Un documento datato 6 giugno 1469 riporta la notizia che «i signori Buccio, Bindo e Marco Antonio figli di Salvatore di Buccio da Siena vendettero a Simone e Mino di Pietro di Mino di Paolo da Siena, tutte le possessioni, case, terre della Fratta in Val di Chiana e case e vigne e prati posti nel castello e corte di Sinalonga per il prezzo di fiorini 2615, L. 1, Sold. 16» (A.S.S. Gabella 258).
Simone e Mino appartenevano alla nobile famiglia senese dei Pannilini originaria di Cana in Maremma e trasferitasi a Siena ove risulta iscritta all’arte dei ‘panni lini’ all’inizio del xv secolo. Tra i personaggi di spicco della famiglia si distingue Simone di Pietro il quale ebbe anche incarichi pubblici tra cui quello di Capitano del Popolo. L’acquisto della Fratta costituisce il punto di arrivo della cospicua fortuna economica accumulata durante i suoi traffici e derivata anche da prestiti di denaro come sembra dimostrare l’istituzione in feudo della Fratta nel 1469 fatta da Re Ferdinando di Napoli a suo favore e a quello di suo fratello Mino e loro discendenti. Così recita l’iscrizione sulla facciata (collocatavi dal conte Augusto de’ Gori Pannilini senatore del Regno verso la metà del secolo scorso) «A Simone e Mino Pannilini mercanti l’anno mcccclxix Ferdinando d’Aragona re delle Sicilie istituiva in feudo la Fratta così gratificando il denaro fornitogli per guerreggiare i Francesi».
La costruzione del Palazzo della Fratta che venne a sancire il possesso dei Pannilini della vasta tenuta presso Sinalunga si deve assegnare però, per ragioni cronologiche legate alle vicende storiche dei Pannilini e per le evidenti analogie stilistiche con l’architettura di Baldassarre Peruzzi, al terzo o al quarto decennio del Cinquecento e va quindi riferita all’iniziativa degli eredi di Simone e Mino.
Lo storico Pecci fornisce nelle Memorie storiche (A.S.S., ms. D.69, c. 156) delle indicazioni sulla sua costruzione che dice: «essere fabbriche tutte di moderna struttura, perché credo io essere state tutte rifatte da Mino Pannilini, che dalla metà del secolo xvi la possedeva, e dipoi da Gori, a’ quali dalla famiglia Pannellini fu, con obbligo di mantenere quel cognome, lasciata, ampliata abbellita e ridotta alla maniera presente» confondendo però l’epoca di acquisizione della tenuta nel xvi secolo anziché nel xv da parte di Mino.
A Simone e Mino succedettero nel possesso della Fratta i loro rispettivi figli Giulio di Simone, e Mattia e Mino di Mino i quali furono protagonisti attivi nelle vicende politiche della Repubblica agitata dalle fazioni popolari in rivolta contro il partito dei nobili. I figli di Mino perirono, il primo decapitato il 16 agosto 1487 in seguito ad una rivolta popolare e il secondo in esilio. Soltanto Giulio di Simone sopravvisse per aver difeso la causa della signoria di Borghese Petrucci. Egli fu tra i 15 eletti nel 1521 a governare Siena (in assenza di Raffaello Petrucci) e poi, con il grado di Generale dell’esercito senese, inviato a Chiusi a difendere le frontiere del territorio minacciate dal duca di Urbino. Rivestì importanti cariche pubbliche anche dopo la caduta della signoria del Petrucci nel 1523 fino alla sua morte sopraggiunta nell’anno 1540.
La costruzione potrebbe quindi essere assegnata, con buona approssimazione, alla committenza di Giulio di Simone o a quella del figlio Marcantonio il quale ottenne da Giulio III nel 1553 di istituire la Fratta in fidecommisso dichiarandone eredi i discendenti dell’ultima femmina con l’obbligo di assumere lo stemma ed il casato dei Pannilini. Per questo motivo la Fratta, ereditata da Porzia figlia di Emilio di Marcantonio e andata sposa a Fabio di Niccolò de Gori, passò all’inizio del xvii secolo al ramo Gori Pannilini del quale passaggio fa memoria lo stemma apposto sulla facciata della villa e un’iscrizione, sempre sulla facciata che ricorda il ricevimento fatto da Fabio Gori in onore del granduca Cosimo II dei Medici e dei suoi familiari l’anno 1612: «Sereniss. Cosmum Med. Mag. Etr. Ducem IV Mariam Magdalenam Austricam Uxorem, Christenam Lotharengiam Matrem, dum Etruscum Imperium subditorum utilitate perlustraret, Francisco Med. eiusdem Sereniss. Fratre, aliisque Principibus comitantibus, Fabius Gorius Pannellineus convivio quo potuit per eum spendidius hac sua Villula paravit, hilaris ac devotus excepit. iv Idus Octobris Anno Domini mdcxii idem Fabius Gratiae memor P.».
La Fratta fu posseduta dai Gori Pannilini fino al febbraio 1881 quando divenne proprietà del Monte dei Paschi di Siena che, il 3 settembre 1883, ne fece vendita al Duca Don Clemente Torlonia di Roma. A testimonianza di questo passaggio restano alcuni stemmi gentilizi murati all’esterno della casa di fattoria. Nove anni dopo, il 22 marzo 1892, fu venduta al Cavalier Lepoldo Gattai e al genero Signor Francesco Budini. Questa famiglia, di origine istriana, ma stabilitasi a Firenze nel xix secolo, esercitò una grande influenza nel campo del commercio e dell’edilizia e fu a capo di una florida ditta che operò nel campo dell’edilizia fiorentina durante il periodo di Firenze capitale. Dopo il 1890 i Budini Gattai decisero di abbandonare il campo imprenditoriale per dare vita ad un grande patrimonio fondiario in Toscana amministrato con le tecniche agrarie più aggiornate di quegli anni. La Fratta, come pure altre ville nel Mugello acquistate da questa famiglia, venne organizzata in una moderna tenuta agricola e fu dotata di tutta una serie di servizi e strutture ad uso della comunità contadina che l’abitava. Da questa famiglia la Fratta passò per matrimonio ai Galeotti Ottieri della Ciaja i quali ancora oggi la possiedono.

