È stato erede bambino di una casata senza regno,
poi playboy non brillantissimo e amante di fuoriserie (con
attitudine a uscire di strada), poi ancora imputato d'omicidio
con ai polsi le manette della
Gendarmerie. Ora è
pretendente, se non proprio al trono, almeno a un passaporto
italiano. Con coro di consensi, a destra e a sinistra.
Vittorio Emanuele bambino nella tenuta di San
Rossore e poco prima dellesilio
Si chiama Vittorio Emanuele Savoia, ma lui preferisce
di Savoia. Il suo rientro in Italia è un tormentone,
un problema che periodicamente ritorna d'attualità
- come se il Paese non avesse altri problemi. Ogni volta si
torna a parlare (anche se sempre più flebilmente) degli
impedimenti a questo ritorno: della norma transitoria della
Costituzione; o della non brillante storia di una dinastia
che ha consegnato l'Italia al fascismo, che ha accettato le
infami leggi razziali, che dopo l'8 settembre ha tagliato
la corda lasciando il Paese al suo destino...
I pochi oppositori rimasti continuano a ricordare
il passato remoto di una brutta storia. A questo, vorremmo
aggiungere il sempre meno ricordato passato prossimo, molto
prossimo, del signor Vittorio Emanuele Savoia, uomo d'affari.
In questa veste - che poi è l'unica che ha davvero
rivestito - Vittorio Emanuele in Italia è già
rientrato. Anzi, non ne è mai uscito. Fa parte a pieno
titolo della storia recente del Paese: non quella alta, quella
dei suoi avi, ma quella invisibile e sotterranea che ha a
che fare con lobby riservate, logge segrete, aristocrazie
occulte impegnate in affari internazionali sul crinale dell'illegalità.
«Questa grande dinastia, che per secoli ha
regnato su Chambery e dintorni...», ironizzava Carlo
Emilio Gadda, ha trovato seppur tardivamente un uomo capace
di compiere grandi imprese (finanziarie), di andare oltre
i confini, di aggirarli anzi, con l'aiuto di qualche società
off-shore. Da giovane, ebbe una carriera scolastica un po'
difficile. Ma si preparò con scrupolo a divenire cultore
dello champagne e dei vini pregiati. Allora gli amici lo chiamavano
«Toto la Manivelle» (potremmo tradurlo «Vittorino
il Volantino») per via della sua eccezionale capacità
a perdere il controllo del volante e a uscire di strada, con
gran danno per le carrozzerie delle sue belle auto.
Divenne presto cittadino del mondo. Prese dunque
a collezionare conchiglie. Ma, poiché le fuoriserie
non gli bastavano, prese anche il brevetto di pilota e acquistò
un biplano con una testa di tigre disegnata sulla fusoliera.
Infine divenne uomo d'affari: «per ricostruire il patrimonio
di famiglia». Il suo lavoro può essere definito
in molti modi aulici. Ma per capirsi meglio basterà
la definizione di mediatore d'affari, piazzista di lusso,
ponte nobile tra grandi imprese occidentali e satrapie orientali,
sempre all'ombra di qualche strana consorteria politico-affaristica.
I quarti di nobiltà di Vittorio Emanuele costituiscono
il valore aggiunto, sono la griffe che garantisce, se non
una particolare abilità manageriale, almeno l'accesso
ai personaggi utili, alle lobby giuste.
Così negli anni Settanta il signor Savoia
fu preso sotto l'ala dal conte Corrado Agusta, l'ex
marito di Francesca Vacca, allora padrone di una fabbrica
d'elicotteri e mercante internazionale d'armi. Agusta, in
verità, era conte per modo di dire: non per lignaggio,
ma per decreto di Mussolini. Gli era utile avere attorno
un nobile vero, un principe di casa reale, amico o parente
o comunque ben introdotto nelle dinastie grandi acquirenti
dei suoi prodotti. Lo Scià di Persia, per esempio:
Vittorio Emanuele era suo amico di famiglia, e in più
all'epoca lo Scià Reza Pahlevi corteggiava
Gabriella di Savoia. Insomma, il signor Savoia riuscì
a piazzare allo Scià una quantità di elicotteri
e armi, guadagnandosi, come ogni piazzista, le sue brave provvigioni.
Non tutto però è alla luce del sole,
quando si tratta di armi. Il giudice di Venezia Carlo
Mastelloni, per esempio, in una sua indagine sui traffici
internazionali di armi raccolse documenti da cui risultava
che Vittorio Emanuele, insieme al conte Corrado, non si
occupava soltanto di merce regolare da piazzare alla Persia,
ma anche di triangolazioni proibite dall'embargo: centinaia
di elicotteri Agusta 205 e Agusta 206, sistemi d'arma e
pezzi di ricambio partivano dall'Italia ufficialmente destinati
all'Iran dello Scià, ma finivano in Giordania o all'Olp;
indirizzati alla Malesia e a Singapore, arrivavano invece
a Taiwan o nella Sudafrica dell'apartaid. Il tutto non senza
il beneplacito dei servizi segreti dei Paesi coinvolti.
L'inchiesta del giudice Mastelloni aveva messo sotto osservazione
generali, politici, agenti segreti. Poi approdò alla
Procura di Roma e lì, come consuetudine in quegli
anni, si insabbiò.