..un omaggio a Federico Fellini..

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Ultimo aggiornamento:
05/01//2004

 


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Federico Fellini
(Rimini, 1920 - Roma, 1993)

Di famiglia borghese, sin da giovane abile nel disegno, Fellini è a Roma già nel 1938, collaboratore di vari giornali satirici tra i quali il celebre "Marc’Aurelio".
Dal 1941, comincia un’intensa attività di soggettista e sceneggiatore: la sua firma appare nei titoli di pellicole di assoluto rilievo, da "Roma città aperta" (1945) a "Paisà" (1946), da "Senza pietà" (1948) ad "Europa ‘51" (1951).

Debutta nella regia dirigendo assieme ad Alberto Lattuada "Luci del varietà" (1951), immalinconita ricognizione nell’universo dell’avanspettacolo. Nel successivo "Lo sceicco bianco" (1952), scritto con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, egli si allontana dalla tradizione neorealista, delineando personaggi sospesi tra il fantastico e l’ironico. L’anno dopo, "I vitelloni" gli frutta un Leone d’Oro a Venezia oltre che grande successo di pubblico e di critica: è un film di matrice autobiografica, dove egli torna alla provincia delle proprie origini con un sentimento misto di nostalgia e repulsione. Gli anni seguenti sono costellati di successi: la limpida poesia de "La strada" (1954) gli fa vincere un meritato Oscar, ed un altro glielo procura l’intenso "Le notti di Cabiria" (1957): entrambi i capi d’opera si valgono delle magnifiche interpretazioni di sua moglie, Giulietta Masina.
Se "Il bidone" (1955) è poco più che una parentesi, ha caratura epocale "La dolce vita" (1959), che fotografa gli anni del boom e del dominio democristiano con impietosa esattezza: entra in scena Marcello Mastroianni, che diverrà l’attore preferito del cineasta-demiurgo.

Preceduto dal graffiante segmento "Le tentazioni del dottor Antonio" (1961), il meraviglioso "8 e 1/2" (1963) gli garantisce un terzo Oscar ed è considerato da molti il suo esito più elevato. Meno riusciti risulteranno la ricognizione junghiana nell’animo femminile di "Giulietta degli spiriti" (1965) e l’accidentato itinerario nell’antichità del "Satyricon" (1969): assai migliore il tagliente ed incubico episodio "Toby Dammit" (1967), eccellenti le parti incentrate sul passato del diseguale "Roma" (1972). Il ritorno al borgo natio di "Amarcord" (1973) lo riporta ai suoi livelli più alti; e non ci si può che inchinare al magistero de "Il Casanova" (1976), lavoro notturno ed ipocondriaco di straordinaria resa.

L’apologo minaccioso di "Prova d’orchestra" (1979), il viaggio innecessario nell’inconscio de "La città delle donne" (1980), la pretenziosa allusività di "E la nave va" (1983) dicono di una palese crisi d’ispirazione: dalla quale egli cerca rifugio nella pacata invettiva anticonsumistica di "Ginger e Fred" (1986), nel block-notes divertito e melanconico di "Intervista" (1987). Per approdare, nel testamentario "La voce della luna" (1990), ad una riflessione lucidissima sull’orribilità del presente visto tramite lo sguardo di due emarginati: un favolello impeccabile, chiuso da un sommesso invito al silenzio. Per capire di più.

 

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