Architettura della villa
L’insediamento originario, composto dal palazzo a pianta pressoché quadrata, dal cortile con pozzo, dalla cappella e dal giardino delimitato da muro di cinta e preceduto da viale di accesso alberato, ripropone un modello iconografico tipico delle ville rinascimentali del senese di ascendenza peruzziana, modello questo che si conservò inalterato anche nei secoli successivi.
Esso può essere raffrontato infatti con alcune ville attribuite al Peruzzi che riproducono questo schema seppure con alcune varianti. Ci riferiamo ad esempio alla Villa Chigi di Vicobello corredata dalla cappella gentilizia e da un ampio giardino cinto da mura o al castello di Belcaro e a quello di Celsa dove Peruzzi quasi con certezza intervenne nella fase di trasformazione in ville attuata nei primi decenni del xvi secolo e che comportò la progettazione sia degli edifici che dei giardini. Una simile articolazione planimetrica si rileva anche nella Villa Venturi di Santa Regina ascrivibile anch’essa all’ambito peruzziano.
Nel Cinquecento la villa, come genere architettonico a sé, viene concepita come un complesso unitario in cui anche lo spazio esterno viene progettato e il giardino acquista, oltre alla valenza estetica, la funzione di collegare l’architettura alla natura circostante costruita e plasmata secondo un ordine proprio del pensiero e della cultura del Rinascimento. Il Peruzzi fu infatti anche un abile progettista di giardini come mostrano i numerosi disegni autografi rinvenuti negli Archivi che documentano come il suo metodo si esprima soprattutto attraverso la felice fusione dell’edificio con l’ambiente circostante, fusione che l’artista realizza appieno nella Farnesina (1505-1511) del banchiere Agostino Chigi a Roma.

