni, Caproni. Ho percorso il novecento quasi in presa diretta. Questi son stati i miei maestri, direi tutti insieme e poi con alcuni ho anche stabilito dei rapporti d’amicizia e di consuetudine, ad esempio con Sereni, quindi son diventati oltre che dei maestri degli amici."

-"Sua moglie ammira Manzoni…"

"A me è piaciuto subito. Veramente l’avevo letto prima dell’obbligo scolastico anche se un po’ più tardi rispetto agli altri poeti. In casa mia Manzoni si leggeva come romanziere e poi ho ammirato il Manzoni poeta capendo che c’era nei suoi versi una grande sostanza; ammiro il suo pensiero e l’armonia delle parole.

Un’altra cosa che devo all’ambiente famigliare è l’ammirazione per i grandi poeti dialettali. Io ho avuto subito la percezione della grandezza di Porta, di Elio Tessa. Un certo tipo di colloquialità nella poesia che ho sempre cercato di utilizzare viene anche dai grandi poeti dialettali. Elio Tessa era un po’un segreto di famiglia, nessuno sapeva chi fosse ma il suo libro circolava in casa mia e mio padre me lo leggeva"

-"Donatella Bisutti, in un suo libro sostiene che la poesia salvi la vita. La poesia che scrive e -quella che legge le salva la vita?"

"Posso dire che non concepisco la mia vita senza poesia e quindi forse si, mi ha salvato la vita…"

-"Lei è un avvocato, vero?…"

"Sono, ero un avvocato…-ride- …la poesia fa parte così intimamente della mia vita che a volte ho l’impressione che leggere poesie non mi dia nemmeno piacere: per me il grande piacere della lettura è il romanzo; sono un grande appassionato di romanzi che trovo ancora più belli quando rileggo e sento un purissimo piacere. Quando leggo poesia mi sembra un po’ di lavorare, mi sembra sempre di dover render conto a me stesso del perché mi piace o no. C’è una deformazione professionale che un po’ mi toglie il piacere della poesia. Quindi dovessi rinunciare a leggere i romanzi o ad ascoltare musica mi sentirei più amputato di quanto mi sentirei se mi dicessero di non leggere più poesia. Tanta ne ho letta e fatta, son talmente impastato… che non riesco a sentirla né come piacere né come salvezza.. però faccio comunque fatica a concepir la vita senza poesia."

-"Secondo Bisutti, nel libro citato e indirizzato anche alle scuole, si può insegnare non tanto a fare poesia ma a leggere e a cogliere con essa il lato sotterraneo delle cose. Perché far leggere i poeti oggi secondo lei?"

"Insegnare a far poesia è un assoluto controsenso….leggere i poeti oggi è necessario perché credo che la comunicazione che la poesia comporta sia in qualche modo salvaguardata da qualsiasi tipo di strumentalizzazione o di accaparramento di senso, è una comunicazione pura che di fronte agli orrori immanenti della vita di oggi credo sia importante per chiunque.

Sono contrario invece all’idea della poesia ‘fai da te’. Oggi le parole ‘poesia’, ‘poeti’ ricorrono moltissimo; si cerca ovunque la poesia tranne che ‘nella’ poesia e molto altrove .Però questa secondo me è la testimonianza che c’è un bisogno d’essa come appunto mediazione continua, sottilissima, precaria, indispensabile tra la razionalità e l’irrazionalità, tra emozione pura e pensiero .Io credo che la funzione che ha il poeta a scuola è quella di insegnare ad andare incontro a questo bisogno, a questa esigenza molto diffusa in modo corretto e proprio che è quello di legger poesia e capirla anche producendola. I poeti dilettanti sono forse milioni ma è solo la poesia vera che può soddisfare questo bisogno di conciliare razionale e irrazionale. Il problema è quello di metter la cosa sui suoi piedi: la poesia serve se è poesia e per servirsene bisogna saperla leggere e insegnarla a leggere. Poi naturalmente non tutti possono leggere poesia perché credo che anche per questo occorra una dote naturale, però almeno provarsi. Da una parte dunque c’è questa enorme dilatazione del concetto di poesia che nasconde quel piccolo oggetto vero che è la poesia in quanto tale."

-"Che romanzo sta leggendo ora?"

"In questo momento nulla.. questa estate ho riletto i Promessi sposi, rileggo continuamente Flaubert, Balzac, Dickens, e la grande narrativa che per me è quella della metà settecento su per l’ ottocento. Leggo letteratura contemporanea per lavoro ma non la metto tra i piaceri. Ritengo che la stagione della grande narrativa finisca più o meno con Proust…"

-"…che lei ha tradotto…"

" … Io ho tradotto tutta la Recherche per Mondadori Meridiani. Edizione che ha il pregio di non presentare dislivelli di stile tra le varie parti essendo stato io l’unico traduttore .Questa vulgata in italiano di Proust è stata fatta inoltre con l’ausilio di critiche aggiornate. Mi fu commissionata, ma occorreva una grande adesione in partenza per accettare un’impresa simile che pareva quasi impossibile, ma che ho accettato perché Proust è una mia grande passione. Quest’opera era stato il regalo di mio padre per la maturità liceale che lessi dunque a partire dai 18 anni."

-"La sua poesia erotica"

"Ho composto per nostalgia, per mancanza. Ad esempio ho scritto le Canzonette mortali in un momento in cui sembrava che con Patrizia dovessimo non continuare -avevamo dei problemi, io una moglie, lei un marito-…dunque per colmare un vuoto, come commento a una cosa in atto. Rievocazione di ciò che si pensa di aver perduto."

Così si conclude l’intervista a Giovanni Raboni e mentre aspettiamo Patrizia per un saluto discorriamo ancora di letteratura e di possibili collaborazioni con Dialogolibri.

Patrizia sorridente si avvicina rapida (e sembra un elfo bizzarro stretta in una tuta, così diversa dalla figura misteriosa che mi aveva accolto qualche mese prima, ma comunque inquietante) e ricordando l’intervista concessami e piaciutale discretamente si informa se Giovanni abbia parlato di lei. Al mio cenno affermativo buffamente dispiaciuta commenta che sicuramente agli occhi dei lettori faranno -lei e Raboni- la figura degli innamoratini che tubano.

In seguito risento il poeta telefonicamente per chiedergli un parere sull’articolo di Renzo Paris "Chi ha paura del Moravia cattivo?" pubblicata dal settimanale Espresso del 2 novembre 2000.

In essa un Moravia "risorto" nella carne di Renzo Paris di Raboni direbbe: "Quando un poeta non ce la fa, prova a diventare un uomo di potere" .

Mi dice Raboni :

"Francamente non assomiglia a Moravia ma molto a Renzo Paris colui che scrive, oltretutto far parlare i morti è cosa di pessimo gusto e lo dice anche Dacia Maraini nel Corriere di sabato 5 novembre (‘ E’ un gioco pericoloso far parlare i morti, specie se si tratta di Moravia’ ).

Comunque non capisco il senso di questa affermazione di Paris. Oltre tutto pare riferita al 1985 quando avevo dato le dimissioni dalla Garzanti e non collaboravo ancora col Corriere, campando di traduzioni…"

Gentilissimo Raboni ma deciso. Ci salutiamo dopo che alla mia domanda se vuol revisionare l’intervista prima della stampa, risponde di fidarsi totalmente di me.

Anna M. Simm

interviste anche a Fernanda Pivano, Maurizio Cucchi, Lalla Romano, Gina Lagorio, e tanti altri

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