Il Palazzo
Ancora più puntuali sono i riferimenti all’architetto senese riguardo al palazzo che presenta una pianta pressoché quadrata con uno sviluppo su due piani oltre il mezzanino, realizzato interamente a mattoni con cornici in travertino sulla facciata che ne sottolineano la struttura compositiva. Questo tipo a volume compatto fu altrettanto diffuso in area senese al pari del tipo ad avancorpi laterali introdotto dal Peruzzi nella Villa Chigi delle Volte Alte costruita tra il 1502 ed il 1505. Quest’ultima costituisce un modello a cui costantemente si ispirarono gli architetti senesi nei secoli successivi, in quanto rappresentiva di una tipologia costruttiva caratterizzata dalla presenza della loggia e del portico, scanditi da arcate a tutto sesto e inquadrati da lesene e trabeazioni, che si aprono generalmente sul giardino o comunque definiscono lo spazio aperto.
Il fronte principale del palazzo della Fratta presenta una struttura semplice; è caratterizzato da ordini di cinque finestre per piano, sormontate, quelle del piano nobile, da timpani curvilinei e dal portale inquadrato da colonne che sorreggono il soprastante balcone. La composizione di questa facciata evidenziata nella parte mediana dalle tre finestre accentrate richiama solo idealmente la struttura a loggia ma si discosta sensibilmente da altre costruzioni peruzziane coeve come Vicobello o il Palazzo Venturi, dove invece la zona centrale assume un ruolo preminente, per la presenza sia del portico che della loggia, sottolineata inoltre da lesene laterali. Un elemento che tuttavia si ritrova anche alla Fratta è la composizione del cornicione, a dentelli e ovoli e con le mensole decorate che sostengono il tetto, componenti queste che ritroviamo realizzate con particolare cura in tutte le costruzioni peruzziane come nei palazzi cittadini Celsi Pollini (1527ca.) e Francesconi (1520) a Siena.
Al severo fronte principale si contrappone il fronte posteriore, caratterizzato dal porticato e sovrastante loggiato a cinque arcate cieche a tutto sesto in mattoni, che prospetta sul piazzale con bel pozzo ed anticipa il giardino diviso in due settori. Questa disposizione dell’edificio e questa relazione tra i loggiati e il giardino è, come già osservato, frequente nelle ville senesi e una costante nell’architettura del Peruzzi.
Nel caso della Fratta però le arcate sono cieche ed appaiono assunte non per rispondere ad esigenze funzionali ma piuttosto a motivi estetici e compositivi. Questo non avviene in nessuna delle costruzioni peruzziane a noi note e sembra il risultato di un’operazione culturale che va oltre l’equilibrata ricerca plastica della prima attività dell’artista. Parrebbe quindi di poter assegnare la costruzione ad epoca tarda, intorno comunque al 1530 anche alla luce degli elementi compositivi della facciata principale che è improntata al modello di palazzo cittadino e può trovare un utile raffronto con il palazzo Francesconi prima citato.
Alcuni storici hanno ravvisato nel prospetto posteriore ad archi alcune analogie, nelle proporzioni, con il loggiato della villa delle Volte Alte e con quello del Palazzo Venturi (I. Belli Barsali, 1977, p. 108).
Anche l’interno del palazzo presenta un’articolazione degli ambienti di tipo peruzziano con atrio che immette nel salone centrale attorno al quale si aprono gli ambienti di servizio (disposizione che si ripete anche ai piani superiori) e la scala di comunicazione con i piani superiori posta sul lato sinistro, in posizione d’angolo. Si tratta evidentemente di uno schema planimetrico corrente ed in uso nelle ville del senese dove la scala principale in posizione angolare costituisce una costante e la si ritrova in molte costruzioni come nel Palazzo Venturi più volte citato. Ad esclusione dell’articolazione planimetrica che è rimasta inalterata, l’interno del palazzo è stato completamente restaurato e decorato in epoca tardo ottocentesca per iniziativa della famiglia Budini-Gattai. Una sala a pian terreno reca infatti nel soffitto, costituito da due volte a crociera, una ricca decorazione a stucco bianco e dorato, a festoni e fasce con motivi vegetali e floreali, e grottesche che inquadrano le vedute dei feudi e dei possessi della famiglia Ottieri della Ciaia come Radicofani, San Giovanni delle Contee, Torrita, Castell’Ottieri, Rigomagno e al centro delle volte gli stemmi Budini-Gattai e Galeotti-Ottieri della Ciaia dipinti su tela.

Emerge da quanto fin qui detto che questo edificio si deve, quasi con certezza, al Peruzzi e risulta opera della maturità dell’artista in quanto mostra una evoluzione del suo linguaggio verso un linearismo più accentuato. Non sappiamo tuttavia se il palazzo è stato oggetto di trasformazioni posteriori ma sembra di poter escludere interventi radicali nei prospetti esterni mentre sicuramente un’aggiunta è la loggetta che si innalza al di sopra del tetto.
L’attribuzione a Peruzzi è affermata unicamente da Repetti che dice: «Questa bella villa signorile della nobile schiatta Gori-Pannilini di Siena, fu architettata da Baldassarre Peruzzi. Essa è... contornata da grandiosi annessi, e in mezzo a vasti poderi con buone case coloniche». L’affermazione è nuovamente ribadita anche nel volume del Supplemento dove sta scritto: «È una villa signorile della nobile famiglia sanese Gori Pannilini... architettata dal celebre Baldassarre Peruzzi e contornata da grandiosi annessi, fra i quali 12 case coloniche circondate da un muro, in mezzo alle quali siede la villa coll’annessa cappella che ha superbe pitture del Sodoma». Per la maggior parte degli storici essa è invece opera di un artista della sua cerchia.
In mancanza però di documenti che attestino la paternità di Peruzzi non si può escludere infatti che il palazzo della Fratta possa essere stato eseguito da un architetto suo seguace che a nostro avviso potrebbe essere identificato in Bartolomeo Neroni detto il Riccio (1500-1571), suo stretto collaboratore dal 1527 (anno del ritorno a Siena del Peruzzi dopo il soggiorno romano) fino al 1536. Non possiamo escludere peraltro che sia opera di collaborazione tra i due.
Tra le opere di architettura civile attribuite al Riccio ricordiamo in Siena il Palazzo Francesconi in via del Cavallerizzo e il Palazzo Pannilini nel Casato di Sopra, opere queste che hanno caratteri simili alla Fratta. Il primo, attribuito ora al Peruzzi ora al Riccio e da taluni anche a Pietro Cataneo, risale al 1520 mentre il secondo fu costruito nel 1548 come ricorda Ettore Romagnoli nella biografia del Riccio: «innalzato da Alessandro Guglielmi il prospetto del Palazzo riguardante la piazza di S. Agostino, palazzo che appresso fu degli Azzoni ora dei Pannellini, da alcuni erroneamente apposto al Peruzzi, e dal ...Mancini notato come opera del Riccio».
L’attribuzione della Fratta al Riccio potrebbe derivare anche da altre considerazioni e cioè dai rapporti di bottega nonché familiari con Antonio Bazzi detto il Sodoma (il Riccio nel 1542 sposò una figlia del Sodoma, Faustina) che intorno al 1530 dipingeva a fresco le pitture all’interno della Chiesa della Fratta.

Cortile, pozzo e giardino
Il piazzale costituisce lo spazio di raccordo tra i vari fabbricati ed annessi della villa quali la casa di fattoria addossata sul lato sinistro e la cappella inglobata nel corpo della tinaia sul lato destro mentre il restante lato è occupato dal giardino delimitato da muro di cinta al quale si giunge mediante un lungo e rettilineo viale alberato. Al piazzale che si trova quindi sul retro della villa si accede mediante un ampio portale aperto nel muro che raccorda il corpo villa con il lungo fabbricato, aggiunto in epoca successiva, adibito per le abitazioni coloniche. Nel piazzale si trova il pozzo che costituisce elemento principale di arredo, realizzato in travertino in stile rinascimentale con pluteale a base circolare e vera con cornice e zoccolo sagomati e molto aggettanti, affiancata da due colonne composite. Queste presentano il capitello decorato con foglie d’acanto, pendenti da volute, e sorreggono l’architrave sagomato recante al centro lo stemma Gori Pannilini con nastro l’iscrizione incisa “R E 1704” che probabilmente si riferisce ad un restauro. Il pozzo infatti, per struttura, proporzioni ed elementi decorativi, è sicuramente riferibile al xvi secolo e appare simile a quello, coevo, annesso al Palazzo Venturi ad Asciano.
Anche il giardino cinto da muro e diviso in due settori, appare improntato ad uno schema rigorosamente geometrico di tradizione cinquecentesca. Si trova purtroppo in stato di abbandono ma è tuttavia leggibile il disegno originario con aiuole formate da basse siepi di bosso che si compongono in forma di cerchio al centro e semicerchi ai lati. Oltre il giardino, sul lato destro, si trova un ampio prato delimitato da un lato dall’edificio di fattoria e da un altro lato dal fabbricato della limonaia che reca sul fronte la seguente iscrizione: «Perché la freschezza e la fragilità dei fiori rallegrino dalle fatiche dei campi e ricordino la fugacità della vita per i suoi agricoltori piantavo questo giardino Augusto de’ Gori l’anno mdccclxv» che documenta come esso sia stato rimodellato nel secolo scorso.

Cappella
Sul lato destro e inghobata nel vasto corpo di fabbrica della tinaia si trova la Cappella di San Michele che sorge forse su un preesistente edificio ricordato dalle fonti come S. Lorentino de Fratta. La struttura ricalca fedelmente il modello rinascimentale di area senese con facciata divisa in due ordini da cornici e lesene angolari in mattoni e conclusa da timpano triangolare. Pure in mattoni sono il portale architravato a timpano triangolare e la finestra superiore con timpano curvilineo. Si tratta di una tipologia architettonica che può essere datata verso il secondo o terzo decennio del Cinquecento come conferma anche la struttura interna, costituita da volte a vela e a botte impostate su semipilastri. La presenza inoltre del grande affresco riconosciuto come opera del Sodoma ed assegnato al 1530 ca. (si confronti il saggio di Bruno Santi in questa pubblicazione) costituisce un sicuro termine ante quem per la datazione dell’edificio.

Tenuta e edifici poderali
La Fratta è formata oltre che dagli edifici padronali sopra descritti da numerosi ed ampi fabbricati adibiti alle varie funzioni della vasta tenuta agricola che i Gori Pannilini vi istituirono. Gran parte di questi gravitano tutti attorno alla villa o sono dislocati nel sito del vicino ed antico borgo medievale della Fratta documentato fin dal secolo xii come possesso dei Pecorai o Monaceschi che dettero i natali al noto condottiero Ghino di Tacco. Precise indicazioni sullo sviluppo della tenuta agricola, che riteniamo avvenuto nel corso del xvii secolo, sono fornite dal Gherardini (A.S.S., ms. D.82 c. 210-211) il quale nel 1676 scriveva che la tenuta della Fratta, «consiste in venti poderi, diciassette dei quali sono sotto la cura spirituale della Collegiata di San Martino e di San Costanzo a Torrita e tre sotto la cura di S. Lucia e della Pieve.... di Sinalunga».
Diversamente nella denunzia della proprietà fondiaria del 1692 risultano attinenti della tenuta soltanto quattordici poderi intestati ad Augusto Gori (S. Pietro, S. Giacomo Minore, S. Giovanni, S. Tommaso, S. Bartolomeo, S. Giovanni, S. Andrea, S. Giacomo Maggiore, S. Mattia, S. Filippo, Redentore, S. Simone, S. Maria e S. Paolo) mentre in nota all’elenco si dice che questa famiglia possedeva nel 1746 anche i poderi S. Mattia e Portone (L. Bonelli Conenna, 1990, p. 144).
Verso la metà del secolo successivo lo storico Pecci conferma l’esistenza dei venti poderi ed aggiunge che «dodici di quei poderi, nominati col nome ciascuno di uno de dodici Apostoli, formano tutto il villaggio...» (A.S.S., ms. D. 69, c. 156). Questi ultimi fino a qualche tempo fa erano identificati sui prospetti dalle formelle scolpite raffiguranti appunto i Santi Apostoli, ed oggi purtroppo scomparse (ne resta una soltanto con l’immagine di S. Maria murata all’esterno).
Queste dodici case coloniche sono riunite in due ampi fabbricati, a sviluppo longitudinale, situati sui lati opposti della strada. Appaiono caratterizzati da una lunga ed ininterrotta successione di arcate a tutto sesto in mattoni a formare un lungo porticato entro il quale si dispongono gli accessi alle abitazioni e ai locali di stalle e magazzini a piano terra. I prospetti di questi fabbricati si compongono secondo rispondenze simmetriche, con arcate a tutto sesto separate da cornici marcapiani e lesene su entrambi i piani che risaltano, per l’adozione del mattone sulle superfici ad intonaco bianco e creano un continuo gioco di rispondenze euritmiche.
Nella mappa del Catasto Leopoldino del 1820 ca. oltre alle abitazioni coloniche sono segnalati due tinaie, case, un granaio, un forno, arsenale e gallinaio, varie capanne.
L’insieme di questi fabbricati formano quindi un complesso di vaste proporzioni, realizzato secondo criteri funzionali, e costituisce per questo un caso pressoché unico nel quadro dell’architettura rurale del xvii secolo e non trova confronti neppure in Valdichiana dove simili complessi agricoli sono diffusi. L’eccezionalità della Fratta è data soprattutto dalla uniformità dei caratteri architettonici che documentano come questa sia il frutto di un progetto unitario dovuto ad un artista che si ispirò ai modelli ‘colti’ dell’architettura fiorentina del Cinquecento rappresentata soprattutto dalle ville medicee. Essa è inoltre rappresentativa della penetrazione e dello sviluppo di una cultura architettonica, quella rurale, che ebbe proprio in Valdichiana le espressioni più alte.
Vicende Costruttive
Storia della Fratta dal xv secolo ad oggi

Felicia Rotundo

La Cappella di San Michele alla Fratta

indietro

biblioteca